Agenzia di educazione permanente Progetto FSE anno 2013 “ANIMATORE MUSICALE” ESF-Projekt Jahr 2013 “MUSIKANIMATEUR” fascicolo n. 2/143/2013 codice CUP B56G13001690001 Fasz. Nr. 2/143/2013 codice CUP B56G13001690001 Prof. Maurizio Domenico Disoteo Le diversità culturali in animazione e in educazione musicale 5 – 6 aprile 2014 10 – 11 maggio 2014 Interculturale o multiculturale: differenze. Un’abitudine abbastanza consolidata attribuisce l’utilizzazione del termine “educazione interculturale” alla Francia, al Belgio e ai paesi dell’Europa meridionale mentre l’impiego del termine “multiculturale” a quelli anglosassoni. Questa differenza ha origine, in gran parte, nei discorsi che tali paesi hanno condotto di fronte alla diversità culturale, che hanno evidentemente influenzato le istituzioni pedagogiche. Anche se questa distinzione fa riferimento a tradizioni generali effettivamente esistenti, non si deve ignorare che la situazione presenta sfumature e diversificazioni, che sono ancora più evidenti nello specifico musicale. Per iniziare la discussione, leggiamo quanto scrive Martine Abdallah Pretceille: Il concetto di multiculturalismo è inteso in modo diverso in Europa e in America del Nord. La questione indiana, quella della schiavitù, il problema dell’esclusione dalla cittadinanza degli Amerindi e dei Neri, poi l’evoluzione dell’immigrazione (europea prima della guerra e mondiale in seguito) attraversano la storia americana e spiegano largamente l’interesse portato alla pluralità culturale ed etnica. L’emergenza del multiculturalismo negli Usa è concomitante alla lotta per i diritti civili degli anni sessanta e fa seguito a una politica migratoria caratterizzata dall’ideologia del melting-pot (cioè l’integrazione dei migranti di tutte le provenienze e di tutte le condizioni sociali in una medesima cultura). Molto rapidamente, le illusioni e i fallimenti del melting-pot sono stati scoperti e analizzati. In Europa, il termine di «multiculturalismo» si applica soprattutto alle minoranze (etniche o migranti secondo le formulazioni dei paesi) che devono integrarsi negli Stati la cui tradizione nazionale è antica (per esempio Svezia, Olanda, Gran Bretagna). Il modello americano di multiculturalismo – che è stato in seguito ripreso, in forme diverse, da alcuni paesi europei – è quindi una conseguenza della crisi dell’ideologia del melting pot provocata, in gran parte, dalle lotte per i diritti civili. Le metafore per definire il modo di affrontare le diversità culturali negli Usa possono essere un buon esempio per aiutarci a comprendere certi cambiamenti di orientamento. In effetti, se il melting pot, prima metafora proposta, preconizza la fusione nella stessa cultura, l’immagine della salad bowl (insalatiera) adottata in seguito per il multiculturalismo simboleggia la coesistenza di più culture nello stesso paese, ma senza che queste culture abbiano necessariamente degli scambi tra di loro né attivino dei processi di acculturazione. In effetti, se il multiculturalismo permette di essere visibile e di ottenere il riconoscimento di certi diritti alle differenti culture presenti in una città, regione o paese, non propone alcuna dialettica tra le culture, che continuano a esistere l’una a fianco dell’altra ma senza comunicare, o addirittura senza conoscersi. Inoltre, per giungere a riconoscere i diritti dei gruppi culturali, la società multiculturale deve sempre definire certi tratti, abitudini, tradizioni che le caratterizzano. Il rischio di una tale operazione è di fissare a priori, in modo statico e immutabile, certe definizioni dei gruppi sociali e di fissarne più o meno arbitrariamente le identità. Inoltre, il multiculturalismo spesso 2 non considera la diversità che dal punto di vista dell’appartenenza a un gruppo, definita soprattutto sotto l’angolatura “etnica”, secondo criteri auto-attribuiti o etero-attribuiti (ispanici, italiani, cinesi etc.). Di conseguenza, l’identità e i diritti riconosciuti sono solo quelli della cultura d’origine e tale fatto non permette all’individuo di mettersi in gioco come tale, nel suo gruppo ma anche con gli altri. Questa sovrapposizione tra gli individui e il loro gruppo d’appartenenza, che occulta i processi soggettivi e intersoggettivi della costruzione della diversità è uno dei rischi più importanti del multiculturalismo. L’idea multiculturale ha trovato seguito nelle istituzioni educative di vari paesi. Il compito di una scuola che assuma una prospettiva multiculturale è anzitutto riconoscere e rispettare le diversità dei diversi gruppi etnici e culturali, sostenere la partecipazione di tali