Capre, tonnare
e mari tropicali
di Franco Maria Puddu
“C
La storia, la solitudine,
la gastronomia
e le bellezze della
natura compongono
un quadro unico
al mondo;
le isole Egadi
’è qui un cieco dalla fronte / grande e
bianca come una nuvola.
/ E tutti noi suonatori, /
dal più grande al più umile, / scrittori di musica e
narratori di storie, / sediamo ai suoi piedi / e lo
ascoltiamo cantare della
caduta di Troia.”. Così fa
dire Edgar Lee Masters
all’epitaffio scolpito sulla lapide del suonatore
Jack, nella sua “Antologia di Spoon River”.
A ben pensarci, fu proprio Omero il primo sponsor
del piccolo arcipelago delle Egadi, posto ad ovest
della Sicilia, a una manciata di miglia dalla costiera che va da Trapani a Marsala, quando ebbe a parlarne nell’Odissea, il poema epico noto ovunque
nel mondo che, assieme all’Iliade, è considerato
un testo fondamentale della cultura classica occidentale, per la precisione con l’episodio che vede
lo scaltro Re di Itaca, Ulisse, beffarsi del malaccorto ciclope Polifemo e sfuggirgli, assieme ai suoi
compagni superstiti, accecandolo.
Il gruppetto di isole era noto ai greci come Aegatae,
ossia isole delle capre, nome che venne poi adottato dai romani sotto la forma di Aegates. Sin da allora, nessuno le considerò mai un territorio particolarmente ricco o dotato; consisteva, infatti, di tre
piccole isole (oggi Favignana, Levanzo e Marettimo), un isolotto (Formica), le isolette dello Stagno-
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ne, che sorgono dall’omonima laguna posta
sottocosta poco al di sopra di Trapani, che geograficamente fanno parte delle Egadi, e sono
Isola Grande, San Pantaleo (anticamente Mozia), Santa Maria e La
Schola, tutte praticamente disabitate; infine
Galera, Galeotta e Fariglione, niente altro che
tre brulli scogli.
Il tutto per una superficie di appena 37,45
km², sulla quale, ai nostri giorni, risiedono piccole
comunità per un totale, più o meno, di 4.300 abitanti. È vero che nel periodo delle vacanze estive
questa cifra cresce a dismisura, ma sta di fatto che
per vivere stabilmente in queste località, raggiungibili solo via mare e che per questo soffrono di
tutti i non pochi disagi propri delle isole, specie se
piccole, bisogna avere una forte motivazione, un
grande attaccamento alla propria terra e tanto
amore per la natura. Altrimenti non è facile adattarsi a determinate condizioni.
Vacanzieri che ignorano i mari
italiani
Molti italiani si ricordano solo di tanto in tanto di
appartenere ad un “popolo di navigatori”, e hanno il discutibile vezzo di dichiararsi grandi amanti
del mare solo quando parlano di quello delle Mal-
Olio su tela del 1874 del pittore accademico francese William-Adolphe Bouguereau (1825-1905)
raffigurante “Omero e la sua guida”; in apertura,
lo stemma del Comune di Favignana
dive, delle Seychelles, di Sharm el
Sheick, di ovunque si trovino splendidi resort, strutture di primo livello e situazioni logistiche che rasentano il
lusso e non di rado la pacchianeria,
snobbando bellamente le mille splendide località del nostro Paese, raggiungibili spesso con modeste cifre e tempi
contenuti, dove si possono trovare natura incontaminata, mari cristallini,
candidi arenili e fondali da favola, belli almeno quanto quelli vantati, in giro per il mondo, dai depliant delle più
rinomate agenzie di viaggio.
In questi ultimi anni, purtroppo siamo
costretti a dire paradossalmente, perché il fenomeno è dovuto non ad un
rinsavimento delle menti, ma alla crisi
che stringe nelle sue spire l’economia
del nostro Paese, la situazione sta parzialmente cambiando in quanto il popolo dei vacanzieri è costretto a rivedere i propri programmi, divenuti economicamente non più sostenibili.
