RAPPORTO DI MINORANZA DELLA COMMISSIONE DELLA GESTIONE SUL
MMN. 8477 CHIEDENTE L'ABOLIZIONE DEL LIMITE DI REDDITO PER
L'ACCESSO AI SERVIZI SCUOLA DELL'INFANZIA A ORARIO PROLUNGATO
E MENSA SCOLASTICA E DOPOSCUOLA CON CONSEGUENTE RICHIESTA DI
UN CREDITO QUADRO DI FR. 8'791'600.-- PER LA RISTRUTTURAZIONE E/O
NUOVA EDIFICAZIONE DI MENSE PER LE SCUOLE ELEMENTARI E
APPROVAZIONE DEL REGOLAMENTO COMUNALE DEI SERVIZI
EXTRASCOLASTICI
Lugano, 14 gennaio 2013
All'Onorando
Consiglio Comunale
6900 Lugano
Onorevole Signora Presidente,
Onorevoli Signore e Signori Consiglieri Comunali,
l’abolizione di un limite di reddito per poter beneficiare di una serie di servizi sociali,
come l’orario prolungato nelle scuole dell’infanzia, le mense e i doposcuola; l’accesso
illimitato a questi servizi significano, di fatto, sancire un nuovo diritto e di conseguenza un
nuovo compito dello Stato a favore di una parte di cittadini.
Ora, se si decide di generalizzare un diritto occorre prendere in considerazione diversi
aspetti e porsi molteplici interrogativi. Nel caso specifico d’ordine politico generale e
d’ordine pedagogico.
Dal profilo politico, occorre innanzitutto chiedersi, quando un diritto è opportuno per la
società?
Norberto Bobbio nella “Società dei diritti” (1990) mette bene in evidenza l’evoluzione del
concetto di diritto nel corso della storia in seguito ai cambiamenti avvenuti nel contesto
sociale: dai diritti di libertà (una libertà dallo Stato), ai diritti politici (una libertà nello
Stato) fino, successivamente ai diritti sociali (una libertà per mezzo dello Stato, in
particolare una libertà dal bisogno).
Da parte sua Giovanni Sartori, in “Democrazia – Cosa è ” (1993), nel capitolo conclusivo,
affrontando gli incerti per la democrazia (Hic sunt leones) ne indica tre, il secondo
concerne appunto la trasformazione e la crescita dei diritti sociali. Sostiene infatti che le
nostre sono diventate “società di diritti-spettanze, e più precisamente società di spettanze
nelle quali i cittadini si sentono creditori di dovuti, di cose che loro spettano”, per cui, a suo
giudizio si è formata una nuova categoria di diritti, diritti materiali o economico sociali.
Ora, se le prime due categorie diritti sono praticamente senza costi e riguardano tutti i
cittadini, i diritti materiali costano e si rivolgono solo a una parte. Generano dei costi
sociali che possono essere produttivi e rivelarsi investimenti (es. formazione, sicurezza:
diritto alla libertà dalla paura,...), mentre altri sono a fondo perso o, addirittura, possono
rivelarsi, come vedremo, generatori di possibili successivi costi sociali.
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L’opportunità sociale va inoltre valutata anche in rapporto alle risorse materiali, cioè alla
disponibilità di finanziamento. Quindi non si tratta necessariamente di “dovuti “ assoluti
come i diritti di libertà e quelli politici. “Invece – dice ancora Sartori -la società delle
spettanze li percepisce e reclama come diritti assoluti . E qui casca, o dovrà cascare
l’asino”. Da rilevare che questa tendenza, era già stata rilevata e preannunciata da ”
Ortega y Gasset nella Ribellione delle masse (1930), dove quando parla dell’“emergere
del tipo umano del bambino viziato” , di cui la società delle spettanze è “un’incubatrice
ideale”.
