AMORE E RICONOSCIMENTO: LA VIOLENZA MASCHILE

AMORE E RICONOSCIMENTO: LA VIOLENZA MASCHILE
E IL SENSO DELLE NOSTRE RELAZIONI
maggio-giugno 2006
Marco Deriu
Sempre più spesso, guardando la televisione e leggendo il giornale, riceviamo notizie
di violenze terribili sulle donne che ci turbano e ci sconvolgono, ma ai quali non
riusciamo ad attribuire un reale significato e che generano dunque reazioni e
commenti inadeguati. Occorre sottrarre questi eventi – che entrano spesso nel mondo
della comunicazione mass-mediatica con un misto di voyerismo, morbosità e volgarità
– alla dimensione della cronaca nera e dell’informazione spettacolo per trovare le
risorse sociali e culturali per rielaborare il dolore e per trarne qualche insegnamento
per tutta la collettività.
Questi ultimi mesi sono stati davvero impressionanti. Mi riferisco in primo luogo alla
tristissima vicenda di Jennifer, la ragazza ventenne di Olmo di Martellago picchiata e
uccisa incinta dall’ex amante trentaquattrenne Lucio Niero. Ma ricordo anche altre
vicende recenti. Sempre in maggio abbiamo saputo prima dell’uccisione a Les Crosets
dell’ex campionessa di sci Corinne Rey-Bellet (insieme al fratello e al ferimento della
madre), anche lei incinta di tre mesi, da parte dell’ex marito banchiere Gerold Stadler
da cui si era separata da una decina di giorni (e che si è poi ucciso a sua volta). Poi
c’è stato il caso di Genova dove sempre agli inizi di maggio una donna di 36 anni,
Luciana Biggi, è stata assassinata nei vicoli del centro storico di Genova, forse dall’ex
fidanzato di 30 anni. Sempre nei primi giorni di maggio era stata ritrovato, vicino ad
un distributore di benzina a sud di Roma, il cadavere decapitato di Patrizia Silvestri di
49 anni. Anche in questo caso l’assassino sembra essere l’ex compagno, un
camionista di 30 anni che aveva lasciato due mesi prima.
Negli ultimi anni si è registrata una catena di omicidi riguardanti donne. In alcuni
casi sono semplicemente mariti che uccidono mogli e compagne per liti di qualsiasi
genere. Ad Ancona nell’aprile 2006 un poliziotto di 44 anni uccide con una pistola la
moglie di 39; a Santi Cosma e Damiano (Latina) nel febbraio 2006 un uomo di 54 anni
uccide la moglie e il figlio con un fucile dopo una lite; a Roma nel dicembre 2005 un
uomo di 67 anni uccide (decapita) la moglie di 50 anni ed il figlio disabile; a Settimo
Torinese nel dicembre 2005 un uomo di 39 anni uccide la moglie di 34 a martellate
mentre dormiva; a Spregiano (Treviso) in dicembre 2005 un uomo di 65 anni ha
ucciso la moglie di 62 a colpi di bottiglia; a Mestre nel novembre 2005 un carabiniere
uccide con due colpi alla testa la moglie di 34 anni; a Milano nel luglio 2005 (un uomo
di 54 anni uccide a colpi di martello la moglie di 45.
Al di là della cronaca: una nuova questione maschile
Al di là della cronaca ci sono due dati che val la pena ricordare. Innanzitutto c’è
l’indagine del Consiglio d’Europa resa pubblica nell’ottobre 2005 che ha rivelato che la
violenza subita da partner, marito, fidanzato o padre è la prima causa di morte e
invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni (prima di tumori o di guerra)
non solo nel mondo ma anche in Europa.
In secondo luogo si può sottolineare che secondo quanto emerge nel rapporto “Lo
Stato della Sicurezza in Italia” del 2005, mentre i dati relativi agli omicidi in Italia tra il
luglio 2001 e il giugno 2005 registrano in termini generali una diminuzione rispetto al
quadriennio precedente, al contrario gli omicidi commessi nell’ambito famigliare – pari
a circa il 32% dei delitti dell’ultimo quadriennio – sono letteralmente raddoppiati (nel
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2004 tuttavia c’è stata una leggera flessione rispetto al 2003). Stiamo parlando
dunque di un fenomeno attuale e non di un semplice residuo del passato.
