Matematica, ritmo e lingua naturale nella cultura cinese ed europea

“Quaderni di Ricerca in Didattica (Matematica)”, n. 20, 2010
G.R.I.M. (Department of Mathematics, University of Palermo, Italy)
MATEMATICA, RITMO E LINGUA NATURALE
NELLA CULTURA CINESE ED EUROPEA
Galante Daniela
Sommario
La ricerca in didattica negli ultimi anni si è mostrata sensibile alle problematiche della multicultura e nella cultura cinese, l’applicazione della matematica nel linguaggio della musica è assai
diversa rispetto all’Occidente. Infatti, in Occidente il linguaggio musicale si è evoluto nella direzione di una complessa forma architettonica, con complesse strutture ritmiche, timbriche e
formali. Viceversa, la cultura cinese presenta da millenni caratteri di continuità e di unità specifici come quello del sistema di scrittura, non di carattere alfabetico, ma costituito da caratteri indipendenti, ciascuno con un proprio valore semantico e fonetico, con un significato concreto la
cui forma ha necessariamente influenzato il pensiero, la cultura e la musica cinese. Dallo studio
è emerso che in Cina la natura dell’arte musicale è correlata al suono, in quanto espressione di
potenza trascendente. In Occidente i compositori da secoli imitano la natura, invece nella cultura cinese il musicista non deve imitare nulla poiché la musica è natura che si manifesta attraverso l’espressione umana del suono. La mancanza di documenti scritti rende difficile l’analisi del
vasto patrimonio musicale cinese e ancor più impegnativo il confronto con quello occidentale.
All’interno di questa concezione, proprio perché la lingua cinese è monosillabica, la dimensione
ritmica è il principale elemento del linguaggio musicale abbinato alla matematica e si è tramandata per secoli con la caratteristica dell’immutabilità, cioè senza sviluppare una pratica e di conseguenza una notazione mensurale articolata e complessa.
Abstract
Research in Education in recent years has shown itself sensitive to issues of multiculturalism
and in Chinese culture the application of mathematics in the language of music is very different
than the West. Indeed, West's musical language has evolved in the direction of a complex architectural form, with complex rhythmic structures, timbre and form. In contrast, Chinese culture
has for thousands of years character of continuity and specific units such as the writing system,
not alphabetic character, but consists of independent characters, each with its own semantic and
phonetic, with real meaning to the shape of which has necessarily influence the thinking, culture, and Chinese music. The study found that in China the kind of music is related to sound, as
an expression of transcendent power. In the West for centuries, composers imitate nature, but in
Chinese culture, the musician does not emulate anything because the music is nature that is
manifested through the expression of human sound. The lack of written records makes it difficult to analyze the vast Chinese musical heritage, and even more challenging comparison with
the West. Within this concept, precisely because the Chinese language is monosyllabic, the size
is the main rhythm of language to mathematics and music combined has been passed down for
centuries, with the characteristic of immutability, that is, without developing a practice and
therefore a mensural notation and complex.
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Introduzione
Una delle più antiche e grandi civiltà del pianeta è quella cinese che ospita una delle
culture musicali più ricche del mondo, colta e autentica, mistica e pragmatica, orale e scritta,
tradizionale e viva, affine e allo stesso tempo estranea alla nostra.1
La musica cinese ha una storia molto antica, durante la quale filosofi e musicisti hanno
scritto numerosi trattati sulla musica, e su problemi teorici come ad esempio la determinazione
dell’altezza assoluta dei suoni-campione, la progressione per quinte, la formazione delle scale, il
temperamento eguale, ecc. I Cinesi hanno inventato strumenti musicali originali, alcuni dei quali hanno varcato le frontiere della Cina per penetrare nei Paesi dell’Est e del Sud-Est asiatico.
Hanno messo a punto sistemi di notazione in intavolatura, per complessi strumentali che possono contare fino a diverse centinaia di esecutori. Le nostre conoscenze sulla musica di tradizione
colta sono sufficientemente ampie; meno nota è, invece, la musica popolare; riguardo la musica
moderna e contemporanea non si hanno documenti tali da consentire di tracciarne un profilo vero e proprio.2
La prospettiva più opportuna secondo cui la musica cinese merita di essere esaminata
non si limita alle contrapposizioni tra musica primitiva, popolare e colta (di corte, dei musicisti
di professione, classica), orientale e occidentale, settentrionale e meridionale, ma esplora il suo
legame con le liturgie delle tre principali religioni – taoismo, confucianesimo, buddismo – e indaga sulla coesistenza delle sue modalità di trasmissione: oralità, manoscritti, musica stampata.
L’oralità autorizza e postula la fedeltà: la ripetizione, necessaria durante l’apprendimento, comporta una forte assimilazione, una profonda impronta, che lega intimamente repertorio e stile. Il
manoscritto permette trasmissioni più rapide o differite e consente di lasciar passare del tempo
prima di memorizzare un brano, facilitando la memoria. La notazione in Cina comprende anche
l’indicazione dell’altezza dei suoni e, più di rado, delle diteggiature, degli ornamenti o del ritmo.
La stampa è il marchio del riconoscimento ufficiale, del prestigio e della volontà di salvaguardare e diffondere, più che una reale necessità musicale e tende a sostituirsi all’oralità.3
Così come esiste una narrazione codificata della storia, è possibile raccogliere un corpus
di testi estetici.
Taluni tratti ritenuti tipici, come quello della “musica a programma”, si rivelano alla luce degli studi critici come aggiunte recenti: più che nello «stormo degli uccelli intorno alla barca
della concubina che rema sul fiume che inonda il palazzo imperiale coi riflessi della luna piena
di una notte di primavera» l’estetica tradizionale è reperibile nel suono, dato dalla natura e plasmato dall’uomo, elemento strutturante del tempo.
Esoterica, mistica, simbolica, la musica cinese appare spesso troppo difficile a colui che
tenta di coglierne i principi teorici. Descrittiva, melodica, sentimentale, sembra troppo semplice
all’auditorio distratto dei ristoranti. Fluida, espressiva, sottile, energica, lascia scorgere la sua
vera natura, limpida e complessa, al musicista; antica, trasmessa e trasformata da secoli di
scambi internazionali, essa ha elaborato forme eseguite secondo regole familiari all’occidentale:
accordarsi, suonare a tempo e correttamente, ascoltare, rispettare il testo, lo stile, esercitarsi allo
François Picard–Enzo Restagno, La musica cinese, La tradizioni e il linguaggio contemporaneo,
EDT, Torino 1998, p.3
2 Trân van Khê, voce Cina in DEUMM (Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei
Musicisti) UTET, Il Lessico, vol. I, p. 555
3 François Picard–Enzo Restagno, op. cit., p.4
1
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strumento, padroneggiare i parametri del timbro dell’intensità, dei profili dinamici, degli accenti, dell’articolazione.
Estranea dal costante riferimento a una tonica, la musica cinese compensa parzialmente
l’assenza di armonia funzionale con mutazioni e cambiamenti di modo. Soprattutto, il suo sistema utilizza in modo inimitabile le variazioni di ritmi, di tempi, di accenti, di lunghezza delle
battute e delle frasi. Per quanto riguarda le altezze, esse si organizzano secondo modalità multiple (armonici naturali, consonanze, quinte, proporzioni, temperamento...) che possono sovrapporsi in uno stesso organico o in uno stesso strumento, creando una sorta di armonia spettrale.
Come fenomeno sonoro, la musica cinese non presenta caratteristiche notevoli: la predominanza del pentatonismo è in comune con il mondo celtico e sudamericano; allo stesso modo possiamo confrontare i gruppi di oboi e percussioni con quelli turchi o coreani, accostare
l’eterofonia della voce, degli strumenti a corda e fiati, a quella praticata nella Nuba araboandalusa o nel Ca tru vietnamita; l’intimismo, l’interiorità della cetra dei letterati a quelli dei koto o shakuhachi giapponesi o del ney persiano. La scienza storica, con l’aiuto dell’archeologia e
dell’iconografia, consente del resto di spiegare e di datare l’origine di molte di queste relazioni.4
La musica popolare5
Essa è varia e abbondante dal momento che la Cina è popolata non soltanto dagli Han,
ma anche da numerose minoranze etniche. Nata dal popolo, non è ancora stata oggetto di pubblicazioni nelle lingue occidentali e le registrazioni di musiche popolari sono molto rare, quasi
inesistenti. I canti popolari si possono dividere in 2 gruppi: i canti dei bambini e i canti degli adulti.
1. I canti dei bambini (Er-ke):
a) Canti della madre (Mu-ke): sono canti che la madre canta al suo neonato: a) le ninne-nanne;
b) i canti per insegnare al piccolo a conoscere le varie parti del corpo; c) quelli per insegnargli a
familiarizzarsi con la natura, il canto degli uccelli, il colore delle lucciole; d) i canti facili che
possono essere ripresi dal bambino che comincia a parlare.
b) Giochi infantili (Erh-hsi): a) sono canti che accompagnano i giochi dei bambini quando saltano alla corda o mimano il gesto di battere il grano; b) possono anche essere degli indovinelli;
c) oppure favole e leggende ripetute dai bambini.
c) Esercizi di pronuncia (Lian-hsi-fayin), che aiutano i bambini nella giusta pronuncia delle parole cinesi.
d) Canti educativi (či-shi, le conoscenze): sono canti per insegnare ai bambini: a) a contare da 1
a 10; b) a distinguere i colori; c) a conoscere le piante e gli animali; d) a recitare i proverbi; e) a
scoprire le contraddizioni; J) varie. Čong Čing-Wen, citato da Ch’ü Hsi K’ing, ha classificato i
canti infantili in base ai movimenti dei bambini o alle loro posizioni durante i giochi: quando
sono uno di fronte all’altro, quando imitano i gesti dei contadini o dei battellieri, quando cantano facendo giochi di mano o di piede, ecc.
2. I canti degli adulti (Ming-ke, letteralmente: «canto del popolo»). Ch’ü Hsi K’ing ha distinto 7
generi di canti:
4
5
François Picard–Enzo Restagno, op. cit., p.5
Trân van Khê, op. cit., pp.556
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a) Canti d’amore (K’ing-ke): i canti popolari dei contadini e dei montanari, i canti di chi lavora
la terra, quelli dei pastori, dei battellieri, dei pescatori, dei boscaioli e i canti per la raccolta del
tè sono per lo più canti d’amore.
b) Canti sulla vita quotidiana (Chenghuo-ke): 1) canti sulla vita familiare, di solito cantati dalle
donne, sul matrimonio e sulle relazioni fra i membri della famiglia, specie fra sorelle, zie e nipoti, suocere e nuore, ecc.; 2) canti della vita in società; 3) canti di lavoro per diversi mestieri (canti dei contadini, dei pescatori, dei battellieri, dei boscaioli, dei negozianti, dei soldati, per la raccolta del tè).
c) Canti umoristici (Hua-či-ke):
1) satirici (riguardano difetti fisici, o certi mestieri, o le grida di venditori per le strade, o le disavventure della vita); 2) canti in cui si parla di cose impossibili.
d) Canti narrativi (Hsu-či-ke) a proposito di: 1) cose e fatti del passato trasmessi oralmente nel
mondo popolare; 2) fatti contemporanei come l’introduzione del tramway o dell’abitudine di
farsi tagliare i capelli.
e) Canti rituali (Yi-či-ke): cioè canti degli anziani, o canti di augurio in occasione dell’anno
nuovo, dei matrimoni o della costruzione di una nuova casa.
f) Canti erotici (Wei-či-ke), in cui si parla dell’adulterio, dei rapporti sessuali o delle diverse
parti del corpo.
g) Canti in cui si danno consigli su ciò che bisogna fare, o su ciò che è proibito dalla morale
(Kwan- či-ke).
Le poche informazioni di cui disponiamo permettono le seguenti osservazioni: 1) i canti
di lavoro sono spesso di tipo responsoriale: un operaio canta da solista, gli altri rispondono in
coro; 2) la voce è naturale e lo stile sillabico; 3) i canti di lavoro sono spesso cantati senza accompagnamento; 4) certi canti sono accompagnati da danze, e gli strumenti usati per accompagnare sono spesso il flauto traverso di bambù, la viella a 2 corde, il liuto a 3 corde, i tamburelli,
ecc.; 5) nella musica processionale o di cerimonia (popolare) si suonano anche l’oboe (so-na),
tamburi, gong e cimbali; 6) le scale musicali sono per lo più pentatoniche senza semitoni, con
residui tetratonici o tritonici.
La musica colta
In quasi tutti i Paesi asiatici, la musica è considerata di origine divina. Secondo i Cinesi
si deve far risalire la creazione della musica agli imperatori mitici Fu-hsi (2852-2737 a.C.) e
Huang-ti (2697-2597 a.C.), che gli antichi teorici misero subito in relazione con gli astri e
l’universo, dando vita a una concezione cosmogonica e filosofica del linguaggio musicale, comune alle principali civiltà dell’Estremo Oriente. Un passo dello Yo-ki (Memoriale della musica), citato da Maurice Courant, ci dice che « … i suoni chiari e distinti rappresentano la terra; la
successione dei movimenti della danza rappresenta le quattro stagioni, le evoluzioni rappresentano il vento e la pioggia. I 5 colori corrispondenti ai 5 elementi e ai 5 gradi della scala formano
un bell’insieme senza disordine; i venti delle 8 direzioni, corrispondenti alle 8 famiglie strumentali, obbediscono ai liuh (suoni prodotti dalle canne sonore) senza sviamento». I 5 gradi della
scala corrispondono anche alle 5 direzioni dello spazio e sono assimilate al principe, ai ministri,
al popolo, al lavoro e alle risorse materiali. Il sistema musicale-filosofico si riassume nella tabella 1 ricavata dal Memoriale sopra citato.
In Cina la musica colta va sotto il nome di ya-yue (letteralmente: «musica nobile», «raffinata»), o su-yue («musica volgare»), oppure hu-yue («musica barbara»). Si tratta della musica
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rituale di corte (ya-yue), della musica profana (su-yue) e della musica di origine straniera (huyue).
Maurice Courant, lo Yo-ki (Memoriale della musica)
Tabella 1
Il Profilo Storico
Se si tiene conto del periodo leggendario, la musica cinese ha quasi 4000 anni di storia.6
1) Periodo leggendario (...- 1122, inizio della dinastia Chu). il primo dei 5 imperatori mitici,
Fu-hsi (2852 a.C.), avrebbe inventato il k’in, salterio a 5 corde (di seta), e il šê, salterio a 50
corde, con ponticelli mobili. Sarebbe il creatore della musica li-pen (= «porre la base»).
L’imperatore Huang-ti (2697-2597 a.C.) avrebbe ridotto il numero delle corde del šê da 50 a 25,
e sarebbe il creatore della musica hsian-chi (« Beneficio Universale »).
Il suo ministro Ling-luen fu incaricato dall’imperatore Huang-Ti di cercare sui monti
Kunlun delle canne di bambù capaci di produrre i suoni fondamentali della musica. Era convinzione infatti che questa ultima altro non fosse che la manifestazione di tutto l’ordine naturale e
soprannaturale del Creato, la cui eterna armonia era assicurata dall’esistenza di un suono unico,
immutabile e assoluto: l’hueng chang, ovvero la “campana gialla”. Per questo motivo, era un
preciso dovere della massima autorità dell’impero far sì che la musica del suo popolo fosse
sempre perfettamente intonata con le forze dell’ Universo. Da allora il primo compito, che ogni
imperatore aveva l’obbligo di compiere salendo al trono, era di ordinare ai suoi musicisti e ai
suoi astrologi di ricalcolare l’esatta lunghezza delle canne sulle quali tutti gli strumenti
dell’impero dovevano essere accordati, affinché il suo regno prosperasse in perfetta armonia.