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Una cartina raffigurante le isole Egadi e la loro posizione rispetto all’Italia
(riquadro 1, mentre il riquadro 2 mostra la posizione di quelle, minori,
dello Stagnone
L’apparenza, però, spesso inganna, e bisognerà vedere se all’indomani dell’auspicabile (ma ancora abbastanza problematico) allontanarsi della crisi, l’esperienza riuscirà a
renderci più oculati, o se tutti i buoni propositi di tornare ad interessarci delle bellezze del nostro Paese non sfumeranno come
la nebbia al primo sole. In questo, i soci
LNI, che con il loro attaccamento all’Associazione dimostrano di avere veramente il
mare nel proprio DNA, sia che risiedano a
Palermo che a Bolzano, sono un esempio
incoraggiante. Ma torniamo adesso a parlare delle Egadi.
Come abbiamo visto, erano note ai greci e
ai romani, anche se in alcune di esse sono
emerse numerose tracce di insediamenti risalenti al paleolitico superiore. A Levanzo,
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Una parete di quella che oggi viene chiamata la Grotta del Genovese, a Levanzo, sulla quale un antico e ignoto artista ha rappresentato,
non sappiamo a quale fine, le immagini della sua quotidianità, fra le quali si distinguono perfettamente elementi antropomorfi e pesci
ad esempio, nella cosiddetta Grotta del Genovese,
si trova il complesso di graffiti e figure parietali
più importante d’Italia e probabilmente d’Europa,
con raffigurazioni di cervi, buoi, individui maschili e femminili e fauna marittima fra la quale, chiarissimi, tonni e delfini.
Mozia, invece, (oggi San Pantaleo), fu un tempo
insediamento fenicio, poi greco, quindi cartaginese fino alla battaglia delle Egadi del 241 a.C., con
la quale la flotta romana, comandata dal console
Gaio Lutezio Catulo, sconfisse quella cartaginese
e pose termine alla Prima Guerra Punica. Con essa, il dominio romano si estese a tutta la Sicilia,
tranne Siracusa, e Mozia fu praticamente abbandonata.
A Favignana (Cala San Nicola) e a Levanzo (Cala
Minnola), si trovano invece i resti di due impianti
per la lavorazione del pescato e la fabbricazione del
garum, salsa di pesce particolarmente gradita ai romani, che operarono dal II – III secolo a C a circa il
II d C, segno della continuità fino ai giorni nostri
di queste attività da parte dei residenti locali.
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45.000 onze e due vite
Con la caduta dell’Impero Romano, l’arcipelago
cadde in mano dei vandali, poi dei goti, infine dei
saraceni. Nel 1081 venne occupato e fortificato dai
normanni di Ruggero di Altavilla (rimane, a Favignana, il suggestivo castello di Santa Caterina, purtroppo successivamente rimaneggiato e trasformato in forte) e a Marettimo quello, coevo, di Punta
Troia, e da quel momento seguì le sorti della Sicilia,
fino al XVII secolo quando, dominio spagnolo, nel
1637 venne venduto dalla Corona di Madrid (che
si era enormemente indebitata per combattere la
Guerra dei Trent’Anni), alla ricca famiglia genovese
Pallavicini Rusconi, per un periodo di tempo di
due vite e al costo di 45.000 onze d’oro.
Premesso che l’onza (oncia) in questione era d’oro
e pesava 4,4 grammi, era molto pregiata e quotata
sui mercati dell’epoca e rappresentava quindi un
grosso capitale, sembra invece piuttosto curiosa la
durata di “due vite” del contratto, ma tant’è.
Nel 1638 I Pallavicini Rusconi cedono i diritti da
loro acquisiti sulle isole, dandoli in gabella (in pra-
tica una sorta di affitto) al savonese Giacomo Brignone che ottiene (con un soprassoldo di altre
30.000 onze) anche la “licentia populandi”, ossia il
permesso di popolarle.
Infatti, con lungimiranza, Brignone aveva pensato
di utilizzare le due tonnare già esistenti in loco per
impiegarvi gli abitanti di insediamenti locali e stabili realizzati ad hoc, e non arruolando equipaggi e
tonnaroti e procurandosi i mezzi necessari ora qua
ora là, come era stato fatto fino a quel momento;
inoltre aveva deciso di dedicare Levanzo al vino,
facendovi impiantare ben 90.000 ceppi di vite.
Lo sviluppo dei suoi progetti fu inizialmente piuttosto lento, ma già nella prima metà del ‘700 si
erano trasferite sulle isole circa 2.000 persone e
molte decine di appezzamenti di terra erano stati
concessi in enfiteusi, fino a quando decenni dopo,
nel 1874, Ignazio Florio junior, nipote di Vincenzo Florio che aveva dato il via alla dinastia di questa grande e facoltosa famiglia di industriali, non
rilevò, a sua volta, l’arcipelago. Stava per iniziare
l’epoca d’oro di queste isole.
