Genova e la canzone d’autore a cura di Enrico de Angelis Copertina: grafica a cura di GGallery Publishing Si ringraziano per l’amichevole collaborazione: Jacopo Aloisi, Simonetta Cerrini, Marta Delfino, Guido Festinese, Nini Giacomelli, François Gribi, Luigi Manconi, Ugo Mannerini, Massimo Micalizzi, Michele Neri, Floriana Panseri, Claudia Pastorino, Sergio Secondiano Sacchi, Franco Settimo, Lea Tommasi. Genova e la canzone d’autore a cura di Enrico de Angelis Testi di: Alberto Bazzurro, Giovanni Choukhadarian, Lorenzo Coveri, Enrico de Angelis, Enrico Deregibus, Athos Enrile, Guido Festinese, Annino La Posta, Alessio Lega, Luigi Manconi, Marco Mangiarotti, Claudia Pastorino, Andrea Podestà, Sergio Secondiano Sacchi, Mauro Selis, Paolo Talanca, Jacopo Tomatis, Renato Tortarolo, Margherita Zorzi. Progetto e realizzazione: GGallery Publishing Art Director: Cinzia Costa Direzione editoriale: Redazione: Traduzioni: Impaginazione: Segretaria di redazione: Paolo Macrì Alessia Luca, Francesca Veneziano Annalisa Damonte, Manuela Gualandri Massimo Berrutti Luciana Santoro Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. L’editore ha assolto tutti i diritti relativi ai contenuti e alle immagini. Tuttavia è disponibile ad assolvere i propri impegni nei confronti dei titolari di eventuali diritti sulle fotografie e sui contenuti pubblicati che erano sconosciuti o non reperibili al momento della stampa del volume. I crediti grafici e fotografici delle copertine discografiche mancano quando non sono indicati sugli originali. © 2014 GGallery s.r.l. © 2014 Banca Carige S.p.A. Dopo l’apprezzamento riscontrato dall’iniziativa editoriale dedicata a Genova e il jazz, anche quest’anno il Gruppo Banca Carige affronta nel suo volume strenna il rapporto tra la Liguria e la musica. Una liason che può sembrare innaturale, per una regione popolata da gente a prima vista ruvida, introversa e taciturna, abituata com’è a scrutare la monotonia dei suoni del mare. Ma proprio in questa convivenza perenne con l’ignoto, in questa congenita simbiosi con una natura avversa e maestosa, da interpretare ed ascoltare in ogni suo piccolo movimento, risiede forse quell’inattesa passione per le sonorità della musica che fa della gente di Liguria un insospettato popolo di musicisti virtuosi, geniali e innovatori, da Paganini in poi. Non è quindi un caso che nasca nell’alveo della tradizione di creatività e coraggio incarnata dai liguri anche la grande canzone d’autore, genere artistico a sé stante, sorto da un’inedita fusione di musica e testo in un intreccio inscindibile. Porto di mare, aperto per natura ai venti di novità e alle contaminazioni artistiche e culturali, Genova è stata la culla di una koinè semantico-melodica da cui si è sviluppata quella sinfonia di voci, versi, emozioni che ha fatto da colonna sonora a mezzo secolo di storia nazionale, dal Dopoguerra fino ai giorni nostri. Alle note e alle rime scaturite dalla penna dei grandi chansonier e parolieri della scuola genovese sono legate vicende, immagini e ricordi che appartengono alla vita di tutti noi. Promuovendo la presente opera, Banca Carige vuol tributare un omaggio a questi grandi artisti, anticipatori di un’epoca e di una nuova cultura come spesso i liguri lo sono stati, in tantissimi ambiti, nella storia. Gente abituata ad affrontare le correnti avverse, a leggere il mutare dei venti e ad affrontare la vita in mare aperto, con le sue gioie, le sue difficoltà e le sue emozioni. Da figli di questa terra, aspra e meravigliosa. Cesare Castelbarco Albani Presidente di Banca Carige S.p.A. Prefazione Preface In questo libro, lo diciamo subito, Genova va da La Spezia a Sanremo. Nessuno se la prenda, ma quando le edizioni GGallery e la Carige mi hanno proposto di coordinare quest’opera sulla famosa storica presunta controversa “scuola genovese” di cantautori, man mano che si procedeva nel lavoro ci si rendeva conto non solo di una cosa risaputa, ovvero di quanto Genova, come una lucertola, si allunghi sulla costa da una parte e dall’altra di se stessa, ma anche di come gli immediati paraggi, da Rapallo a Savona, non potessero non considerarsi di matrice culturalmente genovese… e poi via via, verso est e verso ovest, come se tutti quegli artisti che da una località o da un’altra ci spuntavano davanti alla mente non potessero che rientrare nella stessa vicenda artistica, si fossero plasmati su quella stessa rivoluzione anni ’60 senza la quale quasi nient’altro ci sarebbe stato, fossero fatti insomma della stessa materia, quella appunto che cerchiamo di indagare in questo volume a più voci. E poco importa se alcuni di quegli innovatori non sono peraltro nati a Genova: se a Genova sono cresciuti e si sono attratti e si sono compattati, vuol tanto più dire che sia stato proprio il clima di questa città, clima in tutti i sensi possibili, a informare di sé una comune sensibilità. Abbiamo così chiamato a raccolta alcuni dei migliori e più autorevoli esperti, scrittori e fotografi di “canzone d’autore”, molti dei quali ruotanti intorno al Club Tenco che guarda caso ha sede a Sanremo, per mettere a fuoco, per la prima volta in maniera così massiccia, sistematica e polifonica, ciascuno a modo suo, col proprio taglio e il proprio stile, il singolarissimo fenomeno dei “genovesi” in musica. E se vi pare che manchi qualche altra prestigiosa firma a cui avevo pensato… è stato solo perché qualche impedimento contingente, a malincuore, non gliel’ha consentito. C’era da scrivere per tutti, per tutti i gusti e per tutte le cronache possibili. Dall’humus della tradizione dialettale, pardon, della lingua genovese che porta nel mondo Ma se ghe penso alle prime intuizioni italiane di swing vocale che dobbiamo a Natalino Otto; dalla stupefacente raffica di “cantautori della rivoluzione” che praticamente in un paio d’anni cambiano la faccia della musica in Italia (Bindi, Paoli, Tenco, Lauzi, De André: scusate se è poco) a tutto un milieu di “fiancheggiatori” che, a partire da Giorgio Calabrese e i fratelli Reverberi, sostengono i cantautori con la sapienza della parola e della musica; da una certa vena di beat, rock e prog attenta ai contenuti testuali (un esempio sublime: il connubio fra i New Trolls e il poeta Riccardo Mannerini) alle nutrite generazioni di cantautori immediatamente successive, capitanate da Ivano Fossati e culminanti, cronologicamente, col terzetto Cristiano De André-Francesco Baccini-Max Manfredi; dalle venature In this analysis of the Genoese songwriters we consider “Genoa” as an “imaginary” place from La Spezia to Sanremo: Genoa actually lies on the coast like a long lizard, and its culture spreads in the neighborhood from East to West reaching all Ligurian artists, who developed the same sensibility. In this book some of the best and most important music experts will focus on the unique phenomenon of Genoese songwriters, which developed in many different directions: from the Genoese dialectal tradition to the first Italian examples of swing; from the wave of the songwriters of the “revolution” to the “flankers” who supported the songwriters with their lyrics and arrangements; from a beat, rock and prog inspiration to the large new generations of songwriters; from the jazz sounds that from the very beginning permeated almost all songwriters’ works to the theatrical and cabaret experiences; up to a surprising flourishing of new talents, mostly women. These Genoese artists introduced a number of important reforms into the world of pop music. First of all, the idea of using their songs to talk about themselves, their private world, their feelings and their point of view about society. Unexpectedly, songs started talking about all human knowledge: life and death; nostalgia, loneliness and lack of communication; the province and metropolitan alienation; social climbing and segregation; power, war and civil solidarity; love and sex, senses and sensuality; but above all, there was an uprising against the social and political models, a quiet omen of the 1968 revolts. The second songwriters’ “revolution” refers to the language of their lyrics that drifted apart from the rigid rhetoric and absorbed concrete and 5 familiar sentences, idioms and words, never heard before in songs. These authors’ music is surely perceived as the most real and complete one, because they sang their own world with their own words. The Genoese songwriters also had a miscellaneous cultural background, rich in “good reading” and good music. They read Marx, but also Saint Francis from Assisi and Saint Ignazio from Loyola, the French existentialists, the Italian poets, the US beat literature. On the musical ground, they introduced a “new” way of writing songs after having heard, assimilated and loved jazz music, the musical genre and Tin Pan Alley, rock’n’roll, classical music, traditional Italian songs, the French chansonniers, cabaret; then folk and the US protest music. These are the various and heterogeneous roots of the songwriters’ songs that would become the point of reference for the following Italian music, and that differ from other countries. No one knows why the songwriters’ phenomenon happened precisely in Genoa. Maybe only by chance, or because Genoa was a high-density city, which had to give vent to its internal tensions; maybe because it had to rise again after the Second World War devastation, or because of the presence of the sea, which instills the charm of the unknown and melancholy; maybe because of its port – Mediterranean, furthermore – and the fact of being a frontier city, full of colours, scents and strong tastes, where the combination between different cultures and languages enhanced creativity. In conclusion, the Genoese songwriters were so many and so important, that critics often labelled them as the artists of the “scuola genovese” (Genoese school). But they always rejected this definition, looking at themselves more as a circle of good friends sharing the same values and experiences, characterized by a deep sense of solidarity and a friendly collaboration in writing music. Enrico de Angelis 6 jazz che fin dall’inizio percorrono l’opera di tutti questi artisti a una certa vocazione teatral-cabarettistica che non trascura la canzone; da alcuni cantanti popolari che la “canzone d’autore” l’hanno sfiorata (è solo in questo senso che abbiamo azzardato nel titolo l’espressione borderline) fino a una sorprendente fioritura di nuovi talenti – in buona parte femminili – che forse non si ha chiaro quanto abbiano costellato gli ultimi vent’anni finché non li si vedranno riuniti ed elencati in questo libro. Ma che cosa ha veramente “rivoluzionato” l’arrivo di quest’accolita di genovesi (a cui vanno doverosamente aggiunti i “forestieri” ma-non-tanto Endrigo, Gaber, Jannacci, Ciampi) nell’ammuffito mondo della musica leggera, che solo da pochissimo tempo stava cominciando a rinfrescarsi con l’irruzione di Modugno, del rock’n’roll, del terzinato, degli urlatori? Innanzitutto, novità non da poco, improvvisamente in canzone si può parlare di tutto: il tempo, la nostalgia, la vita e la morte; la solitudine, l’incomunicabilità, il disagio esistenziale; la provincia paesana o l’alienazione metropolitana; l’arrivismo, l’emarginazione, gli squilibri sociali, il potere, la violenza, il militarismo, la guerra, la solidarietà civile; l’amore sì, ma anche il sesso e la sessualità, il senso e la sensualità, specie in Tenco, in Paoli, in De André. Natalia Aspesi nel 1963 etichettava Luigi Tenco come “paladino del sesso e della politica nella canzonetta italiana”. C’è già una sia pur generica ribellione di costume e di stile che sembra presagio del ’68; un rifiuto anarcoide e generazionale dei modelli sociali e politici, ma all’inizio appena “sussurrato”, un’insofferenza più che una mobilitazione, una protesta sottovoce, per immagini e allusioni, discreta, lieve, e per questo tanto più efficace dal punto di vista artistico. Insomma si fa strada l’idea che la canzone possa essere usata per esprimere se stessi, il proprio mondo personale, che sia quello sentimentale intimistico o la propria visione della società civile. Sono “cantautori”, questi. La figura di qualcuno che esterna ciò che egli stesso ha scritto e quindi “sente” è evidentemente la figura più autentica, compiuta e motivata che possa esistere in questo campo. Il linguaggio, poi, con cui si raccontano queste cose va e vuole andare contro ogni cristallizzata retorica. Entrano in canzone frasi, locuzioni o vocaboli inconcepibili prima, perché troppo concreti, materiali o “dimessi”, magari non immediatamente adeguati alla musica corrispondente e quindi con effetti spiazzanti. Si incontrano per la prima volta parole “inedite”, apparentemente “impoetiche”, come portacenere, sassi, soffitto, una di quelle, bicchiere di spuma, donne e motori, latta di birra, pattumiere, fossa comune, bidello, il bello della sera, acchiappanuvole, contagocce, mi piace vederti soffrire, mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare… persino stanza da bagno in una squisita canzone d’amore. È tutto un realismo poetico circoscritto, precisato, ambientato. Paoli ne è un maestro: è un attimo entrare in quella stanza col soffitto viola, in quella soffitta vicino al mare o in quel caffè coi camerieri maleducati. Le ispirazioni sono reali, spesso nate da momenti effettivi della vita, perché attinte o dall’autobiografia o dalla cronaca. Poi, sempre all’improvviso, si comincia a prendere atto che pure i cantanti sanno leggere. Questi signori manifestano un background culturale ricco di fermenti, di attenzione, di curiosità, che si rivela in misura francamente singolare rispetto al circostante mondo della musica leggera di allora; innovativi anche in questo, perché da allora si inizia finalmente a supporre uno spessore culturale anche in chi fa canzoni e si apre la strada ai cantautori della successiva generazione. L’influenza del clima esistenzialistico francese o della letteratura americana contemporanea è forte. Un bagaglio di “buone letture” emerge ricorrentemente nelle interviste, nelle ricostruzioni biografiche, nella loro stessa produzione scritta. Tenco legge Marx ma anche San Francesco o Ignazio di Loyola, Fenoglio e Silone, Sartre e Camus, Steinbeck ed Hemingway, Kerouac e Ferlinghetti; e dentro ha Pavese. De André è zeppo di riferimenti letterari: da Villon a Prévert, da Cecco Angiolieri a Lee Masters, da Àlvaro Mutis al citato Mannerini, solo per dirne pochi. Anche su un piano musicale, costoro approdano alla “nuova canzone” dopo aver ben conosciuto, assimilato e amato, uno dietro l’altro, il jazz, il musical e Tin Pan Alley, il rock, la musica classica (Bindi in primo luogo), la tradizione italiana (sia popolare che d’autore, dalla canzone napoletana alla romanza, al varietà), gli chansonnier francesi, il cabaret; più avanti il folk e la canzone di protesta d’oltreoceano. Le loro musiche non sempre sono orecchiabili, sono spesso molto articolate (Bindi), fuori schema (Tenco), oppure legate a toni parlati e cantilenanti (Paoli). E poi quel nuovo modo di cantare codifica, dopo il primo scossone di Modugno, il taglio netto coi miti del belcanto e dell’ugola d’oro, specialmente in Bindi, l’antesignano, e in Paoli, voce quest’ultima che all’inizio viene testualmente accostata a “uno strumento dal timbro metallico” e lascia stupefatti. È curioso come da tanti e tali radici eterogenee sia venuta fuori una forma-canzone che, dopo essersi scrollata di dosso le influenze più evidenti, ha finito per costituire un nuovo modello