gruppi alla vita sociale favorire pari opportunità e sviluppare la società democratica fondata sulla pari dignità di tutti gli individui. Così come già evidenziato per quanto riguarda l’insieme dei discorsi sulla società multiculturale, si può rivolgere anche all’educazione multiculturale la critica relativa al rischio di una cristallizzazione delle identità che si aggiunge all’attenzione eccessiva se non esclusiva all’appartenenza “etnica”. Inoltre, l’approccio multiculturale non favorisce gli scambi tra le culture e ha la tendenza a reificarle a scapito delle trasformazioni dinamiche che caratterizzano tutte le culture viventi. Passando a discutere di educazione interculturale definisce un’azione pedagogica che privilegia la dinamica e l’interazione rispetto allo stato e la descrizione. È una risposta, progettata dagli educatori, al multiculturalismo. Nel campo dell’educazione musicale le distinzioni tra interculturale e multiculturale seguono per molti versi i criteri generali enunciati anche se con molta libertà e numerose sfaccettature. A grandi linee, con il termine educazione musicale multiculturale si definiscono soprattutto programmi che comprendono la conoscenza di varie culture musicali, mentre per educazione musicale interculturale si designa un progetto che non si limita alla conoscenza delle culture, ma propone anche di promuovere interazioni tra di esse e di rielaborarne creativamente degli elementi, centrando inoltre l’attenzione sulle “identità musicali” . Tuttavia, l’utilizzazione dei due termini è dettata spesso dalle situazioni storiche o locali, e dalle prese di posizioni personali degli autori che, in alcuni casi, utilizzano anche indifferentemente i due termini. Per partire, ancora una volta, dall’esperienza degli Usa, possiamo notare, seguendo Terese M. Volk (2004), che alla fine degli anni venti l’impiego del termine “intercultural education” era corrente per definire lo sviluppo e la comprensione del patrimonio culturale delle popolazioni immigrate e il contributo che esse davano alla costruzione del paese. Sempre secondo Volk, all’inizio degli anni sessanta e per un breve periodo, sotto l’influenza degli “ethnic studies” che appaiono nella letteratura pedagogica, fu impiegata la locuzione “multiethnic education”. Infine, a partire dagli anni settanta, prevale nettamente la dizione “multicultural education”. Non è difficile porre questi cambiamenti in relazione alle vicende della politica americana verso le questioni dell’immigrazione e delle diversità culturali. In effetti, la politica del melting pot è orientata verso la fusione delle culture in una sola nuova 3 cultura nazionale mentre il multiculturalismo della salad bowl immagina la coesistenza di culture diverse nella stessa società. Anche nel contesto culturale e linguistico anglofono sono presenti autori che da tempo sostengono un approccio pedagogico che possa evitare i rischi della vecchia impostazione multiculturale. Tra di essi Keith Swanwick, che già nel 1988 scriveva: La nuova sfida per l’educazione musicale viene dalle musiche del sud e dell’est. Questi stili diversi possono esser fatti confluire nella tradizione dell’educazione musicale? Dovrebbero? La risposta alla prima domanda è che possono esserlo sicuramente se siamo preparati a considerarli come musica e non come bandiere etniche o nazionali o come illustrazioni esotiche di una cultura. Per questo preferisco il concetto integrativo di «interculturale» alla più separatoria e talvolta razzista idea di «multiculturale» . Swanwick propone un metodo di approccio alle diversità basato sulla reinterpretazione attiva delle culture musicali attraverso l’utilizzazione di certi loro tratti nelle attività creative a scuola. Una concezione, come egli afferma, integrativa, che si propone di superare la semplice presentazione delle musiche che corre il rischio, sempre secondo Swanick, di diventare una pratica esotica. Swanick, dunque propone un approssimarsi dinamico alle culture, con un taglio qualitativo, piuttosto che il loro sommarsi quantitativo nel curricolo. Nel campo degli autori che pubblicano in lingua inglese troviamo ancora la posizione di Huib Schippers (che, anche se olandese, pubblica in inglese e in quel contesto è integrato). Quest’ultimo sostiene che, nella prospettiva multiculturale, «le diverse musiche conducono vite completamente separate» (Schippers, 2009, p. 288). Tuttavia egli definisce l’educazione interculturale come un «contatto e uno scambio approssimativi tra le culture, che include semplici forme di fusione» (Schippers, 2009, p. 228). Per questo egli preferisce