ILL - Università degli Studi Mediterranea

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LACUNE DELLA DISCIPLINA SULLA TESTIMONIANZA ASSISTITA
Cass. pen. 2005, 2, 713
MARCELLO DANIELE
Ricercatore di Procedura penale nell'Università di Padova
SOMMARIO: 1. La riduzione del diritto al silenzio ad opera della l. n. 63 del 2001. - 2.
L'applicazione analogica della disciplina sulla testimonianza assistita. - 3. La
compatibilità a testimoniare degli imputati in procedimenti definiti con sentenza di
non luogo a procedere o con archiviazione.
1. La riduzione del diritto al silenzio ad opera della l. n. 63 del 2001. - È noto che la l.
n. 1° marzo 2001, n. 63 ha tentato una sfida difficile: trasformare l'imputato che
renda dichiarazioni sulla responsabilità altrui in un vero e proprio testimone. È
altrettanto noto il motivo che ha indotto il legislatore ad accettare questa sfida.
Era necessario far fronte all'abuso del diritto al silenzio da parte di quegli
imputati che accusavano i loro complici nella fase delle indagini, per poi
chiudersi, se esaminati in un dibattimento ai sensi dell'art. 210 c.p.p., in un
totale mutismo. Comportamento inaccettabile alla luce del principio del
contraddittorio nella formazione della prova sancito dall'art. 111 comma 4
Cost., il quale ha non solo un'implicazione di tipo "negativo" (l'irrilevanza
probatoria delle dichiarazioni raccolte unilateralmente durante le indagini), ma
anche un'implicazione di tipo "positivo": l'esigenza che il dibattimento sia un
luogo di parola; affinché il giudice possa avere a sua disposizione la maggior
quantità
possibile
di
informazioni(1).
Il problema principale che la l. n. 63 del 2001 ha dovuto risolvere era quello di
eliminare il diritto al silenzio dell'imputato sul fatto altrui, mantenendolo, al
contempo, sul fatto proprio. A tal fine, questa legge si è fondata su un calcolo
prognostico: quando il legame tra la posizione di chi accusa e quella di chi viene
accusato è di tipo "forte", come nel caso della coimputazione del medesimo
reato, è molto alto il pericolo che l'imputato, riferendo sulla responsabilità
altrui, si trovi a parlare anche della responsabilità propria; per converso,
quando il legame tra le due posizioni è di tipo "debole", come nel caso della
imputazione per due reati distinti uniti da un vincolo di connessione o di
collegamento, diminuisce anche il rischio di un'autoincriminazione(2).
Così, gli artt. 197 lett. a) e 197 bis comma 1 c.p.p. prevedono che i coimputati a
norma dell'art. 12 comma 1 lett. a) c.p.p. (3) possono essere sentiti come
"testimoni assistiti" solo quando nei loro confronti sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento,
mentre gli artt. 197 lett. b) e 197 bis comma 2 c.p.p. dispongono che gli imputati
di un reato connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1 lett. c) c.p.p. (4) o di un reato
collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p. (5) possono essere sentiti come
testimoni assistiti anche quando il procedimento a loro carico non si sia ancora
concluso, a condizione che, avvertiti in base all'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p.,
rendano «dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri» (6).
Questa disciplina, è stata giudicata del tutto ragionevole dalla Corte
costituzionale, la quale non appare priva di ragionevolezza: la Corte ha posto in
rilievo, per un verso, che l'incompatibilità a testimoniare per i coimputati che
non siano ancora usciti dal processo a loro carico appare giustificata «in ragione
della peculiare situazione derivante dall'unicità del fatto-reato e dei conseguenti
profili di indubbia interferenza con la posizione dell'imputato», e, per un altro
verso, che l'obbligo di avvertire gli imputati di reato connesso o collegato ai
sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p. «deriva dalla necessità di garantire che il
dichiarante compia una scelta libera e consapevole in ordine alle conseguenze
delle
proprie
dichiarazionierga
alios»
(7).
Tuttavia, se si esaminano le regole in materia di testimonianza assistita con
maggiore attenzione, si scopre una serie notevole di lacune, che costringe gli
organi inquirenti e giudicanti a svolgere dei complicati accertamenti incidentali
per individuare quale sia il corretto status del dichiarante, e che finisce per
rallentare
lo
svolgimento
dei
processi
(8).
2. L'applicazione analogica della disciplina sulla testimonianza assistita. - Benché
sia piuttosto articolata, la disciplina dell'acquisizione della veste di testimone
assistito nel caso degli imputati di reato connesso o collegato che abbiano reso
dichiarazioni erga alios nel corso del procedimento a loro carico non è
espressamente richiamata in alcune specifiche situazioni. Sorge, di
conseguenza, il problema se essa sia applicabile analogicamente.
In senso negativo, si è posto in evidenza come l'acquisizione della veste di
testimone assistito implichi un obbligo di verità penalmente sanzionato.
L'estensione analogica della disciplina della testimonianza assistita
condurrebbe, dunque, ad una lesione della determinatezza delle norme penali
sulla falsa testimonianza (art. 372 c.p.), la cui applicabilità verrebbe a dipendere
da
una
scelta
discrezionale
dell'interprete
(9).
Si tratta di un argomento che, tuttavia, non appare risolutivo. È vero che
l'acquisizione della veste di testimone assistito nel caso disciplinato dall'art. 64
comma 3 lett. c) c.p.p. appare legata a presupposti non ben definiti dal
legislatore, e che questa imprecisione si ripercuote inevitabilmente sulle
fattispecie penali poste a tutela dell'obbligo testimoniale (10). Ma si tratta di un
problema che riguarda la disciplina della testimonianza assistita in sé
considerata, e che non dipende, a rigore, dall'applicazione analogica di
quest'ultima. L'estensione analogica di una fattispecie che pure sia imprecisa
può ritenersi consentita se avvenga sulla base di presupposti che, invece, siano
ben determinati. E in questo caso, si deve tenere conto della circostanza che
l'acquisizione della veste di testimone in capo a chi renda dichiarazioni erga
alios nel corso di un interrogatorio appare subordinata alla presenza di due
requisiti molto chiari: a) lo status di persona indagata o di imputato, con il
relativo diritto al silenzio (art. 64 comma 3 lett. b c.p.p.), e b) il diritto
all'assistenza difensiva, il quale risulta assicurato, per tutti i tipi di
interrogatorio, dall'art. 364 commi 3 e 4 c.p.p., ed ha la funzione di compensare
la perdita del diritto al silenzio. Presenti tali requisiti, si può ritenere che l'art. 64
2
comma 3 lett. c) c.p.p. possa essere applicato, senza che ciò incrementi in alcun
modo
il
tasso
di
discrezionalità
dell'operazione(11)
(11).
Ciò considerato, ci si deve anzitutto chiedere se la disciplina della
testimonianza assistita risulti applicabile nel caso in cui l'imputato venga
sentito in giudizio nell'ambito del processo a suo carico ai sensi degli artt. 208,
209
e
503
c.p.p.
Dal punto di vista formale, l'esame delle parti regolato dall'art. 503 c.p.p. è un
atto diverso dall'interrogatorio. Tuttavia, nella sostanza questo tipo di esame
risulta caratterizzato da entrambi i requisiti che contraddistinguono
l'assunzione dello status di testimone assistito: da un lato, le dichiarazioni
vengono rese da un imputato, il quale non ha l'obbligo di rispondere secondo
verità (12); dall'altro, le dichiarazioni vengono rese in presenza del difensore,
garanzia che, nella fase del dibattimento, risulta inderogabile (art. 484 comma 2
c.p.p.). Pertanto, si può affermare che, pur mancando nell'art. 503 c.p.p. un
esplicito richiamo all'art. 64 c.p.p., è necessario che il giudice, prima che inizi
l'esame, avverta l'imputato che, se renderà dichiarazioni sulla responsabilità
altrui, assumerà l'ufficio di testimone (13). Del resto, se il dichiarante erga alios
può mutare la sua veste nel corso delle indagini, a fortori lo stesso deve poter
avvenire nel contesto di un esame che viene svolto in contraddittorio di fronte
al
giudice
(14).
Un secondo problema da affrontare concerne l'applicabilità della disciplina
della testimonianza assistita nel caso in cui l'indagato o l'imputato di reato
connesso o collegato, rilasciando dichiarazioni spontanee agli organi inquirenti
o al giudice, si trovi a rendere affermazioni che investono la responsabilità
altrui.
La soluzione di questo problema è agevole quando le dichiarazioni spontanee
siano effettuate nel contesto dell'udienza preliminare (art. 421 comma 2 c.p.p.) o
del dibattimento (art. 494 c.p.p.). In tali casi, dato che le dichiarazioni sono rese
da un imputato e con la necessaria presenza del difensore (15), pare consentito
affermare che il giudice debba previamente avvertire la persona ai sensi dell'art.
64
comma
3
lett.
c)
c.p.p.
Per converso, il discorso si complica quando le dichiarazioni spontanee siano
effettuate nel contesto delle indagini. Molti, infatti, ritengono che le
dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350 comma
7 c.p.p. integrino una fattispecie autonoma rispetto a quella delle sommarie
informazioni disciplinate dai commi 1-4 del medesimo articolo e che, come tali,
non siano fornite della garanzia dell'assistenza obbligatoria del difensore (16).
Inoltre, quest'ultima non sembrerebbe prevista neppure per le dichiarazioni
spontanee al pubblico ministero regolate dall'art. 374 c.p.p. (17).
Mancando il diritto all'assistenza difensiva, come si è detto, risulta assente una
delle condizioni minime perché l'assunzione dell'ufficio testimoniale possa
avvenire. Ne deriva che, quando ad accusare altre persone sia un indagato di
reato connesso o collegato che stia rilasciando dichiarazioni spontanee alla
polizia giudiziaria o al pubblico ministero, l'organo inquirente ha l'obbligo di
interrompere il dichiarante ed interrogarlo ai sensi dell'art. 64 c.p.p., dando
3
avviso al difensore «almeno ventiquattro ore» prima del compimento dell'atto
(art. 364 comma 3 c.p.p.) (18). Del resto, l'eventualità che le dichiarazioni
spontanee si tramutino in un vero e proprio interrogatorio è prevista dall'art.
374 comma 2 c.p.p., il quale dispone che «quando il fatto per cui si procede è
contestato a chi si presenta spontaneamente e questi è ammesso a esporre le sue
discolpe, l'atto così compiuto equivale per ogni effetto all'interrogatorio»,
dovendosi applicare, in tale ipotesi, «le disposizioni previste dagli articoli 64, 65
e
364».
Infine, la questione dell'estensione analogica delle norme in materia di
testimonianza assistita si pone quando chi, sentito come persona informata sui
fatti ex art. 362 c.p.p., renda dichiarazioni sulla responsabilità altrui, e solo in
seguito diventi imputato di un reato connesso o collegato.
Non ci si riferisce, naturalmente, all'ipotesi in cui il dichiarante avrebbe dovuto
fin dall'origine essere sentito come indagato o imputato: qui si verserebbe nella
situazione patologica disciplinata dall'art. 63 comma 2 c.p.p., con la
conseguenza che le dichiarazioni effettuate sarebbero inutilizzabili a qualunque
fine (19). L'ipotesi che viene in esame è, invece, quella in cui gli indizi a carico
del dichiarante emergano solo dopo che siano state rese le dichiarazioni in
qualità
di
persona
informata
sui
fatti.
A questo proposito, era stata sollevata una questione di illegittimità
costituzionale degli artt. 197-bis e 210 comma 6 c.p.p., nella parte in cui
prevedono che, per poter assumere la veste di testimone, il dichiarante debba
in ogni caso essere previamente avvertito ai sensi dell'art. 64 comma 2 lett. c)
c.p.p. Ad avviso del giudice a quo, in un caso del genere dovrebbe essere
sufficiente, ai fini del mutamento di status, la sola circostanza di aver
liberamente scelto di rendere dichiarazioni sul fatto altrui nell'ambito
dell'assunzione
di
informazioni
ex
art.