Un trend che ha portato ad una progressiva inflazione del concetto di diritto, con
un’accelerazione nell’attuale contesto sociale caratterizzato dal un continuo aumento di
disagi. Per cui sembra ormai acquisito che ad ogni disagio debba provvedere la mano
benefica dello Stato. In altri termini l’idealismo, denunciato da Kennet Minogue in “La
mente servile. Come la democrazia erode la vita morale” (2010), pervade l’azione politica
, identificando tra i compiti dello Stato “il perfezionamento della società umana…
L’idealismo politico non prende sul serio le persone in quanto agenti morali, ma li
considera vittime delle circostanze sociali, che devono essere aiutate. C’è la convinzione
di poter pensare il bene collettivo meglio degli altri.” E continua “il collasso della famiglie
deriva anche dagli eccessi dell’intervento pubblico.” Una famiglia che è cambiata, infatti,
anche se la parola ci richiama ancora una concetto unitario e univoco, la realtà è ben
diversa e ci confronta con entità frammentarie, eterogenee, complesse e problematiche,
per le quali dovremmo forse trovare un altro termine.
Possiamo allora porci tutta una serie di interrogativi: è giusto che lo Stato debba fare ciò
che l’individuo sa o può fare da solo o in collaborazione con altri? È giusto non stimolare
il principio di sussidiarietà orizzontale o verticale? Questo aumento del “dovuto” quali
ripercussioni avrà su un tessuto sociale già molto frammentato e stratificato, con scarse reti
di relazioni e interazioni generazionali? sul concetto di famiglia?
Ma soprattutto è giusto accettare che si consolidi il convincimento che ogni disagio debba
generare un diritto e un conseguente nuovo compito dello Stato? È opportuno che nel
cittadino si affievolisca il senso di responsabilità individuale, perché nel “bambino
viziato“, quindi non libero, si è insinuata e si è alimentata, acriticamente, la connessione
automatica disagio - bisogno - diritto?
Che ciò sia già ampiamente accaduto lo constatiamo ad esempio nella scuola. Dagli anni
del boom economico, attorno agli anni 70, ha preso avvio infatti un fenomeno sociale che
ha avuto conseguenze pesanti per la scuola: un progressivo processo di delega di compiti
della famiglia o della società all’istituzione scolastica. Gli impegni e le responsabilità della
scuola si sono così progressivamente accumulati, togliendo al docente spazi e tempi per
svolgere i suoi compiti specifici e chiedendogli di assumere sempre più ruoli, per i quali
non è stato preparato e non dovrebbe essere preparato (assistente sociale, psicologo,
surrogato del genitore, sessuologo,...). A poco a poco, nel corso degli ultimi decenni,
abbiamo visto attribuire alla scuola sempre nuove funzioni, non di sua competenza:
dall’insegnare a guardare la televisione, a lavarsi i denti, ad attraversare la strada;
dall’educazione alimentare all’educazione sessuale… Il tutto senza la consapevolezza che
ogni delega che diamo allo Stato, in questo caso attraverso la scuola pubblica, è una
perdita di libertà e, per la parte che la riceve è una nuova, supplementare responsabilità.
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La conferma di tutto ciò, quando oggi si discute di qualità della scuola, si discute quasi
esclusivamente, come nel caso specifico del presente messaggio, sulla quantità di servizi
offerti: estensione di mense, corsi dopo scuola, attività estive, ... o su che cosa deve fare la
scuola per preparare gli individui ad affrontare ogni nuovo problema emergente nella
società.
Un trend che deve preoccupare, a tale proposito il richiamo di Minogue è chiaro: “una
popolazione che affidi il suo ordine morale ai governi, per quanto impeccabile sia la
motivazione, diventerà dipendente e servile.”
Un altro aspetto politico, e strettamente legato alla nostra Commissione, riguarda le
valutazioni d’ordine finanziario. Sempre Sartori scrive, “Se si vuole, le spettanze sono
dovute a casse piene ma non a casse vuote. Equiparare i diritti materiali ai diritti formali
non è soltanto un errore di concetto; è anche una stupidità pratica che trasforma una
società di beneficati in una società protestataria di scontenti... La democrazia va in deficit
– spiegavo – perché strutturalmente indifesa, perché ha perduto il guardiano della borsa.”