utilizzare, per precisare il suo pensiero, il termine di “transculturale”. Questo si riferisce a uno scambio approfondito di approcci e idee. A prima vista, potrebbe suonare un po’ troppo idealistico. Ma é effettivamente possibile immaginare – e persino realizzare – programmi dove molte diverse musiche e approcci musicali figurano in condizioni di parità, particolarmente nei corsi introduttivi generali, storia, teoria, musica, estetica. È evidente che Schippers attribuisce un significato diverso dalla maggior parte degli autori europei ai termini “interculturale” e “transculturale”. In effetti, gli autori che utilizzano abitualmente la parola “interculturale” pensano a un curriculum pedagogico dove i contatti e gli scambi tra le identità musicali e le musiche siano pianificati e non fortuiti o superficiali come li intende Schippers. Questi ultimi autori impiegano, in linea di principio, il termine “transculturale” soprattutto per definire una prospettiva comparativa. Questa prospettiva, che ha il merito di mettere tutte le culture sullo stesso piano può rivelarsi tuttavia troppo statica, limitandosi a confrontare le descrizioni dei tratti di culture date. Inoltre, per ciò che riguarda la musica, la comparazione 4 tra le culture è stata spesso associata alla ricerca delle strutture universali della musica che si è rivelata piuttosto sterile. Patricia Shehan Campbell compara le strategie di apprendimento e d’insegnamento della musica nella tradizione occidentale con quelle delle altre culture attraverso alcune questionichiave. Come abbiamo visto poc’anzi, Campbell critica l’idea degli universali della musica a livello delle strutture e afferma che esistono sempre degli aspetti della trasmissione del sapere che sono specifici di ogni cultura, anche se si può immaginare che lo sviluppo delle abilità cognitive e creative possa progredire naturalmente secondo passaggi che sono simili in tutto il mondo. A partire da questa considerazione, Campbell discute lo sviluppo musicale in molte culture a partire da alcuni aspetti che considera decisivi per la ricerca: Quando si considera lo sviluppo del giovane musicista in varie culture del mondo, sono pertinenti i seguenti principi: apprendimento orale (inclusa l’imitazione); improvvisazione (come manifestazione del pensiero creativo in musica); la presenza, l’impiego parziale o l’assenza di notazione e le strategie di esercitazione come la vocalizzazione, la solmisazione e la memorizzazione. Tutti questi principi, comunemente riscontrabili oggi in una quantità di tradizioni del mondo –ma praticati anche nella storia– sono pertinenti all’insegnamento e all’apprendimento nelle classi e nei laboratori. (Campbell, 1991, p.102). Campbell non si ferma a mettere a confronto le strategie educative delle varie culture del mondo, ma studia le conseguenze pedagogiche che possono essere suggerite da tale confronto. Secondo Campbell l’apprendimento della musica è un processo che non coincide con l’insegnamento. Campbell anticipa quindi un tema che centrale nel dibattito d’oggi: l’esistenza di un’educazione informale a fianco di quella formale. I bambini non imparano la musica solo a scuola, ma in tutti i momenti della loro vita, anche se l’educazione musicale (soprattutto occidentale) ha per lungo tempo sottovalutato il valore dell’apprendimento quotidiano, informale e spontaneo. La famiglia, il gruppo di pari, i media, sono luoghi di apprendimento musicale come la scuola e qualche volta più significativi della scuola . Il lavoro di Campbell utilizza la comparazione tra le culture per proporre anche delle pratiche di produzione musicale e non solo di ascolto. Una riflessione innovativa è venuta da diversi autori anglofoni (come quelli del citato Mayday group) che hanno tratto le conseguenze dalla constatazione che la diversità culturale, nelle società complesse, non riguarda solo la provenienza nazionale o etnica, ma presenta molti altri aspetti. La volontà di includere nella progettualità pedagogica tutte le forme di diversità culturale ha provocato una maggiore attenzione all’identità degli allievi in tutti i suoi aspetti. Per questo, un numero crescente di autori preferisce parlare semplicemente, oggi, di “diversità culturale” evitando sia il termine di “multiculturale” che quello di “interculturale”, proprio a significare un allargamento della prospettiva pedagogica che sembra, in realtà superare di slancio le vecchie impostazioni, troppo legate alla nazionalità e all’etnia. Secondo Martine Abdallah Pretceille: L’interculturale si colloca immediatamente al confine tra il sapere e l’agire. Si fonda su