362
c.p.p.
(20).
La Corte costituzionale ha, tuttavia, posto opportunamente in rilievo come non
si debba trascurare che la circostanza che «la persona informata sui fatti ha
l'obbligo di rispondere secondo verità, alle domande rivoltele dal pubblico
ministero, e che, se rifiuta di rispondere o dichiara il falso, commette il reato di
false informazioni, previsto e sanzionato dall'art. 371-bis c.p.» (21)). E, in difetto
dell'assunzione della veste di persona indagata od imputata, manca una delle
condizioni minime perché il mutamento di qualifica possa avvenire: non è
detto, infatti, che, se fosse stato fin dall'origine interrogato ai sensi dell'art. 64
c.p.p., il dichiarante avrebbe ugualmente reso affermazioni eteroaccusatorie.
Sicchè, appare inevitabile che questi, una volta aperto il procedimento a suo
carico, venga nuovamente sentito ed avvertito in base all'art. 64 comma 3 lett. c)
c.p.p., o, se sia già stata esercitata l'azione penale, in base all'art. 210 comma 6
c.p.p. (22), pur trattandosi di una soluzione che non risulta ineccepibile dal
punto
di
vista
del
rispetto
dell'economia
processuale.
3. La compatibilità a testimoniare degli imputati in procedimenti definiti con sentenza
di non luogo a procedere o con archiviazione. - Al momento di inviduare le ipotesi
di compatibilità a testimoniare dei coimputati e degli imputati di reato
connesso o collegato, gli artt. 197 e 197-bis c.p.p. non prevedono alcuna esplicita
4
regola in riferimento agli imputati od indagati il cui procedimento sia stato
definito con sentenza di non luogo a procedere o con archiviazione. Si discute,
pertanto, se questi ultimi soggetti possano legittimamente deporre come
testimoni.
Prima delle modifiche dell'art. 197 c.p.p. ad opera della l. n. 63 del 2001, la Corte
costituzionale aveva affermato che i coimputati e gli imputati di reato connesso
ex art. 12 c.p.p. prosciolti in udienza preliminare o la cui posizione fosse stata
archiviata risultassero incompatibili a testimoniare. L'art. 197 lett. a) c.p.p.,
infatti, prevedeva un'eccezione all'incompatibilità nel solo caso dell'imputato
nei cui confronti fosse stata pronunciata sentenza di proscioglimento divenuta
irrevocabile. Al contrario, la sentenza di non luogo a procedere e l'archiviazione
- si diceva - non godono di un'irrevocabilità assoluta: qualora, nel corso di
un'eventuale testimonianza, il dichiarante renda affermazioni sulla propria
responsabilità, potrebbe essere disposta la revoca della sentenza (art. 434 c.p.p.)
o
la
riapertura
delle
indagini
(art.
414
c.p.p.)
(23).
L'incompatibilità a testimoniare doveva invece ritenersi insussistente - aveva
successivamente rilevato la Corte costituzionale - in riferimento all'imputato di
un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., una volta intervenuta
l'archiviazione. In tale situazione, il testo previgente dell'art. 197 lett. b) c.p.p. si
limitava a prevedere l'incompatibilità a testimoniare in capo a chi fosse persona
imputata od indagata, non stabilendo - a detta della Corte - «alcuna previsione
circa "la durata" della relativa qualità». Se ne poteva dedurre che
l'incompatibilità sussistesse «soltanto nei confronti di coloro che, e per il tempo
in cui, rivestono la qualità di persone imputate o indagate (in virtù della
generale estensione prevista dall'art. 61 c.p.p.) di un reato collegato a quello per
cui procede»; di conseguenza, l'intervenuta archiviazione del procedimento
probatoriamente collegato produceva «l'effetto di dissolvere la correlazione
qualificata tra le regiudicande e, con essa, l'incompatibilità ad assumere l'ufficio
di
testimone»
(24).
A seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 63 del 2001, la questione va
affrontata distinguendo a seconda che il vincolo tra le posizioni di chi accusa e
di
chi
viene
accusato
sia
di
tipo
"forte"
o
debole".
Nel caso di legame "forte", l'art. 197 lett. a) c.p.p. dispone che i coimputati del
medesimo reato non possono essere assunti come testimoni «salvo che nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di
condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444» (25). È prevista,
dunque, una clausola di salvezza a favore di una precisa tipologia di coimputati
che siano usciti dal procedimento a loro carico. Se ne può ricavare, a contrario,
che tale eccezione non valga per tutti i coimputati che, pur usciti dal
procedimento a loro carico, non rientrino nella tipologia considerata. Ed è
proprio il caso dei coimputati prosciolti in udienza preliminare o la cui
posizione sia stata archiviata, i quali, pertanto, risultano incompatibili a
testimoniare (26), potendo solo essere esaminati ai sensi dell'art. 210 c.p.p. (27).
I termini del discorso mutano in riferimento al legame "debole": l'art. 197 lett. b)
c.p.p. prevede che gli imputati di un reato connesso ex art. 12 comma 1 lett. c) o
5
di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., «prima che nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» (28), non possono deporre
come testimoni, salvo che, ritualmente avvertiti ai sensi dell'art. 64 comma 3
lett. c) c.p.p., rendano dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità
altrui.
Questa disposizione sancisce un'incompatibilità a testimoniare limitata dal
punto di vista sia soggettivo che temporale: l'incompatibilità vale solo nei
confronti di chi sia ancora imputato od indagato, ed anteriormente alla
pronuncia di una sentenza irrevocabile. Si può ritenere, quindi, che nulla sia
stabilito in relazione ai soggetti prosciolti in udienza preliminare o il cui
procedimento sia stato archiviato: questi ultimi non sono più né imputati né
indagati, per cui non risulta presente il requisito soggettivo richiesto dalla
norma.
Tale silenzio normativo può essere interpretato in diversi modi, a seconda di
come si effettui il giudizio di bilanciamento tra il diritto al silenzio
dell'imputato, garantito dall'art. 24 Cost., e la necessità che chi abbia accusato
altre persone non possa avvalersi in dibattimento della facoltà di tacere,
secondo quanto deriva dal principio del contraddittorio nella formazione della
prova
ex
art.
111
comma
4
Cost.
Nell'intento di privilegiare questa seconda esigenza, in giurisprudenza si è
sostenuto che l'imputato di reato connesso o collegato in relazione a cui sia stata
pronunciata sentenza di non luogo a procedere debba assumere la veste di
testimone comune. In mancanza di un'espressa incompatibilità - si è affermato si riespanderebbe la generale capacità di testimoniare prevista dall'art. 196
c.p.p. (29). Oltretutto, il dichiarante risulterebbe adeguatamente tutelato dal
privilegio sancito dall'art. 198 comma 2 c.p.p., ai sensi del quale «il testimone
non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua
responsabilità
penale»(30).
Questa interpretazione potrebbe, in molti casi, avere un effetto semplificatorio:
accogliendola, ne deriverebbe che le dichiarazioni rese da questi soggetti
nell'ambito della testimonianza dibattimentale potrebbero, da sole, fondare la
decisione di merito; non varrebbe, infatti, la regola della corroboration prevista
dall'art. 192 comma 3 c.p.p., la quale opera, in virtù del richiamo operato
dall'art. 197-bis comma 6 c.p.p., solo in riferimento ai testimoni assistiti, e non
in
relazione
ai
testimoni
comuni.
Si tratta, tuttavia, di una lettura che non appare convincente. La capacità, a
rigore, non può essere derogata dall'incompatibilità: la prima è conferita dal
legislatore ad «ogni persona», mentre la seconda viene disposta in riferimento a
soggetti che, pur in astratto capaci di testimoniare, hanno rivestito un certo
status nel corso del procedimento (31). Non si può ritenere, dunque, che le
regole in materia di incapacità siano in grado di influire su quelle in materia di
incompatibilità: il regime di quest'ultima deve essere desunto da altri indici
normativi.
Ciò considerato, molti sostengono che gli imputati di reato connesso o collegato
nei cui confronti sia stata disposta sentenza di non luogo a procedere o
6
archiviazione sarebbero incompatibili a testimoniare: se questi soggetti
assumessero la veste di testimoni, potrebbero trovarsi costretti a rendere
risposte autoincriminanti, provocando una riapertura del procedimento a
proprio carico ai sensi degli artt. 434 o 414 c.p.p. (32).
Una disciplina del genere, peraltro, pur dando piena attuazione alla garanzia
del nemo tenetur se detegere, originerebbe un grave inconveniente: l'imputato,
venuto a conoscenza dell'esistenza di un potenziale testimone a suo carico,
potrebbe attribuirgli falsamente un reato connesso o collegato, in modo da
impedirgli, una volta intervenuta l'archiviazione o la sentenza di non luogo a
procedere,
di
assumere
l'ufficio
di
testimone
(33).
L'impostazione in base alla quale l'imputato prosciolto in udienza preliminare o
la cui posizione sia stata archiviata sarebbe incompatibile a testimoniare,
tuttavia, può essere superata in forza di un argomento letterale che appare
decisivo: la seconda frase dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. prevede che l'imputato
di un reato connesso o collegato, divenuto testimone assistito per aver reso
dichiarazioni a carico di altri ex art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., «non può essere
obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine
al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti» (34).
L'espressione «si è proceduto» sembrerebbe riferirsi ai casi in cui il dichiarante
sia uscito dal procedimento a suo carico; e non può trattarsi dell'ipotesi in cui il
dichiarante sia stato giudicato con sentenza irrevocabile, la quale appare già
regolata dalla prima frase dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. (35). Quindi, per
attribuire un significato autonomo all'espressione «si è proceduto», si deve
concludere che la facoltà di astenersi dal deporre prevista dalla seconda frase
dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. riguardi anche gli imputati di reato connesso o
collegato in riferimento a cui sia stata pronunciata sentenza di non luogo a
procedere o provvedimento di archiviazione, alla condizione che abbiano già
acquisito la veste di testimone per aver reso affermazioni erga alios in pendenza
del procedimento a loro carico. Ciò significa che questi soggetti devono essere
esaminati come testimoni assistiti, con la conseguenza che dovranno essergli
applicate tutte le regole previste dall'art. 197 bis c.p.p. (36).
Lo stesso, invece, non può dirsi per gli imputati di reato connesso o collegato
che, usciti dal procedimento a loro carico a seguito della pronuncia di una
sentenza di non luogo a procedere o di un'archiviazione, non abbiano reso in
precedenza dichiarazioni sulla responsabilità altrui, e quindi non siano già
divenuti testimoni assistiti: questi soggetti, infatti, non risultano compresi
nell'area del privilegio ex art. 197-bis comma 4 c.p.p., sicchè sembra difficile
negare che l'incompatibilità a testimoniare, nei loro confronti, sussista. Di qui
una tensione con l'art. 3 Cost., in quanto la possibilità di acquisire lo status di
testimone assistito viene irragionevolmente a dipendere dalla mera eventualità
che gli imputati di reato connesso o collegato abbiano reso affermazioni erga
alios prima che il procedimento a loro carico si sia chiuso con sentenza di non
luogo a procedere o con archiviazione.
7
(*) Relazione svolta all'incontro su «La prova dichiarativa. Questioni applicative
ancora aperte della legge sul giusto processo», organizzato dall'Ufficio dei
Referenti per la formazione dei magistrati della Corte d'appello di Torino
(Torino,
26
gennaio
2004).
(1)
Cfr.
FERRUA,
Introduzione,
in
Dir.
pen.
proc.,
2001,
p.
585
(2) La distinzione tra legame "forte" e "debole" è di NOBILI, Giusto processo e
indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 9.
(3) Si tratta del caso di reato commesso da più persone in concorso o
cooperazione tra loro, o dell'evento determinato da più persone con condotte
indipendenti.
(4) La "connessione" si ha quando «se dei reati per cui si procede gli uni sono
stati
commessi
per
eseguire
o
per
occultare
gli
altri».