Questa tradizione ebbe lunghissima vita, tanto che per molti secoli si credette addirittura che la
caduta o l’estinzione di una dinastia fosse dovuta all’incapacità dei suoi membri di ritrovare
l’esatto hueng chang. Sistemi complicatissimi venivano elaborati per fissare con estrema precisione questo suono fondamentale. Uno di questi consisteva nel tagliare una canna lunga quanto
una fila di 90 grani di miglio di media grossezza. Partendo da questa canna, il cui suono rappresentava appunto l’hueng chang, venivano tagliate altre canne in modo da ottenere in tutto 12
suoni, riferibili simbolicamente ai dodici mesi dell’anno. Poiché a ogni suono veniva attribuito
un contenuto mistico, la sua perfetta esecuzione rappresentava di per sé il massimo dell’arte.
Considerata rivelazione dell’ordine ineguagliabile del Creato, la musica fu tenuta in gran conto
6
Trân van Khê, op. cit., pp. 557-558
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nell’antica Cina e coltivata in ogni epoca, specialmente dalle donne (huang), ma anche dagli
uomini (fong). “La musica feconda i germi della virtù che l’uomo porta nel cuore”, scrisse Confucio, sottolineandone così il grande valore educativo e formativo.7
Si attribuisce all’imperatore Shun (2225- 2206 a.C.) l’invenzione del p’ai-hsiao, flauto
policalamo o siringa, più noto in Occidente come «flauto di Pan»; l’imperatore avrebbe creato la
musica da-shao («grande concordia»), così bella che 1600 anni dopo Confucio, «avendola ascoltata, e impressionato dal persistere di questa musica nel suo spirito, rimase tre mesi senza
fare attenzione al gusto della carne ».
2) Periodo antico (dinastia dei Chu e dei Ch’in: 1122-206 a.C.). La storia della musica cinese è
strettamente legata a quella delle varie dinastie. D’altra parte conosciamo solo la storia della
musica di corte, ch’è stata tramandata negli annali degli storici ufficiali.
a) Dinastia dei Chu (1122-225 a.C.). Sotto i Chu, la musica era soprattutto rituale: cerimonie
per venerare il Cielo e la Terra, gli antenati, le persone anziane; sacrifici alle 4 stagioni, ai monti
e ai fiumi. Era usata anche per rallegrare i banchetti; di questa musica esistevano 6 generi diversi: per i grandi banchetti dei re e dei vassalli, per la degustazione del vino, per i ringraziamenti
pubblici e importanti, per le persone anziane, per i contadini e i letterati, per ringraziare i contadini. Era presente a varie feste, corrispondenti alle età della vita: cerimonia per indossare il berretto di adolescente, per il matrimonio, i funerali, gli anniversari dei defunti. La musica di corte
era accompagnata da danze: danza civile (wen-wu), eseguita da un corpo di ballo di 64 danzatori, su 8 file di 8, con il flauto a 3 fori nella mano sinistra e la piuma di fagiano nella destra; danza militare (wu-wu), eseguita da un corpo di ballo di 64 danzatori, con scudo al braccio sinistro
e alabarda nella mano destra. Era musica eseguita dagli strumenti più diversi, divisi in 8 categorie secondo il materiale di fabbricazione: pietra, metallo, seta, canna, legno, pelle, zucca e terracotta. Le idee filosofiche e i dati della cosmologia iniziavano a influenzare la fabbricazione degli strumenti, la determinazione dell’altezza assoluta dei suoni, l’insegnamento della musica, il
suo ruolo nell’educazione. Confucio (551- 479? a.C.) e Mo-ti (500-416 a.C.) hanno espresse le
proprie idee sui benefici e sui danni della musica, sulla musica «capace di cambiare i costumi» e
di «rendere l’uomo migliore », oppure di «corromperlo». I canti popolari sono stati raccolti in
uno dei libri canonici: Shih Čing o libro delle odi.
b) Dinastia dei Ch’in (255-209 a.C.). Sotto questa dinastia, la musica antica fu dimenticata dopo
le riforme operate dall’imperatore Shih-Huang-ti (221-202). Fu in certa misura una «rivoluzione
culturale». Durante questo periodo va segnalata la creazione di uno strumento a pizzico, il čêng,
oggi cetra a 13 o a 16 corde, come pure l’introduzione in Cina del p’i-p’a, liuto di forma ovale,
a 4 corde.
3) Periodo storico (dalla dinastia Han alla dinastia Ch’ing).
a) Dinastia Han (206 a.C.-223 d.C.). Venne rimessa in onore la musica antica. L’imperatore
Kao-tsu (206-196 a,C.) e l’imperatore Wu-ti (104-86 a.C.) hanno incoraggiato i musicisti a rimettere in auge la musica che la dinastia Ch’in aveva messo da parte. All’interno del Palazzo
imperiale venne creata la musica detta kong-čong-yue, e fissata in maniera esatta l’altezza del
suono fondamentale, lo hoang-čong (la campana gialla). Il p‘i-p‘a, liuto a 4 corde, e il kong-hu,
arpa di forma angolata, a 23 corde (derivata dall’arpa assira), erano strumenti assai popolari. Esistevano 2 tipi di musica: ya-yue (musica nobile), la musica rituale di corte, e su-yue (musica
volgare), musica profana (come le musiche per i banchetti e per gli spettacoli, e la musica militare ku-chui).
7
Romano Begatti, Nella Musica, vol. I, Fabbri Editori, Milano, 1997, p.44.
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b) Rinascita della musica antica e integrazione della musica straniera: dinastia Sui (589-618) e
dinastia T’ang (618-934).
Sotto la dinastia T’ang si distinguevano 8 generi di musica: 1) ya-yue: musica nobile, rituale, di corte, eseguita soprattutto nei templi; 2) yen-yue: musica dei banchetti alla corte; 3) suyue: musica profana alla corte; 4) hu-yue: musica straniera; 5) ku-chui: musica militare; 6) sanyue o c’a-hsi o p’ai-hsi: musiche per spettacoli vari; 7) k’in-yue: musica per k’in (cetra a 7 corde); 8) ke-yao: musica popolare. La musica ufficiale di corte era divisa in 3 categorie principali:
ya-yue (musica rituale di corte), su-yue (musica profana) e hu-yue (musica straniera). Alla corte
dei T’ang, durante le feste si eseguivano 10 tipi di musica shi-bu-či, 7 dei quali erano già noti
all’inizio della dinastia Sui (li si indica con l’asterisco [*] posto prima del nome): 1) yen-yue-či:
musica per banchetti; 2) *k’ing-yue-či: musica popolare e tradizionale cinese; 3) *hsi-liang- či:
musica dell’Asia centrale; 4) *tian-ču-či: musica indiana; 5) *kao-li-či musica coreana; 6) *kuici- či: musica di Kutch; 7) shu-le-či: musica di Kashgar; 8) kao-č’ang-ci: musica di Turfan; 9)
*an-kuo-či: musica di Buhara; 10) *kang-kuo-či: musica di Samarcanda. Esistevano 2 organizzazioni che riunivano più di 30.000 musicisti e danzatori: l’organizzazione dei musici schiavi e
la scuola femminile di musica, una sorta di «harem» che accoglieva musiciste a servizio dei re.
Verso la fine della dinastia T’ang, delle 3 categorie ne rimasero soltanto 2: ya-yue e il
nuovo su-yue, nato dalla fusione dell’antica musica su-yue con la musica straniera hu-yue. Questa nuova musica profana aveva assimilato la musica straniera: fu introdotta in Giappone durante il periodo Nara (533-794) e divenne il togaku (musica dei T’ang), da gagaku (musica nobile
giapponese). La musica coreana era presente alla corte dei T’ang; ma la musica cinese esercitava a sua volta il proprio influsso su quella coreana di corte (in Corea la musica di corte, di derivazione cinese, portava il nome di T’ang ak, ossia «musica dei T’ang»). Ancora sotto i T’ang la
musica e le danze dell’India e della Persia vennero introdotte in Cina e integrate nella musica
profana di corte. Per questo Kishjbe Shigeo (in Studio storico sulla musica sotto la dinastia dei
T’ang) ha definito tale periodo «l’epoca della musica internazionale in Cina ».
Oltre a questi 2 caratteri principali (rinascita della musica antica e integrazione delle
musiche straniere), la musica di questo periodo vede verificarsi altri fatti. Sotto gli Han venne
costituita un’organizzazione dell’attività musicale che è continuata sotto i T’ang; i musicisti erano considerati come impiegati subalterni. Furono creati grandi complessi, con una duplice sezione, quella in piedi e quella a sedere, come appare dagli affreschi di Tuen-hang. La musica di
corte inglobò la musica popolare, e il su-yue si sviluppò più velocemente che lo ya-yue. La teoria dei liuh (canne sonore che producono i suoni- campione) venne riveduta: si ricordano i nomi
degli studiosi Li-yen-nien e Ching-Fan. Si cominciò a parlare del temperamento e della progressione per quinte. Furono composti dei canti su testi poetici, come pure pezzi strumentali per diverse sezioni, e canti con danze.
c) Dinastia Sung (Sung: 960-1126, e Sung meridionali: 1127-1279). La musica di corte si disorganizza: le schiave musiciste vengono sostituite da un’altra organizzazione di musicisti a servizio della corte, ma di origine popolare. Musiciste e cantatrici si fanno rare. Si riduce il numero
dei musicisti di corte. La musica per i banchetti viene ancora eseguita, ma non tanto quanto il
k’ing-yue, musica popolare in cui predomina il flauto traverso ti. Fiorisce il teatro delle marionette, con 6 tipi di marionette, cui vanno aggiunte le «marionette viventi», bambini vestiti da
adulti. Molti degli strumenti utilizzati sotto i T’ang sono caduti in disuso: il wu-hsian, liuto ovale a 5 corde, e il kong-hu, arpa di forma angolare, a 23 corde.
Tre furono i tratti predominanti in quest’epoca:
1) la musica popolare tende a soppiantare quella aristocratica, anche alla corte e vengono istituite case del tè con cantatrici, seguite da case del vino e da case di cantatrici;
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2) i generi del teatro musicale cominciano a svilupparsi, con una grande fioritura del teatro delle
marionette;
3) il dono di diversi strumenti musicali e di opere di teoria musicale, fatto dall’imperatore Huitsung alla corte di Corea, ha fatto sì che l’influsso della musica cinese sulla musica di corte coreana si accentuasse.
d) Dinastia degli Yüan (1280-1368). I mongoli introdussero una scala musicale diversa
dall’antica gamma cinese:
Il teatro musicale diventa molto popolare, con 2 scuole principali: quella del Sud, con
melodie di struttura pentatonica per flauto traverso, e quella del Nord, con una gamma apparentemente eptatonica. La musica di teatro, nota col nome di ča-hsi sotto i Sung, si è sviluppata in
yuan-ku sotto gli Yüan: teatro accompagnato da strumenti a corda. Lo strumento principale era
il p’i-p’a, liuto di forma ovale, a 4 corde. I musicisti vennero organizzati in casta ereditaria. Non
si nota nessuna creazione nuova. Si cerca anzitutto di rimettere in onore la musica rituale.
e) Dinastia Ming (1368-1644). La musica visse un periodo di decadenza fino all’imperatore Sečong (1522-1567), che dispose la regolamentazione della musica di corte: per esempio, si dovevano accordare ogni mese gli strumenti in base a suoni-campione di altezza fissa, dati dalle canne sonore, i liuh. Vennero in seguito compiuti studi sulla teoria musicale da parte di letterati,
come il principe T’su-zai-yu (1573-1660), che scrisse opere sui liuh e sul temperamento della
gamma cinese. La musica era lasciata nelle mani di musici professionisti, spesso disprezzati, organizzati in caste ereditarie. Per l’insegnamento a questi musici fu creato lo šên-yue-kuan. Il
čiao-fang dipendeva dal ministro dei Riti e dirigeva le orchestre e i cori. Sotto i Ming furono attivi diversi complessi orchestrali: la chong-he-shao-yue suonava per il sacrificio al Cielo e alla
Terra nel tempio degli antenati degli imperatori, durante le piccole e le grandi udienze; la čiaofang-sin-u-yue, orchestra femminile, agiva durante il sacrificio offerto dall’imperatrice alla patrona della sericoltura. Altre orchestre suonavano musica d’intrattenimento per rallegrare i banchetti. Per i viaggi dell’imperatore furono utilizzate orchestre processionali e orchestre trionfali
di 5 diversi tipi. Sotto il già citato imperatore Se-čong venne istituito il teatro kun-k’u.
f) Dinastia Ch’ing (1644-1911). Fu fissato un nuovo suono fondamentale hoang-čong. E continuata la musica di corte dell’epoca Ming. Gli inni di quel periodo avevano nomi in he (armonioso) e in an (tranquillo). Quelli cantati sotto i Ch’ing, invece, avevano nomi in ping (calmo), in
kuang (luminoso) e in feng (abbondante). Per la musica dei banchetti, vari complessi stranieri
suonavano la propria musica: ricordiamo quello mongolo, quello tibetano, quello coreano, quello birmano e quello vietnamita. Sotto i Ch’ing fu molto in voga il teatro musicale del tipo činghsi, con i 2 «modi» principali si-pi e erh-huang. Si verificò un importante sviluppo della musica
popolare e della musica di divertimento. Sotto questa dinastia l’influsso della musica occidentale comincia a farsi sentire, soprattutto dopo l’inizio del Novecento.
4) Periodo contemporaneo (dal 1911 ai giorni nostri). La Cina ha vissuto, in questo periodo, 2
rivoluzioni politiche e una rivoluzione culturale. La prima ha portato alla prima Repubblica Cinese, con il presidente Sun Yat-sen. La penetrazione occidentale nel campo della cultura e della
musica, iniziata verso la metà dell’Ottocento, è molto aumentata con questi rivolgimenti sociali.
Con la caduta della monarchia l’antica musica di corte è scomparsa; sono continuate la musica
di divertimento, la musica da camera con solisti (suonatori di k’in, cetra a 7 corde, di čêng, cetra
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a 13 o a 16 corde, di p’i-p’a, liuto ovale a 4 corde, di erh-hu, viella a 2 corde), come pure la musica per piccoli complessi. La musica europea fece una prima apparizione con l’istituzione di
una sezione di musica occidentale nella Scuola di Belle Arti di Shanghai (1915) e di un Consiglio Nazionale nella medesima città (1927).
Nel 1949, una seconda rivoluzione politica ha portato alla testa della Cina il governo
della Repubblica Popolare Cinese. Da quella data fino alla rivoluzione culturale (1965-1968),
una rivoluzione nella rivoluzione, la riorganizzazione della musica, della letteratura e delle arti è
stata guidata dalle idee del presidente Mao, espresse nel 1942 negli Interventi alle conversazioni
sulla letteratura e l’arte a Yenan. Si è assistito alla prima riforma dell’«Opera di Pechino».
Venne scritto un nuovo lavoro, I ribelli loro malgrado, per narrare un’insurrezione contadina.
Ma le nuove idee sono state interpretate in modi diversi: alcuni hanno sostenuto «l’arte e la letteratura per tutto il popolo», altri invece hanno voluto mettere «la letteratura al servizio degli
operai, dei contadini e dei soldati», in ossequio alle idee espresse dal presidente Mao a Yenan.
La rivoluzione nell’«Opera di Pechino», iniziata nel 1964, fu il preludio della rivoluzione culturale.
La musica tradizionale è stata oggetto di studi e ricerche: sono stati registrati i vecchi
maestri di k’in, di čêng e altri solisti. È stato organizzato a Pechino il Festival dei dilettanti di
canto e danza delle minoranze nazionali cinesi (ottobre 1965), cui hanno preso parte più di 700
artisti, appartenenti a 53 minoranze. Durante la Rivoluzione culturale, la musica classica tradizionale cedette gradualmente il posto a canti di nuova creazione. Il pianoforte a coda è stato utilizzato persino per accompagnare i pezzi del čin-hsi (teatro musicale di Pechino); fortunatamente, questa esperienza sbagliata è stata abolita qualche anno più tardi. Al momento attuale, dopo
l’eliminazione della «banda dei quattro», vi sono segni che fanno supporre un ritorno alle forme
tradizionali, ma la mancanza di documenti recenti non permette affermazioni precise.8
Il Linguaggio musicale
1) Altezza assoluta
La Cina è l’unico Paese dell’Asia in cui fin dall’antichità si sia presa in considerazione
la nozione di altezza assoluta. Come abbiamo già visto, lo hoang-čong venne fissato da Lingluen, ministro del mitico imperatore Huang-ti. In seguito, nel corso della storia avvenne che più
volte i ministri dei riti si incaricarono di fissare in modo preciso la lunghezza della canna corrispondente all’altezza esatta di tale suono; essa si avvicina a quella del MI, della scala temperata
occidentale. Partendo dallo hoang-čong, si potevano fissare le altezze dei 12 suoni campione, i
liuh, mediante il ciclo delle quinte.