una stretta embricazione delle dimensioni sociali e scientifiche, della riflessione e dell’azione (…). L’interculturale può essere ormai definito come un paradigma nel senso di Kuhn e di R. 5 Boudon, cioè a partire «da un insieme di proposte che formano una base d’accordo a partire da cui si sviluppa una tradizione di ricerca». In conclusione è importante sottolineare che il multiculturalismo, pur conb tutti i limiti che ha palesato, ha comunque permesso alle comunità minoritarie e immigrate di rendersi visibili e di salvaguardare la loro storia, la loro identità collettiva e la loro memoria. Al discorso multiculturale offre tuttavia un’alternativa più avanzata l’interculturalità: L’interculturale si fonda su una filosofia del soggetto, cioè su una fenomenologia che costruisce il concetto di soggetto come essere libero e responsabile, inscritto in una comunità di simili. L’approccio interculturale rompe con il punto di vista oggettivista e strutturalista poiché s’interessa alla produzione della cultura da parte del soggetto stesso, alle strategie sviluppate senza per altro sostenere che l’individuo ne abbia sempre coscienza. L’individuo è sempre meno determinato dalla sua cultura d’appartenenza. Non è più il prodotto della sua cultura, egli ne è, al contrario, l’attore 6 Il modello di identità musicale secondo Piatti Nel corso del dibattito sull’ identità musicale, sono stati proposte diverse definizioni e vari modelli di identità musicale. Tra tutti il modello più convincente è quello formulato da Mario Piatti. Secondo Piatti l’identità musicale si articola in quattro differenti tratti o settori: a) l’imprinting originario, formato dalle esperienze sonore-musicali primarie, relative ai primi mesi di vita se non addirittura al periodo prenatale. Sin dai primi mesi di vita ognuno è immerso in un bagno sonoro che predispone e condiziona la sua mente e il suo corpo, prefigurandone la formazione del senso musicale. Sono le esperienze sonore familiari iniziali. b) Il vissuto, cioè l’insieme dei sensi e dei significati elaborati intorno alle esperienze della vita, alle condotte e ai comportamenti acquisiti, ai gusti nati e modificati nel corso della vita, E’ importante tenere presente che il vissuto personale si innesta in un vissuto di gruppo sopratutto per quanto riguarda la nascita di passioni e gusti musicali, che possono provenire da scelte autonome ma anche da condizionamenti collettivi. c) I valori che si attribuiscono alla musica, e quelli che si ricavano dal mondo musicale. Che valore si attribuisce, per esempio, all’autonoma pratica artistica della musica colta, quale valore alla musica rock, quale alla musica in generale nelle formazione personale di un individuo, alla pratica o fruizione della musica ecc. d) Le abilità e le conoscenze in campo musicale, acquisite non soltanto attraverso percorsi intenzionali e scolastici ma anche dalle occasioni della quotidianità. In quest’ultimo settore rientra quello che si sa fare in musica (abilità) e quanto si conosce (conoscenze). Il modello di identità musicale proposto da Piatti fa riferimento a una concezione di tipo processuale dell’identità. La concezione dell’identità come processo integratore delle diverse esperienze della vita, quindi come in continua evoluzione e cambiamento si è progressivamente affermata, negli ultimi anni nel mondo dell’educazione. Scrive a questo proposito Duccio Demetrio: Innanzitutto l’identità come instabilità. L’identità è un processo che integra le differenti esperienze della vita. L’identità si costruisce per tutto il corso della vita. Il concetto poi di interattività: l’interazione sociale presidia, come alcuni dicono, l’identificazione di sé. L’interazione con gli altri, con i diversi da noi, contribuisce alla costruzione della nostra identità. Ancora, una identità come multidimensionalità e come struttura di molte identità. Queste letture che aggiornano una nozione di identità per molto tempo ritenuta la meta stabilizzatrice della vita, ci mostrano che essa si costruisce come un insieme complesso e continuamente cangiante in incessante rielaborazione. Molte sono le facce dell’identità e molte sono quindi le facce che noi possiamo anche giocare nel rapporto con gli altri. In fondo, il rapporto con gli altri ci aiuta, anche, a inventarci altre identità. La citazione di Demetrio che abbiamo riportato contiene almeno tre affermazioni di fondamentale importanza: l’identità è un processo di costruzione-integrazione che dura per tutta la vita, l’identità ha bisogno dell’alterità per crescere, l’identità è da concepirsi come molteplice. Questi dati