(5) Il "collegamento" ricorre quando si tratta di reati «dei quali gli uni sono stati
commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o
ad altri il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più
persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di
una sua circostanza influisce sulla prova di un reato o di un'altra circostanza».
(6) In merito a tale disciplina, v. AMATO, Più numerosi gli avvertimenti
all'indagato, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 37 ss.; AMODIO, Giusto processo, diritto al
silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul fatto altrui, in questa rivista, 2001, p.
3587 ss.; ANDREAZZA, Profili problematici di applicazione dell'art. 197-bis c.p.p., in
Dir. pen. proc., 2003, p. 240 ss.; APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova penale
dopo le leggi sulle indagini difensive e sul "giusto processo", Giuffrè, 2002, p. 208 ss.;
BARGIS, Primi appunti sulla restrizione del diritto al silenzio nella l. 1° marzo 2001 n.
63, in Bargis, Studi di diritto processuale penale, vol. I, "Giisto processo" italiano e
Corpus juris europeo, Giappichelli, 2002, p. 57 ss.; BRESCIANI, Commento all'art. 6 l.
1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 192 ss.; BRICCHETTI, Le figure soggettive
della legge sul giusto processo, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1269 ss.; CANTONE, Il
giusto processo. Commento organico alla legge 1° marzo 2001, n. 63, Simone, 2001, p.
39 ss.; CAPRIOLI, Commento all'art. 5 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p.
177 ss.; CARCANO-MANZIONE, Il giusto processo. Commento alla legge 1° marzo
2001, n. 63, Giuffrè, 2001, p. 6 ss., 19 ss.; CASCINI, Contraddittorio e limiti del diritto
al silenzio (prime note a margine della legge 1° marzo 2001 n. 63), in Questione
giustizia, 2001, p. 302 ss.; CHIAVARIO, Premessa, in Leg. pen., 2002, p. 145 ss.; C.
CONTI, L'imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità,
Cedam, 2003, p. 185 ss.; CORBETTA, Principio del contraddittorio e diritto al silenzio,
in Dir. pen. proc., 2001, p. 678 ss.; CORDERO, Procedura penale, 7a ed., Giuffrè,
2003, p. 753 ss.; D'ANDRIA, Le nuove qualifiche soggettive create dalla l. n. 63 del
8
2001 e la riforma dell'art. 64 c.p.p., in questa rivista, 2002, p. 845 ss.; DANIELE, La
testimonianza "assistita" e l'esame degli imputati in procedimenti connessi, in
Aa.Vv., Il giusto processo, tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris,
Giappichelli, 2002, p. 196 ss.; DI BITONTO, Diritto al silenzio: evoluzione o
involuzione?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1027 ss.; DI MARTINO, L'incompatibilità a
testimoniare: problemi vecchi e nuovi, in Ind. pen., 2002, p. 1033 ss.; FANULILAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune, del testimone assistito e del
dichiarante ex art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch. n.
proc. pen., 2003, p. 399 ss.; FERRUA, Introduzione, cit., p. 585 ss.; FINOTTO, La nuova
disciplina dell'incompatibilità a testimoniare, in Giust. pen., 2002, III, c. 469 ss.;
GREVI, Prove, inCONSO-GREVI, Compendio di procedura penale, 2a ed., Cedam,
2003, p. 313 ss.; ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, in Ind. pen., 2002,
p. 387 ss.; KOSTORIS, Solo un incremento dell'incidente probatorio puà attenuare le
contraddizioni del rito penale, in Guida dir., 2001, n. 24, p. 10 ss.; MADDALENA,
"Giusto processo" e funzione dell'accusa, con particolare riferimento alla criminalità
organizzata, in Aa.Vv., Il giusto processo, cit., p. 360 ss.; MAGI, Le figure normative
del dichiarante: in particolare il testimone assistito, in Questione giustizia, 2002, p.
1290 ss.; MAMBRIANI, Giusto processo e non dispersione delle prove, La Tribuna,
2002, p. 578 ss.; MANZIONE, Commento all'art. 2 5 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg.
pen., 2002, p. 153 ss.; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo
procedimento, Giuffrè, 2004, p. 135 ss., 319 ss.; MOROSINI, Il "testimone assistito"
tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l'autoincriminazione (art. 197-bis
c.p.p.), in Aa.Vv., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e sulla valutazione
della prova, a cura di Tonini, Cedam, 2001, p. 304 ss.; NAPPI, Guida al codice di
procedura penale, 9a ed., Giuffrè, 2004, p. 440 ss.; NOBILI, Giusto processo, cit., p. 7
ss.; ORLANDI, Dichiarazioni dell'imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del
diritto al silenzio e restrizioni in tema di incompatibilità a testimoniare, in Aa.Vv., Il
giusto processo, cit., p. 153 ss.; RUSSO, Considerazioni sulla legge n. 63 del 2001 nella
testimonianza di uno dei suoi protagonisti, ivi, p. 330 ss.; SANNA, L'esame
dell'imputato sul fatto altrui, tra diritto al silenzio e dovere di collaborazione, in Riv. it.
dir. e proc. pen., 2001, p. 484 ss.; SANTORO, Il cambio da coimputato a teste esalta il
confronto, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 41 ss.; SCALFATI, Aspetti dell'acquisizione
dibattimentale di fonti dichiarative, in Ind. pen., 2003, p. 629 ss.; TONINI, Manuale di
procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 2003, p. 244 ss.; VIGONI, Ius tacendi e diritto al
confronto dopo la l. n. 63 del 2001: ipotesi ricostruttive e spunti critici, in Dir. pen.
proc.,
2002,
p.
87
ss.
(7) C. cost., 20 novembre 2002, n. 485. V. anche Id., 19 giugno 2002, n. 291, la
quale ha posto in rilievo come le numerose garanzie previste dall'art. 197-bis
c.p.p. a favore del testimone assistito siano funzionali al pieno rispetto del
principio del nemo tenetur se detegere, considerato «un corollario essenziale
dell'inviolabilità
del
diritto
di
difesa».
(8) V. MARINI-PEPINO, Crisi di un modello o crisi del processo? (Spunti introduttivi,
ovvero un tentativo di contestualizzazione), in Questione giustizia, 2001, p. 1029.
9
(9) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato e avvisi ex art. 64 c.p.p.: la Consulta suggerisce
l'interpretazione "analogica", in Dir. pen. proc., 2004, p. 185 ss.; MAMBRIANI, Giusto
processo,
cit.,
p.
583
ss.
(10) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 185 ss., la quale pone in evidenza
come gli accertamenti che il giudice è tenuto ad effettuare ai sensi degli artt. 64,
197 e 197-bis c.p.p. rendano «evanescenti i confini del delitto di falsa
testimonianza».
(11) I termini del discorso mutano in riferimento all'inutilizzabilità prevista
dall'art. 64 comma 3-bis c.p.p.: quest'ultima, come tutte le inutilizzabilità di
ordine speciale, non è suscettibile di operare in ipotesi alle quali il legislatore
non si sia espressamente riferito: cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 187 ss.
e MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 583 ss., nonchè, per considerazioni più
generali, GALANTINI, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, p.
167 ss., e SCELLA, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio introduttivo,
Giappichelli, 2000, p. 173 ss. Essa, quindi, non può operare neppure quando il
regime degli avvertimenti ex art. 64 comma 3 lett. c c.p.p. sia esteso
analogicamente.
(12) Anche se, considerato che l'esame è stato chiesto od accettato dall'imputato,
il silenzio può avere un suo specifico peso probatorio; in tal senso, l'art. 209
comma 2 c.p.p. prevede che «se la parte rifiuta di rispondere a una domanda, ne
è fatta menzione nel verbale»: v. CORDERO, Procedura, cit., p. 254.
(13) In questo senso, v. P. FERRUA, Introduzione, cit., p. 590. Tale tesi è stata
accolta da C. cost., 23 maggio 2003, n. 191, la quale ha affermato che appare
legittimo «far leva su di una interpretazione che consente di rendere applicabile
la disciplina degli avvisi anche all'istituto dell'esame». Altrimenti, al fine di
ottenere il mutamento della veste del dichiarante, sarebbe necessario effettuare
un interrogatorio «del tutto superfluo sul piano investigativo e neppure
giustificato da esigenze di tutela del diritto di difesa». V. ancheBARBARANO,
Esame dell'imputato e garanzie, in Dir. e giust., 2003, n. 24, p. 88 ss.
(14) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 184, la quale, ritenendo che
l'applicazione analogica delle norme in materia di testimonianza assistita non
sia consentita, afferma che tale irragionevole disparità di trattamento dovrebbe
essere eliminata dal legislatore o da una declaratoria di incostituzionalità
dell'art. 208 c.p.p. nella parte in cui non rinvia all'art. 64 c.p.p. (ivi, p. 187).
(15) La presenza del difensore dell'imputato è obbligatoria in dibattimento ai
sensi dell'art. 484 comma 2 c.p.p., ed in udienza preliminare in forza dell'art. 420
comma
1
c.p.p.
10
(16) Cfr. GARUTI, La nuova fisionomia dell'udienza preliminare, in AA.VV., Il
processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di Peroni, Cedam, 2000, p.
380; SCAPARONE, Indagini preliminari ed udienza preliminare, in CONSO-GREVI,
Compendio, cit., p. 480. In senso contrario, v. CERESA GASTALDO, Le dichiarazioni
spontanee dell'indagato alla polizia giudiziaria, Giappichelli, 2002, p. 110 ss., 149 ss.;
MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 260 ss.
(17) Questa conclusione deriva dalla circostanza che l'art. 374 comma 2 c.p.p.
richiama le regole sull'assistenza del difensore stabilite dall'art. 364 c.p.p. solo in
riferimento al caso della trasformazione delle dichiarazioni spontanee in
interrogatorio: v. GAETA, Commento all'art. 374 c.p.p., in Codice di procedura penale
commentato, a cura di Giarda e Spangher, vol. II, Ipsoa, 2001, p. 266.
(18) In senso analogo, ORLANDI, Dichiarazioni dell'imputato, cit., p. 167 ss. In
mancanza di questo adempimento, si deve ritenere che le dichiarazioni
spontanee non possano determinare l'assunzione della veste di testimone: cfr.
PAULESU, Commento all'art. 350 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a
cura
di
Giarda
e
Spangher,
vol.
II,
cit.,
p.
110.
(19) V. KOSTORIS, Commento all'art. 63 c.p.p., in Commento al nuovo codice di
procedura penale, coord. da Chiavario, vol. I, Utet, 1989, p. 325 ss.
(20) V. Trib. Biella, ord. 19 novembre 2001, in Dir. pen. proc., 2002, p. 748 ss.
(21) C. cost., 24 ottobre 2002, n. 451, recependo i rilievi di C. CONTI,Emersione
"tardiva" del collegamento probatorio e status del dichiarante in dibattimento, in Dir.
pen.
proc.,
2002,
p.
752
ss.
(22) V. C. CONTI, Emersione "tardiva" del collegamento probatorio, cit., p. 752 ss.
(23)
Così,
C.
cost.,
4
marzo
1992,
n.
108.
(24) C. cost., 11 luglio 2000, n. 294. Un'apertura in tal senso era già stata fatta da
C. cost., 4 marzo 1992, n. 109, la quale aveva affermato che, nel caso di reato
collegato, l'incompatibilità doveva ritenersi sussistente solo quando il giudice
rilevasse in concreto «l'esistenza di una vera e propria interferenza sul piano
probatorio
tra
due
procedimenti».
(25)
Il
corsivo
è
nostro.
(26) Cfr. MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 597; VIGONI, Ius tacendi, cit., p. 100.
In senso contrario, v. DI MARTINO, L'incompatibilità a testimoniare, cit., p. 1037,
secondo cui questi soggetti sarebbero compatibili a testimoniare in virtù della
generale capacità ex art. 196 c.p.p. Ma, come si vedrà tra breve in riferimento
agli imputati di reato connesso o collegato, l'incompatibilità non può essere
11
considerata
una
deroga
alla
capacità
di
testimoniare.