Se poi consideriamo che oggi, in molte nazioni di fronte all’insostenibile lievitare del
debito pubblico, ma anche nel nostro piccolo di fronte ai preventivati disavanzi, si chiede
sempre più decisamente una revisione dei compiti dello Stato per decidere dove tagliare e
quali sono le priorità, allora la valutazione di ogni nuovo compito deve essere ancor più
attenta.
Nel nostro caso non si giustifica e non è accettabile un aumento della spesa di gestione
corrente di fr. 2'364'000.-- e la concessione di un credito quadro di fr. 8'791'600.-- per la
ristrutturazione e/o nuova edificazione di mense per le scuole elementari per estendere
servizi a redditi superiori ai fr. 130'000.--?
Inoltre, come noto, le attività comunali sono in parte determinate da decisioni prese a
livello di legislativo e di esecutivo comunali, in parte imposte da altri livelli istituzionali
superiori (Cantone e Confederazione).
L’organizzazione, la politica e l’amministrazione finanziaria di un Comune si ispira sul
principio e sul concetto del benessere collettivo. La funzione di benessere collettivo è
composta di numerosi obiettivi (non sempre convergenti).
Gli obiettivi finanziari non corrispondono agli obiettivi politici. Questi ultimi sono
soprattutto determinati dalle necessità comunali e dalle aspettative degli elettori. Si tratta
dunque di conciliare tra la domanda e l’offerta di prestazioni comunali.
Si tratta di limitare la conflittualità tra obiettivi politici e obiettivi finanziari trovando un
compromesso accettabile e sostenibile.
Quei servizi comunali che non sono forniti in funzione di direttive cantonali o federali
possono essere definiti (quantità e qualità) a discrezione del singolo Comune.
Quest’ultimo di solito decide sulla scorta di riflessioni politiche, prescindendo da obiettivi
di natura economica o finanziaria.
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Il preannunciato importante deficit 2012 e il non meno importante deficit che già si
prospetta per il 2013, come pure il trend crescente delle spese di gestione corrente di questi
ultimi anni e, non da ultimo, la mancanza di un piano finanziario (questi ultimi più volte
evidenziati con viva preoccupazione dalla Commissione delle Gestione in seno all’esame
di Consuntivi e Preventivi), imporrebbero al Municipio maggiore prudenza e ponderatezza
nel proporre nuovi servizi o nell’estendere a dismisura servizi che già funzionano in modo
ottimale. Spesso l’equilibrio del conto di gestione corrente viene messo in pericolo dalla
crescita dei compiti pubblici.
Rammentiamo che la Commissione della Gestione, nel suo rapporto concernente il
Consuntivo 2011, invitava il Municipio ad un’oculata gestione delle risorse, ad un rigoroso
controllo della spesa pubblica e degli investimenti, valutando le ripercussioni future nei
conti della gestione corrente.
Come spesso avviene, per riequilibrare le finanze comunali si dovrà in futuro agire sulla
spesa pubblica contraendo gli investimenti, riducendo o bloccando il personale e
diminuendo quelle prestazioni di servizio non obbligatorie per l’ente comunale. Inoltre, si
dovranno anche aumentare le varie fonti di entrate, magari (o sicuramente) iniziando
dall’innalzamento del moltiplicatore d’imposta comunale. Con un tale scenario dubitiamo
che sia sempre garantita la disponibilità da parte dei cittadini contribuenti a pagare
l’estensione (non obbligatoria) di servizi forniti dalla Città. Ricordiamo che quando un
servizio (non obbligatorio) viene fornito dall’ente pubblico, col passare del tempo diventa
una sorta di “diritto acquisito” del quale difficilmente ci si separa.