vanno valutati attentamente, per poter continuare proficuamente la nostra riflessione. Anzitutto il primo dato: l’identità non è qualcosa di dato una volta per tutte, non proviene da fatti ancestrali o ereditari, non arresta il suo percorso di costruzione all’adolescenza. Combinando il modello di Piatti con le osservazioni di Demetrio, possiamo dire che l’identità musicale ha un suo 7 imprinting originario, che si forma attraverso l’ambiente familiare e sociale a partire dai primi mesi di vita, ma che si integra nell’arco di tutta la vita attraverso i vissuti musicali, Inoltre è fondamentale osservare che proprio in quanto processo di integrazione di esperienze, incontri e vissuti, l’identità ha bisogno del confronto con l’altro per poter crescere e alimentarsi. In questo senso possiamo dire che l’identità, almeno in parte, si costruisce in modo oppositivo, vale a dire che il limite tra sé e l’altro e la percezione del proprio essere nascono anche dall’osservazione che esistono altre identità diverse dalla propria. E’ sbagliato pensare che l’incontro con l’altro possa portare dei pericoli per la propria identità. Al contrario, l’incontro con l’alterità rafforza la propria identità in quanto le consente di modificarsi e adattarsi alle nuove situazioni, di arricchirsi di nuove esperienze e vissuti. Nell’incontro con l’alterità, evidentemente ci si modifica, si muta in parte la propria identità, ma questo non rappresenta una “perdita”, piuttosto costituisce un momento di crescita. Infine, l’identità è plurale e possiamo pensare alla nostra identità come a un contenitore pluriidentitario. Noi abbiamo, in realtà, più identità: facciamo parte di una famiglia, siamo cittadini di uno stato, tifosi di una squadra di calcio, sostenitori di un partito politico, quindi in ogni situazione e in ogni momento della nostra vita entra in gioco un’identità diversa, di tipo affettivo, professionale, culturale, politico ecc. Possiamo dire che nelle diverse occasioni e in relazione al gruppo di cui ci sentiamo parte in quel momento e alle persone con cui entriamo in relazione noi agiamo una diversa identità. Tra tutte le identità del contenitore pluiridentitario che abbiamo citato inseriamo anche l’identità musicale. L’affermazione dell’esistenza in noi di più identità non deve far pensare alla dissoluzione e alla frammentazione dell’identità, a una sorta di schizofrenia identitaria. Al contrario, tutte le identità a cui abbiamo fatto riferimento interagiscono, si integrano e si completano tra loro. Ermanno Bencivenga, nel suo libro Oltre la tolleranza, discute a lungo di questi problemi, sostenendo la tesi della pluralità del soggetto, concepito come un dialogo costante alla ricerca di risposte che, anche se ricercate come definitive, si sa con certezza che non lo saranno. Riprendendo, ma anche criticando in parte la posizione di Hume che parla dell’io come di un teatro, Bencivenga parla di evento o di dramma in cui si disegnano esperienze e immagini diverse della situazione. Un teatro, (...) o un dramma, richiamano alla mente esperienze diverse, disegnano un’immagine diversa della situazione. In un teatro (o in un dramma) non si agitano suoni, colori e forme in libertà: si muovono personaggi, ciascuno portatore di una propria logica, ciascuno identico a se stesso. Nella maggior parte dei casi, o quanto meno nei casi interessanti, questi personaggi entrano in crisi, anzi per meglio dire si mettono reciprocamente in crisi (...) E crisi e conflitti costringono i personaggi a crescere, a svilupparsi, a cambiare sotto i nostri occhi. Ma si tratta di una crescita, di uno sviluppo di un cambiamento di quei personaggi; dopo tali processi siamo ancora in grado di riconoscerli, anzi siamo in grado di capire, se la cosa funziona, perché abbiamo dovuto cambiare in quel modo. C’è insomma una pluralità di strutture ciascuna coerente in se stessa. Il che dovrebbe valere anche per l’io, se l’io è concepito come un teatro. 