Revisionismo Si può parlar bene di certi re? PROCESSO A C hi ricorda Vittorio Emanuele III? Morì sessant’anni orsono ad Alessandria d’Egitto. La sua salma è là, in una chiesetta. Dimenticata. La sua memoria è quotidianamente infangata con accuse lanciate da chi ne fa il capro espiatorio della storia d’Italia, una sorta di Male Assoluto. E’ tempo di cominciare a studiarlo, di conoscerlo meglio e di valutarlo nell’ambito della storia di cui fu protagonista: al di sopra di esaltazioni apologetiche ma anche di sentenze sommarie, estranee alla storiografia, quasi sempre rispondenti all’intento di scaricare su di lui, indifendibile perché poco conosciuto, la responsabilità storica di altri. Vittorio Emanuele III nacque a Napoli l’11 novembre 1869 da due cugini primi, Umberto I e Margherita di Savoia. Il regno d’Italia, nato il 17 marzo 1861, era gracile, senza alleati né amici. Doveva fare da sé: anche i matrimoni e gli eredi al trono. La sua nascita a Capodimonte significò che l’Italia era davvero unita da Torino, Firenze, Napoli, Venezia... STORIA IN RETE | 32 Quando, pochi mesi uno dall’altro, nacquero Emanuele Filiberto d’Aosta e Vittorio Emanuele di Savoia il regno d’Italia non comprendeva ancora Trento e Trieste e neppure Roma, né era chiaro se e quando l’avrebbe annessa… Il 9 maggio 1946 Vittorio, lo sguardo da tempo senza sorriso, abdicò e salpò da Napoli per Alessandria d’Egitto. Deposto il titolo di re partì come «conte di Pollenzo», in memoria di Carlo Alberto e della tenuta ove sperimentò poderi d’avanguardia. Nel 1908 aveva fondato l’Istituto Internazionale d’Agricoltura, antesignano della FAO che non per caso ha sede a Roma. Morì il 28 dicembre 1947, tre giorni prima che la costituzione della Repubblica condannasse all’esilio perpetuo lui e suo figlio Umberto II. Vittorio Emanuele III fu re d’Italia per quarantasei anni. Non aveva né premura né gran voglia di salire al trono. Suo padre Umberto I fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900 da un complotto internazionale che usò un anarchico per innescare in Italia il corto circuito reazione-rivoluzione. Aveva cinquantasei anni. Il principe di Napoli non volle si pensasse Gennaio 2008 RE VITTORIO Le polemiche scatenate dalla richiesta dai Savoia di essere risarciti per il lungo esilio subito hanno coinvolto Vittorio Emanuele III, morto sessant’anni fa: come possono accampare diritti gli eredi di chi aprì le porte al Fascismo, firmò le leggi razziali, portò l’Italia nella Seconda guerra mondiale e determinò la sciagura dell’8 settembre? Accuse fondate? Oppure un’attenta analisi dei fatti può consentire giudizi più sfumati sul sovrano che regnò sull’Italia per oltre 45 anni? «Storia In Rete» ha chiesto ad uno dei massimi esperti di storia sabauda di aiutarci a capire. E lui l’ha fatto. Con l’aiuto di un sorprendente documento inedito… di Aldo A. Mola che un Savoia è vile. Perciò accettò la corona. Colto, erudito, dotato di memoria formidabile, sempre padrone di sé sino ad apparire arido e glaciale, cercò subito il consiglio di uomini saggi e indipendenti. Il senatore Pasquale Villari, uno dei grandi «padri della patria», da lui sollecitato a parlare con la franchezza che si deve al sovrano, gli consigliò di cacciare a pedate i cortigiani e di fare di testa sua. Il giovane re prese debita nota: l’Italia sentiva bisogno di un sovrano che tenesse strette le redini del Paese e ne garantisse la posizione internazionale e l’ordine pubblico. Però... Però la monarchia si fondava sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, e passato tale e quale a base del regno d’Italia: patto irrevocabile tra il sovrano e la nazione. Dunque il re non era