(27) L'art. 210 comma 1 c.p.p., infatti, si riferisce ai coimputati nei cui confronti
«si è proceduto» (ciò avviene quando il procedimento a loro carico si sia
concluso con una decisione irrevocabile, con una sentenza di non luogo a
procedere o con un provvedimento di archiviazione), e «che non possono
assumere l'ufficio di testimone»: cfr. CAPRIOLI, Commento all'art. 5, cit., p. 186. In
senso contrario, App. Milano, 5 febbraio 2003, Silocchi, in Foro ambr., 2003, p.
323, secondo cui non vi sarebbe «incompatibilità con l'ufficio di testimone per
l'indagato del medesimo reato la cui posizione sia stata archiviata, poiché le
relative norme sono di natura eccezionale e non possono estendersi a soggetti in
esse
non
contemplati
perché
non
più
inquisiti».
(28)
Il
corsivo
è
nostro.
(29) V. Trib. Messina, 9 luglio 2002, R. A ed altri, in Giur. Merito, 2003, p. 750 ss.;
Trib.
Foggia,
8
febbraio
2002,
ivi,
2002,
p.
1309.
(30) In senso analogo, prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 63 del 2001, v.
DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in
Riv.
it.
dir.
e
proc.
pen.,
1997,
p.
757
ss.
(31) Cfr. C. CONTI, La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare (art. 197 c.p.p.),
in AA.VV., Giusto processo, cit., p. 292, nota 25. In generale, sul concetto di
capacità processuale, v. CONSO, voce Capacità, diritto processuale penale, in Enc.
dir.,
vol.
VI,
Giuffrè,
1960,
p.
134
ss.
(32) V. C. cost., 24 ottobre 2002, n. 452, in riferimento all'imputato di un reato
collegato prosciolto in udienza preliminare per difetto di querela. Cfr. anche C.
cost., 12 marzo 2003, n. 76, nonché C. cost., 30 giugno 2003, n. 250, in cui si
rileva che il provvedimento di archiviazione ex art. 411 c.p.p. si riferisce a
situazioni tra loro non omogenee, che si atteggiano in modo differente quanto
alla loro normale forza di resistenza rispetto ad una eventuale riapertura delle
indagini ai sensi dell'art. 414 c.p.p., «e potrebbero quindi suggerire una
disciplina differenziata in tema di compatibilità con l'ufficio di testimone»;
operazione che, tuttavia, la Corte ritiene di non poter compiere, perché
diversamente sarebbe «chiamata a compiere una complessa e analitica
ricostruzione del sistema delle incompatibilità ad assumere l'ufficio di
testimone, svolgendo funzioni ed operando scelte discrezionali che rientrano
nelle attribuzioni del legislatore». In dottrina, v., con diverse sfumature,
AMODIO, Giusto processo, cit., p. 3590; APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova,
cit., p. 225 ss.; BARGIS, Il regime della connessione, riunione e separazione dei processi,
in Bargis, Studi di diritto processuale penale, vol. I, cit., p. 77 ss.; BRESCIANI,
Commento all'art. 6, cit., p. 210 ss.; CAPRIOLI, Commento all'art. 5, cit., p. 186 ss.; C.
CONTI, La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare, cit., p. 293 ss.; CORDERO,
12
Procedura, cit., p. 754; FERRUA, Introduzione, cit., p. 588 ss.; FINOTTO, La nuova
disciplina, cit., c. 479 ss.; GREVI, Prove, cit., p. 315; MADDALENA, "Giusto processo",
cit., p. 369 ss.; RUSSO, Considerazioni, cit., p. 335 ss.; SANTORIELLO, Calunnia,
autocalunnia e simulazione di reato, Cedam, 2004, p. 175 ss.; TETTO, Capacità di
testimoniare e garanzie difensive del dichiarante, in Dir. pen. proc., 2004, p. 370 ss.
In giurisprudenza, Trib. Milano, 28 maggio 2001, Barbaro e altri, in Aa.Vv.,
Giusto
processo
e
prove
penali,
Ipsoa,
2001,
p.
375
ss.
(33) Cfr. APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova, cit., p. 226 ss.; BRICCHETTI, Le
figure soggettive, cit., p. 1277 ss.; MADDALENA, "Giusto processo", cit., p. 370 ss.;
SANTORIELLO, Calunnia, cit., p. 177, il quale afferma che il legislatore dovrebbe
introdurre, per far fronte a questo problema, una disciplina analoga a quella
prevista dall'art. 371-bis c.p. in ordine al reato di false informazioni al pubblico
ministero: il procedimento penale aperto a seguito della denuncia per calunnia
proposta dall'originario imputato o indagato dovrebbe restare «sospeso fino a
quando il giudizio nel quale sarebbero state pronunciate le accuse calunniose
non sia stato definito con "sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia
stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a
procedere"».
(34) Il corsivo è nostro. Per una diversa impostazione, v. Trib. Monza, 3 ottobre
2001, in www.penale.it, in cui si legge che agli imputati giudicati con sentenza
divenuta irrevocabile andrebbero assimilati gli imputati di reato collegato nei
cui confronti sia stato emesso decreto di archiviazione, specie quando ciò sia
avvenuto per prescrizione del reato, «in quanto l'avvenuta estinzione del reato
preclude comunque il riesame in senso eventualmente più sfavorevole della
posizione del teste assistito». Tuttavia, il Tribunale trascura il fatto che
un'eventuale riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. potrebbe condurre ad
individuare un titolo di reato in relazione a cui la causa estintiva non operi più,
con la conseguenza che il decreto di archivazione per estinzione per reato non
può considerarsi dotato della stessa forza di resistenza di quella delle sentenze
irrevocabili.
(35) Vi si prevede che un coimputato o un imputato di reato connesso o di reato
collegato, giudicato con decisione irrevocabile, quando sia sentito come
testimone assistito, non può «essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è
stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel
procedimento egli aveva negato la propria reponsabilità ovvero non aveva reso
alcuna
dichiarazione».
(36) Cfr. FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone assistito, cit., p. 408 ss.;
MAGI, Le figure normative del dichiarante, cit., p. 1314. Per un'analoga soluzione,
ma con un diverso procedimento interpretativo, v. BRICCHETTI, Le figure
soggettive, cit., p. 1277 ss., il quale afferma che, una volta acquisito lo status di
testimone assistito ai sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., «nessuna norma
13
prevede che il provvedimento d'archiviazione (o la sentenza di non luogo a
procedere) determina la cessazione di tale status».
14
Corte Costituzionale , 21 Novembre 2006, n. 381
LA CORTE COSTITUZIONALE
TESTIMONIANZA ASSISTITA
RIAPRE
IL
DIBATTITO
SULLA
Cass. pen. 2007, 2, 491
Maria Lucia Di Bitonto
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. I risultati cognitivi del processo penale nella discutibile
posizione della Corte costituzionale. - 3. I rapporti tra regola di valutazione di cui
all'art. 192, comma 3, c.p.p. ed assoluzione per non aver commesso il fatto: un
collegamento non appropriato. - 4. I vaghi contorni dell'irragionevolezza. - 5.
Prospettive de lege ferenda.
1.
PREMESSA
A seguito dell'entrata in vigore del nuovo art. 111 Cost. la dottrina aveva subito
segnalato che l'esordio di tale previsione - "la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge" - avrebbe comportato da parte della Corte
costituzionale un maggiore cautela nei giudizi di costituzionalità riguardanti la
materia processuale, onde evitare il più possibile quelle decisioni di tipo
manipolativo volte a sindacare non tanto l'eventuale contrasto con specifiche
previsioni costituzionali della norma impugnata, quanto lo stesso merito
dell'opzione legislativa fatta propria dal Parlamento nell'esercizio della propria
discrezionalità
legislativa
(1).
Un simile auspicio assumeva particolare pregnanza in una materia come quella
processuale penale che aveva sperimentato, nei primissimi anni di vigenza
della finora unica codificazione repubblicana, una controriforma della
disciplina del nuovo codice di procedura penale del 1988 ad opera del giudice
delle leggi (2), appellatosi "al principio di ragionevolezza ed al sino allora non
conosciuto (per lo meno tra i principi costituzionali) principio di non
dispersione
della
prova"
(3).
Com'è noto, il vaglio sulla ragionevolezza delle leggi fondato sull'art. 3 Cost.
presenta contorni assai incerti, ed è sempre concreto il rischio di sconfinare e
interferire con le prerogative esclusive del legislatore, facendo passare per
costituzionalmente obbligate soluzioni che tali non sono (4). Tale pronostico,
poi, ha una probabilità di avverarsi assai elevata in materia processuale. I codici
di procedura costituiscono sempre un sistema normativo caratterizzato da una
serie di bilanciamenti ed interazioni, ove concorrono disposizioni non solo
esplicite ma anche implicite, da prendere in considerazione in stretta
interrelazione tra loro (5). Ne discende, quindi, che il sindacato di
ragionevolezza possa condurre ad esiti completamente opposti a seconda che
l'esame della singola previsione oggetto del giudizio di costituzionalità sia
condotto alla stregua dell'ordito sistematico in cui la stessa è inserita oppure no.
È così accaduto che la Corte costituzionale, facendo leva sul controllo di
legittimità condotto alla stregua dell'art. 3 Cost., abbia finito "per sovvertire le
premesse sistematiche su cui si basava il testo originario del nuovo codice di
15
procedura penale, sostituendo ai principi direttivi espressi nella legge delega
una diversa visione del modello processuale da adottare" (6), facendo uso del
proprio potere di invalidare tutte le norme di cui non condivide la valutazione
di opportunità effettuata dal legislatore (7). Fu sufficiente intervenire su un
numero relativamente esiguo di articoli del codice per ribaltare il principio della
tendenziale irrilevanza probatoria degli atti d'indagine (8) - necessario
corollario di un sistema processuale che intenda collocare nel dibattimento il
baricentro dell'accertamento penale - e così "trasformare l'inchiesta preliminare
in una istruzione sommaria non garantita, cioè in un modello inquisitorio che
neppure il legislatore del 1930 avrebbe osato proporre o imporre" (9).
Alla luce di tali precedenti, dopo l'entrata in vigore di una novella
costituzionale nata proprio per contrastare le discutibili linee interpretative
poste a base delle sentenze costituzionali appena evocate - che a ragione si
ritiene abbiano determinato la polemica reazione del Parlamento esplosa nel
novembre
del
1998,
a
seguito
dell'ennesima
declaratoria
di
incostituzionalità(10) aderente agli orientamenti espressi qualche anno prima
(11) -, era naturale aspettarsi un atteggiamento di self-restraint da parte del
giudice delle leggi, il quale, fino alla pronuncia in commento, era riuscito ad
astenersi dal disquisire sulla asserita manifesta irragionevolezza delle opzioni
normative poste a base delle varie previsioni del codice di procedura penale via
via sottoposte al giudizio di conformità alla Carta fondamentale. Infatti, nelle
declaratorie d'incostituzionalità per inosservanza dell'art. 3 Cost. relative ad
articoli del codice di procedura penale - che pure sono state pronunciate dopo il
2000 - il giudizio d'illegittimità della norma impugnata non si è mai basato sulla
asserita violazione del principio di ragionevolezza della soluzione legislativa
adottata, ma è dipeso dalla riscontrata disparità di trattamento tra imputati
conseguente al pregiudizio della posizione difensiva - rilevante alla stregua
dell'art. 24, comma 2, Cost. - provocata dalle norme invalidate(12).
La pronuncia oggetto delle presenti riflessioni, invece, è tutta incentrata su
asseriti profili d'irragionevolezza, ed esordisce affermando che l'accoglimento
della questione di legittimità denunciata si imponga per ragioni logiche, prima
che
giuridiche.