8 Le «strategie identitarie» di Carmel Camilleri. Si deve a Camilleri e al gruppo di ricercatori riuniti attorno a lui la formulazione della teoria delle «strategie identitarie» che è particolarmente importante per gli studi interculturali. Questa teoria nasce dall’osservazione dei processi di acculturazione degli individui e dei gruppi, soprattutto in Francia e nei paesi decolonizzati. In Francia, gli studi sono stati condotti, in particolare, nelle comunità d’immigrati o di giovani di origine immigrata. L’idea fondamentale di questa teoria è che ogni soggetto agisce sulla sua identità per adattarla alle nuove situazioni dell’interazione, proprio come in un gioco di strategia. Per definire il concetto di «strategia identitaria» ci si può riferire ancora a Lipiansky, Taboada-Leonetti e Vasquez che di Camilleri furono collaboratori: Al di là delle differenze nate dalla diversità delle discipline rappresentate e delle storie personali, un certo consenso emerge sulla definizione operativa delle strategie identitarie come delle procedure messe in opera (in modo cosciente o incosciente) da un attore (individuale o collettivo) per raggiungere una, o delle finalità (definite esplicitamente o situate a livello dell’inconscio), procedure elaborate in funzione della situazione d’interazione, cioè in funzione delle differenti determinazioni (socio-storiche, culturali, psicologiche) di questa situazione. Le ricerche francesi di Camilleri sono state condotte soprattutto studiando le strategie identitarie delle comunità immigrate o di giovani di “seconda generazione” nati da famiglie immigrate. Queste ricerche possono essere lette in modo strettamente connesso alla situazione di tali giovani ma possono anche aiutarci, se interpretate in modo più ampio, a comprendere delle dinamiche del mondo giovanile che non sono necessariamente legate alla condizione d’immigrato o di figlio d’immigrati. Camilleri e i suoi collaboratori indicano una lunga serie di strategie identitarie, che, per brevità, riunisco sulla base degli obiettivi che esse perseguono: a) la “conformizzazione”: quando lo scarto tra l’attore e il suo ambiente è troppo grande l’individuo pone in opera dei comportamenti conformi alle attese; la contraddizione tra comportamenti esterni e opinioni interne può provocare delle forti tensioni psicologiche; b) l’”anonimato”: il ricorso all’anonimato è frequente nelle organizzazioni dove assumersi qualunque rischio può comportare delle conseguenze nefaste per gli attori; il punto estremo di questa strategia si può raggiungere con la deindividualizzazione; c) l’”assimilazione”: è il livello più alto nella ricerca della somiglianza, poiché gli attori cercano di far ammettere la loro appartenenza alla comunità e, ancor più, di evitare che essa possa essere rimessa in causa. L’assimilazione comporta l’oblio della storia e della cultura degli attori, provoca spesso lo sradicamento, ma storicamente ha permesso a numerose minoranze di sfuggire alla discriminazione. Tali strategie sono valorizzate dal potere, poiché i conflitti sono risolti a vantaggio dell’ordine dominante: Tuttavia, nel momento in cui gli individui o i gruppi non arrivano a raggiungere tali finalità o pensano che la loro esistenza come attori sociali sia messa in causa, le strategie cambiano e si volgono piuttosto verso: a) la “differenziazione”, cioè la rivendicazione di un posto specifico, uno spostamento verso delle nuove condotte e situazioni di vita. È una strategia assai difficile per i giovani immigrati che si trovano così coinvolti in una strategia di differenziazione 9 duplice, una verso la cultura d’insediamento e una verso i membri della loro cultura d’origine; b) la “visibilità sociale”, dove gli attori che ne hanno la possibilità tentano di far riconoscere il loro valore e di ricevere un riconoscimento sociale. Questa visibilità è subordinata all’accettazione della diversità; c) la “singolarizzazione” (o individualizzazione) è il meccanismo estremo della differenziazione, riservato a dei privilegiati che sono accettati dalla cultura dominante poiché appartengono a un’altra cultura ma sono degli artisti, degli intellettuali o hanno, in ogni caso, uno statuto sociale elevato. Questa strategia è pericolosa per la maggior parte delle persone e anche per tali individui privilegiati poiché la cultura dominante può reprimere in ogni momento i comportamenti non conformi alle sue norme e alle sue tradizioni. 10 Lavorare con mentalità orale È evidente che nella cultura musicale colta occidentale, la scrittura esercita un’egemonia indiscussa, che si estende anche sull’educazione musicale e sulle pratiche discorsive intorno alla musica. Spesso, il sapere musicale di una persona è considerato proporzionale alla sua capacità di decifrare una partitura, ed e corrente sentire frasi come “non sono niente di musica, non so nemmeno leggere le note sul pentagramma…”. Come accade in tutti i processi di produzione in cui viene introdotta una tecnologia, l’affermazione della musica scritta (che è una tecnologia) è accompagnata da un’ideologia. In questo caso, l’ideologia sostiene la superiorità, se non l’esclusività, della musica scritta come musica “d’arte” e la sottovalutazione delle culture orali. Dal punto di vista dell’insegnamento