2) I 12 « liuh »
Maurice Courant nell’Encyclopédie Lavignac, e il Padre Amiot nel VI volume dei Mémoires concernenti i Cinesi hanno mostrato come fu determinata l’altezza assoluta di questo
suono fondamentale. Era vicina ai MI, secondo Courant, e al FA3 secondo Padre Amiot. Disponendo i suoni secondo le altezze, si ottiene nell’intervallo di ottava una scala di 12 gradi, la scala dei liub (tabella 2). Questi 12 suoni, distanti un semitono l’uno dall’altro, non formavano la
gamma cromatica: di essi ne furono scelti 5, in modo da costituire la gamma fondamentale, una
gamma pentatonica senza semitoni, comprendente inoltre 2 suoni supplementari, usati come note di passaggio.
8
Trân van Khê, op. cit., pp. 558-559
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L’altezza assoluta in Cina secondo Maurice Courant nell’Encyclopédie Lavignac
e il Padre Amiot nel VI volume dei Mémoires
Tabella 2
3) La formazione della scala pentatonica: il «san-fen-sun-yi». Letteralmente, questo termine significa la divisione per 3 con diminuzione e aumento. Si divide l’altezza di una canna o la lunghezza di una corda, per 3 e si prendono i 2/3 di tali misure: la canna o la corda che ne risultano
danno un suono che risulta più acuto di una quinta di quello della canna fondamentale (se il
primo suono, ad esempio, è fa il secondo sarà do); dividendo questa nuova misura per 3, e prendendo una misura pari ai 4/3 della seconda, si ottiene una canna (o corda) che dà un suono inferiore di una quarta rispetto a quello della seconda canna (se il suono è do il successivo sarà il sol
inferiore) (Esempio 1); e via di seguito. Nel primo caso abbiamo la generazione superiore, nel
secondo la generazione inferiore.
Esempio 1
La lunghezza della canna generatrice fondamentale è di 81 linee; il suono prodotto è lo hoangčong: è il grado fondamentale della scala, kong.
La seconda canna misura
81 × 2
= 54
3
linee; è il suono lin-čong, il grado če.
La terza canna misura 54 × 4 = 72 linee; è il suono t’ai-tseu, il grado shang.
3
La quarta canna misura 72 × 2 = 48 linee; è il suono nan-liuh, il grado yu.
3
La quinta canna misura 48 × 4 = 64 linee; è il suono ku-hsi, il grado čiao.
3
La sesta canna misura 64 × 2 = 42 linee e 2/3; è il suono ying-čong, il grado pien-kong.
3
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La settima canna misura 42 × 4 = 56 linee e 2/3; è il suono hsian-pin, il grado pien-čêng.
3
La scala fondamentale comporta 5 gradi principali (i primi 5) e 2 ausiliari: è apparentemente eptatonica, ma di fatto ha struttura pentatonica. (Esempio 2)
Esempio 2
I gradi ausiliari, i pien (bian nelle trascrizioni più moderne), vengono usati come note di
passaggio o di ornamento:
La scala fondamentale è caratterizzata dal posto del pycnon, cioè della successione serrata dei gradi (nell’esempio qui sopra: MI-FA-SOL).
Secondo la vulgata, cioè la versione prevalente e più diffusa della teoria, il pentatonismo presenta cinque aspetti.9
Secondo la teoria attualmente in vigore nelle scuole10 è possibile determinare il sistema
modale di una melodia attraverso un semplice principio di analisi: prima di tutto l’insieme delle
note suonate verrà ricondotto a una scala di cinque note, secondo il principio di equivalenza delle ottave e considerando le note supplementari come accidentali o di passaggio. Queste cinque
note formeranno una scala pentatonica (a cinque note) e anemitonica (senza semitono). La nota
base sarà il do, primo grado del pycnon (serie di tre note separate da due toni interi consecutivi).
Si cercherà poi il pycnon e da lì si collocherà il do, scritto come shang in notazione gongche. Infine si osserverà la nota finale. La sua posizione relativa ci dirà in quale dei cinque tipi o “aspetti” della scala ci si trova.
I Cinesi definiscono questi cinque tipi (diaoshi) con il nome della nota nel sistema dei “cinque
suoni” corrispondente (tabella 3):
gong diaoshi
do
re
mi
sol
la
shang diaoshi
re
mi
sol
la
do
jiao diaoshi
mi
sol
la
do
re
zhi diaoshi
sol
la
do
re
mi
yu diaoshi
la
do
re
mi
sol
Tabella 3
9
10
François Picard–Enzo Restagno, op. cit., pp.17-19
Vedi per esempio “I fondamenti teorici della musica” (Yinyue lilun jichu), pp. 58-59.
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Come Constantin Bràiloiu e Jacques Chailley, Tran Van Khe utilizza il termine di “aspetto”. La loro teoria11 si fonda sull’ipotesi che le cinque note siano generate dal ciclo di quinte do sol re la mi. Se ne deduce la seguente numerazione dei cinque aspetti, sempre determinati
in altezze relative:
I aspetto
do
re
mi
sol
la
II aspetto
sol
la
do
re
mi
III aspetto
re
mi
sol
la
do
IV aspetto
la
do
re
mi
sol
V aspetto
mi
sol
la
do
re
Tabella 4
Una scala in cui 1 2 3 5 6 abbiano rispettivamente come altezza do re mi sol la sarà in
“gong diaoshi” o aspetto I come la scala fa sol la do re. Una scala le cui note abbiano rispettivamente l’altezza di do re fa sol la sarà del tipo 5 6 1 2 3 e quindi in “zhi diaoshi” o aspetto II
(tabella 4).
Una volta determinato il tipo o aspetto, si osserva l’altezza assoluta del do (scritto come
1) in notazione europea. Una scala dove 1 2 3 5 6 abbiano rispettivamente per altezza do re mi
sol la sarà in “do gong diaoshi”. Una scala dove 1 2 3 5 6 abbiano per altezza sol la si re mi sarà in “sol gong diaoshi ‘ La scala do re fa sol la sarà in “do zhi diaoshi”. La scala sol la do re
fa, del tipo 2 3 5 6 1 e con alla base un re (2) di altezza assoluta sol, sarà in “sol shang diaoshi’
La notazione semplificata Chevé utilizza in linea di massima soltanto le note non alterate 1 2 3 5 6, alle quali vengono eventualmente aggiunti i gradi 4 e 7. L’altezza assoluta compare
all’inizio dello spartito in corrispondenza con il sistema occidentale assunto come riferimento
assoluto. 1 = fa contrassegna la scala fa sol la do re, 1 = sol la scala sol la si re mi. La trascrizione su pentagramma rende questa nozione facendo figurare gli accidenti in chiave. Così, un si
bemolle in chiave vuol dire 1 = fa, anche se non appare alcun si nella musica. Talvolta sarà necessario dividere un brano in diversi passaggi, ciascuno corrispondente a una particolare scala.
Vi saranno quindi “modulazioni” da un passaggio all’altro. Esistono infatti diversi tipi di modulazioni possibili12.
4) I «tiao». Il termine ha diversi significati: indica un «sistema», ma anche un «modo» (traduzione di M. Courant), oppure una certa maniera di accordare gli strumenti a corda, oppure ancora un’aria musicale. Secondo Courant, i tiao designano le diverse «forme» che può assumere
una scala, le quali costituiscono altrettanti «modi» basati sul primo suono della scala. Per esempio: gamma di hoang-čong, kong-tiao (sistema di kong), modo di «prima»: MI3, FA#, SOL#, SI,
DO#4 ma il termine tiao spesso indica semplicemente il valore dell’ottava. Le scale dei diversi
tiao sono quelle fornite nella tabella 5. Il termine tiao non indica un «modo», così come viene
Esposta in numerose occasioni, per esempio in Tran Van Khè, Musicales (traditions), I
Musiques d’inspiration chinoise, in Encyclopedia Universalis, Paris, 1980, pp. XI, 451-7.
12 Vedi anche Yuan Jingfang, A Summary of “ fandiao”,contributo al “Training Symposium on
Traditional Music in Asia and the Pacific”, Pechino, 15-19 giugno 1987.
11
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definito nella musica indiana (raga) o in quella persiana (datsgah), e neppure il dieu vietnamita,
che si scrive con lo stesso ideogramma del tiao cinese. Ben inteso, esiste pure una scala modale
con successione fissa d’intervalli. Così, alcuni gradi sono più importanti di altri: in genere, il
primo grado della scala viene usato come nota finale o come nota iniziale. Il kong-tiao è caratteristico della musica cinese, e corrisponde al ryo giapponese; il če-tiao è quello usato più frequentemente, e corrisponde al ritsu giapponese, al pyongjo coreano e al diêu vietnamita; lo yutiao compare nella musica popolare.
Scale dei diversi tiao
Tabella 5
Due sono i modi principali di accordare lo čêng a 16 corde:
5. Il ritmo. Nella terminologia, la parola čie (ritmo) viene spesso confusa con pan-yen (misura,
letteralmente «colpo di tavoletta e occhio»): sono termini che indicano rispettivamente il tempo
forte e il tempo debole. Alcune osservazioni a proposito del ritmo:
a) il ritmo binario (misure a 2 e a 4 tempi) è molto frequente, mentre quello ternario (misure a 3
tempi) è molto raro nella musica classica tradizionale;
b) il ritmo sincopato è spesso usato per ornamentazione o come variazione ritmica, specie nella
musica teatrale;
c) nella musica rituale, in quella teatrale e in quella processionale gli strumenti ritmici, molto
vari, hanno un compito essenziale;
d) nel teatro musicale, numerose sono le formule ritmiche;
e) il ritmo libero compariva anticamente nelle declamazioni teatrali.
6) L’armonia e la polifonia. Nella musica cinese, essenzialmente melodica, non esistono né
l’armonia né la polifonia in senso occidentale. Ogni brano è caratterizzato da una melodia relativamente fissa: la notazione indica una linea melodica che gli esecutori debbono rispettare. Ma
in un complesso strumentale, l’esecuzione di tale melodia, anche all’unisono, ci fa sentire simultaneamente varie linee melodiche leggermente diverse: sono dovute alle particolarità degli
strumenti e producono ciò che chiamiamo eterofonia, assai frequente negli accompagnamenti
dei canti o nei brani eseguiti da un complesso strumentale. Così, le opere del principe Tsai-yu
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(citazione da Courant) ci dicono che a un suono fondamentale chiamato čeng possono corrispondere lo ying (lo stesso suono corrispondente al primo, cioè l’ottava), lo huo («il quale non è
lo stesso suono, pur essendo veramente in armonia »: cioè la quinta o la quarta) e il t’ong (che è
lo stesso suono, ma prodotto su un’altra corda). Ora, questi suoni sono più spesso successivi che
simultanei al principale; gli accordi arpeggiati o rotti sono frequenti, mentre inesistenti sono gli
accordi plaqués. Supponendo che i suoni čeng, ying, huo e t’ong siano simultanei, si otterrebbe
un accordo così formato: fondamentale-quinta-ottava, o fondamentale-quarta-ottava (il čeng e il
t’ong hanno la medesima altezza).
Alcuni testi cinesi indicano l’esistenza di note arpeggiate, a volte di accordi spezzati con
tenuta della fondamentale. Un passo del T’čao-man-ku-yue-fu («Melodie antiche con accompagnamento»), citazione da Courant, c’informa che «i cantori e gli organi a bocca danno un suono
unico prolungato; il k’in, salterio a 7 corde, suona 32 note, dopo di che il canto e l’organo a
bocca cessano: è ciò che si chiama t’čao-man».
7) Notazione musicale. Vi sono diversi sistemi di notazione. I sistemi classici presentano le stesse caratteristiche:
a) le note sono rappresentate da ideogrammi che indicano l’altezza: altezza assoluta per la notazione con i nomi dei liuh, altezza relativa per la notazione con i nomi dei 5 gradi e per la notazione kong-či;
b) i caratteri sono scritti dall’alto in basso, da destra a sinistra;
c) si indicano i tempi forti con un segno particolare, generalmente un cerchietto di colore rosso;
d) la durata di ogni nota non è indicata in modo chiaro;
e) le sfumature dell’esecuzione vengono indicate oralmente dal maestro.
a) Notazione antica.
1) Con i nomi dei liuh, così abbreviati:
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13
b) Notazione moderna.
1) Con i numeri: la maggior parte dei brani per diversi strumenti è stata trascritta con la notazione numerica, alla quale sono stati aggiunti diversi segni che indicano il modo di suonare lo
strumento:
1
DO
2
RE
3
MI
4
FA
5
SOL
6
LA
7
SI
1
do
per il C tiao, il «modo» di Do.
13
L’intavolatura è un sistema molto chiaro e semplice di notazione: generalmente si riproducono le posizioni che
l’esecutore deve assumere sulla strumento. Mediante la riproduzione grafica della tastiera. In occidente le prime intavolature risalgono al XIV secolo e sono state penzate ed elaborate per semplificare la lettura dello strumentista.
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2) Con la notazione occidentale: questo sistema di notazione viene usato soprattutto in musicologia o per le nuove composizioni.
Alla luce della datazione dei supporti e dell’esame critico degli stili o dei riferimenti storici, è
stato possibile delineare una cronistoria degli spartiti che vede susseguirsi le istruzioni per cetra
qin fin dal VI secolo14, le intavolature per liuto p’i-p’a nel X secolo15 la notazione secondo altezze assolute per il canto16 e le intavolature per cetra qin17 nel XII secolo, e per concludere la
notazione del canto taoista nei secoli XIII e XIV18. Dalle intavolature per liuto derivò il sistema
predominante, la notazione strumentale di tipo gongche, valida per tutti gli strumenti.
Le prime partiture sinottiche per orchestra, che mostrano in modo dettagliato la parte di
ciascuno strumento, sono opera di Zhu Zaiyu19. Esse ci mostrano l’esecuzione di canti del rituale imperiale, accompagnati, dall’alto verso il basso della pagina, dal carillon di campane, dalla
cassa bofu, dalle claquettes chunbao, dalle cetre qin e dal carillon di lastre di pietra.
La raccolta “Appendice per strumenti a corda” (Xiansuo beikao) del 1814 rappresenta
un’importante tappa. Essa nota su colonne verticali parallele le partiture individuali dei liuti,
della viella, della certa, e per certi brani, lo spartito comune agli strumenti a fiato.
All’inizio del XX secolo i Giapponesi introducono la “notazione semplificata” (jianpu).
Questa notazione cifrata era stata elaborata da Jean-Jacques Rousseau20 nel 1746, perfezionata
poi da Pierre Galin (1768-1821) e divulgata da Aimé Paris ed Emile Chevé (1804-64).
Dopo il 1949, e soprattutto dopo gli anni Sessanta, l’uso del pentagramma si diffonde
progressivamente.
Ecco una pratica tavola (Tabella 6) di corrispondenza delle notazioni21:
14 “L’orchidea solitaria, sull’aria del Picco roccioso”(Jieshi diao Youlan), tra il 505 e il 557
15 Manoscritti di Dunhuang P. 3808, B. N., fondi Pelliot, intorno al 933. La prima intavolatura occidentale per liuto
compare nell’Intavolatura di lauto, pubblicata a Venezia nel 1507-1508 da O. Petrucci.