superiore alle leggi: controfirmava le leggi decretate dai poteri legittimi, governo e parlamento. Il Paese rimaneva bambino. La sua dirigenza politica amava le scorribande, ma per cavarsi dai guai cercava nel re la ferma che non sapeva darsi per via Gennaio 2008 elettorale. Il giovane regno era e rimase un sistema misto: una monarchia rappresentativa vincolata dall’articolo 5 dello Statuto che riservava al re il comando delle Forze Armate (senza chiarire chi dovesse davvero guidarle in caso di necessità) e il controllo supremo della politica estera (stipula dei trattati non comportanti oneri: una finzione linguistica). Il primo governo in sintonia con il giovane re, presieduto dal democratico Giuseppe Zanardelli e incardinato su Giovanni Giolitti ministro dell’Interno, definì i nuovi poteri del consiglio dei ministri: una riforma più burocratica che politica e sostanziale. Vittorio Emanuele III ebbe chiaro il quadro: era il primo funzionario della Corona. Perciò prese casa lontano dal Quirinale ove andava come un impiegato all’ufficio. Vi svolgeva le «pratiche» e se ne tornava agli studi e agli affetti domestici. Scrupolosamente rispettoso dello Statuto, Vittorio Emanuele III Il fu un re «isolato». Tutti litigavano come i capponi di Renzo, ma per cavarsi dai pasticci si appellavano alla Corona: arbitra estrema di una democrazia mai nata per l’incapacità dei «poli- | 33 STORIA IN RETE «In virtù dello Statuto Albertino del 1848 il re non era superiore alle leggi: controfirmava le leggi decretate dai poteri legittimi, governo e parlamento. Quella dei Savoia era una monarchia rappresentativa» tici» non per cattiva volontà dei Savoia. Bersaglio di attentati (molti progettati, alcuni giunti quasi a segno: nel 1912 e, peggio, nel 1928 quando scampò di misura alla strage di Milano, costata oltre venti morti e sessanta feriti gravi), il sovrano affrontò in prima persona i momenti le crisi più acute della vita pubblica: non per ambizione di potere personale ma per carenza di governo e parlamento. La storiografia continua a non affrontare con sufficiente oggettività alcuni passaggi fondamentali della storia d’Italia. Trova comodo addebi- targli «colpe» che non sono affatto sue. Tra le molte, ne richiamiamo all’attenzione almeno quattro: la crisi dell’ottobre 1922 (o «avvento del fascismo»); l’«assassinio Matteotti» (o «nascita della dittatura»); le «leggi razziali» (1938); la stipula dell’armistizio annunciato l’8 settembre 1943 (o «fuga di Pescara»). Senza pretendere di sviscerare tali questioni in poche righe, osserviamo che esse rimangono aperte e che la storiografia dovrà prima o poi approfondirle in maniera oggettiva. Qui ci limitiamo a passarle rapidamente in rassegna. Primo - Nell’ottobre 1922 arrivarono al pettine antichi e nuovi nodi ingarbugliati della storia d’Italia: la debolezza dello Stato dinnanzi alla tracotanza dei partiti, l’impossibilità di formare un governo stabile per la frantumazione della Camera dei deputati in grupponi e gruppetti, la richiesta perentoria di ordine pubblico e di un drastico taglio degli sperperi di denaro pubblico anche per rispetto dell’enorme costo umano sopportato nella Grande Guerra (quasi settecentomila morti, oltre un milione di mutilati, rovine materiali e morali spaventose...). Tra L’inedito: «Non soltanto per dovere» U n documento inedito, scoperto da Aldo A. Mola, offre un ritratto inedito della personalità di Vittorio Emanuele III, «un re democratico e libero pensatore». E’ quanto emerge dai ricordi del generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del sovrano pochi mesi prima della Marcia su Roma «Il Re è proprio il tipo di cittadino borghese democratico e libero