musical, questa concezione è alla base di metodi basati esclusivamente sulla scrittura sul pentagramma. I risultati sono ben noti: sviluppo inadeguato dell’orecchio musicale, incapacità di improvvisare, separazione mente/corpo, difficoltà a confrontarsi con le musiche e le pratiche orali. In effetti, tra oralità e scrittura non esiste un’opposizione totale, e spesso, le due pratiche trovano dei momenti di continuità e d’integrazione. Roberto Leydi ha osservato che se noi ascoltiamo oggi il Miserere di Allegri non riusciamo a capire le ragioni che portavano migliaia di ascoltatori di tutta Europa nella Cappella Sistina. Egli nota che in realtà si tratta di un’opera che, leggendone la partitura, non merita tanta attenzione. Eppure, secondo le testimonianze di chi aveva assistito alla sua esecuzione, l’entusiasmo degli ascoltatori era dettato da un’interpretazione particolarmente elaborata dell’opera, che i cantori si trasmettevano oralmente. La presenza dell’oralità nella scrittura riguarda anche le musiche del XIX secolo, periodo che normalmente è ritenuto esemplare del dominio della scrittura prescrittiva nella musica occidentale di tradizione colta. Tale oralità è costituita dai commenti e dalle indicazioni orali che vengono scambiate tra i musicisti o che vengono trasmesse dagli insegnanti agli allievi su come eseguire determinati brani scritti, ma anche dalla pratica di ascoltare interpreti o incisioni prestigiose per carpirne i punti di forza al di là della lettura della partitura. A partire dal ventesimo secolo, anche nella musica “colta” europea si sono riproposte situazioni di notazione che lasciano più spazio all’esecutore. Inoltre esiste spesso un aspetto scritto nelle musiche di tradizione orale. Il jazz è una di queste tradizioni, ma ciò non impedisce che si trovino in commercio le partiture di standard. Questo anche se nessun musicista si limita a suonare uno standard senza aggiungere variazioni e improvvisazioni, senza delle quali un’esecuzione jazz non avrebbe senso. Una situazione che si ripete nel mondo della musica pop. Un’altra situazione, più particolare, si verifica nel mondo asiatico, dove la trasmissione delle musiche è orale ma ciò non contrasta con l’esistenza di forme di notazione che aiutano la memoria del musicista o dell’allievo, quando si è in un contesto pedagogico. Quando si considera lo sviluppo del giovane musicista in varie culture del mondo, sono pertinenti i seguenti principi: apprendimento orale (inclusa l’imitazione); improvvisazione (come manifestazione del pensiero creativo in musica); la presenza, l’impiego parziale o l’assenza di notazione e le strategie di esercitazione come la vocalizzazione, la solmisazione e la memorizzazione. Tutti questi principi, comunemente riscontrabili oggi in una quantità di tradizioni del mondo –ma praticati anche nella storia– sono pertinenti all’insegnamento e all’apprendimento nelle classi e nei laboratori. (Campbell). 11 L’apprendimento formale e informale Un tema di ricerca che si è diffuso in Europa in anni ancora recenti riguarda la relazione tra apprendimento formale e informale. Questo tema, che è decisivo per capire il modo in cui i giovani imparano la musica, si riconnette anche alla questione della loro identità musicale. In realtà, anche se per molti allievi la musica colta è la “musica della scuola” e anche se essi preferiscono, nelle loro attività spontanee, ascoltare e suonare musica pop, la questione sembra più articolata e ricca di sfumature, più legata ai contesti, alle pratiche, agli atteggiamenti verso la musica e alle diverse relazioni con i pari e con gli adulti. Börje Stålhammar, che ha condotto una ricerca comparativa tra le abitudini degli adolescenti svedesi e inglesi sostiene: Sia i giovani inglesi che svedesi descrivevano il loro atteggiamento verso e in relazione alla musica classica in tre modi principali. Primo, la musica classica è riferita alla scuola e al controllo degli adulti Questo è particolarmente evidente per i giovani inglesi. Inoltre, si dava importanza alle qualità estetiche e culturali della musica classica che deve pertanto essere inclusa nell’insegnamento della musica. Infine i giovani facevano notare che la musica classica è talvolta parte dei loro ascolti, in particolare quando vogliono sentirsi calmi e rilassati. Perciò essi non parlavano della musica classica semplicemente in termini di valutazione obiettiva, ma la associavano con il tempo libero, la loro libera scelta e il benessere. La classificazione delle loro preferenze musicali non è soltanto una questione di generi musicali ma anche una questione