A questo fatto si può aggiungere una specifica ulteriore che mette in luce un
aspetto di chiara novità. In molti casi dietro questi omicidi contro donne c’è di mezzo
anche l’esperienza della separazione, del rifiuto, della scelta della ex compagna di
costruirsi un’altra vita. Oltre ai casi degli ultimi mesi che abbiamo già citato si possono
ricordare ancora alcuni episodi: a Modena nel dicembre 2005 una ragazza di 19 anni
viene uccisa a coltellate dal fidanzato con il quale aveva deciso di troncare il rapporto;
a Chiasso (Torino) sempre nel novembre 2005 un uomo di 39 anni uccide l’ex moglie
di 38 anni con una pistola davanti alla figlioletta; a Caiò di Cancello (Verona) un uomo
di 34 uccide strangola l’ex convivente di 32 anni e le dà fuoco nella macchina; a
Valeggio sul Mincio nell’ottobre 2005 un uomo di 37 anni uccide di botte una donna di
25 anni sua ex convivente; a Torino un uomo di 31 uccide a coltellate la sua ex
fidanzata di 20 anni, entrambi marocchini; in settembre una donna ecuadoriana di 33
anni a Cinisello Balsamo e una di 40 anni a Treviso vengono uccise dei loro compagni.
In entrambi i casi le donne erano sul punto di porre termine alla relazione. E l’elenco
potrebbe continuare. Si tratta di alcuni casi fra quelli riportati nei quotidiani. Ma
possiamo anche prendere in considerazione le poche indagini sistematiche compiute a
questo riguardo per avere qualche elemento in più.
Nella ricerca svolta qualche anno fa dal Centro documentazione dell’Eurispes in
collaborazione con l’Associazione Ex sono stati proposti una seri di dati relativi ad
omicidi familiari/parentali e “di coppia” (compagni o ex compagni), accaduti tra
gennaio e dicembre 2003. I dati del 2003 registrano 157 omicidi di cui 101 omicidi di
coppia (111 secondo i dati EURES). Fra questi ultimi gli autori erano in 87 casi uomini
e in 14 casi donne. Un particolare che si può cogliere è che mentre gli omicidi da parte
di donne riguardavano solo relazioni in corso (7 tra coniugi, 4 tra conviventi, 3 tra
amanti o fidanzati) e nessun ex compagno o rivale, viceversa gli omicidi da parte di
uomini oltre a relazioni in corso (59 casi) riguardavano in ben 24 casi ex compagne
(mogli, conviventi o amanti) e in 4 casi rivali. In 37 episodi si tratta di situazioni in cui
gli uomini non accettano la separazione attuata o imminente.
Nella ricerca “L’omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005” curata dall’EURES in
collaborazione con l’ANSA i dati diversamente aggregati (dunque non completamente
paragonabili) registravano nel 2004 187 delitti maturati in “ambito domestico” ovvero
di coppia o tra familiari. In sostanza in Italia c’è un omicidio “in famiglia” ogni due
giorni. Gli omicidi “di coppia” sono invece 100. Fra questi gli uomini sono in 85 casi
autori e in 17 casi vittime mentre le donne sono in 15 casi autrici e in 83 casi vittime.
Si può notare inoltre che gli uomini hanno ucciso 17 ex partner (contro i 3 casi di
donne) e in 1 caso la donna desiderata. Uomini sono anche gli autori dei 12 episodi (in
questa ricerca sono conteggiati fuori dai 100 omicidi di coppia) in cui le vittime sono
stati i rivali (maschi). Secondo questa ricerca gli episodi in cui il partner uccide chi lo
sta abbandonando sono addirittura 59 (il dato è aggregato e non distingue tra uomini
e donne).