Un simile incipit fa tornare alla mente consolidate massime dottrinali (13): "...
che il processo formalmente non sia che un giudizio, significa che in esso la
realtà giuridica si svolge nella forma della logica... È per questo che mentre la
perfetta e rigorosa conformità alla logica corrisponde al principio di giustizia, il
suo
opposto
trova
la
espressione
nell'arbitrio".
Ma è solo una fugace impressione: al contrario, i passaggi attraverso cui si
articola il percorso giustificativo della declaratoria d'illegittimità costituzionale
si risolvono, per lo più, in una serie di affermazioni discutibili se non
addirittura errate, ben lungi dal costituire quelle "buone ragioni" necessarie a
ritenere "razionalmente giustificato" il decisum del giudice delle leggi (14).
Onde sgombrare subito il campo da facili fraintendimenti, non si vuole
contestare il contenuto degli esiti normativi cui pervengono i giudici della
Consulta. Un quadro positivo che assimili ai testimoni le persone assolte con
16
sentenza irrevocabile di assoluzione per non aver commesso il fatto risulta
assolutamente plausibile e, peraltro, vanta nel nostro ordinamento decenni di
"onorata" vigenza. Era quanto stabiliva non solo il codice di procedura penale
del 1930, ma anche quello del 1988 fino alla novellazione ad opera della l. 1°
marzo 2001, n. 63, che ha profondamente mutato il regime delle incompatibilità
a testimoniare degli imputati, restringendo l'area del diritto al silenzio ad essi
riconosciuto ed istituendo la figura del cosiddetto testimone assistito, vale a
dire dell'imputato che assume obblighi testimoniali. Quel che invece non
sembra irrefutabilmente sostenibile è che un tale regime configuri una
regolamentazione
normativa
costituzionalmente
necessaria.
2. I RISULTATI COGNITIVI DEL PROCESSO PENALE NELLA
DISCUTIBILE
POSIZIONE
DELLA
CORTE
COSTITUZIONALE
Secondo il giudice delle leggi, l'applicazione della regola di valutazione
enunciata nell'art. 192, comma 3, c.p.p. alla deposizione testimoniale resa dalla
persona originariamente imputata in procedimento connesso o collegato e poi
irrevocabilmente assolta per non aver commesso il fatto "si appalesa in sé priva
di qualsiasi giustificazione sul piano razionale ... perché, nei confronti di tale
persona, l'ordinamento ha già acclarato l'inesistenza di qualunque correlazione
con il fatto oggetto della verifica processuale, significativa agli effetti della
responsabilità penale". L'assoluzione dell'imputato per non aver commesso il
fatto, quindi, attesterebbe "in modo incontrovertibile la sicura estraneità di quel
soggetto rispetto alla regiudicanda", così elidendo "ogni possibile "stato di
relazione" con la vicenda processuale, nel cui ambito è resa la testimonianza".
Tali affermazioni, nella loro tetragona assertività, appaiono indice di una scarsa
percezione della complessità del fenomeno processuale penale e della
problematica, se non addirittura ambigua, valenza dell'accertamento in esso
compiuto.
Il processo penale non è un congegno per distribuire patenti di onorabilità e
costruire verità ufficiali. L'esigenza cognitiva che viene soddisfatta mediante il
sofisticato sistema gnoseologico in cui consiste tale processo serve a
salvaguardare l'immunità del cittadino incolpevole da punizioni arbitrarie (15)
e l'accertamento della verità in funzione della tutela della libertà rappresenta la
primaria fonte di legittimazione del potere del giudice penale, alle cui pronunce
l'ordinamento attribuisce la forza di limitare la libertà delle persone, altrimenti
inviolabile. Per questo il grado di certezza conseguito in esito al giudizio quale
indispensabile premessa della sentenza da adottare non costituisce uno standard
valevole per tutti i tipi di pronunce, ma dipende dai contenuti di esse.
La decisione penale deve essere assistita dal pieno accertamento dei fatti solo
quando il giudice intenda condannare. Solamente in questo caso è necessario un
accertamento di colpevolezza che risulti provato "al di là di ogni ragionevole
dubbio": la presunzione d'innocenza, infatti, impone che il giudizio di reità sia
fondato su un solido quadro probatorio, che appaia idoneo a ribaltare la qualità
di non colpevole riconosciuta a tutti prima della condanna definitiva (16).
Per l'assoluzione, invece, non è necessario affermare indubitabilmente
l'estraneità dell'imputato ai fatti che gli sono contestati, ma basta che le prove di
17
colpevolezza che lo hanno raggiunto non risultino sufficienti ad escludere il
dubbio
della
sua
innocenza(17).
Peraltro, neppure con riguardo alle sentenze di condanna, che pure debbono
essere sorrette da un quadro probatorio idoneo a qualificare come certo il
riconoscimento della responsabilità penale dell'imputato, può dirsi che la
pronuncia del giudice affermi il vero. Di tale pronuncia si può solo dire che pro
veritate habetur: essa, cioè, rappresenta niente più che un mero surrogato della
verità, che diviene socialmente accettabile esclusivamente in ragione delle
particolari modalità di accertamento impiegate. E infatti, il giudicato penale non
si estende all'accertamento contenuto nella sentenza, inerendo esclusivamente
al momento imperativo della decisione giurisdizionale, non già ai giudizi di
fatto o di diritto che ne costituiscono le premesse (18). Il che significa che per
l'ordinamento nemmeno l'intervenuta irrevocabilità della sentenza, sia pure di
condanna, è in grado di conferire all'accertamento in essa contenuto il crisma
della verità indiscutibile, in quanto il giudizio fondato su prove è, per
definizione,
epistemologicamente
incerto
(19).
In conclusione, asserire che nei confronti del destinatario di una pronuncia di
assoluzione per non aver commesso il fatto l'ordinamento abbia attestato in
maniera incontrovertibile l'estraneità di tale persona ai fatti contestati appare
un'affermazione
scorretta,
contrastante
con
i
peculiari
caratteri
dell'accertamento
penale.
3. I RAPPORTI TRA REGOLA DI VALUTAZIONE DI CUI ALL'ART. 192,
COMMA 3, C.P.P. ED ASSOLUZIONE PER NON AVER COMMESSO IL
FATTO:
UN
COLLEGAMENTO
NON
APPROPRIATO
Nemmeno merita di essere condivisa l'opinione secondo cui l'applicabilità del
criterio valutativo stabilito nell'art. 192, comma 3, c.p.p. contraddirebbe la
restitutio in integrum dovuta all'innocente, configurando "una degradazione del
valore di garanzia proprio dell'assoluzione definitiva", sì da risolversi nella
"irragionevole perpetuazione degli effetti del processo in quanto tale,
prescindendo totalmente dal relativo epilogo". Presupposto di un simile
ragionamento, infatti, è che la regola di giudizio in parola operi una sorta di
capitis deminutio della persona le cui dichiarazioni debbano essere valutate
"unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità". Ma
un tale assunto risulta completamente smentito dalla lettera della legge, visto
che nessun dato positivo consente di accreditare l'idea che la menzionata
previsione presupponga un giudizio di riprovazione del legislatore nei
confronti dell'autore della deposizione da sottoporre alla regola de qua.
Parimenti discutibile è l'idea che l'applicazione della regola di valutazione di
cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. all'imputato assolto per non aver commesso il
fatto consista in un'aprioristica valutazione negativa del contributo probatorio
da
quest'ultimo
offerto.
Ed invero, quando l'ordinamento disconosce l'attitudine conoscitiva di un
mezzo di prova per la sua intrinseca inattendibilità, ne stabilisce l'esclusione
dalle risultanze utilizzabili dal giudice per assumere la decisione. La previsione
della cautela valutativa di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., invece, lungi dal
18
disconoscere l'importanza del contributo probatorio delle dichiarazioni cui deve
essere applicata, esprime soltanto un'indicazione di carattere metodologico (20),
che peraltro ha codificato un consolidato canone argomentativo elaborato dalla
giurisprudenza, la quale da sempre - pur in mancanza di una corrispondente
previsione legale - applica il criterio di valutazione in parola anche alla
deposizione della parte lesa, vale a dire ad una persona rispetto alla quale non è
mai stata configurabile una situazione d'incompatibilità con l'ufficio di
testimone, come quella che ha invece riguardato l'imputato successivamente
assolto.
Senza considerare, poi, che si può plausibilmente dubitare del fatto che nella
concreta esperienza giudiziaria la regola di valutazione de qua funga
effettivamente da limite per l'autorità giudiziaria (21). Com'è stato
incisivamente rilevato, "dove il narrante sia creduto, le conferme non mancano
mai; sono miriadi i possibili indizi e ne basta uno anche remoto; non vigono
soglie minime, né avrebbe senso imporle, sicché i giudici hanno le mani
libere"(22).
Del resto, ogni dato probatorio va accuratamente esaminato in collegamento
con le altre risultanze processuali, sì da verificare se da esse risulti confermato o
smentito (23); e in effetti, il tema centrale del dibattito interpretativo relativo
all'art. 192, comma 3, c.p.p. è tutto incentrato sulla natura e sull'oggetto dei
riscontri (24), vale a dire sulla peculiare fisionomia che deve assumere la
valutazione unitaria della prova (25) con riguardo alle dichiarazioni rese da chi
rivesta o abbia rivestito la qualità di imputato in procedimento connesso o
collegato.
A parte queste considerazioni, che pongono in risalto l'inesattezza del discorso
giustificativo della decisione svolto dalla Corte costituzionale, occorre rilevare
come quest'ultima abbia completamente omesso di prendere in considerazione
quella che è stata generalmente riconosciuta dagli interpreti come la vera ratio
dell'applicabilità del criterio di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. al testimone
assistito.
Il deficit di attendibilità in astratto riferibile alla deposizione di quest'ultimo
dipende dalla previsione d'inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rese
contra se (art. 197-bis, comma 5, c.p.p.), e questa circostanza,
deresponsabilizzando la fonte dichiarativa, ne riduce corrispondentemente
anche
la
credibilità
(26).
Se, dunque, l'applicabilità dell'art. 192, comma 3, c.p.p. dipende
dall'irresponsabilità del dichiarante, la cui deposizione non può essere utilizzata
contro chi l'ha resa, non c'è ragione per farla venir meno in relazione
all'imputato assolto per non aver commesso il fatto. Anch'egli, infatti, beneficia
dell'inutilizzabilità contra se delle proprie dichiarazioni, in quanto il giudicato
che lo riguarda esplica effetti preclusivi che tuttavia rimangono inoperanti in
una
cospicua
serie
di
situazioni.
Ed invero la sentenza di assoluzione "per non aver commesso il fatto" non
esplica effetto vincolante extrapenale con riguardo ad una pluralità di
fattispecie (27), vale a dire: nel caso in cui il danneggiato non si sia costituito nel
19
giudizio penale o non sia stato posto nelle condizioni di farlo (arg. ex art. 652,
comma 1, c.p.p.); in caso di esercizio di un'azione civile diversa da quella di
danno (28); nel caso in cui la sentenza di assoluzione si fondi su una prova
assunta con incidente probatorio al quale il danneggiato non sia stato consentito
di partecipare, sempre che non abbia fatto accettazione anche tacita della prova
de qua (art. 404 c.p.p.); in caso di giudizio amministrativo contabile (29); nonché
- secondo la prevalente opinione di dottrina e giurisprudenza (30) - anche nel
caso in cui l'assoluzione dell'imputato sia stata determinata dalla mancanza,
contraddittorietà
o
insufficienza
delle
prove
a
carico.
Ne risulta, così, che pure nei confronti dell'imputato assolto per non aver
commesso il fatto si registrano profili di "irresponsabilità" che avrebbero
legittimato l'applicazione della regola di valutazione in parola.
In conclusione, alla luce delle considerazioni appena svolte, non pare avere
alcun apprezzabile fondamento il rapporto di reciproca esclusione configurato
dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale in esame tra l'esperibilità del
criterio di giudizio di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. e la dichiarazione resa da
imputato
assolto
per
non
aver
commesso
il
fatto.
4.