di disposizione, contesto e ambiente Secondo Stålhammar, quindi, la questione principale non verte sui gusti o su quali siano le musiche preferite dai giovani, ma sui contesti e sull’uso della musica, se è vero che essi possono accettare o rifiutare la musica classica secondo i contesti, le motivazioni e le modalità d’ascolto proposte. La differenza tra la musica di “casa e scuola” è senza dubbio importante: un’altra idea significativa è quella del “terzo ambiente” che esiste fuori dalla scuola e dalla casa. Ciò si riferisce ai contesti in cui l’apprendimento musicale ha luogo in assenza di genitori o di insegnanti. Potrebbe essere collocato in luoghi come garage, circoli giovanili o luoghi pubblici; ma può essere anche la camera da letto di qualcuno, o persino una classe scolastica, se non vi si svolge un’attività formale o non è implicata la supervisione di un adulto La vera differenza non sarebbe quindi soltanto relativa al luogo in cui si fa musica ma soprattutto alla presenza di un adulto che conduce delle attività di educazione formale. Il contesto del far musica – scuola, casa o “terzo ambiente” – può determinare la sua autenticità per i giovani; il livello di autonomia e di controllo che essi esercitano e, in misura minore, il genere e lo stile che predominano in tale contesto sono due fattori chiave strettamente associati a tale contesto. (Hargreaves e Marshall). Le differenze tra l’apprendimento formale e informale sono quindi di varia complessa natura.. Ciò che differenzia i due tipi di apprendimento è una quantità di fattori relativi ai luoghi e ai contesti ma soprattutto il fatto che nell’apprendimento formale le decisioni, la guida e il metodo dell’esperienza sono nelle mani di un adulto, mentre nell’informale prevale il rapporto orizzontale tra pari, lo scambio di informazioni, di suggerimenti e di competenze. Gli obiettivi sono definiti strada facendo, mentre si lavora. Un altro aspetto dell’apprendimento informale che lo qualifica come esperienza “autentica” è il forte legame tra la motivazione verso l’obiettivo da raggiungere e il tirocinio tecnico. Nell’apprendimento informale l’obiettivo è sempre evidente poiché, nella maggior parte dei casi, si tratta di imparare a suonare una canzone conosciuta e apprezzata o di 12 realizzare un progetto pensato in comune. L’esercizio tecnico, talvolta indispensabile, per apprendere i passaggi adatti a suonare la canzone o realizzare il progetto è motivato dall’evidenza dei risultati da conseguire. Inoltre, questo lavoro è spesso condiviso da dei pari o guidato da un compagno più esperto, senza la presenza e soprattutto la valutazione di un adulto. Infine, se un ragazzo arriva a suonare una musica conosciuta e condivisa nel suo gruppo, consegue una gratificazione immediata e un aumento del suo prestigio. Il percorso è di conseguenza diverso da quanto si verifica in molte situazioni scolastiche, dove l’ottenimento dei risultati è differito nel tempo e non ha come conseguenza che un possibile voto positivo. La situazione paritaria di apprendimento, caratterizzata dallo scambio cooperativo e dall’interazione delle esperienze e l’evidenza dell’obiettivo da raggiungere sono quindi due elementi fondamentali della differenza tra apprendimento informale e formale. Si tratta quindi di comprendere che i processi di apprendimento e d’insegnamento non sono sovrapponibili. Negli ultimi anni, un contributo significativo al dibattito sull’apprendimento informale è stato sviluppato dal progetto Musical Futures, che nel suo sito documenta attività realizzate e formula proposte pedagogiche. Proprio i promotori di questo progetto riassumono in questo modo i punti fondamentali delle pratiche di apprendimento informale: 12345- si apprende la musica che gli studenti scelgono, amano e con cui si identificano; si apprende ascoltando e imitando registrazioni; si apprende tra amici; si integrano abilità e conoscenze in modo personale; si tiene una stretta integrazione tra ascolto, esecuzione, improvvisazione e composizione. 6- Gli insegnanti seguono a distanza, osservano, analizzano, guidano, suggeriscono, formano e aiutano gli studenti a raggiungere gli obiettivi che essi stabiliscono per se stessi. 13 Indicazioni bibliografiche relative ai materiali: Abdallah-Pretceille Martine, Porcher Louis, (1986): Education et communication interculturelle, Parigi , P.U.F. Blacking John, (1973): How Musical is Man? Seattle, University of Washington Press, trad. italiana di Domenico Cacciapaglia : Come è musicale l’uomo? , Milano, Ricordi Unicopli, 1986. 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