pensatore. Democratico nel senso che crede anche la sua funzione, una funzione non di privilegio, ma da assolvere con tutti i sentimenti e con tutta la volontà, con le migliori forze, cioè, della propria mente. “Non tutti possono fare il re”: vale a dire che occorrono per questo mestiere doti speciali. Data questa aristocrazia di persona, alla quale egli tiene moltissimo, tutto in lui, poi, è democratico, nel senso che non crede debba essere privilegio suo. Egli è convinto che in tutto debba dare l’esempio. Perciò egli è morale, perciò egli non interviene mai nelle beghe parlamentari, ma le guarda di fuori, ecc. Quando la nazione, dopo la guerra, si è trovata povera, siccome questa povertà doveva essere risentita da tutti i cittadini, egli ha dato ciò che per il momento gli pareva superfluo, i suoi castelli. Non era un pescecane, ma doveva diminuire in qualche modo il suo tenore di vita: per questo diede ciò che poteva dare. Infine col sentimento della democrazia va quello del libero pensiero. Il re, è in pieno, un libero pensatore, e se si potrebbe dire, un materialista. Siccome è re, osserva e rispetta le forme della religione, e, anche per esempio dei figliuoli, che debbono essere lasciati liberi, secondo lui, di formarsi quella credenza che vogliono, va in chiesa quando è necessario, e se nelle valli della Stura e del Gesso incontra una processione si leva il cappello. Ma egli intimamente non crede alla vita futura, né alla ricompensa del Signore. Crede invece, per la sua natura e per ciò che ha letto e pensato, agli obblighi del dovere, e all’immortalità del nome. Ha sostituito questa immortalità a quella dell’anima: e spesso, parlando con gli intimi, dice che bisogna far bene non soltanto per dovere, ma per lasciare ai figli e ai posteri un nome onorato, che è tutto ciò che di noi rimane in terra. Questi due cardini di democratico-liberale e di libero pensatore sono venuti fuori dalla sua estesissima coltura, per certi lati veramente portentosa. Ma il re studia moltissimo. La mattina si alza alle 6, sempre, e alle 7 ha già letto i giornali. Tutti, cominciando da quelli che più sono contro di lui. Nel leggere è di una velocità fenomenale: e legge secondo un sistema suo. Salta tutto ciò che sembra essenziale, e non è che chiacchiera; salta l’articolo di fondo, le elucubrazioni della politica, che cambiano dall’oggi al domani: e invece va al fatto, alle notiziette che sembrano di cronaca, ma che invece gli danno un indizio di un modo di essere e di pensare degli uomini. Quando trova qualche cosa che lo interessa, specialmente contro lui, vignette e articoli, la ritaglia e la mette via. Conosce tutti gli autori: non è uscito un libro importante, che 24 ore dopo non l’abbia letto, e non l’abbia criticato: e nella critica è finissimo. Egli, in generale, rifugge dagli aggettivi, non li può soffrire. La sua coltura è tale, che Mussolini, il quale fu da lui due volte, alla seconda volta andò da Cittadini a dire: “E’ veramente gran peccato che nessuno racconti chi è il re che abbiamo. E’ un re eccezionale”. E Roosevelt [Theodore Roosevelt, presidente Usa dal 1901 al 1909, NdR], stupito della sua mente e della sua istruzione, accomiatandosi da lui dopo un soggiorno di due o tre giorni, lo felicitò così: “Maestà, se ella viene in America, la facciamo subito presidente”. Con questo, nel parlare egli è molto arguto ed efficace, quando è con intimi. Parla con qualcuno (ma pochissimi: Giolitti, Solaro ecc.) piemontese; ma mette nelle sue frasi molte parole napoletane, lombarde e piemontesi, perché ha grandissima facilità per lingue e dialetti. Parla poi italiano come uno della Crusca. E per l’inglese, il generale Radcliffe