I
VAGHI
CONTORNI
DELL'IRRAGIONEVOLEZZA
A concludere la serie di argomenti posti a sostegno del giudizio
d'irragionevolezza formulato, la Corte costituzionale richiama quale tertium
comparationis la disciplina di assunzione e valutazione della prova stabilita
nell'art. 210 c.p.p. La previsione dell'assistenza difensiva e del criterio valutativo
di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. stabiliti con riguardo ai coimputati
definitivamente assolti per non aver commesso il fatto avrebbe il difetto di
assimilare le dichiarazioni rese da questi ultimi alle deposizioni provenienti dai
soggetti indicati nell'art. 210 c.p.p., vale a dire di persone il cui pieno
coinvolgimento con i fatti oggetto del giudizio giustifica, da un lato, la
configurazione di un'ipotesi di incompatibilità con l'ufficio di testimone;
dall'altro,
il
riconoscimento
della
facoltà
di
non
rispondere.
Anche questa volta, l'iter motivazionale non coglie nel segno e l'argomento
usato opera non tanto quale effettivo presupposto logico della decisione, bensì
quale mero espediente retorico, usato per conferire apparente rigore formale ad
autonome
scelte
di
valore
del
giudice
delle
leggi
(31).
Invero, la parziale omologazione della testimonianza assistita all'esame di
persona imputata in procedimento connesso non è presa in considerazione
dalla Corte costituzionale per quello che essa effettivamente rappresenta.
Tale assimilazione costituisce un aspetto insopprimibile di una
regolamentazione che si caratterizza proprio per dare vita ad una fattispecie il
cui carattere originario sta tutto nel mettere insieme elementi provenienti da
istituti molto diversi tra loro. Per questo la testimonianza assistita è stata
efficacemente definita come "l'ibridazione di un ibrido"(32), una via di mezzo
fra la testimonianza vera e propria e l'esame ex art. 210 c.p.p., che a sua volta
prevede una disciplina a metà strada tra l'imputato e il testimone.
Per coniugare il principio del nemo tenetur se detegere con la necessità di
acquisire fonti penalmente responsabili e tenute a rispondere secondo verità le
20
incongruenze sono inevitabili, in quanto la disciplina che ne discende deve
prevedere l'assunzione dell'ufficio di testimone da parte di persone che hanno
rivestito o rivestono ancora la qualifica di imputato, e che dunque sono persone
che in ragione della propria posizione non dovrebbero presentare alcuna
naturale
vocazione
testimoniale.
È quindi fatale che il legislatore proceda per assimilazioni, visto che se si avesse
riguardo ai peculiari caratteri distintivi di ciascuna delle categorie dei
dichiaranti rientranti nel genus "testimone assistito" si dovrebbero
corrispondentemente moltiplicare le figure testimoniali ed i relativi regimi di
ammissione, assunzione e valutazione della prova. D'altra parte, che simili
assimilazioni portino con sé qualche inconcludenza non risulta in alcun modo
evitabile.
Come ha avuto modo di rilevare in altra occasione la stessa Corte
costituzionale, però, l'irragionevolezza rilevante ai fini dell'art. 3 Cost. non può
venire identificata in qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà, che
una determinata previsione normativa possa lasciar trasparire sotto alcuni
profili o per talune conseguenze, dovendosi tale sindacato arrestare "in
presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di
rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione di una libera
scelta che soltanto il legislatore è chiamato a compiere", tanto più quando la
questione di legittimità costituzionale riguardi una norma contenuta in sistemi
normativi complessi, all'interno dei quali il contemperamento tra i vari interessi
non
costituisce
mai
il
frutto
di
soluzioni
univoche
(33).
Nel caso di specie, tali condizioni di esenzione dal vaglio di ragionevolezza
risultavano tutte, in quanto la disciplina della testimonianza assistita si
inserisce in un più complesso sottosistema normativo - in cui concorrono
l'avvenuta riduzione dell'ambito del diritto al silenzio ed il conseguente
restringimento dell'area delle incompatibilità - nel quale la previsione oggetto
del giudizio di costituzionalità è strettamente correlata alla più generale scelta
del legislatore di estendere gli obblighi testimoniali in capo all'imputato, in
adesione alla diffusa opinione dottrinale emersa dopo la modifica dell'art. 111
Cost. secondo la quale il recepimento del principio del contraddittorio nella
formazione della prova imporrebbe l'allargamento dell'estensione del novero
dei
soggetti
titolari
di
obblighi
testimoniali
(34).
Che si tratti di una scelta legislativa impeccabile è lecito dubitare, sia per
l'oggetto principale di essa - vale a dire la determinazione di ridurre gli spazi
del diritto al silenzio, andando così ad intaccare una tradizionale modalità di
esplicazione del diritto di difesa (35) - sia per il carattere inevitabilmente
disarmonico dei congegni normativi volti a realizzarla (36). Nemmeno può
negarsi che una simile opzione contrasti con altri valori fondamentali consacrati
nella
prima
parte
della
Costituzione(37).
Ma deve escludersi che le soluzioni normative adottate possano tacciarsi di
manifesta irragionevolezza, com'è dimostrato non solo dalla debolezza degli
argomenti impiegati dalla Corte costituzionale per sostenere il contrario; ma
anche dalla circostanza che nel copioso dibattito interpretativo suscitato dalla
21
novellazione del 2001 nessuno, nemmeno i più critici, hanno mai inteso
avanzare
dubbi
di
costituzionalità
sotto
tale
profilo
(38).
In definitiva, non si può fare a meno di criticare il modus operandi della Corte
costituzionale, per l'eccesso di disinvoltura con cui ha qualificato come
irragionevole
la
normativa
impugnata.
Ancora una volta il giudice delle leggi, invece che inserirsi negli itinerari
suggeriti dal dibattito dottrinale registrato sui vari aspetti della disciplina
processuale sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, ha preferito fare
leva su opinabili percorsi interpretativi, non confortati dalle indicazioni
provenienti
dall'insieme
della
cultura
giuridica
di
riferimento.
5.
PROSPETTIVE
DE
LEGE
FERENDA
Il tentativo di riportare nell'alveo della "ragionevolezza" la regolamentazione
delle testimonianze di coloro che abbiano rivestito o ancora rivestano la
qualifica di imputato si muove in direzione opposta a quella idealmente
perseguita dalla Corte costituzionale, il cui decisum amplifica invece che ridurre
i profili di contraddittorietà e incongruenza della relativa disciplina.
Sia pure con qualche disarmonia - ed al prezzo, per alcuni inaccettabile, di
intaccare gli ambiti del diritto al silenzio - il legislatore del 2001 era riuscito
nell'intento di assimilare il più possibile ai testimoni le fonti dichiarative
originariamente incompatibili con l'ufficio testimoniale. L'onnicomprensività quanto a tipologie soggettive dei dichiaranti - della testimonianza assistita
aveva il merito di raggruppare sotto un unico regime le deposizioni di quanti,
pur coinvolti a vario titolo nella vicenda processuale in corso di svolgimento,
fossero chiamati a rendere testimonianza; e tale reductio ad unitatem conseguiva
lo scopo di delineare un unico mezzo di prova completamente assimilabile alla
testimonianza, salvo che per taluni aspetti di secondario rilievo, quali
l'assistenza difensiva "passiva" (39) e l'assoggettamento ad una metodica
valutativa
per
così
dire
rafforzata.
L'unitarietà della qualifica formale del testimone assistito, inoltre, spiegava la
generale applicabilità sia dell'assistenza difensiva, sia del criterio di valutazione
fissato nell'art. 192, comma 3, c.p.p., da giustificarsi in ragione del nesso logicoprobatorio tra la vicenda che riguarda l'esaminato ed il fatto oggetto di
accertamento nel processo in cui viene assunta la testimonianza(40). Nulla
escludeva, poi, che in sede di elaborazione interpretativa sulla natura dei
riscontri alle dichiarazioni rese dal teste assistito la regula juris di cui all'art. 192,
comma 3, c.p.p. si conformasse alla natura "testimoniale" della dichiarazione da
valutare (41), con il risultato di ridurre al minimo, se non escludere del tutto, le
discrepanze valutative tra la testimonianza vera e propria e quella erga alios
resa
dall'imputato
(42).
A dispetto di simili osservazioni, l'irruzione del decisum del giudice delle leggi
sul quadro positivo messo a punto nel 2001 mette a nudo la forzatura e la
finzione in cui si è cimentato il legislatore. Se l'intervento di quest'ultimo era
tutto incentrato sull'idea che non potesse non avere natura testimoniale la
deposizione erga alios dell'imputato, la Corte costituzionale scalfisce la solidità
di
tale
assunto.
22
Con l'introduzione di una nuova figura di dichiarante distinta sia dal testimone
- in ragione dell'applicabilità del regime di cui all'art. 197-bis c.p.p. - sia dal
testimone assistito tradizionale - stante l'inapplicabilità dell'assistenza
difensiva e del criterio valutativo di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., il giudice
delle leggi ha finito per distinguere tra le varie deposizioni quelle "più
testimoniali" (43) delle altre sull'implicito assunto che, al di là delle qualifiche
formali che possano essere attribuite loro, gli imputati non sono testimoni.
Letta in controluce la decisione in commento tradisce un ulteriore sottinteso: se,
infatti, le deposizioni degli imputati risultano essere ontologicamente qualcosa
di diverso da quelle testimoniali, l'omologazione formale tra le due tipologie di
dichiaranti non può avere altro scopo che quella, eminentemente pratica, di
evitare che la funzionalità di un sistema processuale che accoglie il principio del
contraddittorio nella formazione della prova venga compromessa dalla
possibilità di sottrarsi al contraddittorio riconosciuta ai titolari del diritto al
silenzio (44). Il che significa che la compressione del diritto al silenzio operata
dalla l. 1° marzo 2001, n. 63 troverebbe la sua giustificazione esclusivamente
nella prospettiva di consentire al pubblico ministero la soddisfazione dell'onere
probatorio di cui è gravato, propiziando l'acquisizione in dibattimento della
deposizione degli imputati in procedimenti connessi o collegati che abbiano
reso in precedenza dichiarazioni a carico di altro imputato (45).
Ma se così è, il contrasto tra la Costituzione e la testimonianza assistita è ben
più radicale, e non riguarda affatto i profili presi in esame nell'attuale
pronuncia, bensì la stessa possibilità di limitare il diritto al silenzio
dell'imputato per imporre a quest'ultimo un dovere di collaborazione con il
pubblico ministero, vietato alla luce della presunzione d'innocenza e del
carattere inviolabile - e dunque inderogabile e indisponibile - del diritto di
difesa
(46).
Non sorprende che tali aspetti risultino trascurati dalla stragrande maggioranza
dei giudici di merito - che si esimono dal sollevare le relative questioni di
legittimità - e dalla stessa Corte costituzionale, che in più di un'occasione si è
mostrata in sintonia con le propensioni "ideologiche" della magistratura (47). La
procedura penale ha sempre dovuto fare i conti - in maniera più o meno conscia
- con l'irrefrenabile impulso ad estrarre la verità dall'imputato ed a sollecitarne
la collaborazione (48): colpevole o innocente quest'ultimo è depositario di una
verità la cui emersione nel processo basterebbe a garantire il risultato giusto
(49).
Nondimeno, tanto più alla luce della complicazione introdotta dalla nuova
figura di dichiarante di matrice "costituzionale", occorre chiedersi ancora se la
finzione dell'imputato che diventa testimone giovi davvero alla coerenza
sistematica del processo penale vigente ed alla sua efficienza; o se invece non
sia preferibile abbandonare l'esperienza intrapresa nel 2001 e prevedere che le
persone accusate di un reato possano assumere la veste testimoniale
esclusivamente quando risultino destinatarie di una sentenza irrevocabile - sia
essa di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena su richiesta
23
delle parti - in ragione del venir meno di un apprezzabile interesse difensivo
che ne sconsigli l'assoggettabilità agli obblighi testimoniali.