tutto italiano di canzone “nazionale”, che di fatto si distingue nel mondo, anche se nel mondo non ha la popolarità che potrebbe meritare. Perché sia accaduto proprio a Genova tutto ciò, io non so dirvelo. Sono state date tante spiegazioni. Magari solo un caso. Oppure perché, è stato detto, Genova è una città compressa, a densità molto alta, che deve sfogarsi da qualche parte. Che doveva risorgere dall’oppressione e dalle macerie della seconda guerra mondiale, che lì era stata particolarmente devastante. Oppure perché c’è il mare e col mare la tensione verso il fascino dell’ignoto; e se non si riesce ad appagarla ci si ripiega nella malinconia. E perché è un porto, e come tutte le città di porto è brulicante città di frontiera, di confine, e si sa che la commistione tra culture e linguaggi diversi è sempre stata foriera di creatività nella musica, e non solo nella musica. Per di più un porto mediterraneo: la sostanza culturale-etnica di Genova è più vicina al Marocco, all’Algeria, alla Sicilia, alla Spagna, alla Grecia, che non al continente; quindi un coacervo di creatività piena di colori, profumi e sapori forti. Si pensi a De André, alla sua scelta di vivere in Sardegna, al lavoro fatto con Creuza de mä, con quei suoni e quegli strumenti della tradizione islamica e macedone e occitana e catalana, con quel dialetto che non è solo genovese. Disse Fabrizio a proposito di Creuza de mä: “L’idea decisiva mi nacque dalla scoperta che la lingua genovese ospita al suo interno oltre duemila vocaboli di provenienza araba o turca”; non a caso la prima stesura dei testi di Creuza de mä era in un arabo maccheronico. Ma tutto questo a Genova lo si ritrova non solo in acqua ma anche nel suo ventre terragno (anzi, si sa che proprio i marinai amano la terra più del mare), e quindi nei proverbiali vicoli del suo misterioso intestino (pensiamo al mondo della prostituzione, che oggi giustamente associamo a violenza, sfruttamento e delinquenza, ma un tempo costituiva forse un ambiente che non a caso personaggi come Paoli o De André amavano e rielaboravano poeticamente). Sono stati, in conclusione, così tanti e così importanti e così caratterizzati, gli autori di cui si tratta in questo libro, che si è sempre parlato di “scuola genovese”. Ora, è anche vero che Tenco e Lauzi erano compagni di banco… ma i diretti interessati hanno sempre rifiutato l’etichetta di “scuola”. Era una complice cerchia di amici molto stretti, che gravitavano intorno agli stessi punti d’incontro, per esempio la spiaggia della Foce, ovvero la foce del torrente Bisagno, luogo anche e soprattutto di lavoro, dove abitava, come dice Paoli, “gente chiusa e sincera, semplice e scorbutica, che mi assomiglia”. E parlando di questi amici Paoli aggiunge: “C’era un’enorme solidarietà tra di noi, questo sì. Quando qualcuno di noi voleva fare qualcosa, tutti gli altri se potevano lo aiutavano. Se Tenco stava finendo un testo e io potevo dargli una mano gliela davo, come faceva lui con me. Ma questo non si chiama scuola, è semplicemente un trovarsi di… quattro amici al bar, chiacchierare, stare insieme e volersi molto bene. A questo punto il passaggio da questa solidarietà amichevole al concetto di scuola non è stato difficile, anche perché uscivamo dalle stesse esperienze.” Non era una scuola, ok, ma questi artisti sono stati così bravi che hanno finito per farci credere che lo fosse davvero. Enrico de Angelis 7 Introduzione Introduction Luigi Manconi Geo-gastronomia e musica leggera. Umbre de muri, muri de mainè Se assumiamo come universo di riferimento di linguaggio e di senso il canone della musica leggera, due canzoni sembrano parlarci, meglio di tutte le altre, della produzione musicale genovese e ligure. La prima canzone ci offre la lettura dall’esterno di Genova-mondo; la seconda ce ne offre la più perfetta interpretazione dall’interno. Va da sé che la prima è Genova per noi, scritta e musicata da Paolo Conte quarant’anni fa. Si rilegga il testo, sempre prestando attentissimo ascolto alla musica che consente, di quelle parole, la sola piena ricezione. Eccolo: Con quella faccia un po’ così quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima di andare a Genova che ben sicuri mai non siamo che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più… Eppur parenti siamo un po’ di quella gente che c’è lì che in fondo in fondo è come noi, selvatica, ma che paura ci fa quel mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai. 10 Tenuto conto che l’autore di quel testo è nato ad Asti e lì tuttora risiede, questo sguardo così profondo e acuto e, allo stesso tempo, così prudente e guardingo è stato interpretato sempre come quello proprio dei quasi-conterranei (“eppur parenti”). Ovvero dei limitrofi e dei confinanti (appena 118 km tra Asti e Genova e un tragitto in auto che richiede poco più di un’ora). Come se il capoluogo ligure fosse, diciamo così, la discesa a mare di quegli abitanti delle campagne piemontesi ma anche, a ben vedere, delle stesse città, medie e piccole, della regione: una intera cittàspiaggia per quel vasto entroterra costituito dal Piemonte. Una sorta di grande stabilimento balneare che – della località di mare – presenta tutte le attrattive e le insidie, le suggestioni e i pericoli, il fascino e la minaccia. Ma non stiamo parlando solo di Genova e di Asti, della Liguria e del Piemonte. E infatti, Genova, come altre città (Livorno, Napoli, Bari, Ancona, Trieste...) rappresenta il bagnasciuga di tutta quella popolazione “continentale” che abita la nostra Penisola e che solo di recente (qualche decennio fa) ha acquistato, se non familiarità, una certa consuetudine con l’acqua del mare. Mi avventuro spericolatamente sul terreno della geografia del costume per dire che – forse con la sola eccezione della Riviera di Levante e di quella Romagnola, e con l’anomalia di Sardegna e Sicilia – il rapporto intrattenuto con il mare dall’italiano urbanizzato e, ancor più, da quello rurale, è stato massimamente “circospetto” fino a tutti gli anni Sessanta. Mentre le vacanze al mare diventavano consumo di massa, nell’inconscio dell’italiano che partecipava del nuovo stile di vita e di un uso diverso del tempo libero, rimaneva la sottile paura che quell’acqua “c’inghiotte e non torniamo più”. In altre parole, l’italiano medio faticava a intrattenere una relazione serena con il mare e le statistiche denunciavano, fino a pochi anni fa, una percentuale elevatissima di connazionali totalmente incapaci di nuotare. E drammaticamente soggetti ai rischi che quella inabilità comporta (qualcuno mi dice che in nessun altro Paese che si affacci sul mare il bagnino è così popolare e apprezzato come nel nostro; non solo destinatario di torride fantasie erotiche, ma anche protagonista di epopee feriali). A segnalare un autentico salto di quantità e di qualità nella fino ad allora modesta consuetudine della vacanza al mare, sarà proprio un autore diventato “genovese” come Gino Paoli. E la canzone-manifesto, la canzone-promo, la canzone-testimonial è ovviamente Sapore di sale. Per me, semplicemente, una delle canzoni più belle al mondo e, in ogni caso, una canzone perfetta: ossia la più felice integrazione tra testo, musica, arrangiamento e interpretazione. Se c’è una canzone-estate è certamente quella (sarà un caso, ma l’altra splendida canzone-estate è, per sublime negazione, la precedente Odio l’estate di Bruno Martino, nato a Roma). Si pensi all’anno in cui venne pubblicata Sapore di sale, quel 1963 che vedeva, appunto, le vacanze al mare diventare, da opzione elitaria, consumo di massa. A quel passaggio corrispose con rapidità notevole un mutamento di costume e mentalità. Un mutamento certo determinato da molti altri fattori, ma che aveva nella vita di spiaggia, con tutto ciò che comportava, un potente incentivo e una esuberante manifestazione. Quel passaggio da opzione elitaria a consumo di massa, che avveniva parallelamente al pieno dispiegarsi del “miracolo economico” e come sua conseguenza portava all’affermarsi progressivo e, infine, al trionfo di uno scenario fino ad allora sconosciuto: la nudità di massa. Per milioni di italiani fu un autentico shock. Qualcosa di simile a un trauma collettivo, ricco di aspettative e inquietudini, di pulsioni e turbamenti, di piaceri e frustrazioni. E, ancor prima, di tempeste ormonali e di lascivie adolescenziali. Un intero popolo (beh, diciamo un quinto di popolo) che si metteva a nudo, maschi e femmine, infoiati e allegri, euforici e pallidi, mostrando vicendevolmente – con una combinazione di spudorata innocenza e di sfrontata timidezza – quelle che alcune cronache definivano ancora “le vergogne”. Per gli anziani fu uno stupore in parte accigliato e in parte compiaciuto, per le giovani generazioni una scoperta gioiosa e felice. Per tutti, una trasformazione profonda. Si ricordi che all’epoca, i costumi da bagno di maschi e femmine erano ancora, se non di lana, di cotone pesante e permeabilissimo; le scollature di quelli femminili assai composte e vereconde, i modelli notevolmente rigidi e informi. Quelli maschili, poi, oscillavano tra fogge che li facevano somigliare a brache da esercito coloniale, e sfuggenti triangoli davvero indecenti, incredibilmente tollerati perché il nudo maschile godeva di una sua immotivata guarentigia. Su quella umanità che si muoveva ancora “circospetta” e, tuttavia, colma Geo-gastronomy and pop music. Umbre de muri, muri de mainè The Genoese and Ligurian songwriters’ work is explained at its best by two songs: Genova per noi, words and music by the Piedmontese Paolo Conte, which offers an external point of view on Genoa and Sapore di Sale, by the Genoese Gino Paoli. The first one reflects the deep and acute but, at the same time, cautious gaze of the foreigners on Genoa and is a symbol of the rural and urban Italians’ wary relationship with the sea. At that time the percentage of Italians completely unable to swim was very high, which made the lifeguard more popular and appreciated than in other countries, and subject of passionate erotic fantasies. It was not only the case of Liguria and Piedmont: also other cities, as Livorno, Naples, Bari, Ancona, Trieste, and so on, represented the foreshore for all the Italians from the mainland who, only few decades ago, started to become familiar with the sea – with the only exception of the East and the Romagna coast and the anomaly of Sicily and Sardinia. It were the Sixties, the years of the “economic miracle”, when the holidays at the sea became part of mass culture, with the claim of a new collective scenario: mass nakedness. The idea of dozens of scantily-dressed people in the same place and at the same time – a combination of shameless innocence and impudent shyness – was inconceivable till then, shocking for the conformists but fascinating for the young, who glimpsed the coming of the sexual revolution. This is the background of Sapore di sale, in my opinion simply the best song ever, the perfect summer hit, the fullest integration of music, arrangement and interpretation, an unstoppable flow of erotic energy. It had the power to dissolve the odd outfits of the bathers of that days – with the women wearing some priggish wool swimsuits and the men compelled to choose between long military-style boxer shorts or, on the contrary, some indecent cloth triangles – and the oppressive smell of the vile sun-creams. That “salt flavour / that you have on your skin / that you have on your lips”, instead, is like a moan of passion, a declaration of a so far 11 quiet, tacit and mental love, maybe deferential to the place where it is (probably a crowded beach), completely different from the fierce love sung in other Paoli’s compositions (i.e. Il cielo in una stanza, Senza fine, La storia di un ricordo, about loves consumed in the secret of a bedroom). Gino Paoli’s voice is, as usual, dreamy and sorrowful at the same time, traversed by pleasure and torment, in its timelessness even more expressive of the fury of sensuality. Sapore di sale also has in its title the secret code to decrypt the identity of the so-called “scuola genovese” of songwriters. As in a Scandinavian legend or in a detective novel of the XIX century, the evidence that resolves the mystery is under the eyes of everyone, and the three words of the title show how Genoese artists shared the same culture and the same ideas, but also the same tastes, and the passion for good food. As a matter of fact, salt has great importance in Ligurian cuisine for its property of food conservation – we can remember here some traditional dishes such as salted anchovy, Ligurian salted olives, brine vegetables and so on – and for being the main ingredient of the omnipresent focaccia bread. So, Sapore di sale, song of torrid love, sparkling sea and burning sand, becomes the possible title of a food-and-wine adventure, with Conte’s external point of view giving way to the native voice of Fabrizio De André. In his songs he talked about broddu de fàru, amë, ûga spin-a, sûgu, selvaggin-a, spica, while in Crêuza de mä we can find frittûa de pigneu, çervelle de bae, lasagne da fiddià ai quattru tucchi, paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi (in a book like this, published in Genoa, it is stricly forbidden to translate these words), typical dishes of a land and a culture made of hand and heart work. Those foods and their names really seem to define the identity of a personality – and of a certain kind of music, too – growing up between the sea and the hills, the vegetable gardens and the paths called crêuze. In A çimma – according to Maurizio Maggiani, the most beautiful among De André’s songs – he described the making of the old traditional dish called “cimma” as an almost sacred ritual, with a hand carefully sewing a pouch of calf leather stuffed with vegetables, meat and cheese, to prevent the filling from coming out during the long cooking time. 12 di desideri, pesava l’odore greve delle creme solari del tempo: nulla di simile alla sofisticata evanescenza dei prodotti attuali e qualcosa che, piuttosto, rammentava una nauseabonda poltiglia. Ebbene, lì, su quelle donne e su quegli uomini, e ragazze e ragazzi, precipitano saltellando – in quell’estate del 1963 – le note di Sapore di sale. Tutto quanto fin qui descritto (costumi impresentabili e creme solari disgustose, frustrazioni patite e desideri covati compresi) svanisce al suono di quel flusso di energia erotica allo stato puro, che quella canzone perfetta trasmette con forza incontenibile e vitalissima. Quel “sapore di sale che hai sulla pelle, che hai sulle labbra” è come un gemito di passione: una dichiarazione di amour fou. Per moltissimi giovani dell’Italia di quegli anni è l’annuncio della rivoluzione sessuale che, come tutte le rivoluzioni, prima si manifesta nella mente e nella fantasia e solo poi nei gesti e nei movimenti. E negli amplessi. La voce di Gino Paoli, in quella interpretazione, è la voce di Gino Paoli: come sempre trasognata e desolata allo stesso tempo, come sempre attraversata da piacere e dolore, come sempre allusiva di un sogno e avvertita della sua labilità. È una voce che non ha alcunché di giovanilistico (si può dire che Paoli allora ha appena 29 anni oppure che ha già 29 anni, ma questo vale anche oggi che di anni ne ha 80): e questa sua atemporalità sembra renderla ancor più espressiva di un delirio dei sensi. Sia chiaro: è in realtà delirio ancora quieto, sottaciuto, tutto mentale, quasi fosse rispettoso dell’ambiente in cui si manifesta (una spiaggia presumibilmente