Soltanto qualche mese fa il quotidiano Liberazione aveva aperto un importante
dibattito sulla violenza maschile contro le donne. La discussione su Liberazione, nella
quale sono intervenuti per la prima volta anche molti uomini, ha avuto un grande
merito, quello di spostare il fuoco dell’attenzione dalle vittime agli aggressori, nella
stragrande maggioranza dei casi uomini. In effetti nelle cronache quotidiane
curiosamente non si approfondisce mai cosa questi casi ci dicono dello stato delle
relazioni tra uomini e donne, si preferisce parlare di queste vicende come se si
trattasse ogni volta di casi isolati dovuti al comportamento di individui malati o
alterati. Finché si può proiettare il male su qualcun altro evitiamo di interrogare anche
noi stessi e le nostre relazioni.
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Nelle cronache quotidiane infatti nessuno si è azzardato finora a sottolineare che
siamo di fronte ad una nuova e irrimandabile “questione maschile” che rimane in
verità ancora da comprendere. Una questione che non può essere affidata
semplicemente ad aule giudiziarie o a divisioni psichiatriche, ma che interroga la
società nel suo complesso e gli uomini in particolare. Dunque si può avanzare qualche
ipotesi in proposito.
Violenze post-patriarcali?
Nell’analisi di questa violenza dobbiamo anche evitare di rifugiarci in semplificazioni
automatiche, come se si trattasse di forme già conosciute, di residui di mentalità
passate, di antichi retaggi. È vero che nella cultura patriarcale le violenze verso le
donne ci sono sempre state. Ma questa violenza non sembra essere il risultato di
uomini che ritengono le donne inferiori, qualcosa da sottomettere, come poteva
essere in passato. Stiamo parlando di violenze commesse da persone di ogni strato
sociale, acculturate e con titoli di studio. Del resto altrimenti non si capirebbe perché
questo problema riguarda molti paesi europei dalla Spagna all’Italia, dalla Svizzera
alla Svezia e non solo paesi poveri o periferie degradate delle nostre metropoli. Né
d’altra parte si capirebbe perché la maggior parte degli omicidi domestici avviene nel
Nord Italia e in particolare in Lombardia, ovvero in regioni ricche e avanzate. Dunque
non è una violenza dovuta all’emarginazione o all’ignoranza di esseri diversi ed alieni
che ancora nel XXI secolo a Milano, a Roma, a Torino, come a Madrid, Barcellona,
Helsinki e a Stoccolma, guardano alla donna come essere inferiore.
Io credo invece che stiamo assistendo ad una trasformazione delle forme e dei
significati di questa violenza che ci parla anche del cambiamento nella vita delle
donne, degli uomini e delle relazioni tra uomini e donne.
Oggi siamo in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo inglese
Anthony Giddens chiama “relazioni pure”. Per relazioni pure si intendono relazioni non
dettate da obblighi sociali o economici (o almeno non come in passato). Grazie ai
cambiamenti culturali e ad una maggiore autonomia economica e sociale, le relazioni
oggi si fondano sempre più sulla comunicazione e sull’intesa emozionale. Tale intesa
in passato non era la base su cui si sostanziavano i legami di coppia o familiari che
rispondevano invece ad altre priorità, oggi al contrario ne è pressoché l’unico
presupposto e fondamento. Questo spiega almeno in parte la trasformazione,
l’incertezza e la volubilità delle relazioni tra uomini e donne, nonché la pluralità delle
forme di legame affettivo e famigliare.
In passato le relazioni tra uomini e donne erano costruite su ruoli, obblighi sociali,
progetti famigliari, calcoli economici, relazioni di potere e talvolta di coercizione. Non
che tutto questo si possa dire completamente scomparso, ma certamente oggi i
legami tra donne e uomini, compresi quelli famigliari, si fondano in misura molto più
rilevante su dimensioni emotive, sulla capacità di comunicazione e comprensione
reciproca, su rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al
dialogo e sull’adattamento reciproco. In altre parole il rapporto di coppia non è dato
una volta per tutte ma è frutto di un dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di
una fiducia che va costantemente riaffermata. Alla costruzione di questa condizione ha
dato un contributo fondamentale il movimento delle donne e l’avvento del senso di
libertà, di autonomia e di differenza che le donne hanno saputo imporre a tutta la
società.