16 Zhao Yansu (a cura di), “Gli spartiti di dodici odi estratte dalle sezioni Feng e Ya del Canone dei poemi” (Feng Ya
shi-er shi pu), intorno al 1180. La notazione dell’altezza assoluta dei suoni comparve in Occidente nel XI secolo
con il Micrologus de Guido d’Arezzo.
17 Jiang Kui, “Canti del taoista dalla pietra bianca” (Baishi dao ren gequ), intorno al 1195; ried. Shanghai, 1924.
18 “Rituale dei suoni di giada” (Yuyin fashi), juan 1, sezione 2, incluso nell’edizione del 1444 del Magee Boltz,
Neumatic notation in the Taoist Canon and performance practice today, ibid., “Canone taoista” (Daozang) sotto il
numero 333. Vedi Jao Tsung-i, Airs de Touen-houang, intr., trad. e note di Paul Demiéville, Paris, CNRS X971, p.
24 (33). Chen Guou, “Studio sull’origine del Canone taoista” (Daozang yuanliu kao), Pechino, Zhonghua shuju,
1963, lI, p. 300, data questo rituale dai Song del Nord, cioè al più tardi nel X secolo. Vedi anche Chen Guofu,”Interpretazione della notazione curvilinea dello Yuyin fashi: rapporto preliminare” (Bei Song Yuyin fashi yin
[xian] pu kaoqiao), in Pen-Yeh Tsao e Daniel P. L. Law, Studies of Taoist Rituals and Music of Today, Hong
Kong, The Society for Ethnomusicological Research in Hong Kong 1989, pp. 181-217, e Judirh pp. 88-109.
19 Per esempio Zhu Zaiyu, Caoman guyue pu, 1605, juan 1, f. 22. Notiamo che i primi esempi chiari di orchestrazione in Occidente, le Sacre Symphonie di Giovanni Gabrieli, 1597, sono contemporanei.
20 Jean-Jacques Rousseau, Dissertation sur la musique, in Ecrits sur la musique, Paris, Stock 1979.
21 Nel sistema dei <<cinque suoni>>,la pronuncia moderna jiao sostituisce la pronuncia classica jue.
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Tavola di corrispondenza delle notazioni
Tabella 6
La notazione per cetra qin si presenta sotto forma d’intavolatura indicando le diteggiature. Senza un riferimento all’accordo vuoto, è in linea di massima impossibile conoscerne
l’altezza. L’accordo di base del liuto permette, in generale, di dedurne le note suonate dalla notazione antica. In entrambi i casi non entra in gioco l’altezza assoluta.
La notazione lülü designa le altezze assolute fissate in riferimento a un diapason, lo
huangzhong, variabile a seconda delle epoche in relazione ai decreti imperiali. Essa divide
l’ottava in dodici semitoni:
Non sembra che si possano tradurre oggi i nomi delle note in modo soddisfacente. Per
contro, l’analisi dei nomi fa risaltare oltre alla “campana” (zhong) fondamentale, due serie di tre
note: tre lü separati da terze maggiori, alle quali corrispondono tre “campane” rispettivamente
situate alla seconda inferiore.
La notazione gongche presenta infatti un sistema a sette trascrizioni (sistema del do mobile). La scala di riferimento si chiama “scala del carattere shang” (shangzi diao). Essa ha come
base lo shang, che viene definito come il secondo grado sul flauto. Il nome delle altre scale si
deduce dal posto dei loro shang. La “scala del carattere che”(chezi diao), che ha il suo shang al
posto del che della “scala del carattere shang”, si ritrova dunque un grado diatonico più in alto.
La sola a fare eccezione è la scala del carattere wu, chiamata “scala del vero gong” (zhenggong
diao), dove il gong è qui il primo dei “cinque suoni”.
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La scrittura mal si adatta a spiegare questi sistemi, facili invece da cogliere attraverso la
pratica musicale, anche se rudimentale. Le molteplici varianti locali o temporali sono decifrabili
rapidamente e facili a trascrivere su pentagramma.
8) Le modulazioni
La trasposizione delle melodie conserva il tipo o aspetto, rispetta gli intervalli, ma modifica le
altezze assolute. 1 2 3 5 6 resta 1 2 3 5 6 ma do re mi sol la diviene fa sol la do re. “Do gong
diaoshi” diviene “fa gong diaoshi”.
La trasformazione delle melodie conserva la nota di base ma cambia l’aspetto. 1 2 3 5 6
diviene 1 2 4 5 6 (lo possiamo chiamare 5 6 1 2 3, presenta infatti la stessa successione di intervalli). Do re mi sol la diviene do re fa sol la. “Do gong diaoshi” diviene “do zhi diaoshi “.
Questo viene chiamato procedimento di “sostituzione di carattere” (jie zi).
Trasposizione e trasformazione possono beninteso mescolarsi: per esempio, nella “trasposizione
modale in catena” (lianhua biandiao) in uso nella musica per tamburi e fiati del Nord-est, la
stessa melodia subisce cinque trasposizioni successive: 1 2 3 5 6 diviene 2 3 5 6 1 poi 3 5 6 1 2,
5 6 1 2 3, 6 1 2 3 5 e infine ritorna a 1 2 3 5 6.
Il problema dei modi si risolve sempre con la pratica: la notazione impone al musicista
di accordare, poi di suonare una serie di diteggiature; la questione di un’eventuale tonalità o
modalità non lo riguarda. Essa ha invece stimolato molto la penna dei teorici, che attraverso i
secoli hanno prodotto una gran quantità di tabelle da loro reputate definitive. Le tabelle 3 e 4
combinano per esempio cinque aspetti del pentatonismo con dodici altezze assolute di partenza,
il che dà origine a sessanta scale. Con una scala di sette suoni si otterrebbero allo stesso modo
ottantaquattro scale. Il loro studio non insegna nulla per ciò che riguarda la pratica o i principi di
composizione. I problemi posti dagli spartiti sono nettamente più semplici di quelli posti da simili tabelle. Sembra quindi assolutamente prematuro spingersi in un’analisi generale del sistema
dei modi. Occorreranno numerosi studi parziali per arrivarci. Il sistema dei modi del Nanyin
possiede per esempio una propria nomenclatura, così come la cetra qin possiede la sua.
Lo studio delle varianti di uno stesso brano si rivela particolarmente istruttivo. Esso mostra che una stessa melodia in questa o quella variante può avere conclusioni differenti. Bisogna
concluderne che ha cambiato modo? No, perché questo implicherebbe che l’intera percezione
sia cambiata con l’ascolto della nota finale. Cosa del tutto impensabile. Si dovrà allora ammettere che non bisogna determinare il tipo o l’aspetto in base alla nota finale. Lo studio delle traslazioni di un brano da un genere a un altro mostra che il sistema modale non appartiene al brano,
bensì al genere nel quale esso s’inscrive.
9) La funzione delle notazioni
L’influenza degli spartiti sullo sviluppo e sulla trasmissione delle musiche fu quasi nulla, dal momento che quelli più antichi erano stati dimenticati, messi in disparte, indecifrabili o
dispersi per secoli. La più antica definizione delle cinque altezze relative (wu sheng) e dei dodici
semitoni (1ü1ü), incisa sulle campane bronzee del carillon del marchese Yi di Zeng nel V secolo
precedente la nostra era (433 a.C. circa), ha largamente preceduto la notazione propriamente
detta delle melodie. C’è da stupirsi per l’enorme tempo intercorso tra la definizione delle altezze
e l’uso di spartiti? Certamente no. L’India22 e il mondo arabo hanno entrambi molto presto avu22 Iscrizioni in caratteri Pallava-grantha risalenti al VII secolo, vedi D. R. Widdess, The Kudumiyàmalai
inscription: a source of early Indian music in notation, «Musica Asiatica», lI, 1979, pp. 115-50.
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to a disposizione i mezzi per notare la loro musica, senza mai sentirne il bisogno. Chi ha dunque
provato il bisogno di scrivere e di conservare gli spartiti? I Giapponesi, limitati nella loro capacità di memorizzazione dalla brevità del loro soggiorno sul continente, si collocano in prima fila
tra questi scrivani; il loro duplice vassallaggio nei confronti dell’impero Tang e del buddismo
impose loro di trovare il modo di riportare al di là del mare i testi sacri e le musiche. Gli stessi
uomini hanno inventato la scrittura alfabetica giapponese e la notazione musicale, come mostrato da uno stupefacente documento che include la scrittura sanscrita, quella cinese e le prime intavolature di flauto23, un documento coevo di spartiti giapponesi di musica cinese più antichi
dei loro omologhi continentali24.
Rimane ancora la questione25 dell’importante quantità di spartiti per cetra qin. La risposta sociologica, che associa lo strumento ai letterati e dunque alla scrittura, non è sufficiente.
L’etnomusicologia ci dice qualcosa di più. Da una parte, il processo d’apprendimento della cetra, strumento solista almeno nel suo repertorio scritto, non può realizzarsi nella normale cornice
della consuetudine, dall’altra non esistono relazioni evidenti e univoche tra le note suonate e le
diteggiature utilizzate, contrariamente a tutti gli altri strumenti, eccezione fatta per le campane a
due suoni dell’antichità e per il liuto, sebbene per quest’ultimo i raddoppi fossero poco numerosi in una prassi esecutiva limitata alla prima posizione (senza smanicatura), così come era praticata fino al XVII secolo. L’arte del qin è strettamente legata alla ricchezza di timbri, consentita
dall’ottenimento della stessa altezza su corde diverse. Pochissimi esecutori, ancora oggi, potrebbero, come i pianisti, leggere a prima vista uno spartito nel suo tempo effettivo. La complessità
delle istruzioni, corollario di quella delle scelte che vanno effettuate per suonare una nota, implica un lento lavoro di assestamento. Si nota come le nuove raccolte comparse nel corso dei secoli talora si limitino a copiare fedelmente quelle più antiche, talora ne presentino invece versioni più elaborate, più ornate, che testimoniano un’evoluzione individuale alla quale il lavoro
di scrittura non ha apportato nulla di evidente.
10) Il valore delle notazioni
Anche in margine alla musica, gli spartiti mantengono un valore immenso, forniscono
una testimonianza insostituibile. Essi confermano la profondità di repertori e di pratiche, la loro
permanenza attraverso i secoli; le musiche di cui conservano traccia rivelano una ricchezza e
una bellezza tali da giustificare tutti i tentativi di ricostruzione. Nel 1990, Laurence Picken si è
recato in Cina per lavorare con alcuni musicisti professionisti a un’esecuzione di spartiti cinesi
conservati in Giappone e da lui decifrati. Dopo mille anni queste musiche avranno infine la possibilità di risuonare di nuovo. Un’analisi musicale che confronti testi e tradizione viva permette
23 Annen, “Canone del siddham” (Shittan zo), 880, Tt. 2702.
24 Spartiti per liuto (Tempyò biwa-fu) del 750, (Fushimi-no-miya hon biwa-fu) dell’ 838 (copie del
920/921), per liuto a cinque corde (Gogen kin-fu) dell’842, per flauto (Hakuga nofue-fu) del 966, per
cetra zheng(Ko so-fu) intorno all’anno 1000. Vedi Jonathan Condit, Tunes notated influtetablaturefrom ajapanese source ofthe tenth century, «Musica Asiatica» I, 1977. Rembrandt Wolpert,
“A ninth-century Sino-Japanese lure-tutor”, «Musica Asiatica» I, 1977, pp. 111-65. Rembrandt Wolpert, A ninth-century score forJìve-stringed lute, «Musica Asiatica», III, 1981, pp. 107-35. Alan Marrett, Two Tang-music melodies for fiute in D. R. Widdess & Rembrandt Wolpert, Music and Tradition, essays presented to Laurence Picken, Cambridge, Cambridge University Press 1981.
25 Come ha osservato Laurence Picken, Musicfrom the Tang Court, Oxford University Press, London, I,
pp. 13-4.
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di delineare l’imprecisione sovente sottolineata della maggior parte degli spartiti, in particolare
l’assenza di battute e di valori ritmici. In questo campo più che altrove, la musica può trarre beneficio dall’impressionante competenza acquisita nel campo della lettura dai musicisti attuali.
Ritmo e linguaggio naturale in Cina
Se nella musica occidentale lo sviluppo del linguaggio ritmico è da sempre collegato alla metrica della lingua parlata e poetica, sia quella quantitativa classica sia quella accentuativa
moderna, in Cina il rapporto fra ritmo e lingua naturale ha caratteristiche diverse.
Quella cinese è una delle più antiche civiltà che si siano perpetuate ininterrottamente sino a noi e la sua cultura presenta dei caratteri di continuità e di unità specifici. Uno dei principali fattori di quest’unità spazio temporale è il sistema di scrittura che ha una continuità di caratteri
che vanno dal II millennio a.C. fino ad oggi. Scrittura non di carattere alfabetico, ma costituita
da caratteri indipendenti, ciascuno con un proprio valore semantico e fonetico, con un significato concreto. Alcuni caratteri sono pittogrammi, altri ideogrammi, che rappresentano concetti astratti attraverso raffigurazioni simboliche, mentre altri ancora hanno origini fonetiche.
La maggior parte dei caratteri è però costituito dalla combinazione di due elementi, uno
significante che indica la categoria generale del termine, ed uno fonetico che sta invece ad indicare, per altro in maniera più o meno esatta, la sua pronuncia fonetica. La presenza di una così
particolare forma di scrittura ha necessariamente influenzato il pensiero, la cultura e la musica
cinese.
Ovviamente occorre pensare ad una concezione della musica differente e lontana dalla
nostra, dove la natura dell’arte musicale è correlata al suono, in quanto espressione di potenza
trascendente; quest’idea che la musica contenga e superi il suono ancora oggi trova riscontro in
prassi strumentali tradizionali, come ad esempio la tendenza dei suonatori di salterio a proseguire il vibrato su una corda anche dopo la cessazione di ogni suono udibile. Musica oltre il suono
(almeno oltre la mera esperienza dell’udibile o dell’udito), basata su rapporti complessi e articolati determinati dalla relazione tra musica e ordine dell’Universo: l’organizzazione e la struttura
che si manifestano nella musica sono le stesse che regolano tutte le attività umane, che quindi
rappresentano solo lo specchio fedele dell’armonia del cosmo. Questa concezione afferma che
l’agire umano sia conseguente della natura, e conduce a quell’armonia con la natura che pervade
tutto il pensiero cinese.
Alla base del pensiero cinese, si pone l’uomo e il cosmo in una stretta relazione ritmica
tanto che entrambi respirano e pulsano in sincronia pervasi dalla stessa energia. In occidente i
compositore da secoli imitano la natura, invece nella cultura cinese il musicista non deve imitare
nulla poiché la musica è natura che si manifesta attraverso l’espressione umana del suono. Questa qualità naturale che permea la musica cinese, anche tradizionale, è testimoniata dalla prevalenza della vocalità: niente potrebbe essere più naturale della voce, luogo dell’incontro senza
mediazioni (come sono gli strumenti musicali) di natura e cultura: «La voce è suono. Il suono è
l’elemento più sottile della materia percettibile. Nella storia di ciascuno di noi, come nella nostra storia collettiva, fu proprio esso, in origine, il luogo di incontro dell’universo e
dell’intelligenza.»26
Fenomeno fondante dell’esperienza sonora umana, la voce è “suono primordiale”, oggetto materiale espressione di quel desiderio che non vuole né può trovare compimento.
26
Paul Zumthor, nella Prefazione a Corrado Bologna,Flatus Vocis, Il Mulino, Bologna, 1992
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«Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, c’è come potenzialità di
significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler dire,
all’esprimere, cioè all’esistere. La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione
con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono; è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza».27 (Zumthor, 1992, p.23)
Lo “strumento vocale” può sostanzialmente essere considerata sotto un duplice aspetto,
che è sintetizzabile nelle definizioni di parlato e cantato. Più precisamente, si intende il rapporto tra Voce (codice interindividuale) e Parola (atto individuale di utilizzo del codice). Si distinguono così due sistemi di funzionamento sociale: oralità e vocalità, dove per oralità s’intende il
senso della voce come veicolo/tramite del messaggio e per vocalità tutto quanto viene espresso
nel funzionamento della voce a prescindere dal messaggio.