affollata e sguardi particolarmente curiosi), che non ha il tono parossistico raggiunto in altre composizioni come Il cielo in una stanza, Senza fine, La storia di un ricordo (e si capisce: queste ultime parlano di amori consumati nel segreto umido di una camera da letto). Ma, ecco il punto, la canzone perfetta costituisce anche il codice e la chiave di interpretazione dell’indecifrabile rebus proposto da quella che viene chiamata, seppure impropriamente, “scuola genovese”. Come in una leggenda scandinava o in un romanzo d’appendice dell’Ottocento, incerto tra investigazione criminale e denuncia sociale, l’indizio che risolve il mistero si trova lì, nelle pieghe della tappezzeria di un divano o tra gli oggetti in pelle di uno scrittoio. O addirittura, come vorrebbe l’abusata immagine della “lettera rubata”, eccola proprio là: sotto gli occhi di tutti. La chiave del mistero della “scuola genovese” si trova ancora in quelle tre parole: sapore di sale. È questa la traccia da seguire: l’identità di quella cultura e dei musicisti che di quella cultura si nutrono (attenzione: nutrirsi) si fonda non certo marginalmente sulla conoscenza, sul gusto e sul piacere del sapore e dei sapori. Il sale poi riveste un ruolo particolare nella cucina ligure. Gran parte delle preparazioni tradizionali si basa, infatti, sulla conservazione degli alimenti: acciughe sotto sale, olive alla ligure, prodotti in salamoia, intingoli vari. E il sale è ingrediente fondamentale nella preparazione di quel monumento regionale che è la focaccia. Ecco che allora Sapore di sale, canzone dell’amore assolato e del mare scintillante e della sabbia rovente, diventa – per allusione e per slittamento di sensi (ancora: sensi) – il possibile titolo di un’avventura gastronomica. Qui lo sguardo esterno di Paolo Conte e degli abitanti dell’entroterra cede il posto allo sguardo più interno e, direi, intestino (appunto, ma so di esagerare: intestino). E la canzone perfetta richiama irresistibilmente altre due canzoni perfette, entrambe di Fabrizio De André. La prima è Crêuza de mä. In un libro come questo edito a Genova, credo sia severamente vietato pubblicarne la traduzione e, dunque, chi non capisce quel testo chieda a qualcuno che conosce il vocabolario genovese-italiano. Ecco i termini che troviamo: frittûa de pigneu, çervelle de bae, lasagne da fiddià ai quattru tucchi, paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi. Poi, sparsi in altre canzoni: broddu de fàru, amë, ûga spin-a, sûgu, selvaggin-a, spica. Penso di poter dire che Crêuza de mä arrivi a “spiegare” tutte le canzoni di tutti i musicisti di Genova e della Liguria. Quelle parole magnifiche, cantate a bocca semiaperta (o forse semichiusa) parlano davvero di una Genova-mondo: e ne parlano come di una terra, di una produzione della natura e di una produzione della cultura fatte di lavoro delle mani e del cuore, del gusto dell’occhio e dell’olfatto, del tatto e della bocca. Quei cibi e i loro nomi sembrano definire davvero i tratti di un carattere – e, se si vuole, anche di una musica – che si forma tra mare e collina, tra orti e crêuza de mä. Lo si capisce bene ascoltando un’altra canzone di De André, quella che, secondo Maurizio Maggiani, è “la più bella tra le belle”: A çimma. È la descrizione di un atto, la narrazione di un rito, il racconto di una creazione: la preparazione della “cimma”, appunto. Piatto di tradizione antica, la “cimma” è composta da una tasca di vitello farcita con verdura, carne, uova e formaggio, e cucita con ago e filo in modo che, durante la lunga cottura, il ripieno non venga fuori. È del tutto evidente che la preparazione della “cimma” solo a un cuore insensibile e a orecchie sorde può apparire come la semplice confezione di un cibo tipico. E vengono in mente, per contrasto, quella letteratura e quella critica di ispirazione idealistica che parlano della creazione d’arte come "nutrimento spirituale", "cibo dell'anima" e perfino "pane di Dio". Qui il canone viene rovesciato: la canzone (parola e musica) si sottrae al fascino corrivo dell'astrazione per farsi materia, corpo, esperienza fisica. Qui il cibo è cibo, il pane è pane e per fare il pesto servono aglio olio basilico pinoli pecorino e parmigiano. E per fare una buona canzone serve tutto questo e un certo sapore di sale. Gino Paoli alla Foce. (Foto Publifoto) 13 La città e il sogno Genova The city and the dream Genoa Annino La Posta ...siamo sognatori di mondi... Ivano Fossati Sospesa atavicamente tra il mare e la montagna, margini antitetici del groviglio che s’intreccia, s’insegue, affonda e sale spinto dai venti che scavano o dal sole che evoca, Genova si aggrappa al suo orizzonte come un pesce inquieto catturato dalla rete: possente e fragile, superba e discreta, acquatica, terrigna e ventosa, accoglie e fonde tutte le voci nelle sue volute profonde di creatura viva che si svela e si nasconde con la stessa ciclicità delle onde del mare in cui si rispecchia. Nessuna città è visibile contemporaneamente nella sua totalità, lo sguardo deve accontentarsi di piccole porzioni. Inutile cercare monadi che concentrino leibnizianamente il tutto. Il modo migliore per vederle è affidarsi alla fantasia, che tutto comprende ma che tutto trasforma, amalgamando il visto all’immaginato e il vissuto al sognato. Materiale onirico Genova ne offre molto, e molto di più se ne trova nelle canzoni che di quel materiale spesso si nutrono. Una canzone offre una realtà già trasformata, che a sua volta viene reimmaginata dall’ascoltatore. Non c’è un modo migliore di ascoltare una canzone che quello di portarla via mentre se ne viene portati via, non esiste una reale possibilità di penetrazione nell’immaginazione, la giusta lettura presuppone una grossa dose di lost in translation: è obbligatoria. L’immaginazione è possibilità non realizzata, è come trovarsi davanti alle innumerevoli vie di fuga che il mare promette e non imboccarne neanche una. Così nasce la poesia, e così nasce la canzone. È successo a Napoli, succede a Genova: 16 Le città di mare sono i punti di incontro di mille avventure di lingue diverse e di facce scure di gente che passa e si ferma a guardare. Le città di mare che son fatte apposta per non far capire se la storia più bella deve ancora venire o se si allontana sera per sera. da Le città di mare di Eugenio Bennato Dal mare spesso si arriva, e il mare è anche l’unico punto di vista a restituire un’illusoria unità, che, purtroppo, si frantuma appena si posano i piedi a terra: Chi guarda Genova sappia che Genova si vede solo dal mare quindi non stia lì ad aspettare di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più di quei gerani che la gioventù fa ancora crescere nelle strade. da Chi guarda Genova di Ivano Fossati La dicotomia del mare: via d’uscita e al contempo barriera che frena, è riassumibile interamente in un porto verso cui non resta che veleggiare: Signore di questo porto vedi mi avvicino anch’io vele ancora tese bandiera genovese sono io. da Passalento di Ivano Fossati In un porto, prima di tutto, approdano i pescatori: Tutti, tutti sulla spiaggia, arrivano i pescatori. A sbrogliare le reti è sempre una magia, può venire fuori una sirena che cantando ti porta via ma l’argento delle acciughe ti riporta giù. da Arrivano i pescatori di Sergio Alemanno Il pesce, però, non è l’unica merce ad arrivare in un porto. Da molto più lontano, altri porti, altre città offrono molto di più: Accordeon, papiri, scorfani, ricci di mare, leudi, agorà, algebra, Corfù, bitte, cime d’acciaio, kolo, sirtaki, bilance, empori, sfruttatori, bagasce. E poi: Canti gitani, voci da un bazar, lamento slavo, la morte di un marinaio, parlar forte, preti ubriachi, tarantelle, processioni, canditi, sestanti, donne selvatiche, paranchi, baruffe per un bicchiere di vino. E ancora: Chitarre, bibbie, inquisizione, suk, mendicanti, Napoleone, massacri orrendi, tuoni, mole da fabbro, ammiragli, santi, lanterne, droghieri, navi, battaglie, pipistrelli. da Magazzino Mediterraneo di Buby Senarega Altri mondi che si mescolano, altre facce che si mischiano, altre realtà che diventano una. Fuori dal porto basta alzare lo sguardo per capire che quel ricamo ....we are dreamers of worlds.... Ivano Fossati Set between the sea and the mountains, Genoa looks like many different cities: it is at the same time powerful and frail, moderate and “Superb”. Like any other city, it is impossible to see Genoa in its entirety, so the best way to look at it is to stargaze, to dream about it through the Genoese songwriters’ songs, which are made of dreams and where the reality is transformed by the author first and then by the listener. The sea seems to be the best viewpoint to see the city, the only one that gives the illusion of catching it in its entirety (Chi guarda Genova, Ivano Fossati). The sea is at the same time an outlet and a border (Passalento, Ivano Fossati), lending place to the fishermen (Arrivano i pescatori, Sergio Alemanno) and to goods and cultures from all over the world (Magazzino Mediterraneo, Buby Senarega) that mix up and merge in a single entity. Beyond the port, a gaze is enough to understand that Genoa is different from any other citiy: it is a “steep city” (Fado del dilettante, Max Manfredi), which climbs quickly the mountains and goes down at the same speed. Its charm can frighten the strangers to the extent of making them wish to run away from it (Genova per noi, Paolo Conte). Entering the city, Genoa welcomes the strangers with the discretion of its alleys, the carrugi, which are like a Dante’s circle between the land and the sky. They force 17 di pietra non è una città come le altre, disposta in obliquo sale rapidamente verso le colline e con la stessa velocità torna giù: Genova città ripida buone gambe per camminare flipper messo in bilico dove rotola un temporale città da cantautori per i ciclisti è micidiale se pisci sulle alture mezzo minuto e si inquina il mare. da Fado del dilettante di Max Manfredi Per lo sguardo estraneo, cui manca la familiarità del luogo, al fascino può seguire il timore, l’incapacità di dimostrarsi all’altezza: Con quella faccia un po’ così quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima di andare a Genova che ben sicuri mai non siamo che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più. (…) Ma quella faccia un po’così quell’espressione un po’così che abbiamo noi mentre guardiamo Genova ed ogni volta l’annusiamo e circospetti ci muoviamo un po’ randagi ci sentiamo noi. Allora, non resta che fuggire: Lasciaci tornare ai nostri temporali, Genova, ha i giorni tutti uguali. da Genova per noi di Paolo Conte Da un avamposto come può essere un porto, finalmente, si entra nella città. Genova accoglie tutti con la ritrosia dei suoi carrugi: un girone dantesco in bilico tra la terra e il cielo, raggomitolato su se stesso per far dimenticare “posizioni rotte e nomi” e spingere il viandante a ricercare nella fatica del passo l’epifania di un angolo che, anche solo per un momento, dia ordine al tutto: Genova che crolla si lascia andare dietro ad ogni muro quante sorprese 18 dolce è la fatica delle mie scale dietro alla finestra che lascia entrare un temporale. E non cercare qualcosa da raccontare vagabondare le sere è così naturale e non stupirti di tutto questo perché la vera Genova quella dei vicoli ruba anche te. da La vera Genova quella dei vicoli di Claudia Pastorino Non resta che immergersi, dunque, e farsi rapire. Provare ad appoggiare l’immaginazione sui rumori, sugli umori, sulle voci, sulle tante ombre e le poche luci, su quello che si vede e che non si sa mai se ci sia davvero. Inseguire tutto l’inseguibile, con tutti i sensi di cui si dispone, perdere se stessi e ritrovare la città fino a sorprendersi, con lo sguardo alzato, a contemplare un bassorilievo posto su un muro con sotto una scritta che nella mente si allarga: Ama e ridi se amor risponde piangi forte se non ti sente dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior. da Via del Campo di Fabrizio De André Siamo in Via del Campo. A due passi da qui c’è la bottega-museo di Gianni Tassio, memoria storica della canzone d’autore a Genova (o “da Genova” come ama dire Max Manfredi). Entrare e parlarci è un attimo. Lo troviamo intento a leggere un testo in genovese ma che arriva all’orecchio (e sarà sempre così) in una lingua più comprensibile ai foresti. Gli zeneixi non ce ne vogliano: Lo scirocco, lo scirocco sale dalla spiaggia a curiosare e nelle crêuze si sente odore di mare (…) Lo scirocco, lo scirocco come un bambino gioca a nascondersi tra le porte delle case e ti cerca, e ti sveglia e ti bacia lo scirocco. da O sciöco di Bruno Lauzi Di chi è questa canzone? “Di Bruno Lauzi, della scuola genovese, quella che ha rivoluzionato la canzone d’autore.” Ma qui ci sono scritti i nomi di altri autori… “Una canzone è di chi la canta. Di chi è Grande grande grande?” Certo, è di Mina. La scuola genovese dicevi, ma è esistita davvero? “La scuola genovese: qualcuno dice che non sia mai esistita, qualcun altro sì. Fatto sta che Genova ha messo dentro a una manciata di persone il germe dell’arte. Senza Genova non ci sarebbe la scuola genovese. Sembra un paradosso ma a ben guardare non lo è affatto.” Ma allora, perché tutto questo fermento musicale c’è stato proprio a Genova? “Merito dell’aria… e della focaccia.” L’aria e la focaccia, perché no. Solo uscendo ci si ricorda che Gianni Tassio manca da troppo tempo, che è scomparso nel 2004, ma è solo un particolare, un’idea come un’altra. Un momento dopo si è in balia del vento, allora ci si ricorda di quanto detto da Piaf Max: “C’è un vento fortissimo a Genova, s’imbuca nei carruggi, ti sorprende: è un vento che attacca l’uomo”. A Genova il vento ha una fisicità impensabile altrove e una forza tale che detta il ritmo delle giornate. Quando soffia il vento caldo di scirocco, che qui chiamano anche garbino, i pensieri s’intorpidiscono, tutto si ferma in un’atmosfera irreale. Torna alla mente il testo letto da Tassio, e non solo: E quando scende la sera fra dita calde di scirocco gli dei concedono ai mortali il profumo del bergamotto. Vento di garbino, vento di grecale qualche volta ti voglio bene, qualche volta ti voglio male. Tra le luci della notte e le fiamme della controra certe volte venivi meno, certe volte, ancora e ancora. da Danza composta di Max Manfredi La macaia influenza gli umori, favorisce gesti che si spingono lontani dall’ordinaria amministrazione e “tra sogno e realtà non lo so chi si piazza vincente”: Annalisa gioca a scacchi da sola perché poco prima ha litigato ora il suo uomo non può reagire con la lama rotta nel costato. E c’è caldo, caldo, caldo, caldo, caldo. E c’è un caldo da impazzire. da Caldo da impazzire di Federico Sirianni 19 Fortunatamente, però, un caldo come questo, il più delle volte, spinge verso il fresco delle osterie: un luogo di aggregazione mascherato da ritrovo culinario: Siete mai stati in un’osteria vecchi tavoli messi a caso dietro al banco non c’è mai nessuno il padrone ama star con la gente. Gente vecchia che negli occhi ci si legge che cosa hanno nel cuore gli basta qualche bicchiere e ritornano dei bambini. da Ostaie di Sergio Alemanno C’è chi di un’osteria ha fatto un’abitudine e, con qualsiasi tempo, non smette mai di perpetuarla: Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno a stratracannare a stramaledir le donne, il tempo ed il governo. Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere per dimenticare d’esser stati presi per il sedere ci sarà allegria anche in agonia col vino forte porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte. da La città vecchia di Fabrizio De André Nelle osterie è preferibile bere. Per mangiare ci sono le trattorie, anche se il confine è spesso più che sfumato. I meno abbienti spesso sono costretti ad accontentarsi di una tripperia: C’è tanta gente che non si è mai seduta a un tavolo di una tripperia con davanti una tazza fumante ed in mezzo alle gambe un “micino che ronfa”. da Tripperia di Sergio Alemanno Qualche volta, e quel gatto sulle ginocchia dovrebbe indurre al sospetto, a far compagnia c’è anche qualche topo. A Genova qualcuno sostiene che ce ne siano otto per ogni abitante ma che non se la passino troppo bene: Otto topi fracidi in cerca di un ospizio 20 si tuffano negli acidi del degrado edilizio otto topi superstiti lanciando alte le grida per non vivere a Genova, si calan topicida! da La ballata degli otto topi di Max Manfredi La trattoria, però, è soprattutto un posto dove sentire il sapore della città, un posto dove assaggiare la sua storia. La preparazione di un piatto storico, la cima, assume caratteri magici e la ricetta si trasforma in canzone: Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio prima di battezzarla nelle erbe aromatiche con due grossi aghi dritti in punta di piedi da sopra a sotto svelto la pungerai aria di luna vecchia di chiarore di nebbia che il chierico perde la testa e l’asino il sentiero odore di mare mescolato a maggiorana leggera cos’altro fare cos’altro dare al cielo. Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola / andate via. da ‘A ҫimma di Fabrizio De André Riprendere i vicoli, dopo un lungo e condito soggiorno in uno di questi locali, qualche volta non è un’impresa semplice, specie se fuori ad aspettarci c’è ancora il vento. Questa volta arriva da una diversa direzione, spazza i carruggi e mulinella nelle piazzette. Mentre ci avvolge sembra voler esaudire ogni desiderio, e allora: Canta un fato che non mi ha beccato, ninnolo di spari lungo il litorale, fionda e fughe, il salto delle streghe, il volo delle acciughe sulle vie del sale. Sciuscia, sciuscià libeccio / si danza fino al largo. da Libeccio di Max Manfredi Un vento così secco è anche l’ideale per asciugare, più prosaicamente, le file variopinte dei panni stesi tra un palazzo e l’altro e, se si è appena usciti da un’osteria, lo si può scambiare anche per un vento africano: Pozze di vino spesso non son più lo stesso ghibli portami con te, là, sopra il vicolo schivando i panni stesi, gatti e piccioni obesi. da Onde clandestine di Federico Sirianni Gira e rigira, una strada “persa” ci porta di nuovo in Via del Campo. Tendendo l’orecchio si ha l’impressione di sentir cantare Amalia Rodrigues, la regina del fado: C’era sempre una canzone per voi un bicchiere due risate con noi nella casa in Via del Campo dove dolce andava il tempo dove ho riso amato e tante volte ho pianto ci scaldavano le ore qualche volta in fondo al cuore rimaneva un’ombra triste di rimpianto nostalgia di non poter guardare il sole nella casa in Via del Campo. da La casa in Via del Campo di Roberto Arnaldi Ma è già notte e nel buio la strada appare diversa, ancora meno lineare, ancora più difficile da cogliere, come Medusa va affrontata di sbieco, cercando angolazioni che non feriscono. Adesso tra i vicoli corrono pensieri che sono persone, ricordi di gente lontana che torna anche solo per un momento a cercare quello che non c’è più. Voci che cercano una città perduta… Genova era una ragazza bruna collezionista di stupore e noia Genova apriva le sue labbra scure al soffio caldo della macaia e adesso se ti penso io muoio un po’ se penso a te che non ti arrendi. da Notti di Genova di Cristiano De André …un figlio che ricorda suo padre… Per quanto tempo ti penserò in quelle notti a Genova giù lungo il porto, dentro quei bar (…) bevevi troppo, fumavi un po’ perso nella tua musica. da Invincibili di Cristiano De André …parole nel vento che si confondono agli inviti di quelle anime appoggiate ai lampioni: Via del Campo c’è una graziosa gli occhi grandi color di foglia tutta notte sta sulla soglia vende a tutti la stessa rosa. Via del Campo c’è una puttana 21 the wanderer to look for the epiphany of a corner that puts all things into place (La vera Genova quella dei vicoli, Claudia Pastorino). So the only thing to do is to dive in and abandon oneself to all the noises, the moods, the voices, the shadows and the little lights (Via del Campo, Fabrizio De André). Without Genoa and its thousands of faces the so called “scuola genovese” of songwriters would not exist, because it’s the city itself that gave the seed of art to a handful of people. Strolling the alleys the wanderer realises he is at the mercy of a wind that seems to almost attack him, a powerful wind that marks the rhythm of the days and that is inconceivable elsewhere. Many songwriters wrote about the wind, for instance the Sirocco (‘O sciöco, Bruno Lauzi) that numbs the thoughts and produces an unreal atmosphere (Danza composta, Max Manfredi). The warmth affects the moods, triggers unexpected reactions (Caldo da impazzire, Federico Sirianni) and, often pushes towards the cool wine of the inns (Ostaie, Sergio Alemanno). Some of these alleys are frequented by the regular customers of the inns and, no matter the weather outside, they spend their whole day in them (La città vecchia, Fabrizio De André). “Trattorie” are better places where to eat but for the poorest there are the”tripperie” (TN shops where tripe is cooked and sold) (Tripperia, Sergio Alemanno), where sometimes you can find yourself in the company of a mouse (La ballata degli otto topi, Max Manfredi). The “trattoria”, however, is above all a place where you can taste the city and its history through its typical dishes (‘A ҫimma, Fabrizio De André) before setting off and bumping into another wind again, the Libeccio, which blows from a different direction (Libeccio, Max Manfredi) and is ideal to dry the multi-coloured rows of laundry hanging from a building to another (Onde clandestine, Federico Sirianni). Wandering and getting lost through the alleys, you can reach Via del Campo again, where you have the impression of hearing Amalia Rodrigues singing a fado song (La casa in Via del Campo, Roberto Arnaldi). But it is night already and the alley looks 22 gli occhi grandi color di foglia se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso non credevi che il paradiso fosse solo lì al primo piano. da Via del Campo di Fabrizio De André Adesso più che in ogni altro momento appare lecito sognare: Lingua infuocata Jamin-a lupa di pelle scura con la bocca spalancata morso di carne soda stella nera che brilla mi voglio divertire nell’umido dolce del miele del tuo alveare. da Jamin-a di Fabrizio De André C’era una volta un sogno comune a tutti questi vicoli, un sogno fatto di case dai soffitti colorati… Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti quando sei qui vicino a me questo soffitto viola no, non esiste più io vedo il cielo sopra noi. da Il cielo in una stanza di Gino Paoli …ma era un sogno di altri tempi, un sogno che s’infranse… …quando venne la Merlin per scindere il bene dal male quando chiusero tutti i casini / e fu freddo, a Natale. da Molo dei Greci di Max Manfredi Lungo le vie del sogno, però, un ménage può ancora sublimarsi nei versi di una canzone: Volevo una canzone come una donna di malaffare, di tutti e di nessuno, come una lingua, come un altare. Tutti in fila al lavatoio, quando all’alba si va a lavare, tutti in fila sul portone, lei solo sceglie chi deve entrare. da La Fiera della Maddalena di Max Manfredi Ora che siamo penetrati fino al cuore della città e ne siamo rimasti ammaliati confondendo i nostri sogni con i suoi, riuscire a venirne fuori costa molta fatica: L’ultimo respiro (…) me lo tengo per uscire vivo dal nodo delle tue gambe. da Jamin-a di Fabrizio De André Ma anche le notti più belle finiscono e l’alba impietosa le spazza via insieme alla spazzatura: Alé, ci siamo, popoli, all’era della rûmenta questo mare che v’incanta: godetevelo, è qui. Beato chi ci naviga, meschino chi ci annegherà dentro. da A rûmenta di Piero Parodi Il modo migliore per chiudere una notte genovese è quello di entrare in un forno e consumare la focaccia che molti, a queste latitudini, non la cambierebbero con niente: Duecento pizze non fanno una focaccia. da A fugassa di Piero Parodi È l’alba ormai, e fuori dai carrugi, la città respira, offre prospettive più ariose, punti di vista più morbidi, più rassicuranti. È il proscenio su cui per vie ampie si arriva al suo nucleo centrale, quello più urbano, più concreto. Lo sguardo libero di spaziare abbraccia edifici, strade e piazze, così, come in un giro di giostra, scorrono veloci: Piazza De Ferrari... Siamo attaccati ai nostri lavoretti saltuari quasi come agli orari di Piazza De Ferrari da I fiascheggiatori dell’Assemblea Musicale Teatrale …Via XX Settembre, dove anche l’abituale si veste d’inconsueto… Le donne hanno volti diversi (…) negli archivolti di Via XX Settembre. da Donne di Paolo Cogorno …la galleria… Ragazze vestite di rosso, tristi come cespugli di more (…) e una di loro che (…) ha gli occhi dicembrini le dico di darmi un passaggio fino in Galleria Mazzini. da Centerbe di Max Manfredi …la cattedrale con i suoi leoni stilofori che nel sogno diventano cani: Sono meglio i capelli a caschetto perché il Mille dovrà pur venire con il vin champenoise messo in ghiaccio per brindare al tuo dolce dies irae. Porti calze listate di nero su gambe di vedova ballerina e se sogni, sogni cani di pietra che ti hanno in custodia da quand’eri bambina. da Cattedrali di Max Manfredi E dal centro, perdendosi nel traffico, con meno poesia che tra i vicoli… Perduti nel traffico nel centro di Genova sparisce la polvere dal cuore guardandoti. da Perduti di Gino Paoli … lo sguardo rimbalza oltre e giunge sotto i porticati di Via Prè, un po’ carruggio un po’ fiera multietnica brulicante di gente, voci, mercanti e mercanzie: È caratteristica la strada di Via Prè con tanta gente in mezzo e sempre tra i piedi lì parlano tutte le lingue e qualunque dialetto qualche volta anche genovese. da Toponomàstega zenéize di Giuseppe Marzari Da qualche parte, in mezzo al viavai, stazionano gli “occhi da gatta” della bella Rosetta, “la meglio di tutta Via Prè”, che solo da morta svela il suo segreto: 23 La verità si è saputa dai giornali ci ha lasciati tutti di stucco sotto la foto della bella Rosetta c’era un nome “Deodato Pasquale”. da A bella Rosetta di Sergio Alemanno Che poi, a voler essere precisi, è la stessa scoperta a cui era giunto Fabrizio De André, commerciando con la graziosa di Via del Campo. Alla fine di Via Prè c’è la stazione di Porta Principe, principale approdo ferroviario: Dall’ultima galleria sembra mai più poter riaprirsi il sole e quando luccica dal fondale sulla rugginosa ferrovia. Dalle budella della grande vedova dritto in faccia a un muro alto Piazza Principe in un sussulto ti vomita addosso a Genova. Ma se ci penso allora vedo il mare vedo i miei monti e Piazza della Nunziata, rivedo Righi e mi si stringe il cuore vedo la Lanterna, la Cava, laggiù il molo, rivedo a sera Genova illuminata. da Ma se ghe penso di Mario Cappello Scivola lo sguardo nella valle e va ad abbracciare il cimitero di Staglieno: Il lavatoio dove vanno le bianche bugaixe di notte a lavare i lenzuoli dei morti di peste, e poi stenderli al buio. Qualche volta, a Staglieno, se passi le senti cantare. da Dall’ultima galleria di Alessio Lega da Il molo dei Greci di Max Manfredi Quando è notte la stazione assume fattezze diverse, lontane dalla frenesia del giorno: Dall’altro lato sorge Marassi, teatro di mitiche imprese calcistiche che si spengono in ricordi colorati, in nostalgie da non rincorrere: Genova vive anche di notte quando la gente non esce di casa e Principe diventa un letto a due piazze per chi la casa ce l’ha per strada. da Gli occhi di Genova di Massimo Schiavon Da qui, arrampicandosi su per le colline si può arrivare fino a Piazza Manin dove, complice la notte, si ha l’impressione di intravedere Max Manfredi in compagnia di un suo illustre collega: Sognavo Majakovskij che mi passa il papiroski, stesi sulla piazza di Manin. da Notti slave di Max Manfredi 24 è inutile andare a cercare fuori dai confini dell’immaginario un Molo dei Greci o la Fiera della Maddalena, mentre il porto di Atene è qui, basta solo saperlo cercare. Da Piazza Manin alle alture il passo è breve, un po’ più su c’è il Righi da cui si domina tutta la città: Proveniva da Via G. Byron, Max Manfredi, luogo al contempo reale e irreale. A cercarlo su una cartina lo si trova ma non necessariamente è lo stesso della canzone, che lo reinventa regalandogli nuova vita. Allo stesso modo, o in un modo solo un po’ diverso, Io questa notte ti vorrei parlare e invece parto per mandarti a dire che tu sei bella, sì, ma da ricordare bella più che mai. Non mi basta un blues per averti un po’ di più Genoa, you are red and blue. da Genova blues di Francesco Baccini Poco più in là, il Biscione, enorme complesso di edilizia popolare, imbruttisce la collina e devia lo sguardo altrove: Ultima fermata Biscione non troppo distante da casa di Dio. da Ultima fermata Biscione di Federico Sirianni Da quassù ce ne sono di cose su cui spostare lo sguardo, che si può spingere fino ad abbracciare tutta la “grande Genova”, quella che va da Voltri a Sant’Ilario. E dove non dovesse arrivare la vista sicuramente arriva l’immaginazione, che ricrea le cose con la materia del sogno di cui tutti noi, è noto, siamo fatti. Questi posti davanti al mare con questi cieli sopra il mare quando il vento riscalda a suo tempo il mare. da Questi posti davanti al mare di Ivano Fossati Proprio laggiù in fondo si vede Sant’Ilario, certo non la stazione, ma è facile immaginare quella donna che scende dal treno e semina lo scompiglio: La chiamavano Bocca di Rosa metteva l’amore, metteva l’amore, la chiamavano Bocca di Rosa metteva l’amore sopra ogni cosa. Appena scesa alla stazione nel paesino di Sant’Ilario tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario. C’è chi l’amore lo fa per noia chi se lo sceglie per professione Bocca di Rosa né l’uno né l’altro lei lo faceva per passione. da Bocca di Rosa di Fabrizio De André Il pellegrinaggio di Bocca di Rosa prosegue, si sa, alla stazione successiva, che potrebbe essere quella di Quarto, luogo più di partenza che di arrivo, in realtà. All’alba del 6 maggio 1860, infatti, dalla sua spiaggia presero il largo 1085 uomini con la camicia rossa: Camicie rosse, all’avventura in una nuvola di bandiere camicie rosse così nessuna delle ferite si può vedere. da Camicie rosse di Massimo Bubola Avvicinando l’occhio alla città, s’incontra Boccadasse, villaggio di pescatori dove visse la sua bohème un giovane Gino Paoli: Ti ricordi il sole nella casa al mare? Ti ricordi i fiori che curavi tu? I sorrisi rossi dei gerani appesi? Sale sopra i vetri e suoi tuoi capelli? (…) 25 different, even less linear and more difficult to discern (Notti di Genova, Cristiano De André). It’s the time of love (Jamin-a, Fabrizio De André) that makes you dream about houses with coloured ceilings (Il cielo in una stanza, Gino Paoli), and other times it is dream (Molo dei Greci, Max Manfredi) that exalts itself in the lines of a song (La Fiera della Maddalena, Max Manfredi). But even the best nights are supposed to finish and the merciless dawn sweeps them away with the garbage (A rûmenta, Piero Parodi). For a Genoese, the