diceva che spesso il re gli parlava in inglese, anche per cose tecniche speciali, con termini tecnici, che lui non conosceva. La padronanza di nervi che il re ha su se stesso è grandissima. Niente, mai, dimostra fuori ciò che egli sente. Bisogna conoscerlo per vedere in certe pieghe della faccia, e specialmente degli occhi, un leggerissimo moto involontario di contrazione, che può significare noia o dispetto. Parla moltissimo con gli occhi. E sono rarissime le sue manifestazioni chiare. Per tutto il periodo di Caporetto di fuori non si vide nulla di ciò che pensava; e soltanto la mattina del 1° novembre, tornando in treno da Roma al fronte, egli, alzandosi vide Solaro che stava guardando dal finestrino e tamburinava sul vetro. “ Cosa ch’a pensa chiel?” gli domandò il re. “Maestà, i penso, che dopo al cattiv temp a ven el bel”. Il re lo afferrò fortemente pel braccio e lo strinse come una tenaglia (è il suo unico gesto quando è commosso) e disse. “Bravo: parei i venta pensé!” [trad. “Bisogna sempre pensarla così” ]». n Cronologia 1869 Vittorio Emanuele nasce a Napoli, unico figlio di Umberto I e di sua cugina, Margherita di Savoia 1881 Entra al Collegio Militare «Nunziatella» di Napoli; tre anni dopo alla Scuola Militare di Modena. Il colonnello Egidio Osio è incaricato della sua formazione 1896 Il 24 ottobre sposa Elena Petrovic Niegos, figlia del principe (poi re) di Montenegro 1900 All’assassinio del padre (Monza, 29 luglio) assume la corona. Presidente del Consiglio è l’ottantenne presidente del Senato, Giuseppe Saracco, cui nel 1901 subentra Giuseppe Zanardelli, con Giovanni Giolitti ministro dell’Interno. Inizia la «svolta liberale» Vittorio Emanuele III e Mussolini all’indomani della Marcia su Roma il 1918 e il 1922 si susseguirono sei governi inconcludenti. Anche Giolitti gettò la spugna. A metà ottobre del 1922 il re chiese per iscritto al presidente del Consiglio, Luigi Facta, di convocare le Camere: era la via maestra per dare soluzione parlamentare alla crisi. Facta non lo fece. Trattava sottobanco con tutti a cominciare da Mussolini e D’Annunzio Altrettanto facevano gli altri maggiorenti, Giolitti incluso. Risultato? Sotto la minaccia di una militarmente inconsistente «marcia su Roma» venne proposta al re un governo di coalizione nazionale, varato il 30 ottobre. Il governo Mussolini (30 ottobre 1922) ebbe il sostegno di 35 deputati fascisti, nazionalisti (due gatti), liberali, demosociali e Partito popolare italiano. Alcide De Gasperi incitò la Camera ad approvare il nuovo governo, che ebbe 305 voti a favore, 117 contrari a Montecitorio, 184 «sì» e 19 «no» al Senato (ove i fascisti erano solo due). Dunque non fu il re a volere «il fascismo al potere». Chi lo dice o è ignorante o mente. Successivamente la Camera, eletta nel 1921, approvò la nuova legge elettorale con il sostegno di Giolitti, di molti liberali e cattolici, oltre che dei fascisti. Secondo - Dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (giugno 1924) per protesta contro Mussolini, accusato (senza serie prove) di essere il mandante politico del delitto, socialisti, repubblicani, popolari e «democratici» disertarono l’Aula di Montecitorio. Una delegazione dell’opposizione chiese di essere ricevuta dal re. Vittorio Emanuele III gelidamente fece capire che non toccava a lui ma alle Camere mettere Mussolini in minoranza e risolvere la crisi. Era un sovrano costituzionale, non un superdittatore. In quel momento i deputati iscritti al Partito nazionale fascista erano 227 su 535. I fascisti rimanevano in minoranza. L’ottantatreenne Giolitti puntò a formare una Moneta da due centesimi del 1903 con l’effigie di Vittorio Emanuele III. Il re