Lingua e scrittura sono così lontane l’una dall’altra da escludere reciproche rivelazioni.
Per quanto riguarda la ricerca sul campo, coloro che l’hanno effettuata sono stati sommersi dalla
ricchezza di un arcipelago in cui ogni isola rappresenta un mondo.
Musiche strumentali e vocali sono oggi separate, e lo studio delle prime dimostra che
esse avevano origine in un testo di cui il suono soltanto aveva importanza, e che era stato decisamente svuotato di ogni senso. L’autentica relazione tra suono e senso, tra orale e scritto, si esprime in Cina nella musica.28
Ascoltando il repertorio vocale si dimostra che non esiste un modo cinese universale di
cantare, che trascenda i generi, le epoche e le regioni. Non esiste nella lingua cinese un carattere
intrinseco tale da costringerla a essere costantemente musicale. A contrassegnare questa scelta è
stata invece una lunga tradizione che ha legato i destini di poesia e musica. Ma il rapporto non è
reciproco, e non tutta la musica cinese ha origine nella lingua.
Se «la poesia cinese non è mai stata parlata»29, ciò non significa che abbia conosciuto
soltanto l’uso delle “cinque note” (do-re-mi-sol-la). Dal parlato al cantato, certamente sono state
sviluppate tutte le tappe intermedie possibili. Il primato della scrittura sulla parola non ha impedito che la lettura muta apparisse come un’aberrazione, o perlomeno come un caso limite in cui
il suono si dissolve nel silenzio.
Il cinese classico identifica con uno stesso termine (nian) sia il “leggere” che il “recitare
ad alta voce”. Il cinese moderno dice “guardare” (kan) un libro per indicarne la lettura muta.
Anche i libri sacri confuciani, pure simbolo del predominio della cultura letteraria, venivano recitati.
La salmodia dei cori buddisti (fan bai) produce un effetto d’insieme simile al flusso e al
riflusso del mare (haichao); sia l’opera sia le ballate conoscono le alternanze di recitativo e di
canto; talune forme di ballata come il “libro rapido” (kuaishu), eseguite con un semplice accompagnamento di claquettes, certi canti del Nord-est, non possono essere paragonati se non
con la parlata ritmica (rap) dei neri americani. Anche quando la poesia inventa forme (il fu) che
“non sono cantate”, essa resta orale, e presta attenzione al gioco sul timbro o sulle altezze, se
non addirittura sulla pulsazione ritmica.
La scrittura ideogrammatica cinese non indica la pronuncia; quest’ultima può variare
senza che lo scritto lo rilevi. La trasmissione del senso di un testo è così assicurata a prescindere
27 Paul Zumthor, nella Prefazione a Corrado Bologna,Flatus Vocis, Il Mulino, Bologna,1992, p.23
28 Picard-Restagno, op. cit., p.55
29 Paul Demiéville, Antologie de la poésie chinoise classique, Paris, Gallimard, 1962, p.20
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dalla lingua. Per contro l’oralità rende il suono vulnerabile alla minima interruzione o modifica;
fortunatamente l’immensità del paese, la suddivisione in lingue e dialetti il cui mantenimento è
stato favorito dalla loro scrittura comune, hanno consentito ad alcune comunità di mantenere
una parlata assai più musicale, da Canton ad Amoy fino a Shanghai, molto meno senza dubbio
nel Nord.
L’incapacità della scrittura cinese di fissare i suoni ha come risvolto positivo
l’importanza dell’oralità, quindi della musica. Non testi ma procedimenti, forme, stili, testimoniano dell’antico e dell’autentico: possiamo ancora ascoltare canti alterni, improvvisati nelle risaie o nelle fattorie collettive, simili a quelli che Marcel Granet (1982) ha rivelato nel “Canone
dei poemi”; possiamo trovare letterati capaci di recitarli a memoria nello stile antico.
Il cinese è una lingua monosillabica, dove le parole non contrassegnano né genere, né
numero, né tempo, né caso e neppure forma: il contesto apporterà le precisazioni necessarie, la
poesia ne farà a meno, e queste ambiguità sono di totale bellezza. Paul Demiéville lo ha mostrato magistralmente: «Il monosillabismo impone formulazioni ritmate e una strutturazione metrica delle sillabe, persino alla parlata più quotidiana.»30 (Figura 1)
Figura 1
Eppure i versi regolari non sono i soli; lo stretto sillabismo (a ogni sillaba la sua nota),
sebbene frequente, non è una regola assoluta. Da una parte la giustapposizione di un nuovo testo
su di una melodia preesistente può imporre l’uso di sillabe vuote (i nostri “tra-la-la”), dall’altra
questa regola entra in contraddizione col rispetto dei toni della lingua. Questi ultimi, simboleggiati da diverse altezze assolute, hanno in realtà come caratteristica principale quella di essere
movimenti, senza altezza assoluta né suddivisione determinata del campo di altezze in intervalli.
La scrittura cinese, generalmente così ricca di significato, possiede i suoi caratteri magici, i fu; la voce ha i suoi canti e i suoi incanti, similmente liberati dal senso, e quindi tanto più
prossimi al sacro. Il soffio, il gemito, il respiro, il ruggito, il borbottio, il riso, il fischio, sono altre possibilità della voce umana. Ciascuna di esse ha il proprio utilizzo, la propria efficacia. Il
linguaggio e le parole non appartengono solamente a chi parla. Si impone allora la molteplicità
della voce.
30
Paul Demiéville, op. cit., p.12
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Un’estetica del suono in Cina
La musica è la sostanza dell’universo, la natura degli esseri. L’unione con questa sostanza, l’accordo con questa natura, questo è l’armonia.31
La sostanza della musica per i Cinesi risiede nel suono. La sostanza-corpo (ti) si oppone
alla funzione (yong) come la natura (xing) alla passione (qing). La musica non ha funzione né
esprime alcun sentimento. Essa equivale a una risonanza (ganying), una risposta spontanea, aria
posta in movimento (dong), soffio. È suono.
Essa non si limita a essere rumore organizzato nel tempo. Condizionata dallo spazio, si
mostra diversa al Nord e al Sud, all’interno e ai confini, statica o in movimento. Essa intrattiene
relazioni con il linguaggio sotto gli aspetti della lingua e della scrittura, che in Cina sono radicalmente separati. Se la musica è principalmente circoscritta nel tempo della sua esecuzione, la
memoria e la possibilità di anticiparne lo svolgimento predeterminano questo momento. La storia, la cultura individuale e collettiva, interferiscono a ogni istante. Ignorando l’improvvisazione
come viene praticata nel jazz o nelle musiche indiane, la musica cinese non si riduce mai a una
“musica dell’istante”. Ricordo, ripetizione, ri-attualizzazione; come il rito, essa permette di far
rivivere il passato, di renderlo presente. La liturgia mette particolarmente a frutto questo potere
di strutturare il tempo.
Nel pensiero cinese ricorre spesso una distinzione generale. Mentre i riti hanno la funzione di distinguere tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, la musica deve aggregare gli
uomini, stabilire e manifestare l’armonia. L’Occidente assegna la prima funzione al sacro, la seconda alla religione. In Cina è possibile allo stesso modo opporre una sacralità ritualizzata, il
confucianesimo, a una religione in senso proprio, espressione delle comunità, che viene chiamata religione popolare o “paganesimo”.32 La musica ricopre allora lo stesso ruolo di
quest’ultima; in questo consiste la sua verità.33
Il Tempo in Cina
In Cina antico e nuovo si succedono e si contrappongono e a turno, ciascuno di essi può
incarnare il bene, il positivo. Nel pensiero cinese nulla contrassegna spontaneamente il tempo,
che non è né fluido, né scandito, né irreversibile: lo si può scrivere e riscrivere. È compito umano costruirne un modello provvisorio per il rituale. L’uomo agisce su questo modello e di conseguenza agisce sul tempo. Può tentare di fissarlo mediante l’alternanza del tamburo e delle claquettes, della campana e del tamburo; questo non gli impedirà di mutare. Le conseguenze
musicali sono immense: il tempo del rituale, della musica, richiede prima di tutto una ouverture,
sotto forma di preludio, di invito agli spiriti, che non può avere luogo prima che sia allestita
l’area sacra. Conchiglia, trombe, campane, legni e tamburi percossi. Alla fine occorrerà riaccompagnare gli invitati, gli spiriti; disperdere l’area, le arie34.
La coda (weisheng), molto ordinaria, non assumerà tuttavia mai la forma di una ricapitolazione tematica. Presa in prestito da un ristretto repertorio di modelli, permette di abbandonaRuan Ji, “Studio sulla musica” (Yue lun), intorno al 250. Ripubblicato in Ji Liankang, Ji Kang,
“Saggio. La musica non conosce tristezza né gioia” (Ji Kang: Sheng wu ai/e lun), Pechino, Renmin
yinyue 1987, p. 73.
32
Secondo la definizione di Marc Augé, Génie dupaganisme, Paris, Gallimard 1982.
33
François Picard–Enzo Restagno, op. cit. pp. 7-8
34 Qui Picard gioca sull’assonanza tra l’aire, les airs. [N.d.T.]
31
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re gli aspetti particolari di un certo rito, di una certa suite, di una certa composizione, per rientrare nel generale. Le forme chiuse, fisse, potranno sempre combinarsi, mescolarsi, attraverso
inserimenti, ripetizioni interne, elisioni. L’ouverture-riepilogo, l’esposizione-variazione appaiono come forme davvero troppo semplici, legate a un tempo davvero troppo lineare, per trovare
qui una loro collocazione. Soltanto un’analisi complessa e raffinata permette di svelare
l’esposizione integrale del tema principale, nascosto in seno allo svolgimento, o talora anche
decisamente omesso. L’intero spettacolo formerà un tutto.
Il concerto moderno si apre e si conclude sistematicamente con un brano orchestrale e la
struttura occidentale allegro-adagio-allegro ha forse ispirato questa forma, in sé non tradizionale, ma è significativo il fatto in sé di considerare il concerto nel suo complesso come un avvenimento unico, a prescindere dal luogo, dal pubblico o dagli strumenti.
La presenza costante del passato ha delle conseguenze sui repertori e sulle loro strutture.
Numerosi generi presentano “Otto grandi pezzi”, come lo Jiangnan sizhu o le suites dello Shanxi, e molti funzionano su di una combinazione di timbri (qupai) e di formule. La sovrapposizione di tempi che si susseguono a velocità diverse annulla la speranza di considerare la storia della
musica cinese come una successione di eventi35.
È impressionante notare come la musica, al pari della storia, non si lasci ricondurre a
uno svolgimento lineare. L’accelerazione progressiva del tempo, praticata con tanta frequenza,
modifica costantemente il tempo isocrono, contrassegnato dall’alternanza della claquette e del
tamburo. Tempo disperso (sanban), fluido (liushuiban), lento (manban), medio (zhongban), rapido (kuaiban) si susseguono e si sovrappongono, e l’interesse viene costantemente ricondotto
all’arte della transizione e della sua preparazione.
Per quel che riguarda gli strumenti, essi sovrappongono e contrappongono a piacere le
loro diverse densità sonore, dalla placidità del liuto a tre corde e dell’organo a bocca al virtuosismo del liuto p‘i-p‘a o del flauto dizi. Impulso ritmico, tempo, frase, gesto coesistono così bene,
diversificati e mescolati al tempo stesso, al punto che una trascrizione in valori (minime, semiminime, crome...) con stanghette di battuta, che è possibile sempre, risulta sempre falsa.
Dal tempio al concerto cinese
Le arti dei nobiluomini al servizio delle corti antiche erano divise in due categorie: le
virtù civili (wen), come la diplomazia, e le virtù militari (wu), come la strategia36. Ritroviamo
queste categorie nei repertori di liuto p‘i-.p‘a e di Jiangnan sizhu così come sulle scene
dell’Opera di Pechino, dove designano rispettivamente i gruppi di corde e legni e le percussioni.
Opposizione di timbri, d’intensità, di velocità, opposizione di senso, ma anche opposizione artefatta, convenzionale, all’interno di un medesimo genere che si nutre di questa complementarietà.
Più ancora che “civile” e “militare”, l’opposizione tra sottile , raffinato (xi) e grossolano, rude
(cu) proviene da una volontà classificatoria.
I tamburi di Xi’an (Xi’an guyue) anziché misurare il “peso” della musica, preferivano
definirla mediante un attributo più funzionale, correlato alla posizione del musicista: seduto
(zuoyue) o in cammino (xingyue). Questa contrapposizione, più pertinente e più eloquente, corrisponde a due momenti diversi, due rapporti con lo spazio. Per nulla extramusicale, ma anzi intimamente legata alla musica, essa si riferisce alle modalità di esecuzione e alle condizioni di
ascolto, anche se in parte dissimula le distinzioni tra strumenti.
35
36
Vedi l’editoriale Tentons l’expérience, «Annales», nov.-dic.1989, Paris, Armand Colin, pp.1318-9.
Jacques Gernet cit., p. 87.
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La classificazione in gruppi di strumenti a fiato e percussioni chuida o guchui, gruppi di
strumenti a corda e fiati sizhu e gruppi di strumenti a corda xiansuo, tanto comoda, non dice
granché sulla storia dei generi, il loro aspetto sociologico o le relative modalità di elaborazione e
trasmissione. Certamente essa consente un ordinamento e fa riferimento alle antiche categorie
dei Tang, divenute inconsuete, di musica cerimoniale (yayue), militare (guchui), dei Quattro
Barbari (siyi), delle donne (niiyue), categorie aperte e mobili.
L’unica classificazione analitica e non descrittiva, capace di testimoniare le diverse rapidità di evoluzione, modalità di trasmissione, condizioni di esecuzione, è quella che distingue i
settori liturgico, paraliturgico e profano. Essa soltanto consente di valutare gli apporti forniti
all’opera dal rituale, di collocare l’arte della cetra qin in una prospettiva diversa da quella di uno
splendido isolamento. Essa evita la sterilità delle teorie che parlano di una diffusione dalla corte
al popolo e dà testimonianza di una condizione, quella di musiche vive.
1) Musiche liturgiche
La bellezza e l’autenticità delle musiche liturgiche non è legata tanto alla loro essenza
spirituale quanto alla lenta elaborazione, al rigore della loro trasmissione, alla sostanziale indifferenza che esse mostrano nei confronti delle mode. Il repertorio dei culti, per lo più unificato in
tutto il paese da circa quattro secoli, è l’adattamento a forme dalla diversità enorme; il che comporta che le musiche rimangano essenzialmente locali, legate a un carattere fortemente regionale. I tre elementi fondamentali: voce, percussioni e strumenti melodici, quando sono uniti acquistano una forza che ha poco da invidiare alle più grandiose forme d’opera.
2) Le tre religioni
L’unica e vera religione dei Cinesi non ha nome: la si può chiamare paganesimo, culto
degli antenati; essa esprime un modo particolare di credere in un tempo che si rinnova, in una
trasformazione del tempo e della materia.
Ispirandosi le une alle altre, imitandosi e combattendosi reciprocamente, le religioni, e i
loro sacerdoti, si sono evolute per più di mille anni. Qualcuno ha tentato talvolta di integrarle in
un unico insieme dottrinale, ma la maggior parte dei cinesi, fatta eccezione per le forme esclusive di fede, si richiama all’una o all’altra a seconda delle varie ricorrenze: parto, funerali, esorcismo, crescita interiore, longevità, culto degli antenati, celebrazione dell’ordine, celebrazione
della cultura.
Nonostante credenze, sistemi e pratiche separino confucianesimo, taoismo e buddismo,
queste tre religioni sono vissute dalla stragrande maggioranza dei cinesi come tre aspetti, tre
momenti di un’unica visione del mondo, dell’uomo e della società, che trovano origine nel medesimo pensiero cinese, pensiero dell’armonia dell’uomo con la natura, della mobilità,
dell’incessante mutare dei valori e della materia.