L’epoca d’oro delle Egadi
Per prima cosa, Florio fece ammodernare le tonnare e realizzare uno stabilimento per la lavorazione e l’inscatolamento del tonno decisamente
all’avanguardia per quei tempi, sviluppato su
un’area di 32.000 metri quadrati, tre quarti dei
quali coperti; si trattò probabilmente della più
grande azienda del genere nell’area dell’intero
Mediterraneo.
Ai giorni nostri, nei quali ci concediamo a iosa di
tutto, spesso il superfluo e non di rado anche l’inutile, pochi riescono a capire l’importanza che
poteva avere, allora, uno stabilimento del genere;
in realtà rappresentava un enorme ritorno di valuta per le Egadi, la Sicilia e l’intera Italia.
Allora lo scatolame, anche se aveva visto la luce in
Francia nel 1810, nel periodo napoleonico, praticamente non esisteva in commercio. Rari e stravaganti ristoratori inscatolavano funghi, asparagi,
uova di quaglia, piccioni, tartufi con mezzi del
tutto artigianali, destinandoli ai gourmet che se li
potevano permettere a prezzi altissimi.
Il forte di Santa Caterina, a Favignana, nato come torre di avvistamento saracena, sulla quale i normanni edificarono un castello che,
secoli dopo, venne trasformato in forte e utilizzato anche come prigione militare dai Borboni
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“La tonnara di Favignana”, dipinto del 1876 di Antonio Varni, un pittore genovese fortemente influenzato dalla scuola dei macchiaioli, che raffigura lo Stabilimento Florio durante i suoi primi anni di esistenza
La carne in scatola era utilizzata solo dai militari e
dai marinai; oltretutto, la brava massaia anche se
l’avesse trovata dal droghiere, non l’avrebbe sicuramente acquistata per via di mille pregiudizi, non
ultimo quello che avrebbe fatto apparire suo marito come un uomo (a quei tempi era l’uomo che lavorava) che non si poteva permettere neanche di
rado di comprare carne fresca per la sua famiglia.
La limpidezza delle acque di Cala Rossa, a Favignana, non ha assolutamente niente da invidiare a quella di qualsiasi altro, e più celebrato, mare
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Il grande Stabilimento Florio oggi, dopo la sua trasformazione della antica struttura, ancora integra ed esistente, in un enorme ed affascinante Museo del Mare
Ma con il tonno la cosa era diversa, era un alimento
mediterraneo e familiare agli italiani, come le acciughe pescate e messe sotto sale dai Malavoglia del
Verga, consumato da tutti e che non incontrava
dubbi, pregiudizi e ostilità, né in Italia né all’estero.
E poi il tonno, soprannominato “il maiale del mare” perché non ha scarti e di esso non si butta
niente salvo la testa, la coda e la pelle, ci dà la ventresca, i filetti, la bottarga, il mosciame, il lattume,
il cuore, la buzzonaglia (un filetto molto buono
anche se meno pregiato), è gustoso e nutrientissimo, si può essiccare, marinare, mettere sotto sale o
sott’olio, conservare o mangiare immediatamente,
cuocendolo in mille modi.
Una presenza questa che ha condizionato da secoli
la cucina locale orientandola verso piatti, non solo
di tonno, beninteso, ma essenzialmente di mare,
sorprendentemente succulenti pur nella loro es-
senziale semplicità. Del resto, in questo campo,
gioca soprattutto l’eccellenza delle materie prime.
Tornando comunque al risultato della catena di lavorazione del tonno, questa consentiva al raìs, il
capo dei pescatori e duce indiscusso su tutto il sistema di reti della tonnara, ai tonnaroti, alle maestranze che mantenevano la piccola flotta da pesca, a chi curava le reti, ai maestri d’ascia, ai calafati, agli operai dello stabilimento e agli operatori di
molti altri indotti ancora fino al droghiere che
nelle città lo serviva al cliente estraendolo a pezzi
dalle grandi latte commerciali da 5 o 10 chili dove
era conservato sott’olio, di vivere agiatamente.
Ci è rimasta, in ricordo di quegli anni, una lapide
murata sulla parete della tonnara di Favignana che
recita: “Al 1859 / anno ultimo / gabella Florio / la
tonnara Favignana / pescò 10.159 tonni / Amministratore A. Ribaldo / Raìs A. Casubolo”.