lasciò all’Italia la sua collezione numismatica, considerata la più ricca del mondo (centomila monete, descritta parzialmente del «Corpus Nummorum Italicorum» curato del re in 16 volumi) 1901 Nasce la primogenita, Jolanda; seguiranno Mafalda (1902, poi principessa d’Assia), Umberto (15 settembre 1904), Giovanna (1907, poi zarina dei Bulgari) e Maria (1914, poi Borbone-Parma) 1904 Fallimentare sciopero generale rivoluzionario. Primi cattolici eletti deputati col voto di liberali 1911 Guerra italo-turca: acquisizione della Tripolitania e Cirenaica (poi Libia), di Rodi e del Dodecaneso 1912 Il 14 marzo Antonio D’Alba attenta alla vita del re. I socialriformisti si dividono dai socialmassimalisti guidati da Mussolini 1914 A Giolitti (già altre volte dimissionario) subentra Antonio Salandra, conservatore. Allo scoppio della Grande Guerra l’Italia si dichiara neutrale; il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, avvia trattative segrete per intervenire a fianco dell’Intesa 1915 In parziale applicazione del patto di Londra (26 aprile) il 24 maggio l’Italia entra in guerra, contro il solo Impero austro-ungarico. Il re si trasferisce al fronte. Il comando delle operazioni è nelle mani del Capo di Stato Maggiore Generale dell’Esercito, Luigi Cadorna 1916 Il 25 agosto l’Italia dichiara guerra al Reich Tedesco Cronologia 1917 Dopo la rotta di Caporetto (24 ottobre), il re assicura agli alleati l’impegno dell’Italia sino alla vittoria (Peschiera, 8 novembre) 1918-1921 Vinta la guerra, lunga instabilità politico-economica-sociale. Si susseguono governi deboli (Orlando e Nitti). Giolitti (1920-1921) fronteggia occupazione delle fabbriche e sgombera Gabriele d’Annunzio da Fiume. Anche a causa della legge elettorale (proporzionale), due elezioni politiche non assicurano governabilità 1922 Il 30 ottobre, dopo altri governi fragili (Bonomi, Facta), varata una coalizione nazionale presieduta da Mussolini, che «parlamentarizza» la «marcia su Roma» 1924-1925 La Lista nazionale conquista 2/3 dei seggi. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, socialista, a parte i giolittiani e il Partito comunista d’Italia le opposizioni lasciano l’Aula («Aventino»). 1928 Dopo vari attentati alla vita del capo del governo e al re, leggi eccezionali sciolgono partiti, sindacati e associazioni d’opposizione. Il Gran Consiglio del fascismo («organo della rivoluzione fascista») è demandato a fissare la lista dei deputati proposta al voto popolare 1929 L’11 febbraio Mussolini e il segretario di Stato vaticano Cardinale Pietro Gasparri firmano i Patti lateranensi che conciliano Stato e Chiesa 1935-1936 Annessione dell’Impero d’Etiopia alla corona d’Italia 1938 Si stringono i rapporti con la Germania di Hitler, che annette l’Austria, poi i Sudeti. Approvazione delle leggi «per la difesa della stirpe» 1939 Il 16 aprile l’Albania viene annessa alla corona d’Italia. Legata alla Germania dal Patto d’Acciaio, l’Italia si dichiara «non belligerante» 1940 Il 10 giugno intervento in guerra mentre i tedeschi dilagano in Francia: l’Italia conquista la Somalia inglese. Il 28 ottobre, fallimentare aggressione dell’Italia alla Grecia Gli atti di istituzione della Luogotenenza e di abdicazione in favore di Umberto firmati da Vittorio Emanuele III nuova maggioranza in Aula, ma rimase quasi solo e dichiarò il suo disprezzo nei confronti dei socialisti (irresponsabili, a differenza dei comunisti che rimasero alla Camera), dei popolari (inetti) e di certi «liberali», idealisti fin che si vuole ma incapaci. I repubblicani contavano poco. Mussolini rimase al governo non per superiorità propria ma per l’insipienza delle opposizioni. Queste se la legarono