Per una valutazione dei costi di un servizio riteniamo pure importante come Commissione
affrontare il principio di causalità. Secondo questo principio la prestazione del
contribuente e la prestazione del Comune dovrebbero equivalersi. Per l’utilità tratta da
servizi e beni pubblici, gli utenti dovrebbero corrispondere una remunerazione simile al
prezzo di mercato.
Il vantaggio determinato dall’applicazione del principio della causalità consiste
nell’individuazione della domanda effettiva e, di conseguenza, nell’evitare un eccesso di
domanda. Questo principio permette all’utente di farsi subito un’idea del costo legato alla
prestazione. Chi vuole usufruire della stessa sa che deve poi anche pagarla. Il beneficiario
della prestazione comunale non è più il contribuente, bensì il consumatore. Pur
ammettendo che per le famiglie meno abbienti il Comune partecipi alla retta per mezzo di
un sussidio comunale, per le altre famiglie con redditi di tutto rispetto o alti il costo
dovrebbe essere interamente coperto dalla retta.
Tuttavia, il calcolo della partecipazione finanziaria effettuato dal Municipio non entra nel
dettaglio della sua composizione e da adito a forti dubbi che non tenga in debita
considerazione tutti gli elementi che dovrebbero determinare la retta per le famiglie agiate.
Il rispetto del principio della causalità implica che il Comune debba calcolare in modo
preciso i costi delle prestazioni erogate. La difficoltà principale risiede nella precisa
rilevazione dei costi. Non basta prendere in considerazione soltanto i costi di gestione, ma
si devono considerare anche i costi d’investimento, o meglio, i costi di gestione che
includono anche i costi indotti dagli investimenti.
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Le prestazioni di servizio incluse nel messaggio in oggetto presuppongono degli
investimenti (ristrutturazione e/o nuova edificazione di mense) che determineranno degli
oneri finanziari (interessi passivi e ammortamenti sul capitale investito) e dei costi di
produzione (amministrazione, personale, servizi tecnici, energia, manutenzione,
produzione) che andranno entrambi ad influenzare i costi di gestione. Se questi costi non
venissero calcolati (o venissero presi in considerazione soltanto parzialmente), le
prestazioni risulterebbero meno care di quello che dovrebbero essere in realtà. Se così
fosse, anche tutti gli altri contribuenti che non usufruiscono delle mense sarebbero
chiamati indirettamente (con le loro imposte) a finanziare gli utenti di queste prestazioni
(utenti delle mense).
Ma a prescindere dalle considerazioni finanziarie e dalle situazioni contingenti, anche sul
fatto che a casse piene i diritti materiali potrebbero essere concessi vanno valutati anche i
principi che li ispirano. E in particolare è sempre opportuno interrogarci sul sistema di
valori che veicoliamo con l’accettazione della generalizzazione di un compito.
Responsabilmente non si può ignorare infatti una prima constatazione scontata: se lo si
assume allora si tratta di una scelta positiva, sostenuta da nobili principi nell’interesse
generale, cioè di tutti i beneficiari coinvolti, nel caso specifico società, genitori e bambini.
Ma andiamo a vedere qual è il modello di società soggiacente e a quali esigenze risponde
la mozione.
Scrive Francesco Bertolini, docente alla Bocconi (Corriere della sera, 22.12.2012),
“L’aumento vertiginoso dei beni materiali destinati ai bambini riflette il drammatico
circolo vizioso in cui è precipitata la società e cioè quello che impone un aumento dello
standard di vita materiale, un circolo da cui è impossibile uscire...; nessuno però osa
ribellarsi a questo modello…”.
Se ci mettiamo in questa prospettiva che mette in primo piano il benessere materiale, è
chiaro che il limite dei fr. 130'000.-- è e sarà sempre più insufficiente. Di conseguenza la
necessità, al di là della realizzazione individuale di entrambi i genitori, di percepire un
doppio stipendio diventerà sempre più obbligata. Per permetterlo, sempre se adottiamo
questo modello, le condizioni che lo Stato deve e dovrà garantire sono appunto quelle di
prendersi carico per periodi sempre più lunghi la cura dei figli (orario prolungato, dalle
07.00 alle 19.00, doposcuola, mensa, periodi di vacanze scolastiche). Questi diventano e
diventeranno i bisogni e i diritti dei “moderni” nuclei familiari.