Divisione e armonia, rito e musica, formano una coppia di enti complementari così diversi e indissociabili come l’ombra e la luce, il maschio e la femmina, il sole e la luna, lo Yin e
lo Yang. Da sempre, e in ogni luogo, il rituale, la cerimonia, separa e distingue, stabilisce gerarchie, assegna a ciascuno (re, principi, cortigiani, mercanti, popolo) il suo posto, determina il
tempo precedente e quello seguente, traccia il confine tra interno ed esterno, sacro e profano,
l’officiante specialista, scelto, ordinato, e il laico, spettatore anonimo e collettivo. Da sempre, e
in ogni luogo, la musica riunifica i contrari, alto e basso, sordo e vibrante, breve e lungo, note
fisse e suoni mobili, ritmo serrato e ispirazione fluttuante, così come riunisce voce e percussioni, testo e canto, senso e suono, destra e sinistra, davanti e dietro, riflettendosi sui muri, attraversando le pareti, superando le distanze; la musica che non nasce né dal cielo né dalla terra, ma
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dalla loro unione, che passa attraverso l’uomo, meglio ancora attraverso l’assemblea degli uomini riuniti.
Più ancora delle bandiere e dei muri, degli altari e delle statue che contrassegnano lo
spazio, la musica contrassegna il tempo del rituale, il tempo della collettività. Ma a suo modo,
sempre diversa, sempre varia, contrassegna anche le distinzioni, i riti, i luoghi.
Così è per la scodella del mendicante che, divenuta campana risonante, afferma
l’origine indiana del buddismo. Così è per il carillon e per l’unione di strumenti a corda e fiati,
per la complementarità dei materiali sonori, legno e pelle, seta e bambù, che fanno riferimento
alle antiche cerimonie. Così è per le danze misteriose, le scritture ispirate, le proclamazioni in
lingua incomprensibile che mostrano il potere esercitato dal maestro taoista sugli oggetti, gli
spiriti e il mondo.
Ma le musiche dei rituali, cerimonie e assemblee taoiste, confuciane e buddiste, sono
eseguite da uomini che vivono qui o altrove, in società, e che sono profondamente radicati, al di
là delle grandi unità, nelle molteplici culture locali, inseparabili dalla cultura popolare. Strumenti, complessi, arie, ritmi, risuonano da Shanghai o da Pechino, dalla costa o dalla montagna, dalla pianura o dal deserto.
Tradizioni vive
Il confronto con la concretezza degli spartiti ha evidenziato che l’evoluzione delle musiche in Cina si effettuava attraverso procedimenti di natura diversa e secondo velocità diverse.
L’analisi della trasmissione attraverso il tempo e lo spazio rivela il ruolo centrale della tradizione orale in un ambiente di grande omogeneità, come spiega l’antropologia, che considera la religione del popolo come la «sola istituzione del paese veramente popolare».37 La lentezza con
la quale questo ambiente si evolve, malgrado momenti di crisi come le invasioni straniere o
l’unificazione, intorno al 1600, dei rituali buddisti spiega la straordinaria longevità delle sue tradizioni.
L’autonomia della musica all’interno dei fenomeni storici e sociali costituisce un altro
di questi processi: l’adattamento a un genere o a uno strumento particolare obbedirà alle regole
musicali proprie di questo genere o di questo strumento, regole che prescrivono forma, timbro,
scale, estensione, orchestrazione, ritmi. Questo processo ottiene il risultato di rendere irriconoscibile un medesimo motivo; esso manterrà tuttavia per l’analista, spesso anche per il musicista,
un’identità originale. Quest’incessante lavoro di adattamento ha come corollario l’assenza
d’improvvisazione o di creazione. Non si tratta tuttavia di un vero lavoro di composizione, secondo il duplice significato di “mettere insieme” e di “fare con”. La natura delle tecniche musicali non appare allora più complessa in una sfera culturale (cortigiani, letterati, musici professionisti, contadini) che in un’altra. Questi diversi ambienti sono caratterizzati esclusivamente
dalla loro velocità di evoluzione.
Il ruolo della musica nella società cinese
La musica occupa una posizione di privilegio in seno alle tradizioni scritte: tutto lascia
pensare che il più antico libro tramandato, il “Canone di poesie” (Shijng), consista in una compilazione di canti, alcuni dei quali risalirebbero al IX secolo precedente la nostra era. Gli stru37 Kristofer Schipper, La religion tradition ne//e, un contre-pouvoir, in Pierre Gentelle (a cura di) in
L’Etat de la Chine, Paris, La Découverte 1989, p. 268.
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menti musicali (yuequi) rientravano tra i segni di distinzione più prestigiosi, come è testimoniato dalla loro presenza nella tomba di un notabile di provincia38, in mezzo ai suoi beni più preziosi: donne e talismani39 (qi). La cultura ufficiale della Cina antica accorda una grande importanza alla musica, dal momento che arriva a dedicarle un classico, il “Memoriale della musica”
(Yueji). Queste tradizioni si ritrovano nei primi dizionari, Erya e Guangya, che collocano la musica (yue) tra i talismani (qi) e il cielo e la terra (tian e di).
Nel X secolo l’insieme delle attività “sotto la disciplina del sigillo imperiale (Taiping
yulan) comprende una sezione musicale (yue), che viene dopo le sezioni dedicate all’uomo
(ren), ai riti (liyi) e che precede la letteratura (wen) e lo studio (xue). 40
L’opera cinese
Nata dalla fusione dei riti di esorcismo con le ballate da fiera, capace di assimilare
l’eredità teatrale indiana e di assorbirne i trucchi, l’opera cinese,41 un insieme di forme d’opera
locali esteso su tutto il continente, frutto inoltre del lavoro di letterati in attesa di occupazione,
mostra che esistono, lontani dal bel canto occidentale, forme raffinate e popolari a un tempo, in
grado di combinare parola e musica, corpo e spazio. Arte dello spettacolo, dell’emozione, del
virtuosismo, l’opera cinese richiede ai suoi adepti qualità difficilmente riunite in un solo attore:
voce, espressione drammatica, doti acrobatiche; i suoi tre segreti sono: “interpretare il brano, interpretare il personaggio, interpretare i sentimenti”. Nel corso di un rigorosissimo apprendistato,
iniziato fin dalla più tenera età, i novizi sviluppano simultaneamente la propria tecnica e il proprio repertorio, sotto la bacchetta di maestri invecchiati nel mestiere, e con il carattere forgiato
dall’incredibile atmosfera di competizione diffusa, prima della Liberazione, tra le compagnie itineranti, per non dire erranti. Bisognava mostrarsi il migliore, o andarsene, perché questa forma
d’arte è vissuta sempre in simbiosi con un pubblico meno avido di novità che di eccellenza, custode della tradizione, pronto a riconoscere il genio innovatore come a respingere l’imitatore
meno dotato.
Al suono delle percussioni (tamburi, piatti, e certamente il famoso gong), il corpo delimita lo spazio e l’avvenimento, combatte e si piega sotto la pressione dei sentimenti, l’energia
troppo intensa trova il suo sfogo nella voce, acutissima o tonante, schernitrice o solenne, mutevole tra parola e canto, attiva nell’azione o come sospesa nelle arie, avvolta nelle sinuosità della
viella a due corde, resa maestosa dagli oboi nelle scene militari o di corte.
L’opera cinese è un codice, con i trucchi e i gesti dei suoi attori, i suoi apparati e le sue
voci, e si rivela soltanto quando è rappresentata, teatralizzata, trasformata in spettacolo; per questa via diviene immediatamente accessibile a chiunque abbia orecchie, occhi e un cuore. Gioco
d’amore e d’astuzia, specchio di costumi, d’intrighi e di coraggio, l’azione si congiunge immediatamente all’universale.
Il marchese Yi di Zeng; vedi Alain Thote, Une tombe princière chinoise du i siècle avant notre
ère, in «Académie des inscriptions & belles-letrre, Comptes rendus des séances de l’annéel986, avriljuin», Paris, 1986, pp. 393-413.
39 Qi vuoi dire “utensiìe”, ma Granet ha dimostrato che in antico Xa paro\a aveva valore di “talismano”. Vedi Marcel Granet, Danses et Iégendes de la Chine ancienne, Paris, PUF 1959, p.134.
40 François Picard–Enzo Restagno, op. cit. pp. 8-9
41 35. Jacques Pimpaneau, Promenade auJardin des Poiriers, Paris, Kwok-on 1983.
38
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Ma il conoscitore, sebbene apprezzi l’intreccio, valuterà soprattutto le qualità di cui
l’attore cantante, erede dell’arte delle marionette, saprà dare prova, superando i limiti del proprio ruolo: giovane primattore o primadonna, giovane guerriero o guerriera, vecchio o buffone.
Un’intera tipologia prefissata come nell’opera verdiana o nella commedia di Molière, una tipologia che, come queste grandi forme, si esprime al meglio in una compagnia di attori, organismo
in ebollizione perpetua, che vive di scambi e di contrasti acquisiti, controllati.
L’appassionato d’Opera di Pechino ricorda più il liricomane occidentale che il fanatico
di teatro. Repertorio chiuso e noto agli spettatori, risalto in cui vengono poste le prime parti, collocazione in secondo piano della messa in scena e del librettista, pratica dei recital di arie favorite, buona prestazione dei gruppi e classificazione dei cantanti in funzione del loro ruolo; questi
sono altrettanti punti in comune tra opere cinesi e occidentali. Qui come laggiù si va per ascoltare, prima di vedere. La gran differenza, di notevole importanza, è l’assenza del compositore come firmatario.
Come in Wagner, l’opera cinese è un mosaico di prestiti, dai canti popolari alle fanfare
militari, dai complessi strumentali alle ballate, alle cantafavole, all’arte di strada e dei teatrini
ambulanti, infine ai rituali. Le dimostrazioni di arti marziali sembrano avere avuto un’influenza
preponderante, dal momento che i due termini per l’opera, xi e ju, si scrivono con i radicali che
significano alabarda uno e coltello l’altro. Infatti, la parte più teatrale, la più spettacolare dei rituali taoisti è il combattimento del maestro contro il demone che, soggiogato, diverrà un benefico dio della terra.
Ma Kunju, “la violenza di Kunshan”, è anche sinonimo di Kunqu, “le ballate del Kunshan”.
Anticamente erano le compagnie itineranti a esibirsi a richiesta in occasione dei rituali
specificati dal calendario liturgico e di avvenimenti eccezionali (siccità, carestie), legati alla vita
familiare o comunitaria (benedizione di un luogo). L’assorbimento delle grandi compagnie nelle
strutture ufficiali ha portato a riservare questi interventi alle forme più leggere del teatro di ombre o di marionette.
Il discorrere degli attori42 rivela le gerarchie interne che ogni rappresentazione deve rispettare: prima di tutto la parola, poi il canto, l’azione, e infine il silenzio. La parola si divide in
parlata e cantata, la musica in voce e strumenti, l’azione in movimenti delle mani, degli occhi,
del corpo, dei piedi.
Le passioni che occorre esprimere sono otto: gioia, collera, tristezza, piacere, ansia, impazienza, dispiacere, malinconia: i “quattro sembianti” sono l’imbecille, il giovane viziato, il
folle, l’idiota.
“Senza mani non c’è gesto, senza bocca non c’è canto”: la tecnica del canto si fonda
sullo studio di “cinque punti di articolazione della lingua” e di “quattro respirazioni”. Ma occorre anche padroneggiare i modi, la pulsazione, i ritmi, il che non è facile quando si devono combinare canto, danza e azione. Sia nell’opera del Sichuan sia in quella di Pechino, la musicalità
del canto viene appresa con lo studio del genere considerato come classico, il Kunqu.
L’opera cinese è generalmente divisa in due grandi generi a seconda del materiale impiegato: o si utilizzano modi ritmati come nell’Opera di Pechino, e sono le cosiddette opere pihuang, dal nome dei due modi principali, xzpi e erhuang, oppure si attinge a un ricchissimo repertorio di “timbri” (o arie prestabilite) su cui si applicano parole nuove, ed è la forma più antica
e certo la più ricca dal punto di vista sia emotivo sia musicale.
42
Proverbio ricorrente nell’ambito dell’opera del Sichuan.
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Così il Kunqu, che risale al XIV secolo dal Kunshan nello Jiangsu, comprende sette scale diatoniche, cioè diciassette toni suddivisi in quattro modi. Conta un migliaio di timbri, tra cui
335 arie dello Yuanqu (arie teatrali dell’età mongola) e 543 di Nanqu (arie del teatro del Sud).
Estensione, forza, ritmi e strumentazione distinguevano sotto i Ming le arie del Nord (con gli
oboi), da quelle del Sud, accompagnate dal gruppo di strumenti a corda xiansuo. Sotto i Qing, il
complesso comprende un tamburo piatto con nacchera guban, un liuto a tre corde xianzi, un
flauto traverso di e un organo a bocca sheng.
Una forma maggiore come l’opera del Sichuan raccoglie cinque forme di canto, che
prima della Rivoluzione del 1911 erano l’esclusiva di compagnie diverse: un genere “a timbri”,
il Gaoqiang, dove le percussioni, gli oboi e un coro tra le quinte accompagnavano la voce; un altro genere “a timbri”, il Kunqiang, eredità del raffinato Kunqu, dove il flauto traverso raddoppia
la voce; un genere a modi ritmati, derivato dall’Opera di Pechino, lo Hunqin, che trae il suo
nome dalla viella a due corde; il Tanxi, una variante dell’opera Bangzi o “teatro con claquettes”
dello Hebei, e il Dengxi o “teatro delle lanterne”, una forma popolare locale.
Tre stili musicali caratteristici e ben differenziati permettevano di richiamare altrettante
atmosfere teatrali distinte: un primo stile per le scene improntate ad allegria, vivacità oppure
passeggero sconforto; un secondo stile per gli atteggiamenti imploranti o contemplativi e un terzo, infine, per la disperazione e l’angoscia formavano la materia prima per l’impianto musicale
dell’opera. In questo modo le diverse situazioni venivano associate a determinati motivi, più o
meno convenzionali, la cui funzione può essere paragonata a quella del leitmotiv, il tema conduttore, wagneriano. Come nel caso del cinema muto e di quello sonoro dei primordi, queste
formule melodiche, veri e propri stereotipi musicali, erano a disposizione di qualsiasi musicista
intendesse evocare determinati tipi di emozioni ricorrenti in molte trame melodrammatiche. Di
conseguenza non era difficile ritrovare in un gran numero di opere gli stessi motivi, che consentivano allo spettatore occasionale, che non conoscesse il testo poetico, di immedesimarsi senza
problemi nel contesto emotivo dell’opera.
Tutto questo non deve far pensare all’opera cinese come a un prodotto musicalmente
banale. Nessun cinese va per “vedere” l’opera, anche se lo spettacolo è arricchito da danze e da
esibizioni acrobatiche, ma piuttosto per “ascoltare” l’opera, per il suo valore letterario e perché
la musica e il canto costituiscono sempre il centro di maggiore interesse.
Tutte le scene iniziano con delle “ouvertures” di strumenti a percussione. Anche i “recitativi” sono di consueto accompagnati da esecuzioni percussive. Nelle “arie”, invece, gli strumenti melodici, flauti, strumenti ad arco e a pizzico, accompagnano il canto all’unisono o a intervalli di quarta e di quinta. L’aria si conclude sempre con un colpo di piatti.
La qualità vocale del canto dipende in gran misura dal ruolo del personaggio rappresentato: le parti maschili richiedono un canto caratterizzato da un rigido stridente falsetto, mentre
quelle femminili sono spesso impostate su un caratteristico registro acuto e nasale.
Ecco alcuni esempi di formule melodiche ricorrenti nell’opera cinese:
rabbia, disperazione, complotto
dispute d’amanti
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gioia, piacere, libagione
Nel nostro tempo, l’opera è ormai l’unico genere in cui è possibile ritrovare l’antica musica cinese. Oggi infatti la Cina vanta prestigiosi “conservatori” da cui esce un crescente numero
di valenti interpreti di musica occidentale, mentre sempre più rari sono quelli che si dedicano al
canto e agli strumenti tradizionali.