best way to start the day is surely entering in a bakery and eating focaccia bread (A fugassa, Piero Parodi). Beyond the alleys, the city can breathe and offers more spacious views, more reassuring viewpoints. Trough wide streets the wanderer reaches the inner part of the town, with Piazza De Ferrari (I fiascheggiatori, Assemblea Musicale Teatrale), Via XX Settembre (Donne, Paolo Cogorno), Galleria Mazzini (Centerbe, Max Manfredi), Saint Lorenzo’s cathedral (Cattedrali, Max Manfredi), but also the chaos of the traffic (Perduti, Gino Paoli), just up to the colonnade of Pré street that is at the same time an alley and an open-air market full of mysterious people (A bella Rosetta, Sergio Alemanno), voices, traders and goods (Toponomàstega zenéize, Giuseppe Marzari). At the end of Pré street there is Piazza Principe station, in the morning main railway yard of the city (Dall’ultima galleria, Alessio Lega) and at night shelter for the homeless (Gli occhi di Genova, Massimo Schiavon). Climbing the hills you can reach Piazza Manin (Notti slave, Max Manfredi) and the Righi panoramic viewpoint, which overlooks all the city (Ma se ghe penso, Mario Cappello), from Staglieno cemetery and Marassi stadium, location of legendary soccer matches that vanished in colourful memories (Genova blues, Francesco Baccini), through the “Biscione”, a gigantic example of council housing that spoils the hill and diverts the gaze elsewhere (Ultima fermata Biscione, Federico Sirianni), just up to the two far ends of the “big Genoa”, Voltri and Sant’Ilario (Questi posti davanti al mare, Ivano Fossati). Here, you 26 Non ricordo niente di quello che è stato, mi ricordo solo che ero innamorato. Quel che c’era intorno non contava niente, c’era solo amore, c’eri solo tu. da Boccadasse di Gino Paoli Come dimenticare invece una soffitta a due passi dal cielo e a uno dal mare: C’era una volta una gatta che aveva una macchia nera sul muso e una vecchia soffitta vicino al mare con una finestra a un passo dal cielo blu. Se la chitarra suonavo la gatta faceva le fusa ed una stellina scendeva vicina, poi mi sorrideva e se ne tornava su. da La gatta di Gino Paoli Prima del porto, c’è la Foce. Da lontano sembra proprio quella cantata da Bruno Lauzi: Qui tanti anni fa c’era la nostra spiaggia. Ricordo che c’erano solo i relitti delle chiatte da sbarco, quello che era il parco giochi di chi sognava l’avventura e lungo tutta la Foce l’acqua era limpida e pura e sugli scogli i pescatori avevano la mano sicura: è così che tanti anni fa era il nostro quartiere. da La nostra spiaggia di Bruno Lauzi Lo stesso posto dove spera di approdare un povero pescatore di acciughe per approfittare delle acque fresche del torrente Bisagno: Se sbarcherò alla foce e alla foce non c’è nessuno la faccia mi laverò nell’acqua del torrente. da Le acciughe fanno il pallone di Fabrizio de André A ponente del porto si erge il faro, secolare testimone di sogni e umori in odor di salsedine: La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l’onda. da Piazza Alimonda di Francesco Guccini Subito dopo, Sampierdarena con le sue banchine d’approdo e le fabbriche: Mi vengono col vento dei cantieri solo le rime di Sampierdarena che si baciano come fuori scuola, che s’imboscano dentro ogni portone, che limonano in ogni mia parola, che mi sloggiano dalla mia canzone. E al santo, perché sempre di un santo si tratta, un miracolo bisogna pur chiederlo: E così siamo in ballo da anni su questa galera ed abbiamo dormito su altari intarsiati di guano aspettando San Giorgio a cavallo, nei bar della sera che ci porti a vedere le nebbie di un porto lontano che ci porti a vedere la nebbia del porto a Milano. da Molo dei Greci di Max Manfredi da Le rime di Sampierdarena di Max Manfredi Più avanti, a cominciare da Pegli, le spiagge. Al centro, incastrato tra ponente e levante, il porto. Prima di arrivarci, percorriamo una delle vie d’accesso: Sulla strada che val al porto dopo un arco c’è una piazza sempre piena di bambini qualche gatto e un vu’ cumprà (…) E infine, eccolo. Ecco il porto, il luogo “dove tutto rinasce e ricomincia”, la possibilità di ricrearsi fuori dai propri confini: Con il mare proprio sotto casa mia il mio destino in fondo quale vuoi che sia ho scelto la mia vita libera può darsi che non torni più del mio ricordo fanne un po’ quel che vuoi tu. da All’ultimo amico di Ivano Fossati tra un negozio di bottoni e un tizio che si fa c’è un ufficio senza targa e senza età. Ed è l’ufficio delle cose perdute, quelle che son sparite in fondo a qualche momento chiuso. da L’ufficio delle cose perdute di Gino Paoli Poco più giù, un altro ufficio sorge in riva al mare: Qua, Lei si accomodi qua e mi dica che Le pare del mio ufficio in riva al mare. Beh, l’arredamento non c’è però c’è il mare da ascoltare e il tramonto da aspettare. da L’ufficio in riva al mare di Bruno Lauzi Se siamo di fronte al mare, sogno o realtà che sia, alle nostre spalle c’è un palazzo con un San Giorgio dipinto sulla facciata che di notte, come tutti i dipinti, scende dal muro e s’inoltra nella città: San Giorgio ci aspetta giù al caffè Klainguti con la Ghepard fatta di pelle di drago. da Natale fuoricorso di Max Manfredi Da questo porto, un po’ di tempo fa, un navigatore ha levato le vele per raggiungere la Spagna e, da lì, una nuova terra: E naviga, naviga là come prima di nascere l’anima naviga già, naviga, naviga ma quell’oceano è un acquario di sogni e di sabbia poi si alza un sipario di nebbia e come un circo illusorio s’illumina l’America. da Cristoforo Colombo di Francesco Guccini Da quel fatidico momento, innumerevoli volte si è fatto spola tra i due continenti… Su questa rotta inconcludente da Genova a New York. da Ma come fanno i marinai di Lucio Dalla e Francesco De Gregori …e ogni volta si è lasciato qualcuno su un molo a salutare: Dalla mia riva solo il tuo fazzoletto chiaro (…) 27 28 e so bene stai guardando il mare da Io e il mare di Bruno Lauzi (per Umberto Bindi) can almost see that woman who gets off the train and upsets the quiet village (Bocca di Rosa, Fabrizio De André). Going on you reach Quarto, from whose beach set out 1085 men with red shirts (Camicie rosse, Massimo Bubola). Another beach, that of Boccadasse, was the location of a young Gino Paoli’s ‘Bohème’ (Boccadasse, Gino Paoli), in a little loft a hair’s breadth away from the sea and the sky (La gatta, Gino Paoli), while the Foce beach was sung by Bruno Lauzi (La nostra spiaggia, Bruno Lauzi) and it is the same place where a poor fisherman hopes to land in order to take advantage of the fresh water of the Bisagno creek (Le acciughe fanno il pallone, Fabrizio de André). Going on, you can see the Lanterna, lighthouse of the city and witness of its dreams and moods (Piazza Alimonda, Francesco Guccini), Sampierdarena, with its docks and farms (Le rime di Sampierdarena, Max Manfredi) and then, starting from Pegli, again the beaches. In the middle, entrapped between the West and the East, there is the port, with its busy access roads (L’ufficio delle cose perdute, Gino Paoli), work (L’ufficio in riva al mare, Bruno Lauzi) and briefcases (Natale fuoricorso, Max Manfredi). And finally here is the port, where all things arise and restart (All’ultimo amico, Ivano Fossati); where a navigator set out to reach Spain and, then, a new land (Cristoforo Colombo, Francesco Guccini); starting point for intercontinental voyages (Ma come fanno i marinai, Lucio Dalla and Francesco De Gregori), place of farewells (D’ä mæ riva, Fabrizio De André) and returns (Il grande mare che avremmo attraversato, Ivano Fossati). And the return is the obsessive thought of emigrants, forced to leave, poverty-stricken (Preghëa de ‘n’emigrante, Giorgio Calabrese for Gino Paoli), who hope to see Genoa again, in this life or in the other (Io e il mare, Bruno Lauzi per Umberto Bindi). Anche oltre i confini di questa vita, quindi, quello che conta è restare aggrappati con tutte le forze a quest’entità segreta e supposta che tanto tempo fa Francesco Petrarca, passando da qui, trovò “regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”. Because it is impossible to quit for good this city “regal, superb, queen of the sea” – in the words of the poet Francesco Petrarca. un po’ più al largo del dolore (…) E son qui a guardare (…) la tua foto da ragazza per poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in naftalina. da D’ä mæ riva di Fabrizio De André La partenza, in nuce, implica già il ritorno, perché chi parte non lo fa mai da solo. Di una città ci si porta sempre dietro qualcosa: Dentro me c’è una barca che non parte dentro me c’è un uomo che non sa che bisogno c’è di partire per poi non pensare che a tornare. da Il grande mare che avremmo attraversato di Ivano Fossati Nella testa di chi parte suo malgrado, di chi è costretto a emigrare, invece, il ritorno è l’unico pensiero: Vorrei, prima di morire, potermene ritornare nella mia Genova che l’ho sempre avuta dentro il mio cuore. da Preghëa de ‘n’emigrante (Giorgio Calabrese per Gino Paoli) E se non ci si riesce da vivi, si spera di ritornare dopo, per altre strade, in altre forme: So che tornerò alla spiaggia della Foce quando tornan le lampare sarò tra i pesci che avranno tirato su rinchiuso tra le loro reti gettate nel più profondo mare. 29 I dialettali The dialectal songwriters Lorenzo Coveri Mettere in musica la lingua di Genova De André: un dialetto fatto ad arte È l’estate del 1984. CRÊUZA DE MÄ, scritto con Mauro Pagani, album concettuale di sette canzoni tutte in genovese, premio della critica discografica di quell’anno, considerato da David Byrne dei Talking Heads tra i primi dieci titoli di world music del decennio, esplode clamorosamente nella già ventennale carriera di Fabrizio De André (Genova 1940-Milano 1999), aprendone una nuova fase, e contemporaneamente dando luogo a quella stagione della canzone “neodialettale” italiana che non si è ancora esaurita. Per la prima volta, Fabrizio sembrava rendere più intimo, toccando le corde del dialetto, il rapporto con la sua città, già presente, sia pure in maniera topograficamente sfumata, fin dai primi dischi; ma, come aveva dichiarato, “CRÊUZA DE MÄ non è dedicato né al genovese né a Genova, ma al bacino mediterraneo. Io dovevo scrivere delle parole che rispecchiassero letterariamente, perché sono sempre versi per canzoni, quello che è il mondo del Mediterraneo”. Veniva così a compimento un lungo progetto, da tempo meditato, che aveva visto tra l’altro come precedenti poco noti due canzoni, A famiggia di Lippe e Ballata triste, scritte nel 1972 rispettivamente con Peo Campodonico e Vito Elio Petrucci, per un album del folksinger genovese Piero Parodi e recentemente riedite da Parodi stesso. CRÊUZA DE MÄ, beninteso, è lontanissima da quel folklore goliardico. Come De André aveva confidato a Cesare G. Romana in una citatissima intervista, raccolta nel libro Amico fragile, “quella di un disco cantato nel mio dialetto, anzi nella mia lingua, fu una voglia, per così dire, primordiale, nel senso che aveva le sue radici in quelle mie e della mia gente. Me la portavo in pancia da anni, forse da quando avevo cominciato a scrivere canzoni e a tradurre Brassens, molti dei cui personaggi avrebbero potuto benissimo essere abitanti dei nostri caruggi. Ma non avevo mai trovato l’incoscienza o la fede, o la chiarezza di idee sufficienti a tradurre l’intenzione in fatti”. 32 Seguiva la cronaca della genesi del disco, con accenni al poeta Mario Tortora, a Parodi, a Petrucci, a Campodonico, alle ricerche dell’etnomusicologo Edward Neill, all’abitudine scherzosa, giocata sull’ assonanza tra genovese e portoghese, di sposare il dialetto a ritmi di samba e di bossanova, come avevano fatto i fratelli Reverberi, Bruno Lauzi, Giorgio Calabrese e soprattutto il grande, troppo presto dimenticato, Natalino Otto, e come farà qualche giovane esponente della nuova scuola genovese di cantautori, come Fabrizio Casalino. Ma “col tempo – è di nuovo De André che parla all’amico Romana – mi si rafforzò la convinzione che la via da seguire fosse un’altra, e l’idea decisiva mi nacque dalla scoperta che la lingua genovese ospita al suo interno oltre duemila vocaboli di provenienza araba o turca: un retaggio di antichi traffici mercantili, comune soprattutto alle città di mare dell’area mediterranea. Allora, il genovese è la meno neolatina tra le lingue neolatine, mi dissi. E cominciammo, con Pagani, a costruire delle trame musicali che rispondessero al progetto di un album mediterraneo, con suoni, ritmi, strumenti della tradizione islamica, greca, macedone, occitana. Cominciai a scrivere i testi in un arabo maccheronico, che poi tradussi in genovese, o meglio nella lingua di una Genova sorella dell’Islam”. Si potranno discutere certe affermazioni, filologicamente azzardate. Ma l’intento è chiarissimo. E così, con l’apporto decisivo di Pagani, con l’aria per gaida sola di Tracia di Domna Samiou, parte, con un lamento da muezzin, il disco mediterraneo a lungo sognato da Fabrizio. L’eco è enorme, a Genova e fuori Genova: si ha subito la sensazione di un prodotto non locale, che fonde la Setting to music the language of Genoa De André: an “artistic” dialect CRêUzA DE Mä was published in summer 1984: it is a concept album including seven songs in the Genoese dialect, written by Fabrizio De André and Mauro Pagani. The album immediately won the recording industry critic’s prize and was considered by David Byrne of Talking Heads one of the first ten albums of the decade, opening a new phase in De André’s twenty-year career and in the field of Italian dialect music. The album was the accomplishment of a De André’s project started many years before, that produced some goliardic folk songs such as A famiggia di Lippe. De André always had the will to realise a whole album Copertina dell’album di Fabrizio De André CRêUzA DE Mä , 1984. Foto di Jay Maysel, grafica Area di Comunicazione. 33 using the Genoese dialect, without being reckless enough – he said – to do it. The opportunity came after the discovery of thousands of Arabic and Turkish words in the Genoese dialect, so De Andrè started realizing the album he had dreamed of, full of Mediterranean atmospheres. CRêUzA DE Mä actually opens with a muezzin’s lament and moves away from the great ethnic tradition of Genoese trallalero and other folk songs. De André’s not accurate pronunciation and the lexical selection show the “anti-dialect” and anti-folklore direction of this album. Actually the dialect of CRêUzA DE Mä is a poetical language artificially created starting from real Genoese words and mixing the past and present background of the city. So CRêUzA DE Mä is considered the prototype of that “neo-dialect” music which in the Eighties opened a new era of renewal in the Italian song context. De André carried on the experience of CRêUzA DE Mä in the multilingual album LE NUVOLE (1990, music by Mauro Pagani), that includes song in the Genoese dialect (Megu megùn, A çimma), the Neapolitan dialect of Don Raffaé (written with Massimo Bubola) and the pseudo-German of Ottocento. The Genoese and Sardinian dialects are also present in De André’s last album ANIME SALVE, written in 1996 with Ivano Fossati (music by Piero Milesi), where the linguistic and stylistic variety is a way to describe different types of humble people. The ancestors CRêUzA DE Mä, representing a turning point in the Italian songwriters’ use of dialect, originates from the popular anonymous tradition of Genoese trallalero and the dialectal songs of the Twenties, whose most important authors were the tenor Mario Cappello (Se ghe penso, 1925), the poet Costanzo Carbone (Tranvaietti da Doia, Boccadaze, Madoninn-a di pescoei) and the comedian Giuseppe Marzari who, in the postwar period, was the first to use the dialect not with a nostalgic look but for comical purposes. Between folk and songwriter’s music The modern generation of Genoese authors took over from the folk and neo-dialect music to write original melodies. 