La novità che abbiamo di fronte agli occhi e che dobbiamo riconoscere è che, a
fianco della violenza che colpisce donne in situazione di marginalità sociale, oggi
registriamo una violenza che sembra nascere dall’incapacità soprattutto da parte degli
uomini di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di
molte donne. La violenza oggi comincia a colpire la donna che non accetta più di
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costituire il supporto permanente dei bisogni dell’uomo dentro e fuori la coppia. La
violenza maschile si riversa sulla donna che – a torto o a ragione - apre conflitti e
pone in questione l’uomo, la donna che decide di lasciare il proprio compagno, la
donna che cerca di rifarsi una vita da sola o con qualcun altro, la donna che decide di
portare avanti autonomamente la sua gravidanza. In qualche caso – ma su questo
bisognerebbe aprire un ragionamento a parte perché la questione è più complessa e
contraddittoria - anche l’affidamento e la relazione coi figli diventano un ulteriore
elemento di conflitto e di risentimento (i dati registrano 4 situazioni di questo genere
nel 2004 e 5 nel 2003). Stando al rapporto dell’EURES i casi in cui il fattore
scatenante sarebbe dovuto alla decisione di separazione da parte della vittima
coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli episodi di omicidi in ambiente domestico.
Questo problema riguarda soprattutto gli uomini e suggerisce così abbastanza
chiaramente la realtà di una maggiore dipendenza psicologica e una minore
autonomia da parte maschile.
Dunque credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi non sia una
semplice riproposizione della cultura e del potere patriarcali. Questa violenza non
implica alcun rifiuto dell’uguaglianza tra i sessi e tanto meno un pregiudizio di
inferiorità verso la donna. Al contrario, si potrebbe dire, rileva un riconoscimento della
compiuta autonomia femminile, e semmai un senso di inadeguatezza e una certa
difficoltà degli uomini ad accettare nel proprio quotidiano la differenza e la libertà nei
rapporti con le donne. Non sto parlando di differenze stereotipate, di “ruoli sessuali”
ma della libertà della donna di essere se stessa, di pensare con la propria testa, di
avere i propri sentimenti e desideri, e anche di differire dai modelli maschili, dai valori
della società degli uomini e anche dall’immagine di sé che l’uomo vorrebbe affibbiarle.
È facile naturalmente riconoscere una certa continuità di questa violenza con la
violenza tradizionale maschile di tipo patriarcale, ma quello che voglio sottolineare è
che al contempo si sta manifestando una discontinuità importante: questa violenza
parla sempre più di una mancata rielaborazione e di un affanno maschile di fronte ad
una libertà femminile piuttosto che non di un potere maschile e di una sottomissione
femminile. I termini di questa violenza sono cambiati. E forse proprio per questo
assume forme sempre più efferate e incontrollate.
Cancellare l’alterità piuttosto che riconoscerla
Riportando questo ragionamento alla sfera delle relazioni credo che oggi come oggi
gli uomini commettano violenza soprattutto perché non accettano la differenza,
ovvero non accettano l’alterità della propria compagna. Non accettano che la donna
che hanno di fronte non sia semplicemente una continuazione, un riflesso del proprio
desiderio o dei propri bisogni. Non accettano che essa possa scegliere in base al suo
desiderio e che questo desiderio non coincida con il proprio. In questo scacco – e nel
conseguente senso di “impotenza” verso l’autonomia e la libertà femminile - emerge
tutta la dipendenza, la fragilità e l’insicurezza rimossa degli uomini. Poiché tutti questi
aspetti sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega ancora una volta tramite la
violenza. Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono cancellare l’alterità
piuttosto che riconoscerla e accettare così la propria parzialità, la propria
vulnerabilità, la propria impotenza. In questo senso la violenza maschile sulle donne è
un tentativo di cancellare la differenza e non l’uguaglianza.