La musica occidentale
1. Ritmo e tempo:significato generico dei due termini
L’origine del fenomeno ritmico, come fatto umano primordiale e sperimentale, è legato
alla comparazione di elementi in proporzioni pari oppure dispari nel tempo. Tale comparazione
dà origine al ritmo comune, che può essere direttamente vissuto oppure contemplato. Dalla scoperta della realtà ritmica, insita nella instabilità delle cose, prendono forma i ritmi tipici (univoci), frutto di ritmi «incidentali» (oggettivi) e «accidentali» (psicologici). La percezione ritmica
sperimentata, in virtù della capacità di osservazione esterna e interna dell’uomo, ha avuto 2 esiti: uno nel ritmo quantitativo oppure diastematico; l’altro nel ritmo-simbolo. In ambedue i casi
ci si trova di fronte a un fenomeno musicale.43
Il termine «ritmo», di origine greca, tradotto dai latini con numerus, indica l’azione del
misurare con esattezza. Da questa sua attinenza con la misura nasce la correlatività con il termine «tempo», dal latino tempus e con il termine spazio, dal latino spatium. Nel primo caso il
termine «ritmo» si riferisce alle «arti in movimento» (Musica, Poesia, Danza), nel secondo caso
alle «arti in riposo» (Architettura, Pittura, Scultura); in questo secondo caso il ritmo suole chiamarsi «simmetria». Quindi il termine «ritmo» è correlativo di «tempo» (come quando affermiamo che i 2 elementi che costituiscono l’essenza della musica sono il ritmo e il suono), mentre il termine «simmetria» lo è di «spazio». Anche in musica si può parlare di simmetria, però
solo riferendosi al fatto compositivo sia del particolare (inciso, semifrasi, frasi, periodi), sia della forma in genere (tempo di sonata, tempo di sinfonia, danza, suite, sinfonia, sonata) in relazione agli elementi che la costituiscono.44
Il ritmo può essere naturale e artificiale. Il primo si riscontra in natura, come ognuno
può osservare senza difficoltà (il cadere costante di una goccia, il vento, il moto delle onde del
43 Clemente Terni, voce Ritmo e Tempo in DEUMM (Dizionario Enciclopedico Universale della Musica
e dei Musicisti), UTET, Il Lessico, vol. IV p.105
44 Galante D., Mathematics, Physics and Music, to interpretate didactic situation in secondary school,“Quaderni di ricerca in didattica” a cura del G.R.I.M Palermo, quaderno17, supplemento 4, 2007,
pp.1-203
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mare, ecc.); il secondo è stato inventato dall’uomo per esprimersi con la Poesia, la Musica, la
Danza, cioè per le cosiddette arti in movimento. Il ritmo artificiale, creato dunque dall’uomo, si
può dividere in 2 grandi sistemi: quello del ritmo libero e quello del ritmo misurato. La differenza che passa tra i 2 sistemi consiste in questo: mentre nel primo l’articolazione si attua per
mezzo di sillabe brevi ∪ e lunghe — (terminologia e segni mutuati dalla metrica greca e latina), e i ritmi vengono formati per addizione dell’unità di misura, nel secondo l’articolazione è
prodotta dagli accenti deboli e forti e i ritmi si formano per divisione e suddivisione dell’unità.
Non è facile stabilire la cronologia dei 2 sistemi, anche limitandoci alla sola Europa e al
bacino del Mediterraneo. In genere si ritiene che prima sia stato usato il sistema del ritmo libero,
ma, giudicando dalle conclusioni che ci offrono gli etnologi musicali, sembra che i 2 sistemi
siano stati praticati contemporaneamente.
Elementi essenziali del ritmo sono la misura e il movimento. La misura, che in origine
si chiama «tempo primo» e che nella musica polivocale si identificherà con il denominatore di
una frazione dell’unità, è mezzo articolante; il movimento invece ha la funzione di caratterizzare
l’espressione. Il termine «ritmo» preso in senso universale può essere definito: articolazione del
tempo in genere; oppure, come dice il celebre teorico musicale greco Filosseno: ordine dei tempi. In questo senso il termine «ritmo» è simile al termine «metro». I 2 termini si distinguono però nella pratica perché, mentre i metri sono versi da recitare, obbligati all’isocronia, i ritmi invece sono elementi melici non necessariamente sottoposti alla legge dell’isocronismo e dipendenti
invece per il movimento dall’agogica. Attraverso i tempi si parla sempre della distinzione che vi
è tra ritmi e metri.
In musica, il ritmo è la misura del tempo sonoro, e quindi, in relazione al soggetto fruitore, esperienza sonora personale del tempo. La misura però suppone il numero, e il numero certi rapporti. Il rapporto numerico produce formule ritmiche, che possono essere o non essere costanti. Da esse dipende l’articolazione, che può verificarsi nell’ambito di quantità pari, dispari e
miste. Le pari e le dispari possono produrre un ritmo a battuta.
La chiarezza ritmica è data dalla chiarezza di misura, che può essere ottenuta per addizione oppure per divisione. Nei trattati musicali antichi, fino al sec. XVI, che normalmente si
chiamavano De Musica, si soleva dividere la materia in 2 parti: nella prima si trattava tutto ciò
che si riferiva al suono, alla sua divisione e alla sua articolazione; nella seconda invece si trattava del ritmo e del come il ritmo musicale differiva da quello oratorio e dal poetico; ciò perché,
mentre questi ultimi 2 hanno bisogno della parola per manifestarsi, il primo ne può fare a meno.
Tale senso indefinito, quasi incorporeo del ritmo musicale ha fatto sì che esso, attraverso diversi
processi, si assimilasse con il termine «tempo», e cioè con l’universale. Basta pensare
all’identità di significato delle frasi: «andare a ritmo» e «andare a tempo», «sentire il ritmo» e
«sentire il tempo», «ritmo binario e ritmo ternario», che equivale a «tempo binario e tempo ternario».
2. Origine, valore compositivo e formale di ritmo e tempo nel sistema del ritmo
libero
Il sistema del ritmo libero si basa sull’unità del movimento indivisibile, che i Greci
chiamavano tempo. Il termine «tempo», passando dal significato universale al particolare, diventa così sinonimo di misura del movimento e del riposo, come ci dice Aristide Quintiliano.
L’unità di movimento, detta anche tempo primo, è indivisibile e anche la più breve di tutte. Tale
quantità viene descritta da Aristosseno quando dice che il «tempo primo» non può essere diviso
in nessun’altra maniera ritmica; né in 2 sillabe, né in 2 suoni, né, in 2 passi di danza.Il «tempo
primo» può addizionarsi, e così abbiamo il tempo composto. Unendo tempi semplici e composti
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si ha il piede, le cui parti essenziali sono l’arsi e la tesi, che nel loro avvicendarsi ne determinano l’articolazione. I termini «arsi» e «tesi» possono essere assimilati a «in su» e «in giù».
A) Piede di 2 tempi primi
Pirrichio
B) Piedi di 3 tempi primi
Giambo
Trocheo
Tribraco
C) Piede di 4 tempi primi
Spondeo
Anapesto
Dattilo
Proleleusmatico
Anfibraco
Altro elemento del ritmo musicale è il tempo vuoto, oggi pausa che serve a segnare i silenzi. Tali silenzi o pause variano di valore.
Se in un primo tempo la musica dipende dalla poesia, ovvero dalla metrica poetica, in
un secondo tempo, il termine «ritmo» va assumendo sempre più significato musicale. Questo fino al punto da riferirsi non solo all’articolazione del particolare, ma anche dell’insieme, assumendo cioè senso formale. Si ha così un ritmo formale di carattere musicale. Esempio ne sia la
costruzione corale di Stesicoro: strofa-antistrofa-epodo.
Il ritmo libero praticato dai Greci e dai Latini è giunto fino a noi, attraverso il canto praticato dalla Chiesa cattolica e cioè il canto gregoriano.
A partire dall’VIII secolo d.C., dall’accostamento e dall’alternarsi di accenti acuti e gravi sono nati i neumi, i quali a loro volta, presentandosi in gruppi binari o ternari caratterizzano il ritmo del canto gregoriano interpretato in ritmo libero.
Per quanto riguarda il ritmo da un punto di vista grammaticale e sintattico più neumi
formano un inciso, più incisi un membro e più membri un periodo. È a questo punto che il termine «simmetria» può diventare sinonimo di «ritmo formale».
3. Origine, valore compositivo e formale di ritmo e tempo nel sistema del ritmo
misurato.
Il ritmo misurato ovvero soggetto a battuta, come abbiamo già detto, è costituito da elementi formati per divisione dell’unità e non per addizione; esattamente il contrario di ciò che
accade nel ritmo libero. Non si può sostenere una successione circa l’uso dei 2 sistemi ritmici,
specialmente in base agli ultimi studi di etnologia musicale (tale successione forse si può ammettere solo in area mediterranea e in parte di quella europea), ma è necessario fare una distinzione. C’è un ritmo misurato e soggetto a battuta, e quindi una sua esteriorizzazione simbolica
di carattere istintivo a servizio soprattutto della danza, dei riti e del lavoro, e c’è un ritmo misurato del tutto razionale, sorto e sviluppatosi a servizio della musica strumentale in Europa (a par-
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tire dal XIII secolo). Nel primo caso abbiamo ritmi misurati detti spontanei, quasi sempre legati
a un significato simbolico, e che non si staccano mai dalla poesia e dalla danza.
I ritmi ricevono una propria caratterizzazione sia dalla lingua, sia dagli strumenti usati e
soprattutto dallo scopo per il quale sono nati. Si hanno così ritmi dei popoli raccoglitori, dei popoli cacciatori, dei popoli pastori e dei popoli agricoltori. Tale esteriorizzazione ritmica (quella
del ritmo misurato a carattere istintivo) trova la sua massima espressione nella poliritmia africana .
In Europa, lo sviluppo della polifonia, con la diversificazione delle linee melodiche e
l’autonomia ritmica delle parti, comporta la necessità di individuare una semiografia musicale in
grado di precisare le durate dei suoni. Il primo passaggio dal sistema del ritmo libero al sistema
del misurato avviene all’interno della scuola di Notre-Dame fra la fine del VII e la metà del XIII
secolo attraverso il sistema dei modi ritmici, i quali basavano i princìpi della propria articolazione e del proprio valore sopra quelli dei piedi della metrica greco-latina: modo giambico, trocaico, dattilico, ecc.; l’articolazione quindi si basava sulle brevi e sulle lunghe, partendo dal concetto di divisione e non di addizione e cambiando quindi il significato dei piedi classici. La
lunga però era considerata perfetta solo se valeva 3 tempi (ciò per ragioni simboliche in riferimento al principio trinitario di Dio), e non 2 come nella metrica greco-latina, cosicché si trovò a
aver un valore relativo a seconda del posto che occupava. Questa aleatorietà di valore della breve provocò il sorgere della semibreve, la quale, per il principio della perfezione e
dell’imperfezione ritmica fu detta proporzionale. Di qui ha origine l’evoluzione della scrittura
ritmica musicale nel senso moderno, vale a dire per suddivisione dell’unità e non per addizione.
Per un principio che non ha bisogno di dimostrazione, dal momento che si era incominciato a
suddividere, il tempo ternario perse la propria supremazia, e il prevalere del tempo binario favorì la suddivisione. Queste varie tappe della divisione dell’unità furono chiamate: modi per la divisione della lunga in brevi, tempi per la divisione della breve in semibrevi, prolazione per la
divisione della semibreve in minime. Modi e tempi furono detti perfetti se erano ternari (sempre
per ragioni simboliche) e imperfetti se binari; la prolazione invece fu detta maggiore o minore.
Gli elementi che formano la struttura del ritmo misurato sono: la pulsazione, il movimento, la misura o battuta e il tempo, l’organizzazione delle durate e vediamo ora ciascuno di
questi elementi insieme alla sua funzione nel ritmo e nella musica.45
A) La pulsazione. Si intede una successione regolare di battiti, chiamati tempi, di identica durata. Classica pulsazione musicale è quella generata ad esempio dal metronomo. Essa dà la misura
del movimento, lento o veloce, e offre nel contempo una base stabile a tutte le possibili invenzioni ritmiche. Nella nostra pratica musicale, il ritmo ha il suo fondamento nella pulsazione, indispensabile elemento coordinatore di qualsiasi esecuzione musicale. Essa può essere scandita
effettivamente con gli strumenti adatti, le percussioni nella musica popolare e leggera, oppure
sottintesa, e cioè scandita mentalmente come nella maggior parte della musica colta. La durata
dei suoni viene calcolata in un numero di battiti, o tempi: uno, due, tre, quattro e più tempi; non
solo, ma anche nelle sue frazioni: mezzo tempo, un quarto di tempo e così via. In questo modo,
un complesso di esecutori è in grado di suonare in perfetta sincronia, facendo riferimento a una
pulsazione prestabilita.
B) Il movimento. A differenza di quella dell’orologio, la pulsazione musicale può essere lenta,
moderata, rapida, rapidissima. La diversa velocità della pulsazione prende il nome di movimento
ed è uno degli elementi espressivi del ritmo e quindi della stessa musica. Un certo motivo eseguito con movimento lento assume un carattere solenne, serio o addirittura triste che però può
45
Romano Becatti, Nella Musica, Fabbri Editori, Milano, 1997, vol. I, pp. 53-69
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trasformarsi radicalmente in gaio, scherzoso, concitato se eseguito con movimento vivace. In
ordine di velocità crescente, i diversi movimenti possono essere divisi in tre gruppi:
movimenti lenti: Largo - Adagio - Grave - Lento - Larghetto;
movimenti moderati: Moderato - Andante - Andantino - Sostenuto - Mosso;
movimenti rapidi: Allegro - Presto - Vivace.
Il movimento viene di norma indicato all’inizio della composizione, unitamente al numero metronomico (per motivi di precisione). In qualche caso, per particolari esigenze di interpretazione,
il compositore lo lascia alla discrezione dell’esecutore, ponendo l’indicazione a piacere oppure
ad libitum. È bene ricordare che ogni buona esecuzione musicale è sempre piena di lievi, appena
percettibili variazioni del movimento: ritardi, sospensioni, accelerazioni, come nel linguaggio
parlato, che le conferiscono il suo andamento elastico ed espressivo fatto di pause e di riprese, di
slanci e di esitazioni. Solo in casi eccezionali il ritmo mantiene una pulsazione rigorosamente
cronometrica. Per questa ragione, nel corso di un’esecuzione, il movimento iniziale può essere
modificato secondo le intenzioni del compositore che, nei punti voluti, pone accanto al pentagramma una delle seguenti indicazioni: rallentando, ritardando, diminuendo, meno mosso, calando, morendo, quando intende rallentare il movimento iniziale; stringendo, incalzando, accelerando, più mosso, quando intende accelerarlo. Per tornare al movimento iniziale si ricorre
all’indicazione a tempo. I movimenti e il loro variare di velocità costituiscono l’agogica che, insieme alla dinamica (che riguarda l’intensità dei suoni), è un elemento basilare per il carattere
espressivo del discorso musicale.