(1) FERRUA, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, in Dir. e
giust., 2000, n. 37, p. 82; ID., Ottima accoglienza a Corte per il "111", ivi, 2000, n. 39,
p. 37. Conformemente C. CONTI, Giusto processo (dir. proc. pen.), in Enc. dir.,
Agg., vol. V, 2001, p. 628. Nel senso che l'esplicita previsione nell'art. 111,
comma 1, Cost. di una riserva di legge processuale sia da intendersi come
l'affermazione di un limite alla giurisprudenza creativa della Corte
costituzionale, in quanto "il legislatore deve avere la possibilità di disegnare
regole del procedere senza l'incubo della censura di illegittimità" v. TROCKER,
Il valore costituzionale del "giusto processo", in AA.VV., Il nuovo art. 111 della
Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi, Franco Angeli
Editore, 2001, p. 40. Per talune osservazioni critiche a tale prospettazione v.
CECCHETTI, Giusto processo (dir. cost.), in Enc. dir., Agg., vol. V, 2001, p. 614.
(2) In proposito si è parlato di sistema "affossato" (CORDERO, Procedura penale,
8¦ ed., Giuffrè, 2006, p. 706 ss.); di processo penale riformato dalla Corte
costituzionale (IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale
riformato dalla Corte costituzionale, in questa rivista, 1992, p. 2028); di demolizione
del principio fondamentale del rito accusatorio (AMODIO, Rovistando tra le
macerie della procedura penale, in questa rivista, 1993, p. 2942) o di decodificazione
giurisprudenziale (AMODIO, Il processo penale tra disgregazione e recupero del
sistema, in Ind. pen., 2003, p. 11).
(3) Tali espressioni sono riprese da VASSALLIIntroduzione al tema, in AA.VV., Il
giusto processo, Accademia nazionale dei Lincei, 2003, p. 23. In termini analoghi v.
anche ILLUMINATI, I principi generali del sistema processuale penale italiano, in
Pol. dir., 1999, p. 310.
(4) LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in Studi in memoria di
Carlo Esposito, Cedam, 1973, p. 1573; LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig.
d. pubbl., vol. XII, 1997, p. 360. Nel senso che il grado più alto di politicità, e
quindi di discrezionalità, delle sentenze della Corte costituzionale si riscontra
nelle pronunce emesse nell'ambito del sindacato sulla ragionevolezza v.
BARILE - CHELI - GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, 8¦ ed., Cedam, 1998, p.
369.
(5) CHIAVARIO, Norma (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, 1978, p. 459,
nota 121; FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, 2¦ ed., vol. I, Giuffrè,
1965, p. 496; ILLUMINATI, Giudizio, in Conso - Grevi, Compendio di procedura
penale, 3¦ ed., Cedam, 2006, p. 661 s.
(6) ILLUMINATI, I principi generali, cit., p. 310.
(7) Nel senso che la Corte costituzionale attraverso il sindacato sulla
ragionevolezza delle scelte legislative abbia aperto a se stessa la via a giudicare
24
liberamente e a proprio piacimento della costituzionalità delle leggi v.
ESPOSITO, La Corte costituzionale come giudice della non arbitrarietà della legge, in
Giur. cost., 1962, p. 450. V. anche SCACCIA, Gli "strumenti" della ragionevolezza
nel giudizio costituzionale, Giuffrè, 2000, p. 399, ove si rileva che "il giudice delle
leggi può decidere in maniera assolutamente libera e incontrollata attraverso lo
strumento della ragionevolezza". Nel senso che in occasione di pronunce della
Corte costituzionale fondate sul giudizio di ragionevolezza "non sia per nulla
agevole tracciare un confine tra la censura per l'arbitrium legis e l'interferenza
con il legittimo esercizio, da parte del legislatore, delle sue più tipiche
prerogative" v. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra
l'intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Leg. pen., 1998, p.
931; nonché, in piena adesione a tale posizione, MARZADURI, Appunti sulla
riforma costituzionale del processo penale, in AA.VV., Scritti in onore di Antonio
Cristiani, Giappichelli, 2001, p. 435. Sulla giurisprudenza della Corte
costituzionale incentrata sul principio di ragionevolezza in materia processuale
penale v. TASSI, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale sul sistema
processuale penale, in Riv. it. dir. proc. e pen., 2002, p. 223 ss.
(8) ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 661. Osserva, in proposito, FERRUA,
Anamorfosi del processo accusatorio, ora in Studi sul processo penale. Anamorfosi del
processo accusatorio, Giappichelli, 1992, p. 157: "dal processo inquisitorio o misto
al processo accusatorio il cammino è lungo e faticoso ... Non è vero l'inverso.
Dal processo accusatorio all'inquisitorio, il passaggio è agevole, lo si percorre
rapidamente. Non occorrono grandi riforme o, meglio, queste si operano con
pochi ritocchi, per via di omissioni e corpi di forbice. Basta eliminare qualche
divieto di lettura, e il gioco è fatto".
(9) DE LUCA, L'inchiesta preliminare, in AA.VV., Il codice di procedura penale.
Esperienze, valutazioni e prospettive, Giuffrè, 1994, p. 48.
(10) C. cost., 2 novembre 1998, n. 361, in Giur. cost., 1998, p. 3153 ss., con note di
GEMMA - PELLATI, Processo e verità: un'altra decisione sostanzialmente coerente
della Corte; SCAPARONE, Diritto al silenzio e diritto al controesame del coimputato;
VENTURA, Escussione delle prove e contraddittorio; ZANON, La Corte, il legislatore
ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all'"ultima parola" al cospetto delle
decisioni d'incostituzionalità.
(11) FERRUA, Il -giusto processo', Zanichelli, 2005, p. 15 s.
(12) V. in questo senso C. cost. 13 giugno 2000, n. 186, in Giur. cost., 2000, p. 1612
ss., che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 616 c.p.p., "nella parte
in cui non prevede che la Corte di cassazione, in caso di inammissibilità del
ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle
ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza
versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità"; C. cost. 14
luglio 2000, n. 283, ivi, 2000, p. 2186 ss., che ha dichiarato l'illegittimità
25
costituzionale dell'art. 37, comma 1, c.p.p. "nella parte in cui non prevede che
possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla
responsabilità dell'imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non
penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo
soggetto"; C. cost., 18 novembre 2000, n. 504, ivi, 2000, p. 3903 ss., che ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 460, comma 4, c.p.p., "nella parte
in cui non prevede la revoca del decreto penale di condanna e la restituzione
degli atti al pubblico ministero, anche nel caso in cui non sia possibile la
notificazione del domicilio dichiarato a norma dell'art. 161 c.p.p."; C. cost., 4
aprile 2001, n. 95, ivi, 2001, p. 599 ss., con nota di SPANGHER, L'omesso
interrogatorio di garanzia nei termini di legge fa perdere efficacia sia alle misure
coercitive, sia a quelle interdittive, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 302
c.p.p., "nella parte in cui non prevede che le misure coercitive, diverse dalla
custodia cautelare, e quelle interdittive, perdono immediatamente efficacia se il
giudice non procede all'interrogatorio entro il termine previsto dall'art. 294,
comma 1-bis, c.p.p." ; C. cost., 16 aprile 2002, n. 120, ivi, 2002, p. 930 ss., con nota
di GARUTI, Sulla decorrenza del termine per la richiesta di trasformazione del
giudizio immediato in abbreviato, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 458, comma 1, c.p.p., "nella parte in cui prevede che il termine entro cui
l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato decorre dalla notificazione del
decreto di giudizio immediato, anziché dall'ultima notificazione all'imputato o
al difensore, rispettivamente del decreto ovvero della data fissata per il giudizio
immediato"; C. cost., 16 maggio 2002, n. 195, ivi, 2002, p. 1543 ss. con nota di
COPPETTA, Il consenso dell'imputato minorenne alla sentenza di non luogo a
procedere, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 32, comma 1,
d.P.R. n. 448 del 1988 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a
carico di imputati minorenni), come modificato dall'art. 22 l. n. 63 del 2001
(Modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di
formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma dell'art. 111 cost.), "nella parte in cui, in mancanza del consenso
dell'imputato, preclude al giudice di pronunciare sentenza di non luogo a
procedere che non presuppone un accertamento di responsabilità"; C. cost., 25
luglio 2002, n. 394,ivi, 2002, p. 2884 ss. e p. 3330, con note di MAZZA,
L'affidamento "qualificato" e i limiti alla retroattività normativa in materia processuale
penale, e di PIAZZA, La Corte con una "discutibile" ragionevolezza statuisce il divieto
di retroattività della nuova portata del "patteggiamento" sui giudizi disciplinari
connessi, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 10, comma 1, l. 27 marzo
2001 n. 97, nella parte in cui dispone l'applicabilità degli artt. 1 e 2 della stessa
legge (concernenti gli effetti della sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti nel giudizio disciplinare) ai patteggiamenti perfezionatisi
anteriormente alla sua entrata in vigore; C. cost., 21 luglio 2004, n. 253, ivi, 2004,
p. 2593 ss., con note di BARBIERI, Termini di durata della custodia cautelare:
equiparata la posizione del soggetto in stato di custodia cautelare all'estero a seguito di
domanda di estradizione presentata dallo Stato italiano alla posizione del soggetto in
stato di custodia cautelare in Italia, e di MARGARITELLI, Custodia cautelare
26
all'estero e decorrenza dei termini di fase, che ha dichiarato l'incostituzionalità
dell'art. 722 c.p.p., "nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare
all'estero, in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo
Stato, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti
dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, c.p.p."; C. cost., 22 luglio 2005, n. 299, ivi, 2005, p.
2917 ss., con note di DOLSO, Prognosi sul futuro delle interpretative di rigetto, e di
CERESA-GASTALDO, Sull'operatività del termine "massimo di fase" ex art. 304
comma 6 c.p.p. in caso di regressione del procedimento: è costituzionalmente illegittimo
l'art. 303 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non consente il computo della custodia
cautelare sofferta nelle fasi diverse, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 303, comma 2, c.p.p. "nella parte in cui non consente che i periodi di
custodia cautelare derivanti da errores in judicando o in procedendo che hanno
comportato la regressione del procedimento, sofferti in momenti processuali
diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito, siano
computati ai fini dei termini massimi di fase determinati dall'art. 304 comma 6
c.p.p.".
(13) FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. II, 1¦ ed., Giuffrè, 1961,
p. 168 s.
(14) FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA.VV., La prova nel
dibattimento penale, Giappichelli, 2¦ ed., 2005, p. 301.
(15) FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 3¦ ed.,
1996, p. 553.
(16) ILLUMINATI, La presunzione d'innocenza dell'imputato, Zanichelli, 1979, p.
116 ss.
(17) Giova precisare che, non essendo la certezza mai raggiungibile in concreto,
lo standard probatorio della colpevolezza è fissato al livello della probabilità
elevatissima, vale a dire di una probabilità che pur non raggiungendo la
certezza riduce al livello dalla "implausibilità" le probabilità contrarie: in questi
termini IACOVIELLO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., Agg., vol.
IV, 2000, p. 766.
(18) DE LUCA, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XV,
1988, p. 2 s.
(19) IACOVIELLO, Motivazione, cit., p. 755. In argomento v., esaurientemente,
FERRUA, Il giudizio penale, cit., p. 310 ss.
(20) In tal senso v. Sez. I, 28 aprile 1997, Matrone, in questa rivista, 1998, p. 2420.
(21) Oltre all'Autore menzionato nella nota seguente v. KOSTORIS, Giudizio
(diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XV, 1997, p. 11; nonché
DANIELE, La testimonianza "assistita" e l'esame degli imputati in procedimenti
27
connessi, in AA.VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura
di Kostoris, Giappichelli, 2002, p. 216.
(22) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 628.
(23) FERRUA, Il giudizio penale, cit., p. 326.
(24) NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, 9¦ ed., 2004, p. 223
ss. Per un approfondito ed esauriente studio sulla regola di valutazione in
parola v. DEGANELLO, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto
giurisprudenziale, Giappichelli, 2005, p. 129 ss.