Ma proviamo ora a passare a valutazioni d’ordine pedagogico. Mettiamoci dalla parte dei
bambini, delle loro esigenze, delle condizioni necessarie per garantire un loro sviluppo
armonico.
Fondamentale, per una crescita equilibrata, è trovare un giusto equilibrio tra l’alternanza di
momenti di vita nella rete familiare e quelli nel contesto sociale. La frequentazione della
scuola deve quindi integrarsi in modo armonioso con la vita in famiglia del bambino. La
formazione equilibrata dell’individuo dovrebbe essere il risultato di una felice sintesi
dell’azione complementare di queste due istituzioni che dovrebbero agire guidati da un
sistema di valori condiviso, nel rispetto delle specifiche competenze e autonomie, quindi
con necessarie modalità diverse d’agire. Da una parte, la scuola con le sue regole, dettate
dal suoi compiti primari, cioè insegnare competenze disciplinari (leggere, scrivere,…), e
dall’educazione al vivere in gruppo. Per questo chiede appunto all’allievo impegno e
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attenzione, educazione alla fatica cognitiva che sola dà quella gioia che si ha solo dal
superamento di ostacoli, capacità di affrontare dinamiche di gruppo, capacità di gestire
successi e opportune frustrazioni. Sull’altro versante, la famiglia si fa invece garante di
opportuni momenti diversi, nei quali l’allievo, ritornato figlio, possa vivere relazioni
affettive con adulti, senza dover competere con altri compagni. Dove possa scaricare
tensioni, ascoltare ed essere ascoltato su temi e problemi non solo scolastici. Dove possa
anche scegliere autonomamente attività individuali, spazi di tranquillità o di gioco. Dove
possa confrontarsi con altre regole o altri ruoli. Nella famiglia le relazioni,
prevalentemente con adulti, stimolano così l’uso di una lingua e linguaggi propri della
comunità famigliare e della sua cultura. In questo contesto diventa centrale il tempo del
pasto perché attraverso piccoli cerimoniali che mette o dovrebbe mettere in atto vengono
veicolati valori, che danno un senso alle azioni quotidiane. Tutto ciò permette di ripetere
quotidianamente importanti piccoli riti. Benoist, in Segni, simboli e miti (1976) richiama
“Il rito definito come susseguirsi di gesti rispondenti a bisogni essenziali, gesti che vanno
eseguiti secondo una certa euritmia. Nell’etimologia sanscrita, la parola indica ciò che è
conforme all’ordine (rita )” e sostiene che tutti abbiamo bisogno di questa alternanza tra
ordine e disordine perché dà un ritmo al vivere e il rito mette appunto ordine e ritmo nel
tempo dell’individuo. Ma perché questa organizzazione del tempo è così importante?