Ciò che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere che le donne hanno pari
dignità o valore degli uomini. Ciò che è difficile è stare di fronte ad una donna ed
accettare che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la relazione vera e propria può
nascere solo nel momento in cui ogni uomo riconosce che la donna che ha di fronte
non è una sua proiezione o un suo oggetto e che essa può differire da lui in tante
cose. Solo a quel punto può cominciare una relazione ed uno scambio reale e
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nonviolento. Dunque accettare la libertà di differire della donna, accettare la propria
parzialità e limitatezza e accettare una relazione reale sono tre aspetti intimamente
connessi. Da questo punto di vista, questa violenza, in un modo o nell’altro, ci
interroga tutti. Non si tratta quindi di prendere le distanze da una violenza che sta
fuori di noi, che appartiene “agli altri”, agli “uomini violenti”, ma piuttosto di fare
realmente i conti con una possibilità che è inscritta nella cultura comune. L’episodio di
violenza da questo punto di vista è soltanto una delle possibili conclusioni. Il dato
comune a tutti, non è l’episodio conclusivo della violenza, ma ciò che la precede: la
concezione della coppia, dell’amore, della relazione. Ciò che ci sembra normale perché
non si manifesta nella forma della violenza esplicita e del crimine, ma che
probabilmente è invece all’origine del problema.
Quello che noi uomini possiamo fare dunque è cominciare a parlare delle nostre
modalità relazionali, di come siamo nelle relazioni, di come costruiamo le relazioni, di
come le neghiamo, di come ne fuggiamo. Dobbiamo chiederci in che misura siamo
riusciti ad accogliere la libertà e il libero desiderio delle donne nelle nostre relazioni e
nel nostro modo di amare.
Relazioni affettive: dalla simbiosi al valore del negativo
Noi uomini dobbiamo dunque divenire più maturi nell’interrogare le nostre relazioni
affettive. Credo il problema nasca infatti dal fatto che molti uomini, e talvolta anche le
donne, pensano alle relazioni d’amore come a relazioni simbiotiche. Con “relazione
simbiotica” intendo una relazione in cui c’è implicitamente una coincidenza dell’altro
con sé e di sé con sé. Non è ammesso il “differire” né fuori di sé né in sé. La
situazione di simbiosi si ha quando due esseri vivono in una relazione talmente stretta
e totalizzante da abolire il sentimento e l’esperienza della differenza. L’effetto che se
ne trae è una situazione protettiva e difensiva, spesso anche un senso di sicurezza
maggiore verso la vita e il mondo. Il costo tuttavia è la rinuncia alla conoscenza
dell’altra persona e di sé, la menomazione di parti importanti di entrambi. Credo sia a
questo genere di situazione che si riferisce Lea Melandri quando parla di un “sogno di
comunione”. In effetti credo anch’io che questo tipo di relazioni simbiotiche o fusionali
possano essere viste come la riproposizione o la continuazione della relazione
prenatale e infantile del figlio con la madre. L’altro soggetto è vissuto come necessario
per la propria nutrizione e sopravvivenza. Senza soluzione di continuità con il proprio
mondo o al limite come appendice esterna, pur sempre necessaria. Per l’uomo, la
donna rappresenta tra l’altro il rifugio accogliente e comprensivo rispetto alla
spietatezza e alla competitività del mondo “esterno” del lavoro, della burocrazia.
L’altra/o non è percepita/o nella sua autonomia, nella sua alterità ma come
appendice di sé. Il desiderio altrui non esiste se non come obbligato prolungamento
del proprio. In questi termini il rapporto può essere complementare o simmetrico. Nel
primo caso uno dei due soggetti – in genere la donna - rinuncia a sé per soddisfare
l’altro. Può naturalmente trovare a sua volta una parziale realizzazione in questo
soddisfacimento proiettivo e una gratificazione nell’essere garanzia del benessere
altrui. Nel secondo caso – quello di una relazione simbiotica simmetrica - è all’opera
una dinamica di conformismo e adattamento reciproco. È un sistema chiuso e
complementare in cui ciascuno gode dell’essere nutrimento e soddisfacimento
dell’altro/a. In entrambi i casi, quello complementare e quello simmetrico, si registra
comunque almeno fino ad un certo punto una situazione di complicità tra i partner.
La percezione interiore e emotiva è quella del tutto pieno. Non c’è né ci può essere
una percezione forte del negativo, della frattura, della ferita, dell’assenza, della
mancanza, del vuoto. In questa illusione di trasparenza e di pienezza, si attua la
rimozione del mistero dell’altro/a. Non si è consapevoli dell’esistenza del mondo
interiore della persona che amiamo, di possibili desideri, aspirazioni, bisogni autonomi
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e non sospettati. Allo stesso tempo questa mancanza di riconoscimento dell’altra
persona coincide con la perdita anche di una percezione di se stessi.