34 sonorità arcaica del dialetto con un suo riuso innovativo. Ma che genovese è quello di Fabrizio, come suona alle orecchie dei suoi concittadini dialettofoni? La prima impressione è quella di straniamento. Nulla a che fare con la grande tradizione etnica del trallalero genovese (CRÊUZA è stata inserita, con esiti non felici, nel repertorio di qualche squadra di canto popolare) o dei cantanti dialettali più o meno folk. La dizione di De André, intanto, così accurata in italiano, in genovese è quella di un alloglotto. Si è detto, rozzamente, che De André non sapesse il dialetto, o che lo pronunciasse male, come se questo fosse il punto. Ma questo aspetto contribuisce semmai a spingere l’album in direzione radicalmente “antidialettale”, cioè antifolclorica e antipopolare. Del resto, da figlio della buona borghesia (con genitori non genovesi ma piemontesi – padre di Torino, madre di Bra – e non dialettofoni), e formatosi adolescente nei dialettofobi anni Cinquanta, Fabrizio non poteva, non doveva sapere il genovese. Era disdicevole, e solo la sua ostinazione da bastian contrario poteva portarlo a ricercarne gli echi nei vicoli della città vecchia. Il dialetto come scelta anche antiborghese, insomma. Ma, ancora, quale dialetto? Non solo la pronuncia di Fabrizio lo rendeva quasi inaudito alle orecchie dei genovesi, ma anche le sue scelte lessicali. Andrea Podestà ha cercato pazientemente nei vocabolari le tracce del dialetto di CRÊUZA DE MÄ: ebbene, si tratta di una vera e propria lingua poetica costruita a tavolino, ma nello stesso tempo fatta di tante schegge di reale: varianti geografiche e diacroniche anche a breve distanza di verso (ganöffani e garöfani, béive e béie) arcaismi e neologismi, italianizzazioni, modi di dire antichissimi e metafore inedite, una lingua fuori del tempo e dello spazio, fatta di quella stoffa di cui sono fatti i sogni, costruita sfogliando il dizionario della memoria e dell’invenzione. La lingua di una Genova mai esistita ma che conteneva tutte le Genove del presente e del passato, del centro storico e delle periferie fino ai fondachi della Repubblica Marinara nel Mediterraneo, Genova dei marinai, dei galeotti e delle puttane. La fusione dei fonemi del dialetto con la strumentazione di Pagani estraeva poi dal genovese sonorità nuove, echi misteriosi, vibrazioni inaudite. Un dialetto che più antivernacolare non avrebbe potuto essere. Si può capire allora che CRÊUZA DE MÄ sia stato considerato a ragione il prototipo di quella canzone “neodialettale” che dagli anni Ottanta in poi, in singolare coincidenza con il recupero di una nuova dialettalità nella poesia lirica (Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini), ha costituito uno dei principali momenti di rinnovamento del linguaggio canzonettistico. Dopo il monolinguismo di CRÊUZA DE MÄ, è la volta del plurilinguismo di LE NUVOLE, ancora con Mauro Pagani, del 1990. Qui troviamo non solo il genovese (in Megu megùn e A çimma, quasi un’ eco, ma sociolinguisticamente più realistica, del disco dell’84); c’è anche l’ultimo verso di La domenica delle salme, recitato con forte intonazione regionale, come una citazione (“di vibrante protesta”); troviamo anche il napoletano “maccheronico”, dice De André (e italiano popolare diatopicamente marcato), di Don Raffaé scritta con Massimo Bubola, quello digiacomiano di La nova gelosia (dal repertorio di Roberto Murolo), e lo pseudotedesco (la musica sembra rinviare all’area austrobavarese o tirolese) di Ottocento con Pagani. Il progetto mediterraneo di CRÊUZA si colorava dunque, in NUVOLE, di una gamma di varietà più ampia, anche con una valenza più esplicitamente ideologica. L’interesse per gli umili e per le loro parlate è anche il tema centrale del testamento spirituale di Faber, ANIME SALVE, forse il suo capolavoro, scritto nel 1996 con Ivano Fossati e arrangiato da Piero Milesi. Qui la scelta plurilingue de LE NUVOLE diventa più programmatica che stilistica o metrica (commentando CRÊUZA DE MÄ, Fabrizio alludeva alla maggiore facilità di trovare nel dialetto le parole tronche in fine di frase musicale che in italiano, come è noto, non abbondano) e ancor più universale che nelle due tappe precedenti. Sono nove canzoni, nelle quali emergono nuove varietà linguistiche, e insieme nuove tipologie di umili, di ultimi, di esclusi: come in Prinçesa (ispirata alla biografia di un transessuale brasiliano scritta da Maurizio Janelli e dallo stesso transessuale, Fernanda Farìas) dove l’enumerazione finale di oggetti in portoghese, un catalogo di stampo surrealista, è quanto di più lontano dal similgenovese goliardico di cui si è detto, e suona come una dolente litania, desiderio impossibile di recuperare l’infanzia e l’innocenza perduta. E anche in ANIME SALVE tornano i dialetti-icona di Fabrizio, il sardo (solo evocato nel titolo di Disamistade, la faida) e appunto il genovese, che fornisce il calco a Le acciughe fanno il pallone, un titolo che sarà forse piaciuto a Nico Orengo. In  cúmba, dialogo tra un pretendente (Fossati) e il padre della futura sposa (Fabrizio), il dialetto si libera di ogni connotazione polemica e ridiventa puro gioco fonosimbolico, autonomia del significante. Non è un caso che al poeta Roberto Giannoni, uno dei maggiori poeti dialettali genovesi viventi, piaccia, oltre che  cúmba, lo scioglilingua del coro di Dolcenera (con Luvi De André e Dori Ghezzi), ispirata all’alluvione di Genova del 1994: “Amíala ch’a l’aría amía cum a l’è cum a l’è / amiala cum a l’aría amia ch’a l’è lé ch’a l’è lé / amiala cum a l’aría amia amia cum a l’è / amiala cum a l’aría ch’a l’è lé ch’a l’è lé” [Guardala che arriva, guardala com’è com’è / guardala come arriva, guarda che è lei che è lei / guardala come arriva, guarda guarda com’è / guardala come arriva che è lei che è lei] il cui fascino “deriva, oltre che dalla struttura armonica, dalla sincerità con cui si dà al dialetto una funzione puramente fonica, dimenticando per un attimo la duplice ipoteca del populismo e della sublimità letteraria”. E ancora Giannoni: “Forse sta qui il modo vero, il senso ultimo del rapporto che De André ebbe con i dialetti. Perché al di là dell’anelito al lirismo, proprio di ogni neodialettale, di là dall’immersione nella ‘realtà popolare’, sognata da qualsiasi naródnik, v’era in lui una tendenza ad esiti fonosimbolici, parallela alla ricerca timbrica compiuta sul piano musicale. Si sarebbe tentati di dire, esagerando un poco, che gli strumenti esotici e i vocaboli sconosciuti alla lingua ufficiale convergessero in un’unica operazione, in una medesima elaborazione del sound, e che il dialetto ligure fosse a quel punto un ingrediente timbrico, non dissimile da un flauto berbero o da un mandolino circasso”. Gli antenati Anche se il 1984 di CRÊUZA rappresenta una svolta per l’uso del dialetto nella canzone d’autore (intesa come canzone di qualità artistica), l’operazione di De André nasce su un terreno fertile, quello della tradizione popolare del trallalero studiato da Edward Neill e da Mauro Balma (e che, ancor prima, Roberto Leydi definiva una forma di canto maschile a cappella unica nel panorama europeo, con corrispettivi solo in Sardegna e Georgia russa). Ma esisteva a Genova, fin Copertina dell’album di Bruno Lauzi GENOVA PER NOI, 1975. 35 popolare e poi anche di molti cantanti folk. Si costituisce così la tradizione di una canzone popolare genovese, che vede successivamente la presenza di altre voci molto seguite, come quelle di Emilio Fossati, di Carlo Cinelli, di Gino Villa, di Mario Bertorello e altri. Piero Parodi. (Foto Petrosino) Ma il personaggio più originale, secondo per popolarità forse soltanto a Gilberto Govi, è quello di Giuseppe Marzari (Genova 1900-1974, ora bene illustrato in un volume di Cesare Viazzi), attore, cabarettista, umorista, cantante, autore dell’indimenticabile macchietta di O Scio Rattèlla (diffusa, singolarmente, anche attraverso il mezzo del disco a 78 giri) e protagonista della popolarissima trasmissione della sede genovese della Rai A Lanterna, cui si deve un uso del dialetto (un genovese del centro, “portoliano”, che Marzari articolava con dizione secca e precisa, come ha notato Franco Bampi) a fini comici lontano le mille miglia da quel “consumo della nostalgia” che caratterizzava tanti personaggi della genovesità fino al dopoguerra, e anticipatore di una comicità modernissima, con tratti surreali, che avrebbe caratterizzato più avanti il filone di una sorta di “via genovese” all’ironia paradossale (si pensi soltanto a Paolo Villaggio) tutt’altro che trascurabile. dagli anni Venti, anche una tradizione di canzone dialettale d’autore (intesa, questa volta, come canzone non anonima, a differenza del trallalero), forte di una sua vita locale ma non sotterranea, con interpreti, autori di testi e musiche, rassegne, e soprattutto un pubblico appassionato. Il “padre” della canzone dialettale genovese è senz’altro il tenore Mario Cappello (Genova 18951954), interprete (e autore del testo) di quel Se ghe penso (1925; il più noto titolo con premesso un Ma è successivo) con la collaborazione musicale del maestro Attilio Margutti, diventato nel tempo una sorta di inno nazionale della genovesità (e, absit iniuria verbis, anche modello di certi stucchevoli succedanei canzonettistici locali giocati esclusivamente sul filo della nostalgia). 36 Altro grande protagonista di quegli anni, il poeta e poligrafo Costanzo Carbone (Genova 1884-1955, cui rende giustizia una bella monografia di Balma, Ferloni e Laura), autore di moltissimi testi cari ai genovesi (Tranvaietti da Doia, Boccadaze, Madoninn-a di pescoei, Ciassa de Pontexello, Foxe…) perché entrati nel repertorio di Cappello, delle squadre di canto Tra folk e canzone d’autore A cavallo tra il folk, la canson zeneize e le nuove esperienze della canzone d’autore in dialetto si collocano alcune figure di cantanti e interpreti che, in una carriera di lungo corso, hanno saputo via via raccogliere nuovi stimoli e proporsi in modo sempre inedito a un pubblico di aficionados. È il caso del folksinger di Sestri Ponente Piero Parodi (Genova 1935), che, partendo dal successo storico (centocinquantamila copie) della divertente canzone scioglilingua ‘A Seissento (1963), ha saputo confrontarsi con la canzone neodialettale e collaborare con i maggiori protagonisti della scena genovese (tra i quali il gruppo rock La Rosa Tatuata del figlio Max, prematuramente scomparso), fino ad approdare ad esiti di rilievo con CONTIME ‘NA STOJA (1999), summa della sua fortunata carriera (una quarantina di singoli a 45 giri, una dozzina di vinili) e i più recenti GENOVA (Pe fase ricordà) e FUENTA (che contiene tra l’altro un remake de ‘A Seissento, diventata ‘O computer). Grandissimo il successo di pubblico anche del duo I Trilli (1971-1997), ossia Pucci [Giuseppe Deliperi] (Genova 1942-1997) e Pippo [Giuseppe Zullo] (Genova 1948-2007), lanciati da un altro sestrino, Michele [Maisano] e dallo sturlino Giorgio D’Adamo dei New Trolls, che hanno mescolato con grande Sergio Alemanno con Marco Spiccio. (Foto Garibaldi) verve brani della tradizione e composizioni nuove tra umorismo goliardico (i popolarissimi stornelli che prendono il nome dal gruppo) e nostalgia, sin dal primo disco (CANTI DE CASA MAE, 1972) attraverso una decina di album (il nome e il repertorio dei Trilli sono ora ripresi da Vladimiro Zullo, figlio di Giuseppe, con Francesco Zino e Fabio Milanese). Altro personaggio di quella Sturla canterina di “Gianni a Sturla” e dello studio G (di Gianni De Scalzi, padre di Vittorio e di Aldo) che per qualche anno ha rappresentato il crocicchio musicale dei genovesi è stato il pittore (autore della copertina di SENZA ORARIO SENZA BANDIERA dei New Trolls) e cantautore Bunni [Benito Merli] (Montepiano Vernio FI 1923-1993), la cui vocazione è ripresa dal figlio Matteo. It’s the example of the folksinger Piero Parodi, who, starting from the tong-twister song A Seissento (1963), worked with the main protagonists of the Genoese scene in the remarkable albums CONTIME ‘NA STOjA, GENOVA (Pe fase ricordà) and FUENTA. A great success is also that of I Trilli (1971-1997), Pucci [Giuseppe Deliperi] and Pippo [Giuseppe zullo], who from their first album (CANTI DE CASA MAE, 1972) mixed traditional songs and new compositions between goliardic humour and nostalgia. E ha iniziato a Sturla, giovanissima, col folk anche Franca Lai (Genova 1953), la cui vasta popolarità di interprete (anche in italiano), di autrice e di intrattenitrice si deve tra l’altro alla sua partecipazione in numerosi programmi delle televisioni locali. Gianni De Scalzi’s Studio G was the training place of the painter and songwriter Bunni [Benito Merli] who realised the cover of New Trolls’ album SENzA ORARIO SENzA BANDIERA. E infine Sergio Alemanno è forse più noto come personaggio (raccoglie tutto; e non a caso la sua canzone più celebre è ‘O strassé, scritta nel 1970 per Bruno Lauzi; ha avuto un momento di grande esposizione mediatica quando ha portato al Maurizio Costanzo Show la sua idea di “serenate su commissione”) che come artista e cantante. Ma ingiustamente, perché rappresenta l’anello di congiunzione tra una certa tradizione folk e la canzone d’autore. Folk music was the starting point also of Franca Lai, singer, songwriter and showwoman, and Sergio Alemanno, who in 1970 wrote ‘O strassé for Bruno Lauzi. After De André: not only Genoa After CRêUzA DE Mä, it needs to go on the Ligurian Riviera, to find new and original melodies. 