Perché ha un effetto tranquillizzante? Il filosofo Franco Zambelloni (2005) ci dice che “
l’uomo non tollera il tempo indifferenziato... Le scansioni temporali che noi inseriamo
nella vita quotidiana introducono la differenziazione in un tempo altrimenti
indifferenziato, che sarebbe insopportabile. Introducono un ordine, costruito però sulla
variazione. Variare è importante: anche l’ordine costante e monotono sarebbe per noi
altrettanto insopportabile quanto il disordine indifferenziato... L’ordine, che risulta dunque
essere il tratto distintivo di qualsiasi rituale, è di per sé rassicurante. Basta pensare
all’effetto tranquillizzante che hanno su di noi l’ambiente e i ritmi della consuetudine, alla
sicurezza che deriva dall’ordine che noi stessi abbiamo imposto alle cose e alle attività
quotidiane“. Alternare l’attività scolastica alla vita famigliare, partecipare ai rituali del
pasto, della preparazione, ecc. risultano pertanto fondamentali e il bambino ne trarrà
importanti benefici positivi, rispetto a chi si trova obbligato a seguire ininterrottamente,
sull’arco di una giornata, nella stessa realtà della scuola, nelle tensioni legate alle
dinamiche del vivere nel gruppo di coetanei, momenti dedicati all’apprendimento,
all’alimentazione, allo studio e allo svago, vissuti tutti “scolasticamente”, cioè come
scuola. Con quali effetti sullo sviluppo del bambino? È un interrogativo che non possiamo
ignorare. Non meraviglia, a tale proposito, la conclusione alla quale giunge uno studio
della Columbia University sulle cause dei disagi giovanili, e in particolare sugli abusi di
alcool e droghe. Scrive infatti Joseph A. Califano, Jr (2003) “Il problema della droga in
America non sarà risolto nelle aule di tribunale o nelle sale di udienze, o nelle aule
scolastiche da giudici, politici o insegnanti. Sarà risolto nei soggiorni attorno ai tavoli dai
genitori e dalle famiglie “( conclusione fatta propria da Barack Obama, 27.9.2010). E qui
ritorniamo a possibili ulteriori costi sociali conseguenti, precedentemente citati.
Due obiezioni potrebbero formulare i sostenitori delle mense per tutti. La prima. Perché
allora nelle Scuole dell’infanzia ci sono le mense? Possiamo rispondere sottolineando che
in questo ordine di scuola la mensa ha una chiara funzione pedagogica. Infatti, è gestita
innanzitutto dalla docente che segue la sua classe durante la giornata e conosce tutte le
dinamiche che si instaurano nella giornata con i bambini nei vari momenti. Giornate che,
per principi precedentemente esposti, è ritmata da opportune alternanze di piccoli rituali.
Il pranzo stesso segue precisi rituali: dal controllo delle presenze all’inizio della giornata,
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alla distribuzione a turni dei ruoli, all’apparecchiare e al servire il cibo da parte dei
“camerieri”. La docente mangia al suo tavolo e i bimbi nei loro tavolini, quasi tutti
esagonali (solo 6 per tavolo), con un’attenzione particolare agli aspetti educati, in
particolare al rispetto del cibo. Terminato il pranzo, dopo un momento di rilassamento, c’è
la possibilità del riposo individuale. Più che di mense, bisognerebbe parlare del pranzo
inserito coerentemente nelle finalità della Scuola dell’infanzia (prima Asilo, poi Scuola
materna, denominazioni che sottolineano bene il mutare delle finalità). Essa deve o doveva
infatti favorire il passaggio da esperienze e apprendimenti nell’ambiente protetto e
ristretto della famiglie a uno spazio sociale più ampio e complesso, che richiede maggior
autonomia; più ampio e più ricco per favorire un percorso di crescita. Va comunque
richiamato anche l’orario di questa prima esperienza fuori di casa che va dalle 8.30/9.00
alle 15.30.
La seconda obiezione è che ormai la situazione è cambiata e non esiste più la famiglia
tradizionale. Quindi dobbiamo prenderne ed accettare il minore dei mali, che comunque
non è mai un bene. Vero. Ciò non ci porta comunque ad accettare di conformarci allo
Zeitgeist, allo spirito del tempo. A volte essere innovativi vuol dire anche saper andare
controtendenza. Perché riteniamo l’accettare che le cose ormai vanno così significhi
lanciare un messaggio negativo e offrire l’alibi se ci viene offerto dall’ente pubblico allora
è sicuramente un bene per i nostri figli. Alibi che scarica la responsabilità di genitore, per
cui se si verificassero effetti negativi la colpa sarebbe dell’istituzione che ha assunto
questo compito. Noi preferiamo trasmettere un altro messaggio: avere figli è una scelta
responsabile, implica la consapevolezza che richiede sì rinunce e sacrifici di entrambi i
genitori, che si assumono però volentieri perché si crede nella realizzazione di sé
attraverso la realizzazione di un progetto di vita che è il proprio figlio.