al dito e stabilirono che la monarchia andava annientata appena possibile. Terzo - Nel 1938 il governo Mussolini aveva alle spalle tredici anni di successi: il risanamento della lira, il Concordato con la Santa Sede, il ripristino di ordine e sicurezza, una notevole efficienza dei servizi, persino l’impresa di Etiopia, che i contemporanei vissero in modo diverso da come sarebbe stata giudicata dopo la Seconda guerra mondiale e la catastrofe di tutti gli imperi coloniali. Mussolini e il Partito nazionale fascista orchestrato da Achille Starace erano al culmine del consenso. Per contro il re era più che mai «isolato». La Camera dei deputati era formata da candidati designati dal Gran consiglio del fascismo (sin dal 1928 elevato per legge a organo dello Stato: una sorta di «terza Camera» o «quarto potere») e votati in blocco dagli elettori. La Camera era dunque prona al capo del governo. Altrettanto valeva per il Senato. Lo si vide proprio nell’approvazione delle leggi «per la difesa della razza». I senatori erano circa 400; 160 di essi andarono a votare; i voti contrari (segreti) furono dieci. La legge passò dunque col sostegno di un terzo dei senatori in carica, tra i quali si contavano tredici ebrei che rimasero in carica anche dopo la promulgazione della legge. Le «leggi razziali», dunque, non furono affatto volute dal re. Vittorio Emanuele III le firmò perché erano state deliberate dalle Camere che, piaccia o meno, rappresentavano la stragrande maggioranza degli italiani. Non era stato il re a mettere l’Italia su quella china. Non si levò alcuna voce di opposizione netta né di ferma e chiara condanna. né da parte di «liberali» né da parte della Chiesa cattolica. A differenza di Luigi Einaudi, Benedetto Croce non andò al Senato. Giorgio Bocca ha scritto che «in ognuno covava un po’ di antisemitismo». Può darsi l’abbia detto per autoassolversi dall’aver elogiato i «Protocolli dei Savi Anziani di Sion»: a ogni modo rispecchiò l’opinione del tempo. Quel che sappiamo per certo è che nel 1904 Vittorio Emanuele III presenziò alla consacrazione della Sinagoga di Roma e che nel 1939-42 uno stuolo di ebrei andava a estivare negli alberghi delle valli frequentate dal sovrano e dai principi perché lì si sentiva più al sicuro. Del resto un Savoia era l’ultimo a poter credere che esistesse una «razza italiana» dal momento che la Casa contava secoli di matrimoni tra francesi, spagnoli,austriaci, sassoni... Quarto - Il 25 luglio1943, dopo il voto del Gran Consiglio del Fascismo (non era stato lui a farne il tutore del Parlamento e il depositario di poteri straordinari), al termine di un ruvido colloquio a Villa Savoia Vittorio Emanuele III impose a Mussolini le dimissioni da capo del Gennaio 2008 Cronologia 1941-1942 L’Italia perde l’Africa Orientale (Etiopia, Eritrea, Somalia) ma resiste in Libia; compartecipa alla guerra contro l’URSS, con gravi perdite, e dichiara guerra agli Stati Uniti (11 dicembre 1941) 1943 Umberto II in visita alla tomba di Vittorio Emanuele III nella cattedrale di santa Caterina ad Alessandria di Egitto governo. Con cautele somme e ritardi imperdonabili il suo successore, Pietro Badoglio, ottenne che gli anglo-americani concedessero all’Italia di arrendersi senza condizioni. A quel punto occorreva salvare la continuità dello Stato, come è stato riconosciuto da storici obiettivi e dall’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Per farlo vi era un unico modo: evitare la cattura della Famiglia Reale (incluso il principe ereditario) e del governo da parte dei germanici senza però mettersi palesemente in braccio ai vincitori. Pertanto il governo decise il dichiarato guerra tutto sarebbe andato