37 Bubi [Angelo] Senarega, from Camogli, set to music Edoardo Firpo’s dialectal poems in the cd AVEVAMO CERTE FACCE TIPO FOTO DOPOGUERRA (2010). Marco Cambri, from Neirone, wrote about the rural life of Ligurian farmers, their work, their effort, the sadness of emigration, using a true Ligurian dialect (A CURPI DE PRìA, 2004; VIVO). Antonio Lombardi, from Ameglia (La Spezia), is another songwriter who started from the work of a dialectal poet (Paolo Bertolani) to write the beautiful album RAITà (2009), written together with the Gnu Quartet and winner of the Premio Lerici Pea. The bands In the Eighties in Italy started a music movement that came from the rasta jamaican culture (reggae, ragamuffin) and afro-american ghetto music (rap) and found in the use of dialect its peculiarity. The use of dialect represents here a request of protest, alternative and antagonism. The most important experience is that of the band Sensasciòu (winners of the Targa Tenco award in 1997) and the “trallamuffin” of the albums CANGIA ‘STA VITTA (1994), IN SCIO BLEU (1995) and IN SCIA LUNN-A (1996). The reggae is the universe of the band I Bìnduli, while the Blindosbarra refers to funk music: its first album of 1993 includes some songs in Genoese dialect, such as CULMV, dedicated to dock workers. Other contemporary bands are more dedicated to folk music: we can here remember the band Orchestra Bailam (the album GALATA is an interesting fusion of trallalero and Middle Eastern rithms), La Combriccola, La Bandassa and I Mandillà (which plays De André’s song, sometimes translated in the Genoese dialect). Dialect for delight Many songwriters of the “scuola genovese” wrote and interpreted songs in the Genoese dialect for “delight”, nostalgia or tribute to the tradition, starting from the songwriters’ pioneer Natalino Otto [Natale Codognotto], who spread the swing in Italy with Alberto Rabagliati and published some 45 rpm albums in the Genoese dialect: the most 38 Dopo Faber: non solo Genova Non è forse privo di senso il fatto che, dopo il genovese di CRÊUZA, occorra andare fuori città, in Riviera, per trovare accenti inediti, o inauditi. Dopo un quarantennio di attività artistica (e di impegno nel sociale), il camoglino Bubi [Angelo] Senarega pubblica finalmente il suo cd AVEVAMO CERTE FACCE TIPO FOTO DOPOGUERRA (2010, con presentazione di Silvio Ferrari), dedicato in buona parte alla messa in musica di poesie di Edoardo Firpo, il maggiore poeta dialettale del Novecento ligure: scommessa audace, perché di solito sono le parole a doversi adattare alla musica, e non viceversa. In questi casi Senarega si limita infatti ad un recitativo con la sua bella voce da basso e commento musicale di chitarra, ma laddove il sound è affidato alla suggestione fonica del dialetto non meno che alle note (come nella litania Magazin mediterraneo, elenco sterminato di oggetti dal nome esotico o desueto), l’effetto è molto suggestivo. “Dalle prove ‘iniziali’ dedicate alle tragedie storiche e politiche dell’Europa (Varsavia) e del nostro Paese (Mariolina X), attraverso la rivisitazione della propria infanzia, del proprio angolo di Liguria, dei propri indelebili miti sportivi (Mae nonno o l’Angeo, L’olmo del Boschetto, Fostò) passando per una lirica descrizione delle figure di una Camogli scomparsa (Ciao vecchio Joe), per raggiungere la migliore qualità espressiva nella trasposizione di alcune poesie del grande poeta genovese già citato e nella lettura del Mediterraneo compiuta da un intellettuale come Predrag Matvejevic, siamo finalmente in grado di apprezzare la ‘voce’ di Senarega” (Silvio Ferrari). Da Neirone (ma è nato a Quinto) la voce di Marco Cambri (A CURPI DE PRÌA, 2004; con un seguito in VIVO) arriva netta e scabra come la pietra, la pria neigra, l’ardesia, dalle viscere di quella Liguria rurale di cui si è dimenticata l’esistenza. La Liguria della fatica, del lavoro dei campi regolati dalle fasi della lunn-a, delle fasce, delle falci e dei falcetti affilati a curpi de pria, dell’emigrazione, della nostalgia di un mare/male (nel dialetto, significativamente, omofoni e omografi: ma) di cui si avvertono solo gli echi lontani in una ninnananna (Ninnamì), del vino rosso che brilla nel bicchiere all’ostaia, delle feste di pàise, dei personaggi come l’Angiolinn-a e il Sarvaego, dell’amore nato in balera a tempo di tango (Rissi, dove chitara fa rima con mascara). Quadretti e ritratti di evidenza narrativa e visiva che non hanno nulla di elegiaco o di idillico. Il dialetto (genovese con qualche venatura lessicale – despetaddo ovvero dispettoso – e fonetica della Fontanabuona) è un dialetto reale e carnale, non quello sognato e ricostruito in direzione mediterranea da De André. Il percorso di Cambri (“antiDeandré” in quanto cantore non della Liguria dei marinai, ma della Liguria dei contadini) è del tutto autonomo, non c’è né contrapposizione alla cultura in lingua né sterile nostalgia o sogno di un passato lontano nel tempo e nello spazio. Cambri, con il suo viso di apache che sembra scolpito anch’esso nell’ardesia, assomiglia solo a se stesso. Il suo dialetto non risponde a una moda, non è né naif né intellettualistico: è, semplicemente, necessario. È la voce degli ultimi, dei dimenticati, di Sensasciou al Tenco 1997. (Foto Brenzoni) chi non appare, che sgorga potente e inedita (perché inaudita) dalle sue note. E anche la tradizione popolare musicale (giga, valzer, mazurca, ritmi di banda, girotondi di figgieu) sembra qui reinventata e riproposta per la prima volta dal suo affiatatissimo gruppo (Fabrizio Padoan anche arrangiatore, Marco Cravero, Mauro Panzeri, Alfredo Vandresi, Fiorella Zito; poi Filippo Gambetta, Roberto Izzo, Pino Parello, Marica Pellegrini) con freschezza e perentorietà. Un progetto covato per anni, pensato e lavorato come la pietra. E bisogna spingersi sino all’estremo lembo di Liguria, ad Ameglia (La Spezia), per ascoltare la voce ligure-toscana di Antonio Lombardi che, dopo SEINÀDA DE MAE [“Serenata di mare”] (con Armando Corsi), ha, tra l’altro, messo in musica dieci poesie del poeta (della Serra di Lerici) Paolo Bertolani in RAITÀ [“Rarità”] (2009, con lo Gnu Quartet, Premio Lerici Pea 2009). Così il cantautore: “Ho conosciuto Paolo Bertolani in dialetto, nel nostro “codice”, che permette di scambiarsi, di capirsi, di entrare facilmente. Con la sua mancanza mi sono accorto che era già tutto scritto, il suo mondo un po’ mi apparteneva, e rileggendolo intensamente, in soli due giorni sono scese giù quelle che ho impaginato come canzoni. Per me è scontato scrivere con la chitarra, e ancor di più quando le parole già scritte sono così profonde da rapirmi, insegnarmi e incantarmi”. Le band Accanto al filone della canzone “neodialettale” d’autore nasce e si sviluppa anche a Genova, a partire dagli anni Ottanta, un movimento che si può collegare alla cultura rastafariana della Giamaica (reggae, raggamuffin) e dei ghetti afroamericani (rap): una corrente tutta d’importazione, ma che trova la sua curvatura locale nell’uso del dialetto, un dialetto “sporco”, spesso contaminato con l’italiano e con altre lingue. Qui l’uso del dialetto assume una valenza ideologicamente ben spiccata, oltre a quella – cui accennava già De André – di maggiore duttilità ritmica e metrica: una richiesta di contestazione, di alternativa, di antagonismo. L’esperienza più interessante è quella del gruppo (oggi disciolto; Targa Tenco nel 1997) dei Sensasciòu (con gioco di parole tra “fiato” e “show”), coagulato attorno a Bob “Doc” Quadrelli, figura storica dell’underground locale, che fa del “trallamuffin” (contaminazione del trallalero con il raggamuffin) negli album CANGIA ‘STA VITTA (1994), IN SCIO BLEU (1995) e IN SCIA LUNN-A (1996), con un dialetto, come avevano dichiarato, “reimparato dai nonni”. Riuscito esperimento intergenerazionale, con tracce di mistilinguismo (del gruppo fa inizialmente parte il senegalese Jacques Badji, che canta inserti in lingua wolof ): “Canto zeneize in a ramadan style, canto zeneize in a ramadan dub. Sentilo ben sto ritmo, tegnilo ben, piggilo, piggilo e tegnilo ben”. All’area reggae fanno riferimento anche i Bìnduli. E si collocano piuttosto nella zona del funk i disciolti 39 Blindosbarra (è la denominazione di un conduttore ad alto voltaggio usato nel porto di Genova; i componenti erano tutti figli di camalli), con quattro album tra il 1993 e il 2002, il primo dei quali, con il titolo del gruppo, contiene alcuni brani in genovese, tra cui CULMV, dedicato ai portuali. I Blindosbarra. (Foto Patrizia Lanna) Più legate al filone folk restano alcune band attive negli ultimi anni, come l’Orchestra Bailam (interessante contaminazione tra il trallalero e ritmi mediorientali, con l’album GALATA), la Combriccola, la Bandassa di Enzo Guido e i Mandillà (tribute band di De André, che hanno voltato in genovese anche suoi brani in italiano). Dialetto per diletto Non sono pochi i cantautori della sempre negata (dagli stessi protagonisti) “scuola genovese” che, per “diletto”, per nostalgia, per omaggio, si sono misurati, più spesso come interpreti, col dialetto nativo (o acquisito). A partire da quello che è considerato, a ragione, il precursore dei cantautori, prima che la parola stessa nascesse nel 1960: il grande, troppo presto dimenticato, Natalino Otto [Natale Codognotto] (Cogoleto Genova 1912 - Milano 1969), iniziatore (con Alberto Rabagliati) dello swing in Italia. Negli anni ’60 Otto incise per la sua Telerecord alcuni 45 giri in genovese (Madaenna/O pescòu, 1964; Me son innamuòu de ti/Texo, 1965), tra i quali il più significativo rimane Bossa figgieu/Arrio (1964) per la parodia del brasiliano (qui bossa vale “occhio, attenzione”; e oggi bossare è del gergo giovanile per “marinare la scuola”; ma naturalmente si strizza l’occhio al ritmo carioca) che poi verrà ripresa da molti altri. Per esempio da Bruno Lauzi (Asmara, Eritrea 1937 Peschiera Borromeo 2006), che ha pure spesso giocato sulla affinità fonica tra genovese e portoghese del Brasile, come nel suo più grande successo del genere, il 45 giri (con lo pseudonimo Miguel e i Caravana) ‘O frigideiro (1962, di Calabrese-LauziCalabrese-Reverberi), su ritmo di bossa nova, ripreso anche dai Buio Pesto, e in altre canzoni (Sto ciccheton de ‘n Gioan, A bertoela di Calabrese-Lauzi-Reverberi, la filastrocca Finale Ligure) inserite in dischi in italiano. E così da Gino Paoli (Monfalcone 1934), che nella sua lunghissima vicenda musicale ha trovato spazio per un 33 giri Durium (che doveva essere l’inizio di una serie, anche con canti partigiani), CIAO SALUTIME UN PO’ ZENA (1975), con classici della tradizione popolare come Ma se ghe penso e A canson da Cheullia. Anche il popolarissimo Joe [Rino Luigi] Sentieri (Genova 1925 - Pescara 2007), dopo aver tradotto in dialetto alcuni chansonnier francesi, si era dilettato, verso la fine della carriera, di interpretare canzoni genovesi popolari (POPON DE PESSA, 1971) o d’autore (RINO “JOE” SENTIERI CANTA GENOVA, 1996). 40 E naturalmente Ivano Fossati (Genova 1951) che, da buon conoscitore del genovese come lingua materna, prima collabora con Fabrizio de André alla stesura dei testi di Megu Megùn e di A çimma, ghiotta ricetta in musica che risente delle poesie dialettali di Martin Piaggio e di Aldo Acquarone (in LE NUVOLE, 1990), poi interviene come coautore con Faber (una entente non sempre pacifica) di ANIME SALVE (1996), dove si diverte a interpretare (con dizione sicura) la parte del pretendente in ‘A cumba. Dopo aver spesso frequentato il genovese nella sua fortunatissima carriera con i New Trolls, anche Vittorio De Scalzi (Genova 1949) ha finalmente pubblicato nel 2008 un album tutto suo in dialetto, MANDILLI (arrangiato dallo stesso Vittorio col fratello Aldo), dieci tracce che fondono al meglio, con partiture di prim’ordine, tradizione (a Gente de Liguria partecipano i Canterini della Vecchia Sturla) e cantautorato (soprattutto del De André “mediterraneo”). Hanno cantato in dialetto anche Max Manfredi (Genova 1956), che tra le sue ricche esperienze annovera anche la partecipazione alla squadra di trallalero A Rionda (unica in cui il posto del soprano, ‘o primmo, è occupato da una donna, Laura Parodi), e Gian Piero Alloisio (Ovada 1956), autore del divertente blues, “inno dei coltivatori delle piantagioni di basilico”, Baxeicò (interpretato anche dal gruppo dei Cavalli Marci; ora in OGNI VITA È GRANDE, 2012), e i più giovani Zibba [Sergio Vallarino] (Varazze 1978) con gli Almalibre (in gruppo dal 1998), che ha cantato O mae ma (featuring Vittorio De Scalzi, in COME IL SUONO DEI PASSI SULLA NEVE, Targa Tenco 2012) e ‘O frigideiro (in E SOTTOLINEO SE, 2013, omaggio a Giorgio Calabrese). Si sono cimentati col genovese anche musicisti del calibro di Paolo Bonfanti (Genova 1960), Beppe Gambetta (Genova 1955), Bob Callero (Montoggio GE 1950). Dialetto al femminile Nella pattuglia, sempre più numerosa, di cantautrici, non è facile trovare chi si sia dedicata esclusivamente al dialetto. Poco più che episodici, anche se di grande impatto mediatico, devono considerarsi le incursioni da interpreti nel genovese-bandiera di Ma se ghe penso di Mina (nel 1967) e di Antonella Ruggiero (Genova 1952) nel suo tributo ai cantautori di GENOVA, LA SUPERBA (2007), con cover di Bindi, Tenco, Lauzi, Paoli, De André, De Scalzi. Anche Claudia Pastorino ha voluto tentare un’incursione nel suo dialetto rivisitando (con Bob Callero) la popolare Lanterna de zena (nell’album INVENTARE L’ALLEGRIA, 1997). Ma è a Roberta Alloisio che si deve il più significativo esperimento di declinare il dialetto (genovese con qualche inflessione monferrina, essendo nata a Ovada) sul versante femminile. Brava esponente (spesso insieme al fratello Gian Piero) del teatro-canzone, buona presenza scenica (derivante dalla sua esperienza col Teatro della Tosse), nell’album LENGUA SERPENTINA (con l’Orchestra Bailam, 2007, arrangiamenti principali di Franco Minelli) Roberta si misura con la grande tradizione popolare e letteraria della Liguria, dagli stornelli di Ceriana (da cui la title track) a testi anonimi come Primma che t’abandun-ne, da verseggiatori antichi (audace e riuscito è il tentativo di mettere in musica, con la complicità di Gian Piero, le rime dell’Anonimo Genovese due-trecentesco, padre della tradizione dialettale relevant is Bossa figgieu/Arrio (1964), where he took advantage from the similarity between Genoese and Portuguese language to write a parody of Brasilian music. Bruno Lauzi wrote many songs using the dialect: just like Natalino Otto, he also published a parody of Brasilian bossa nova, ‘O frigideiro (1962), also played by the band Buio Pesto. Gino Paoli sang some classic dialect song such as Ma se ghe penso and A canson da Cheullia in the 33 rpm album CIAO SALUTIME UN PO’ zENA (1975). joe [Rino Luigi] Sentieri, after having translated many French chansonniers’ songs in the Genoese dialect, released two albums including some Genoese songwriters’ songs and songs of the tradition (POPON DE PESSA, 1971 and RINO “jOE” SENTIERI CANTA GENOVA, 1996). Ivano Fossati collaborated with Fabrizio de André in the writing of some songs in Genoese dialect for the albums LE NUVOLE (1990) and ANIME SALVE (1996). Vittorio De Scalzi, leader of the band New Trolls, in 2008 published MANDILLI, a solo album of dialect songs. Copertina dell’album di Gino Paoli CIAO SALUTIME UN PO’ zENA, 1975. Disegno di Gino Paoli. 41 zibba in una foto del 2012. (Foto Brenzoni) Other contemporary songwriters performed in the Genoese dialect, such as Max Manfredi, who was a member of the trallalero band A Rionda, Gian Piero Alloisio, author of the funny blues Baxeicò (also played by Cavalli Marci), zibba [Sergio Vallarino] and the Almalibre, who sang O mae ma (featuring Vittorio De Scalzi, in the album COME IL SUONO DEI PASSI SULLA NEVE, Targa Tenco 2012) and ‘O frigideiro, even other excellent musicians as Paolo Bonfanti, Beppe Gambetta and Bob Callero dealed with dialect. Dialect and the women Many female songwriters wrote using the Genoese dialect, even none of them dedicated exclusively to it. It’s worth remembering the performances of Mina (Ma se ghe penso, 1967) and Antonella Ruggiero’s cover album GENOVA, LA SUPERBA (2007), where she sang hits of Bindi, Tenco, Lauzi, Paoli, De André and De Scalzi. Claudia Pastorino revisited with Bob Callero the popular song Lanterna de Zena in the album INVENTARE L’ALLEGRIA (1997). Roberta Alloisio’s album LENGUA SERPENTINA (2007) was a remarkable project where she measured herself with the big popular and literary Ligurian tradition and that continued in the multilingual album jANUA (Targa Tenco 2011 for the best singer). Dialect on stage More than in music, the Genoese dialect is used in theatre by comedians for cabaret and mise-en-scenes taken from tradition. We can remember here the performances of Buio Pesto, a group of musicians and actors that also published a dozen of albums (from BELINLANDIA, 1995 to BUIO PESTO, 2014), but also the songwriter and comedian Fabrizio Casalino and the rock-blues guitarist lent to cabaret Marco Manusso. From one De André to another Cristiano De André took over from his father Fabrizio in two tours (2009-10) that preceded the publishing of the albums DE ANDRé CANTA DE ANDRé (vol. I, 2009 and vol. II, 2010,). He also wrote in the Genoese dialect a verse of the song Invisibili (an homage to Fabrizio and the city of Genoa) that won the Critic Prize at the Festival of Sanremo 2014 and is included in the album COME IN CIELO COSì IN GUERRA, 2014. 