Siamo comunque consapevoli che i tempi sono mutati e che il problema è complesso. Ma
siamo altrettanto convinti che a problemi complessi esistono sempre soluzioni semplici,
immediate, ma sbagliate. E quella proposta dalla mozione ne è un esempio.
Premesso che per i casi sociali, quelli che rimandano al citato diritto di libertà dal bisogno,
la Città offre già tutte le risposte, ci piace maggiormente pensare di stimolare altre vie,
come il percorso, sicuramente più difficile e articolato, tracciato nell’opuscolo Genitori al
lavoro. Le aziende rispondono (2012) , a cura della Commissione consultiva per le pari
opportunità e promosso dal DFE. Nella sua introduzione la Consigliera di Stato, Laura
Sadis, sottolinea innanzitutto che “Proprio queste trasformazioni (sociali) ci dicono che la
conciliabilità lavoro e famiglia non è più solo una questione femminile, perché sempre più
uomini, maggiormente coinvolti nei compiti educativi e di cura dei figli o di assistenza dei
congiunti, ricercano una diversa e migliore armonizzazione con l’impegno professionale”.
Questo significa chiedere alle aziende di applicare “una cultura aziendale a favore della
famiglia… sono convinta che più un’economia si sviluppa valorizzando le competenze e le
responsabilità degli individui e delle famiglie, di donne e di uomini senza pregiudizi e
distinzioni di sesso, più quest’economia potrà essere prospera e solida. Ma come?
Nell’opuscolo si legge tra l’altro ” Si tratta di introdurre modelli di lavoro flessibili… sotto
forma di job-sharing, lavoro a tempo parziale, orari variabili e telelavoro. Le aziende che
hanno sperimentato queste modalità le giudicano vantaggiose anche per gli uomini: i/le
dipendenti che possono organizzare il lavoro in modo flessibile sono più soddisfatti/e, più
produttivi/e e più legati/e all’azienda”.
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Accettare la mozione significherebbe invece anche togliere un incentivo alla promozione
di questi importanti necessari cambiamenti culturali. Innovativo, e non antiquato o
conservatore, chi si muove in queste direzioni. Creare incentivi per andare controcorrente
a favore dei bambini e delle famiglie. Come ha fatto recentemente Angela Merkel con la
decisione di stanziare 150 euro mensili alle famiglie che non iscrivono i loro figli agli asilo
nido. O come prospettano alcune soluzioni sperimentali, che sono rivolte alle fasce di età
più fragili: i bambini e gli anziani. Queste ci arrivano da paesi Scandinavi e dai Paesi
Bassi, ma anche dagli Stati Uniti, come si legge in uno studio dell’Università di Zurigo del
sociologo Klaus Haberkern e riportato da Patrizia Guenzi in La società Bisogni&diritti (Il
Caffè, 9 dicembre 2012) “È la cosiddetta “cohousing”, un’unione di una quarantina di
famiglie che si danno sostegno reciproco, ma senza rinunciare alla propria privacy.
Abitano in case vicine, per lo più in insediamenti di nuova costruzione, in periferia. Ma
grazie alla presenza di più persone di diversa età non è più un problema trovare chi si
occupa dei figli o di un anziano. Uno scambio di esperienze, risorse e tempo per aiutarsi
l’un l’altro nella gestione di una quotidianità che, stando allo studio di Haberkern, si
rivelerà una esigenza per la quale non è più possibile farsi trovare impreparato.”.
In conclusione, per le argomentazioni sopra esposte, chiediamo a codesto lodevole
Consiglio Comunale di voler risolvere:
risolvere:
Il MMN. 8477 è respinto.
Con ogni ossequio.
PER LA MINORANZA DELLA
COMMISSIONE DELLA GESTIONE
Roberto Ritter, relatore
Armando Giani
Angelo Paparelli
Daniele Tanner
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