(25) Nel senso che la valutazione unitaria della prova sia da considerare un
principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni
interpretativi dettati dall'art. 192 c.p.p. v. Sez. VI, 28 settembre 1992, Runci, in
Arch. n. proc. pen., 1993, p. 334. Analogamente v. Sez. V, 25 giugno 1996, Cuiuli,
ivi, 1997, p. 245, secondo cui nella valutazione della prova il giudice deve
prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme in modo non
parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio; verificando se essi,
ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in
una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la
valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la
verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso
concreto. Viola tale principio il giudice che, dovendo giudicare in tema di
maltrattamenti da parte di un insegnante nei confronti degli alunni, abbia
smembrato i singoli episodi sottoposti alla sua valutazione rinvenendo per
ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se
nel suo insieme la condotta non fosse tale da realizzare un metodo educativo
fondato sull'intimidazione e la violenza. Del medesimo segno anche Sez. II, 5
dicembre 2002, Schiavone, in Guida dir., 2003, n. 15, p. 96, ove si afferma che
nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione ogni
singolo fatto e il loro insieme, non in modo parcellizzato e avulso dal generale
contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente
in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e
consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di
attingere la verità processuale, cioè la verità limitata, umanamente accertabile e
umanamente accettabile del caso concreto. Con particolare riferimento alle
prove dichiarative v. Sez. un., 4 febbraio 1992, Ballan, in questa rivista, 1992, p.
2662, nella quale si stabilisce che la valutazione dell'attendibilità delle
dichiarazioni processualmente rilevanti - da qualunque parte provengano esige un'analisi che non può arrestarsi alla sommaria considerazione della
personalità dei dichiaranti, ma richiede un'attenzione ai rapporti tra essi
intercorsi, agli interessi che li possono avere mossi a dire o a negare, ai moventi
che li possono avere spinti e in definitiva a tutte le circostanze rilevanti nelle
quali le dichiarazioni sono state rese.
28
(26) In questo senso v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, in Ind.
pen., 2002, p. 406; SANNAL'esame dell'imputato sul fatto altrui, tra diritto al silenzio
e dovere di collaborazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 493; MOROSINI, Il
"testimone assistito" tra esigenze del contraddittorio e tutela contro
l'autoincriminazione (art. 197-bis c.p.p.), in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme
sulla formazione e valutazione della prova, a cura di Tonini, Cedam, 2001, p. 325;
DANIELE, La testimonianza "assistita", cit., p. 213; CONTI, L'imputato nel
procedimento connesso. Diritto al silenzio ed obbligo di verità, Cedam, 2003, p. 296;
BRESCIANI, Commento all'art. 6 l. 1/3/2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 220.
(27) Su tali profili si veda SCELLA, Art. 652, in Conso - Grevi, Commentario breve
al codice di procedura penale, Cedam, 2005, p. 2209 ss.
(28) Cass. civ., Sez. III, 26 febbraio 1999, n. 1678, in Foro it., 2000, I, c. 2934 ss.
(29) Sui rapporti tra il giudicato di assoluzione e il giudizio amministrativocontabile v. SCELLA, Art. 652, cit., p. 2212.
(30) GHIARA, Art. 652, in Commento al nuovo codice di procedura penale,
coordinato da Chiavario, Utet, 1991, vol. VI, p. 456; SPANGHER, Nuovi profili
nei rapporti fra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti
fra processo civile e processo penale, Giuffrè, 1995, p. 57; TONINI, Manuale di
procedura penale, Giuffrè, 6¦ ed., 2005, p. 758 s.; Cass. civ., Sez. III, 9 maggio
2000, n. 5885, in Dir. e giust., 2000, n. 19, p. 48; Cass. civ., Sez. I, 30 marzo 1998, n.
3330, in Foro it., 1998, I, c. 2913 ss. Con specifico riguardo ai rapporti tra
assoluzione ex art. 530, comma 2, c.p.p. e procedimento disciplinare v. DE
GREGORIO, Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare
ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche (l. 27.3.2001 n. 97), in Leg. pen., 2002, p. 620; nonché T.a.r. Lazio, 18
settembre 1993, Acampora, in I TAR, 1993, I, p. 3543 ss.
(31) Sul frequente impiego nel giudizio sulla ragionevolezza delle leggi, per
finalità eminentemente "retoriche", dello schema ternario consistente nel
raffronto della disciplina impugnata con altra norma individuata quale termine
di paragone v. SCACCIA, Gli "strumenti" della ragionevolezza, cit., p. 106 ss. Si
richiama a tale prassi della giurisprudenza costituzionale anche TASSI, Il
sindacato di ragionevolezza, cit., p. 228.
(32) ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 403.
(33) C. cost., 28 marzo 1996, in Giur. cost., 1996, p. 819 ss. con note di RIVELLO,
"Graziata" dalla Corte costituzionale la nuova anomala disciplina circa il computo dei
termini delle misure cautelari in caso di "contestazioni a catena" per fatti diversi, e di
A. MOSCARINI, Un buon uso della tecnica di ragionevolezza in tema di applicazione
delle misure cautelari. Conformemente v. TASSI, Il sindacato di ragionevolezza, cit.,
p. 267 s. In senso critico rispetto ai "paletti" del giudizio di ragionevolezza
evocati dal giudice delle leggi e richiamati nel testo v. GREVI, Il nuovo art. 297
29
comma 3° c.p.p. di fronte alla Corte costituzionale: una sentenza deludente ed elusiva
del giudizio di ragionevolezza, in questa rivista, 1996, p. 2098 ss.
(34) GREVI, Processo penale, "giusto processo" e revisione costituzionale, in questa
rivista, 1999, p. 3321; GREVI, Giusto processo: subito norme coerenti per evitare il
rischio della paralisi, in Guida dir., 2000, n. 2, p. 14; FERRUA, Il processo penale dopo
la riforma dell'art. 111 della Costituzione, in Questione giustizia, 2000, p. 60;
TONINI, "Giusto processo", diritto al silenzio ed obbligo di verità, in Ind. pen., 2000,
p. 35 s.; C. CONTI, Le due "anime" del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in
Dir. pen. proc., 2000, p. 199. Occorre ricordare, però, che secondo altra parte della
dottrina l'attenuazione degli spazi da riservare al diritto al silenzio
dell'imputato non configurava affatto una scelta costituzionalmente imposta dal
nuovo art. 111 Cost.: in questo senso v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa
testimone, cit., p. 389; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo
procedimento, Giuffrè, 2004, p. 322 s.; SANNA, L'esame dell'imputato sul fatto
altrui, cit., p. 481; DANIELE, Primi contrasti sull'applicazione dell'art. 111 Cost. e
sul principio del contraddittorio, in questa rivista, 2000, p. 2452; nonché, volendo,
DI BITONTO, Diritto al silenzio: evoluzione o involuzione?, in Dir. pen. proc., 2001,
p. 1028 s.
(35) Nel senso che la riduzione dell'area del diritto al silenzio ed il
corrispondente ampliamento degli obblighi testimoniali in capo all'imputato
costituiscano un grave vulnus alla posizione difensiva v. ILLUMINATI,
L'imputato che diventa testimone, cit., p. 387.
(36) Nel senso che la disciplina della testimonianza dell'imputato si presenti
esageratamente complicata v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone,
cit., p. 397.
(37) Sui profili d'illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 24, comma
2, e 27, comma 2, Cost. si rinvia a ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone,
cit., p. 380 ss.; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 332 ss.;
nonché, volendo, a DI BITONTO, Diritto al silenzio, cit., p. 1027 ss.
(38) In termini critici nei confronti dell'estensione della regola di valutazione di
cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni rese dagli imputati che
abbiano assunto l'ufficio di testimone v. GREVI, Prove, in Conso - Grevi,
Compendio, cit., p. 325 s. Analogamente CORBETTA, Principio del contraddittorio e
riduzione del diritto al silenzio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 685 s.; DI MARTINO,
L'incompatibilità a testimoniare: problemi vecchi e nuovi, in Ind. pen., 2002, p. 1047;
MOROSINI, Il "testimone assistito", cit., p. 325 s.; CONTI, L'imputato nel
procedimento connesso, cit., p. 300.
(39) Invero, l'art. 197-bis c.p.p. non riconosce al difensore il diritto a partecipare
all'esame (che è invece attribuito ex art. 210, comma 4, c.p.p. a quello dei
soggetti imputati in procedimento connesso che non possono assumere l'ufficio
testimoniale): egli può solo presenziare all'assunzione della testimonianza,
30
eventualmente formulando richieste, osservazioni e riserve a tutela della
posizione del proprio assistito: su tale aspetto v. GREVI, op. ult. cit., p. 316;
BRESCIANI, Commento, cit., p. 212 s.; DANIELE, La testimonianza "assistita", cit.,
p. 201; TRIGGIANI, Art. 197-bis, in Giarda - Spangher, Codice di procedura penale
commentato, Ipsoa, 2001, p. 1089; CONTI, L'imputato nel procedimento connesso,
cit., p. 281 s. L'eventuale mancanza di tale assistenza difensiva, poi, non è
sanzionata con alcuna forma d'invalidità:DANIELE, op. ult. cit., p. 201 s.
(40) AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul
fatto altrui, in questa rivista, 2001, p. 3591. Nel senso che tale regola di giudizio
sarebbe stata comunque applicabile, pur in mancanza di espressa previsione, v.
CORDERO, Procedura penale, cit., p. 762.
(41) Nel senso che anche la deposizione testimoniale sia da valutare unitamente
agli altri elementi che ne confermino l'attendibilità v. CORDERO, Procedura
penale, cit., p. 629 e p. 762.
(42) Per uno spunto in questo senso v. FERRUA, Introduzione al commento della
legge n. 63 del 2001, in Dir. pen. proc., 2001, p. 591, secondo il quale la circostanza
che la deposizione sia stata resa nella veste testimoniale orienta in maniera
peculiare la valutazione di attendibilità di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p.
Analogamente DANIELE, La testimonianza "assistita", cit., p. 215, il quale rileva
che siano sufficienti riscontri non individualizzanti quando le dichiarazioni da
valutare siano pronunciate sotto l'obbligo di dire la verità.
(43) Sotto tale profilo la Corte costituzionale pare muoversi sulla medesima
linea interpretativa espressa dalla dottrina che ha inteso rilevare come la figura
dell'imputato testimone - con la sola eccezione dei casi in cui l'imputato
testimone sia stato irrevocabilmente assolto - sia più affine all'imputato di reato
connesso o collegato che al testimone toutcourt: in tal senso v. FERRUA,
Introduzione, cit., p. 591.
(44) FERRUA, Effettività del contraddittorio. Nell'inerzia del legislatore la palla torna
alla Corte costituzionale, in Questione giustizia, 2000, p. 992 s.; GREVI, Spunti
problematici sul nuovo modello costituzionale di "giusto processo" penale (tra
"ragionevole durata", diritti dell'imputato e garanzia del contraddittorio), in Pol. dir.,
2000, p. 443 s.
(45) Evidenziano tale aspetto ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit.,
p. 394; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 331 s.; SANNA,
L'esame dell'imputato sul fatto altrui, cit., p. 482; DI BITONTO, Diritto al silenzio,
cit., p. 1028.
(46) In argomento v. gli Autori citati nella nota 37.
(47) Ad esempio, secondo ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 660, la giurisprudenza
costituzionale del 1992 richiamata all'inizio sarebbe spiegabile alla luce delle
31
difficoltà incontrate dalla giurisprudenza nell'applicazione del nuovo metodo
accusatorio, che avrebbero indotto la Corte costituzionale a farsi "interprete del
malessere manifestatosi all'interno di una parte consistente, anche se non
maggioritaria, della magistratura".
(48) FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 625; ILLUMINATI, L'imputato che
diventa testimone, cit., p. 388.
(49) CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 1987, p. 472; CORDERO, Scrittura e
oralità, in Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, 1963, p. 200 s.
32
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