diverso. E’ chiaro che se... se... se. Però lo storico ha già il suo da fare a spiegare gli eventi, senza immaginare percorsi diversi rispetto a quanto è accaduto. I fatti sono quelli che sono. Nelle fasi critiche Vittorio Emanuele III fece molto di più di quanto gli fosse richiesto dallo Statuto. Non agì però mai per sé ma per quello che via via venne prospettato quale interesse generale dell’Italia: il male minore se non il vantaggio maggiore. Il 5 giugno 1944 conferì tutti i poteri del- «Per le leggi razziali votarono solo 160 senatori su circa 400. La legge passò col “sì” di un terzo del Senato, dove sedevano 13 ebrei, rimasti in carica anche dopo il varo della legge» trasferimento da Roma alla Puglia meridionale (esattamente Brindisi) ove non vi erano né tedeschi né anglo-americani. Anche Sergio Romano, sempre avaro di riconoscimenti ai Savoia, riconosce che quel trasferimento fu possibile senza trattative sottobanco con il feldmaresciallo tedesco Kesselring. Badoglio, il re, il comando supremo, la diplomazia, ecc. ecc. avrebbero potuto fare di più e di meglio nei quarantacinque giorni tra il 25 luglio e l’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943). Ma che cosa? Come? Sono solo ipotesi. Non solo. E’ chiaro che se il 10 giugno 1940 Mussolini non avesse Gennaio 2008 la Corona, «nessuno escluso», al figlio, Umberto, principe di Piemonte; ma rimase re sino al 9 maggio 1946, quando abdicò e partì per Alessandria d’Egitto ove morì il 28 dicembre 1947. Lì rimane sepolto: «esule» dopo anni di isolamento ed emblema della riluttanza degl’italiani a fare i conti con la propria storia, corrivi ad attribuirsi collettivamente il merito dei successi e ad addebitare le sconfitte a «una persona, una persona sola». Al capro espiatorio di turno. Aldo A. Mola [email protected] Viene perduta la Libia e poi la Tunisia. Il 10 luglio gli alleati invadono la Sicilia. Il 25 luglio, dopo il bombardamento di Roma, il Gran Consiglio chiede al re di esercitare i poteri statutari. Vittorio Emanuele III impone le dimissioni a Mussolini e nomina capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio con l’incarico di ottenere l’armistizio. All’annuncio della resa senza condizioni (firmata il 3 precedente, proclamata l’8, ribadita il 29), la mattina del 9 settembre la famiglia reale si trasferisce al seguito del governo da Roma a Brindisi. Con l’armistizio lo stato evita la debellatio. Il 23 settembre viene insediato il governo della Repubblica sociale italiana. Il 13 ottobre il regno d’Italia dichiara guerra alla Germania 1944 Il 12 aprile gli anglo-americani impongono al re trasferire i poteri al figlio Umberto quale Luogotenente, che li assume il 5 giugno, alla momento dell’entrata degli alleati a Roma 1945 2 maggio, resa agli angloamericani delle truppe germaniche e repubblicane in Italia 1946 Il 9 maggio Vittorio Emanuele III abdica e parte per Alessandria d’Egitto. Prima dell’attesa proclamazione dei risultati definitivi del referendum istituzionale (2-3 giugno) il governo conferisce al presidente del consiglio le funzioni del capo dello Stato (13 giugno). Umberto II lascia l’Italia per il Portogallo 1947 L’Assemblea Costituente eletta il 2-3 giugno 1946, approva il trattato di pace (che vede l’Italia come paese sconfitto, privandola delle colonie, della Venezia Giulia e del Dodecaneso, imponendo pesanti riparazioni di guerra e limitazioni alla sovranità), vieta ai re e ai loro discendenti maschi il rientro e il soggiorno in Italia e dichiara immodificabile la forma dello Stato. Il 28 dicembre Vittorio Emanuele III muore ad Alessandria d’Egitto ove è sepolto 1948 1° gennaio, la costituzione repubblicana entra in vigore.