C) La misura o battuta. Una semplice pulsazione può diventare ritmo misurato disponendo, con
un certo ordine, degli accenti su determinati tempi. Gli accenti sono un elemento ritmico primario anche nel linguaggio parlato. Quando parliamo infatti, non pronunciamo le sillabe in modo
uniforme, ma ad alcune diamo maggior forza le accentiamo e ad altre no. Così facendo ogni
vocabolo presenta un proprio inconfondibile ritmo che contribuisce alla sua comprensione. Spostare l’accento da una sillaba a un’altra vuol dire alterare il ritmo della parola e, nella maggioranza dei casi, renderla persino incomprensibile, mentre in musica è possibile spostare l’accento
utilizzando il procedimento della sincope ed esso serve a cerare tensione.46 II ritmo misurato,
nelle sue diverse forme, è soprattutto fondato sulla disposizione degli accenti. Un ritmo si dice
binario quando ha un accento ogni 2 tempi, si dice ternario quando ha un accento ogni 3 tempi
e quaternario quando ha un accento ogni 4 tempi La pulsazione originaria risulta così suddivisa
in tante “cellule ritmiche” uguali, che nel primo caso sono di 2, nel secondo di 3 e nel terzo di 4
tempi. Queste cellule ritmiche elementari prendono il nome di misure o battute. Ognuna di esse
inizia in corrispondenza dell’accento, detto anche accento forte o tempo forte. Esse vengono indicate con due stanghette verticali che racchiudono i relativi tempi, 2, 3, 4, a seconda del tipo di
ritmo. Nella pratica, l’accento forte non viene indicato, essendo sottinteso che cade sempre sul
primo tempo di ogni misura. La parola battuta deriva dall’espressione battere il tempo che si-
Si parla di sincope quando un suono inizia su un tempo debole prolungandosi sul tempo forte che
immediatamente lo segue. L’effetto prodotto dalla sincope è uno spostamento dell’accento ritmico. Si realizza così una sfasatura nella regolarità della battuta risultante in un contrasto carico di dinamismo e tensione. Il repertorio occidentale, sia sacro che profano, sia vocale che strumentale, ha una quantità notavole
di momenti sincopati della composizione. Un esempio diverso è il ritmo del jazz, la cui caratteristica più
saliente è data dalle ripetute sincopi (ritmo sincopato) determinate dal fatto che i tempi forti delle sezioni
melodiche (tromba, sax, clarinetto ecc.) non coincidono mai, o quasi mai, con quelli delle sezioni ritmiche
(batteria, pianoforte, chitarra, contrabbasso,ecc.)
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gnifica appunto mettere in evidenza la periodicità degli accenti ritmici insieme alla velocità e alla regolarità della pulsazione.
Il rapporto con il linguaggio verbale è molto forte perché il numero dei tempi (o battiti)
e la dosposizione degli accenti di ogni battuta è in stretta relazione simmetrica e con il numero
delle sillabe e degli accenti delle diverse parole. Nel canto l’accento forte della misura e quello
della parole devono sempre coincidere. In particolare: la battuta del ritmo binario coincide con
la parola bisillaba; la battuta del ritmo ternario è l’equivalente della parola trisillaba e la battuta
del ritmo quaternario è identica alla parola quadrisillaba. (Figura 2).
t
Figura 2
D) Il tempo. È la speciale indicazione che si pone all’inizio di ogni brano, subito dopo la chiave,
per stabilire di quanti tempi è formata la misura o battuta. Tale indicazione consiste in una frazione il cui numeratore fissa il numero dei tempi, e il denominatore il loro singolo valore.
Inoltre, quando un compositore mette in musica i versi sceglie la struttura ritmica (binaria, ternaria, quaternaria, diversamente combinati, semplice o composta) in base alla metrica degli stessi versi; così di fronte ai versi di un madrigale cinquecentesco o di un’aria d’opera
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dell’Ottocento il compositore deve esaminare la successione accenti forti e deboli per abbinare
ad essi il tempo ritmico più idoneo (binario, ternario, quaternario, ecc..). Senza questa operazione risulta impossibile procedere nella composizione con l’elaborazione della linea melodica e
dell’armonia, seguite dalla forma, anche questa in stretta relazione con la forma dei versi da
comporre in musica.
Sino a questo punto abbiamo analizzato il ritmo solo come organizzazione di tempi e di
accenti. Anche tenendo conto della variabile movimento, esso risulterebbe tuttavia una struttura
piuttosto rigida e certamente monotona se dovesse fondarsi soltanto su una successione di durate identiche (pulsazione) anche se diversamente accentate. La pulsazione da sola non è ancora
ritmo.
E) L’organizzazione delle durate. È la diversa durata dei suoni, o meglio il succedersi variamente organizzato di durate diverse che dà vita al ritmo vero e proprio e quindi a tutto il discorso musicale. Le possibilità di creare ritmi diversi impiegando le figure di valore disponibili sono, come si può facilmente immaginare, pressoché infinite. Sono comunque sufficienti poche
durate diverse, per esempio minima, semiminima e croma, per dar vita a un’intera frase ritmica.
4. Passaggio dagli otto modi medioevali alle tonalità bimodali moderne
La formazione del sistema armonico-tonale, cioé del modello di scrittura basato sulla utilizzazione di scale tonali bimodali maggiore e minore e sulla concatenazione di accordi, quale
è giunto sino al ‘900, è frutto di un processo lento maturato lungo tutta la storia della musica europea, dall’antichità greca attraverso il Medioevo sino alla seconda metà del XVI secolo, quando raggiunge un punto di svolta decisivo. E’ infatti in questo periodo che assistiamo al trapasso
dalla scrittura musicale polifonica alla monodia accompagnata dal basso continuo, che rappresenta non soltanto un semplice cambiamento di stile, quanto una profonda trasformazione nel
modo di considerare l’arte musicale e le sue possibilità espressive.
Il raggiungimento della scrittura armonico—tonale presuppone lo sviluppo di una sensibilità sia verticale che orizzontale, due processi distinti, ma sempre paralleli e concomitanti
che nell’arco dei secoli hanno determinato:
a) Il formarsi del moderno concetto di tonalità, cioé di una relazione gerarchica fra i sette suoni
della scala contenuti entro l’attava, con il primo grado della scala detto “tonica” che funge da
perno e verso cui gli altri suoni tendono.
b) Il trapasso dagli otto modi della teoria medioevale agli unici due modi maggiore e minore del
sistema musicale occidentale.
Nell’antichità non esisteva la differenza fra modo e tono; i medioevali chiamavano indifferentemente le loro scale come modo e tono, avendo così il “primo modo” o “primo tono”,
“secondo modo” o “secondo tono”, ecc. In ognuno di essi, ciascuno dei quali cominciava su un
grado diverso della progressione diatonica, era differente la posizione dei toni e dei semitono,
per cui, non avendo a disposizione alterazioni, eseguire una stessa melodia nelle diverse modalità significa modificarla. (Figura 3)47
Il cammino della modalità gregoriane verso le nostre tonalità bimodali è guidato dalla
progressiva conquista del centro di gravitazione tonale, cosa che mancava come è noto alle scale
liturgiche dove i rapporti fra suoni non costituivano dei centri di tensione verso la risoluzione
nella tonica. Quest’ultimo fenomeno era dato in gran parte dal fatto che le modalità medioevali
non avevano sensibile (cioè il settimo grado della scala che dista un semitono dal suono
dell’ottava).
47
Donald Jay Grout, Storia della Musica in occidente, Feltrinelli Editore, Milano, 1988, pp. 67-75
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I cantori e i teorici del Medioevo, fra cui Guido d’Arezzo, non apprezzavano una scala
che avesse la nota precedente l’ottava a distanza di un semitono da essa; mentre chiamavano
emmelé (ben risuonante) la settima nota delle scale gregoriane che distava un tono dall’ottava.
Nel Tritus autentico, dove la distanza fra la settima e l’ottava era di un semitono, i canti liturgici
evitavano nelle cadenze la nota MI prima della finale FA.
Ma nella musica popolare l’effetto di sensibile era consueto sin dai tempi più antichi
come si può affermare da frammenti di melodie francesi dell’XI secolo che l’etnomusìcologia
moderna ha studiato. Nel Trecento con il scuola dell’Ars Nova la sensibile diventa sempre più
frequente anche nella musica colta, sino ad affermarsi pienamente nella musica fiamminga del
Quattro e Cinquecento, e poi nelle scuole polifoniche italiane, come elemento modulante.
Avviene così che le modalità gregoriane si modificano nel loro interno per l’alterazione
del settimo grado al fine di creare un intervallo di semitono con la finale, passando dal modello
degli otto modi medioevali al modello bivalente dei due modi maggiore e minore che da J. S.
Bach sino alla fine dell’Ottocento hanno caratterizzato la musica occidentale (Figura 4).48
Il linguaggio musicale tonale si basa sul rapporto maggiore-minore, ha funzioni fisse dei
gradi e degli accordi all’interno delle scale, alterna il concetto di consonanza a quello di dissonanza, articola il momento della tensione a quello del riposo, evolve, nell’arco dei secoli, verso
la complessità le infinite combinazione fra gli elementi costitutivi del linguaggio musicale, suono, ritmo, melodia, timbro, forma, dando vita a vere e proprie architetture sonore rappresentative del Barocco come dell’Illuminismo e del Romanticismo. Bisognerà arrivare alla fine
dell’Ottocento per assistere alla destrutturazione del sistema tonale, e in paricolare alla seconda
scuola di Vienna con Arnold Schoenberg, Alban Berg e Anton Webern, per assistere alla nascita
di un nuovo linguaggio musicale, il sistema dodecafonico, nel quale i 12 suoni della scala cromatica sono privi del centro di gravitazione rappresentato dal primo grado della scala. Dopo un
secolo di avanguardia, alla fine del Novecento il linguaggio musicale occidentale fa tesoro della
sua millenaria storia e alternando con disinvoltura tradizione e innovazione.
1. Autentico:
2. Plagale:
3. Autentico:
4. Plagale:
DORICO
RE (protus)
IPODORICO
FRIGIO
MI (deuterus)
IPOFRIGIO
5. Autentico:
LIDIO
FA (tritus)
6. Plagale:
IPOLIDIO
7. Autentico:
MISSOLIDIO
SOL (tetrardus)
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8. Plagale:
IPOMISSOLIDIO
Figura 3
Scala di DO
Maggiore
Scala di LA
minore
Figura 449
Conclusione
Più spesso trattato duramente che lodato dagli ideologi, il musicista occupa il posto
d’onore in ogni rituale. La sua elaborazione concettuale si organizza attorno alle corrispondenze
con il sistema dei cinque elementi e quello dei mesi lunari. La sua estetica deve molto alla calligrafia, alla pittura di paesaggio con le lune, le montagne e le cascate che la caratterizzano. Il suo
discorso prende a prestito elementi di diritto, di metrologia, di poesia.
Eco spontanea della natura, la musica in Cina è risonanza. Costruzione sapiente, deve
meno alla natura che all’arte combinatoria e al gioco. Legata a stili specifici, esige tecniche esecutive sofisticate: colpi di lingua e d’archetto, diteggiature, articolazioni, un intero repertorio
corporale prossimo a quello sviluppato nella tecnica del respiro guidato, il qigong. Strutturata in
forma di tempo, non nasce come una creazione e ignora il genio, l’ispirazione. Azione collettiva, unisce la comunità; azione individuale, consente la meditazione.
In occidente, nell’arco dei secoli, sotto la guida sia della chiesa cattolica che del potere
politico, lo sviluppo del linguaggio musicale è avvenuto in funzione della liturgia e della vita di
corte; il sentiero percorso ha gradualmente semplificato il sistema modale fino alla conquista del
sistema tonale bivalente: il canto aveva una propria esistenza unicamente nella memoria dei
cantori e veniva diffuso e tramandato da una generazione all’altra mediante la tradizione orale.
La svolta si ebbe nel IX secolo, quando con l’uso dei neumi, si cominciarono a delineare le altezze dei suoni; con l’avvento della polifonia, verso la fine del XII secolo, ad opera della cosiddetta Scuola di Notre Dame, si rese necessario elaborare un sistema di notazione ritmica capace
di calcolare il valore di durata dei suoni, in aggiunta alla notazione delle altezze che già esisteva; il vasto e multiforme patrimonio culturale musicale occidentale ci è pervenuto grazie alla
nascita della scrittura musicale moderna; contemporaneamente il linguaggio musicale si è evoluto nella direzione di una complessa forma architettonica capace di contenere, nella dimensione
orizzontale, il melos degli strumenti e della voce e nella dimensione verticale il contrappunto e
l’armonia; entrambi le direzioni a sua volta sono state utilizzate per esplorare sempre più complesse strutture ritmiche, timbriche e formali.
Il linguaggio musicale cinese, con la sua scala pentatonica non ha mai avvertito il bisogno di un centro di gravitazione sonora intorno al quale far ruotare le melodie e la mancanza sia
dell sensibile che dell’intervallo di semitono all’interno della scala pentatonica ha spalancato le
48
49
Claudia Galli, La musica nel tempo, Poseidonia, Bologna, 2001, pp.62-66
Luigi Rossi, Teoria musicale, Edizioni Carrara, Bergamo, 1977, p. 40
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porte a un sistema musicale privo di complesse architetture sonore; per questo motivo il patrimonio musicale, anche questo molto articolato e complesso, per secoli si è tramandato per via
orale (come è successo in occidente nei primi mille anni della cristianità) e la notazione musicale si è limitata alla pratica della intavolatura per semplificare l’esecuzione degli strumentisti. La
mancanza di documenti scritti, soprattutto per quanto riguarda la musica popolare praticata nello
sterminato territorio della Cina rende difficile l’analisi di quel vasto patrimonio e ancor piu impegnativo il confronto con quello occidentale. All’interno di questa concezione, proprio perché
la lingua cinese è monosillabica, la dimensione ritmica, come si è tramandata per secoli con la
caratteristica dell’immutabilità, non ha avvertito il bisogno di sviluppare una pratica e di conseguenza una notazione mensurale articolata e complessa; il ritmo è una “dimensione” del suono e
l’ordine del movimento (di matrice platonica) non va inteso nel senso occidentale del termine,
cioè rigido, sincronico, ma al contrario flessibile, formalizzato all’interno dei riti e delle cerimonie per permettere all’uomo di mettersi in condizione di potersi inscrive nell’ordine cosmico facendo risuonare la porzione di “cielo” che in sé è racchiusa. In questo senso il ritmo e più in
generale tutta la musica cinese ha sempre avuto un valore etico, e questo ancor prima che Platone in Occidente sostenesse l’analoga tesi dell’Ethos (IV sec. a.C.).
Fra il ritmo, la lingua e la musica occidentale e quelle cinesi, l’unico paragone possibile
è con il gioco, ma nella sua accezione più ricca: regole definite, sottili sottintesi, inventiva, interazioni tra alleati; ma anche gioco tra gli elementi senza i quali una macchina non funziona:
«l’idea del gioco accosta, in un equilibrio instabile e paradossale, i due gruppi di nozioni formati
dai concetti di libertà, apertura, spazio vuoto da una parte e da quelli di adeguamento, contatto,
chiusura sistemica dall’altra»50. A lungo associata al tiro con l’arco, essa è la prima tra gli attributi del letterato, prima degli scacchi, molto prima di calligrafia e pittura. Nel carattere “giocare” (you), vi sono tracce di “nuotare”, “fluttuare”, “divertirsi”, “errare”, e ancora “vagabondare”,
“essere nomadi”, tutte caratteristiche musicali. Gioco, gioia, piacere, si dice anche yule, dove yu
è scritto con la chiave della donna e dove le utilizza lo stesso carattere, pronunciato diversamente, di “musica” (yue).
Sintesi in due tabelle dei risultati di questo lavoro:
Cultura Europea
Ritmo e sillabe
Ritmo e Metrica
Metrica come susseguirsi di sillabe
Scale: modale, tonale, dodecafonica
Ritmo come ordine del movimento
(Platone)
50
Cultura Cinese
čie (ritmo), pan-yen (misura)
il ritmo binario (misure a 2 e a 4
tempi) è molto frequente, mentre
quello ternario (misure a 3 tempi) è
molto raro nella musica classica
tradizionale.
Scala: pentatonica
La musica è natura che si manifesta
attraverso il suono; il Ritmo un “aspetto” del suono
J. Henriot, Jeu, in Sylvain Auroux, Les notions philosophiques, dictionnaire, Paris, PUF 1990,
1391.
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p.
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Middle Age: Canto gregoriano con
ritmo libero e senza metri prestabiliti
Musica testo: Melodramma italiano
Ritmo misurato: si basa sulla disposizione degli accenti.
Lingua monosillabica
Canto sillabico
Musica testo: composizioni melodiche e polifoniche senza l’armonia
occidentale
Ritmo libero (senza disposizioni
degli accenti) e misurato
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