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Se le acque di Favignana sono cristalline, cosa dire di quelle del porto di Levanzo che, come tutti i porti, ovunque, anche se piccoli e
destinati essenzialmente ad un impiego peschereccio, non godono certo di fama di grande pulizia
Seguendo le vicende umane la tonnara passerà da
quelle dei Florio in altre mani, poi negli Anni 30
del 900 all’IRI, infine, nel 1991, alla Regione Sicilia. Ma i tempi erano cambiati, i tonni erano stati
decimati, il mare non era più quello del ’700, le
leggi sulla pesca si erano fatte più restrittive e quest’ultima diveniva sempre meno redditizia anche
per la spietata concorrenza portata dai pescherecci
oceanici in caccia ovunque nel mondo, e venne
deciso di trasformare lo storico Stabilimento Florio in un enorme ed affascinante Museo del Mare
che ha aperto i battenti nel 2010.
Il Museo del Mare e l’AMP
Ma le Egadi non sono solo storia antica o, nonostante la fondamentale importanza che abbia rivestito, la saga di un grande stabilimento e delle
famiglie che lo hanno gestito. È difficile definirle
con pochi termini, ma di una cosa siamo certi: le
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Egadi non sono nel mare, ma sono il mare, la sua
essenza e vivono di esso, con esso e per esso.
Basta visitarne le spiagge di mille tipi, sabbiose,
rocciose, o i suoi fondali ricoperti da un liquido a
volte color turchese, a volte quasi invisibile nella
sua trasparenza cristallina, a volte cangiante in
smeraldo. Che però quando di inverno perde la
pazienza, diventa grigio come l’acciaio, duro come
la ghisa e si cela alla vista con il candido aerosol
delle creste delle onde nebulizzate.
Ma anche questo è il mare e anche da questo le
isole, come i loro abitanti, hanno mutuato molti
aspetti della loro fisionomia che si rispecchia anche nelle feste popolari religiose fortemente sentite e nelle sagre, che costellano il periodo che va da
marzo a ottobre e che vengono celebrate in tutte e
tre le isole maggiori.
Senza contare poi che dal 1991 Favignana, Levanzo, Marettimo, Maraone e Formica costituiscono
La stessa cosa possiamo
dire senza tema di smentita, le immagini lo confermano, del porto di
Marettimo
l’Area Marina Protetta (AMP) delle
Isole Egadi, attualmente la più vasta
in Europa, dalle acque pure e dai fondali variegati dai
mille colori delle
posidonie, del corallo, delle attinie,
delle madrepore, fra
il luccichio e il balenare di una fauna
ricchissima, policroma e anch’essa
magnifica.
Naturalmente, per ottenere questo risultato, è necessario organizzare una ben precisa sorveglianza
delle quattro aree (A, B, C e D) nelle quali la AMP
è suddivisa in maniera mirata. Nel settore A, infatti, è consentita solo la balneazione, nel B (solo in
compagnia di residenti autorizzati) la navigazione
e le immersioni, nel C (solo dietro autorizzazione della AMP) la balneazione e le
immersioni, nel D, infine, balneazione,
pesca professionale e sportiva, immersioni e snorkeling.
Anche in questo, la Lega Navale Italiana
fornisce il suo contributo per le attività di
sorveglianza e di monitoraggio, alle quali
periodicamente prendono parte i soci delle piccola ma attivissima Delegazione di
Favignana, inaugurata nel 2006, nella
suggestiva Sede posta all’interno del vecchio faro di Punta Marsala, costruito nel
1836 dal Genio Civile borbonico che, dopo aver lanciato i suoi segnali luminosi
con fanali a petrolio, a carburo e, dal
1936, elettrici, è ancora attivo anche se
oramai senza fanalista, in quanto totalmente automatizzato.
La vecchia costruzione domina dall’alto le
incantevoli acque di Cala Azzurra, la
spiaggia sabbiosa forse più conosciuta di
questa isola, caratterizzata da un’acqua
cristallina con un fondale color bianco
Il vecchio, ma ancora funzionante, faro di Punta Marsala, a Favignana, nel
dai riflessi rosa. Proprio come nei mari
cui interno ha trovato posto la sede della piccola ma attivissima Delegaziotropicali…
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ne LNI dell’isola
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