Ma in questa condizione, l’esperienza dell’abbandono, della fine della relazione, può
diventare qualcosa di sconvolgente e intollerabile. Perché con la fine della relazione
simbiotica può andare in frantumi anche il senso di sé e il senso della realtà. Per
questo motivo, piuttosto che riconoscere la propria dipendenza da una donna, di
rimettere in discussione il proprio senso di sé, piuttosto che rivedere criticamente la
propria idea di relazione d’amore, gli uomini preferiscono rifugiarsi nella violenza.
Credo che la paura di riconoscere la propria dipendenza e l’angoscia prodotta dall’idea
di abbandono siano due aspetti dello stesso analfabetismo relazionale degli uomini che
in questa costante oscillazione tra due estremi produce ansia di controllo ed episodi di
violenza. Il carattere non solo di impotenza ma anche di intollerabilità di queste
situazioni emerge anche dai numerosi casi di omicidio-suicidio (che si aggira attorno al
28%) diffusi soprattutto tra gli uomini. Essi mostrano che non c’è solo rabbia verso le
proprie ex partner ma anche il crollo di un rapporto con se stessi e
contemporaneamente l’ammissione dell’incapacità di uscire da una certa cornice di
senso per individuare una forma di esistenza per sé e per gli altri sulla base delle
nuove condizioni. La “motivazione passionale” che generalmente viene attribuita ai
gesti degli uomini dunque non spiega veramente il vissuto psicologico e relazionale
che sottostà a questi episodi. Da questo punto di vista c’è ancora molta strada da fare
per comprendere psicologicamente che scegliere di aprirsi veramente all’esperienza
dell’incontro con un autentico desiderio di un'altra persona significa nei fatti essere
disponibili ad incontrare anche la negazione, il disconoscimento e dunque la
frustrazione, il dolore, la solitudine.
L’anno scorso le donne della comunità di Diotima hanno proposto il tema del lavoro
del negativo, della forza del negativo. Varrebbe la pena declinare questo tema anche
nelle esperienze delle relazioni affettive tra uomini e donne. Se c’è un apprendimento
in amore, esso passa anche attraverso l’accettazione e l’integrazione del negativo.
Bisogna imparare a conoscere e a conoscersi, attraversando esperienze d’ogni genere.
Alcune volte sono incontri, slanci, gioie, doni e condivisioni. Ma altre volte sono invece
delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, misteri insondabili. Nella mia esperienza
anche questi ultimi vissuti dolorosi e negativi sono stati comunque passaggi
fondamentali e costitutivi perché mi hanno messo di fronte all’esperienza del limite,
della mia parzialità, del riconoscimento di altre persone. Tali esperienze del limite ci
incrinano l’illusione di controllo sulla nostra vita, sulle relazioni, sulle persone. Ci
smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a piacimento. Ci permettono di
dissolvere l’immagine di una relazione senza vuoti e senza distanze che ci eravamo
costruiti. Ci obbligano infine ad ammettere una soglia di non comprensione, oltre la
quale si deve accettare l’altra persona per come si presenta o per come si nega a noi,
senza cercare ulteriori spiegazioni. Ma tutti questi vissuti non sono esperienze perse,
ma tappe di una maturazione, necessarie per imparare ad amare, per divenire capaci
di intrecciare il proprio desiderio a quello di un’altra persona, senza soffocare nessuno
dei due.
Da questo punto di vista dobbiamo smettere di guardare all’amore semplicemente
come a un affare di sentimenti, o come ad un’esperienza immediata, spontanea. La
spontaneità è semmai il traguardo, non il punto di partenza. Prima c’è la maturazione,
che consiste nell’imparare a deporre le proprie difese, le proprie sicurezze e le proprie
pretese di controllo che impediscono il riconoscimento e il rispetto di sé e dell’altra
persona. Costruire una civiltà delle relazioni tra uomini e donne significa allora
apprendere reciprocamente ad incontrarsi e a lasciarsi, ad acconsentire alla vicinanza
e alla distanza perché entrambe le cose – sempre e in ciascun momento – sono
insieme condizioni dell’amore.
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