42 ligure) a poeti più vicini a noi (gli ottocenteschi Giambattista Vigo e Bepìn da Cà, savonese). E non manca il Dante di Paolo e Francesca dall’Inferno V (“amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”…) nella traduzione in vernacolo (1905) del Padre Angelico F. Gazzo (“l’amou, che int’un cheu fin lesto o s’açende”…). Virtuosistico. Il progetto ha il suo seguito nell’album plurilingue JANUA (2011, arrangiamenti principali di Fabio Vernizzi), dedicato alla donna “strega” e “venditrice di vento” (e Venditrici di vento è un bel brano di Max Manfredi, anche voce recitante con Adolfo Margiotta), tra italiano aulico e canto popolare, tra provenzale e, naturalmente, dialetto (il seicentesco Gian Giacomo Cavalli con “Donna, serpente de l’inferno crùa”, ancora il Cava, l’anonima Lanterna de zena e la classica Ave Maria zeneize di Piero Bozzo e del maestro Agostino Dodero, grande protagonista del genovese in musica). Il disco, che ha avuto importanti collaborazioni musicali (Mario Arcari, Armando Corsi, Marco Fadda, Piero Milesi, Esmeralda Sciascia) e ha ricevuto la Targa Tenco 2011 per la migliore interprete, rappresenta (per adesso) il più maturo approdo di Roberta Alloisio alla canzone d’autore. Dialetto in scena Prevalentemente parodistico e comico, o paragoliardico (secondo una tradizione secolare che si può far risalire addirittura alla Commedia dell’Arte) è l’uso del dialetto in contesti teatrali o cabarettistici. Prima che un fenomeno musicale, sono un fe- nomeno mediatico gli impenitenti bogliaschini dei Buio Pesto, ironici sin dal calembour del nome, capeggiati dal carismatico Massimo Morini (tra l’altro recordman di direzione d’orchestra al Festival di Sanremo), che in oltre vent’anni di attività hanno totalizzato non solo una dozzina di album (da BELINLANDIA, 1995 a BUIO PESTO, 2014), ma sei film, centinaia di concerti pubblici, decine di partecipazioni e una intensa attività di promozione e di merchandising (e di trovate, e anche di beneficenza). La chiave del successo dei Buio Pesto consiste soprattutto nella proposta di cover di hit internazionali in versione dialettale (da Macarena a Dragostea din tei a Waka Waka), non di rado licenziosa, in cui il cortocircuito tra i due codici sortisce un effetto esilarante. Aveva iniziato come cantautore, con il classico accostamento genovese-brasiliano, anche Fabrizio Casalino (Genova 1970), che poi si è impegnato soprattutto sul fronte cabarettistico (è una presenza fissa di zelig); ed è anche cabarettista il chitarrista rock-blues genovese, ma romano d’adozione, Marco Manusso. Da un De André all’altro Dopo avere a lungo esitato, come oppresso dal peso di quel cognome, il figlio primogenito di Fabrizio, Cristiano De André (Genova 1962), già impegnato come abile polistrumentista nei concerti dal vivo del padre, ne raccoglie in pieno l’eredità in due tour (2009-10), da cui i due album (con dvd) DE ANDRÉ CANTA DE ANDRÉ (vol. I, 2009; vol. II, 2010, arrangiamenti di Luciano Luisi), che contengono tra l’altro Mégu megùn, A çimma, ‘A duménega, Crêuza de mä. La dizione del dialetto, calcata su quella che si potrebbe definire la “lingua-padre”, non è sempre perfetta, ma sull’effetto “postumo” (fastidioso in certi casi, come per esempio quello di Natalie Cole in Unforgettable) prevale quello della continuità artistica, per cui l’emozione è intatta. E al genovese Cristiano è tornato autonomamente in una quartina di Invisibili (Ferraboschi-Cristiano De André), presentata al Festival di Sanremo 2014 (poi nell’album COME IN CIELO COSÌ IN GUERRA, 2014, produzione e arrangiamenti di Corrado Rustici), che è insieme un tributo a Fabrizio e alla città natale di entrambi. Un ritorno, un incontro, una pacificazione: “ma òua che se vedemmu” / “ma òua che ghe vedemmu” [ma ora che ci incontriamo / ma ora che riusciamo a vedere] è la felice ambiguità che solo il dialetto riesce ad esprimere. E così il cerchio del dialetto nella canzone d’autore, aperto in quel lontano 1984 di CRÊUZA, può dirsi chiuso. Almeno per il momento. Roberta Alloisio. (Foto Molteni) 43 I classici The Classics Alberto Bazzurro Enrico de Angelis Guido Festinese Sergio Secondiano Sacchi Jacopo Tomatis Renato Tortarolo Margherita zorzi Diverso da chi? Umberto Bindi, il primo (quasi) cantautore Jacopo Tomatis Umberto Bindi è il meno ascoltato dei primi cantautori, il più diverso, il più difficile da razionalizzare secondo la nostra idea di cantautore. Nato a Bogliasco – e dunque sulla carta perfetto rappresentante della cosiddetta “scuola genovese”, composta perlopiù da genovesi nati altrove – è stato iscritto nella storia della canzone d’autore italiana come un’anomalia. Da un lato, sfogliando la ricca pubblicistica sul genere, si ha a volte l’impressione che ci si senta quasi costretti a “canonizzarlo” vicino ai Paoli e ai Tenco. Lui che, tecnicamente parlando, componeva solo le musiche delle sue canzoni, affidandosi a “parolieri” (per quanto di riconosciuto valore come Giorgio Calabrese). Dall’altro, a fronte di migliaia di pagine scritte sui primi cantautori, Bindi risulta decisamente sottoindagato.1 Alcuni collegano la sua “diversità” con l’omosessualità prima negata e poi pudicamente nascosta, che favorì sicuramente il suo isolamento artistico e l’allontanamento dagli spazi televisivi e discografici. Discriminato da un sistema musicale che mai ha brillato in quanto a progressismo, quasi sicuramente. Ma il cantautore, nel senso comune, è associato ad un’immagine maschile (talvolta maschilista: basti pensare a molti classici della canzone d’autore) molto più di quanto comunemente si pensi, o si voglia pensare. In Italia, i cantautori omosessuali dichiarati sono rari, e altrettanto rare – fino a tempi recenti – sono state le cantautrici. Molti ricordano Bindi come musicista dotato e raffinato, di studi classici, l’unico vero musicista fra i primi cantautori, perlopiù descritti come artisti naïf dediti all’abuso del giro di do. È questo da sempre un grande paradosso di chi ha scritto della canzone d’autore italiana come se fosse poesia, fino a passaggi che suonano come veri e propri lapsus: “È improprio definirlo un cantautore perché era più esattamente un musicista”, scrive ad esempio Paolo Jachia (La canzone d’autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 55). Altri ancora, ad esempio Leonardo Colombati (La canzone italiana 1861-2011: storie e testi, Ricordi-Mondadori, Milano, 2011, p. 775), riportano di come Bindi, in mezzo ad amici appassionati di Kafka e Rimbaud, fosse l’unico a non essere un “lettore forte”. Vista la tradizione della pubblicistica sulla canzone d’autore in Italia, scrivere di Bindi – non potendolo trattare come un poeta – è più difficile: bisogna parlare di musica, o di altro. Basta questo – “musicista”, omosessuale, non intellettuale – a fare di Bindi un personaggio laterale, problematico, non ignorabile nella sua importanza e statura artistica ma derubricato ad eccezione che conferma la regola. Diverso, in ogni senso. 46 Questa strana posizione assunta da Bindi è comprensibile solo se la si colloca nel contesto dell’ideologia del cantautore che si è codificata in Italia a partire dai primi anni Sessanta, e poi soprattutto, nel corso dei Settanta, con il successo del Premio Tenco come “luogo” – mentale, fisico e simbolico – della canzone d’autore. La storia del concetto di “cantautore” molto deve, naturalmente, all’invenzione di quella strana parola – cantautore – e a tutte le connotazioni estetiche, di autorialità e di autenticità, che recava in sé fin dall’inizio. Partendo da queste idee in potenza, il cliché – acustico, visivo, comportamentale – del cantautore così come lo conosciamo si è costruito poco a poco intorno ad alcune figure carismatiche e a determinati stili personali: Gino Paoli in una prima fase, Luigi Tenco, e poi soprattutto, dalla fine dei Sessanta, Fabrizio De André, fino ai nuovi cantautori dei Settanta, alla Guccini. Ancora oggi, nel senso comune (che potrà pure essere criticato, ma che è un dato non ignorabile) l’identikit del cantautore non sembra discostarsi poi troppo da quello di questi personaggi fondamentali, spesso essi stessi ridotti ad alcuni tratti caratterizzanti: i testi impegnati o esistenziali; un certo tipo di vocalità, con estensione limitata e nel registro medio-basso, a volte con peculiarità di pronuncia; un certo modo di stare sul palco; un certo modo di accompagnarsi con la chitarra, e così via. In questo percorso, da questo punto di osservazione contemporaneo, Bindi appare – appunto – diverso. Different from whom? Umberto Bindi, the first (almost) songwriter Umberto Bindi is the least heard and least studied of the first generation of songwriters. In the history of Italian songwriters he is considered a sort of anomaly. Partly because of his homosexuality, which caused his discrimination by a music environment that has never stood out for its progressiveness, partly because of its purely musical vocation that makes him the less “intellectual” among the songwriters. Mainly because of the distorted idea that has been associated with the concept of singer-songwriter, that he has come to assume some characterizing traits, same clichés that are also physically embodied by some charismatic characters of the Sixties and Seventies (Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè, Francesco Sinatra): the Umberto Bindi nel 1957. (Foto Leoni) 47 profound or existential lyrics, a certain kind of vocal style, with limited extension and lower-middle register, sometimes with peculiarities of pronunciation, a certain way of being on stage and the accompaniment of the guitar, and so on. In this sense, Bindi is – in fact – different. Bindi the “singer-songwriter” ahead of his time Bindi’s repertoire is quantitatively less significant than that of the other “Genovese songwriters”, and mainly limited to the first part of his career. Unlike Paoli, or Endrigo, who have had a career extending over several decades, Bindi has remained the one remembered for his songs of the Sixties. None of the subsequent “returns” – in 1972 CON IL PASSARE DEL TEMPO, Copertina dell’EP Girotondo per i grandi, 1959. 48 Bindi il “cantautore” ante litteram La domanda da farsi non è però in che modo possiamo considerare oggi Bindi come un cantautore. Piuttosto, dovremmo chiederci in che modo lo è stato intorno al 1960. Nella distanza che corre fra l’ideologia del cantautore oggi codificata, a volte al limite del luogo comune, e l’interpretazione che di lui diedero i suoi contemporanei, si nasconde (probabilmente) l’unico modo interessante per parlare di Bindi al di fuori dei soliti schemi triti e ritriti. Soprattutto se si rivaluta – negando e ribaltando l’idea di Bindi come “eccezione” – il suo decisivo ruolo nel costruire proprio quella ideologia del cantautore che oggi lo relegherebbe ai margini del discorso. Il repertorio di Bindi è quantitativamente meno significativo di quello degli altri “genovesi”, e limitato in gran parte alla prima parte della sua carriera, che coincide anche con il momento di maggior successo di pubblico dei primi cantautori. La sua produzione si affievolisce durante tutti i Sessanta, fino a cessare per diversi anni. Nessuno dei successivi “ritorni” – nel 1972 CON IL PASSARE DEL TEMPO, nel 1976 IO E IL MARE, nel 1982 D’ORA IN POI, l’omaggio di amici e colleghi di BINDI (anno 1985), e ancora DI CORAGGIO NON SI MUORE per la Fonopoli di Renato Zero (1996) – garantisce al cantautore un ritorno di fan e di successo. La morte, nel 2002, lo coglie in povertà, al termine di una campagna avviata da amici e colleghi per garantirgli un vitalizio, grazie alla Legge Bacchelli. A differenza di Paoli, o di Endrigo, rilanciatisi a più riprese in una carriera estesa su diversi decenni, Bindi è rimasto quello delle sue canzoni degli anni Sessanta. Uno sguardo più da vicino a questo “periodo d’oro” ci mostra come gli anni più attivi siano proprio quelli fra l’esordio, datato 1959, e il 1961. Limitandoci al lavoro di Bindi come “cantautore” (escludendo cioè i brani scritti per altri e mai incisi da lui), sono otto le nuove canzoni pubblicate nel 1959, undici nel 1960, e cinque nel 1961 (non contando le numerose re-incisioni, a volte con arrangiamento diverso). Scendono poi a quattro nel 1962, e due per anno (cioè appena un 45 giri) dal 1963 al 1965. La produzione riprende nel 1968 con un nuovo singolo, un altro nel 1969, e poi cessa fino all’Lp del 1972 CON IL PASSARE DEL TEMPO. Per significativa completezza, ecco qui di seguito la produzione di Bindi fra il 1959 e il 1965.2 1959 Arrivederci (Calabrese-Bindi) Odio (Calabrese-Bindi) Nuvola per due (Calabrese-Bindi) Amare te (Calabrese-De-Simone-Bindi) Girotondo per i grandi (Calabrese-Buffoli-Bindi) Basta una volta (Testa-Bindi) Tu (Beretta-Buffoli-Bindi) Non so (Calabrese-Bindi) 1960 Appuntamento a Madrid (Calabrese-Bindi) Il confine (Calabrese-Bindi) È vero (Nisa-Bindi) Luna nuova sul Fuji-Yama (Calabrese-Bindi) Un giorno, un mese, un anno (Calabrese-Bindi) Lasciatemi sognare (Calabrese-Bindi) Il nostro concerto (Calabrese-Bindi) Se ci sei (Calabrese-Bindi) Chiedimi l’impossibile (Calabrese-Bindi) Marie Claire (Rosselli Massone-Bindi) Un paradiso da vendere (Cason-Bindi) 1961 Non mi dire chi sei (Calabrese-Bindi) Riviera (Testa-Moustaki-Bindi) Vento di mare (Calabrese-Bindi) Ninna nanna di Natale (Calabrese-Bindi) Noi due (Calabrese-Bindi) 1962 Jane (Beretta-Pallavicini-Buffoli-Bindi) Carnevale a Rio (Calabrese-Bindi) Un ricordo d’amore (Paoli-Bindi) Vacanze (Rossi-Bindi) 1963 Il mio mondo (Paoli-Bindi) Vieni, andiamo (Bardotti-Bindi) 1964 Ave Maria (Siberna-Bindi) Un uomo che ti ama (Siberna-Bindi) 1965 Quello che c’era un giorno (Rossi-Bindi) Il giorno della verità (Paoli-Bindi) Nonostante le “poche” canzoni, la sola cronologia dei brani – se sovrapposta a quella degli altri “genovesi” – rende giustizia all’importanza avuta da Bindi, tanto a livello di influenza sui suoi colleghi, quanto nella costruzione sociale della categoria di “cantautore”, sebbene ante litteram. La parte più importante, qualitativamente e quantitativamente, del repertorio di Bindi viene infatti pubblicata prima che il termine “cantautore” venga introdotto e si affermi nell’uso linguistico. Anche nell’affermazione della nuova espressione, comunque, Bindi gioca un ruolo da protagonista. Si ritiene, comunemente, che l’iniziale diffusione del neologismo “cantautore” sia stata propiziata dalla RCA Italiana per promuovere – soprattutto – alcuni cantanti più “leggeri” come Gianni Meccia e Maria Monti, anche in contrapposizione con l’offerta artistica della rivale Ricordi. Eppure, la prima occorrenza del termine risale all’agosto del 1960 (per intenderci, Bindi ha pubblicato Il nostro concerto prima dell’estate), in riferimento ad uno spettacolo itinerante intitolato “Il Cantautori” (sic).3 In questo “Carro di Tespi” della musica leggera sarebbero stati inclusi Maria Monti, Enrico Polito, Franco Migliacci, Edoardo Vianello, Gianni Meccia, Gino Paoli. Quest’ultimo era sotto contratto con Ricordi, come Bindi, Calabrese e Giorgio Gaber che – infatti – sono accostati al nuovo “progetto” collettivo appena poche settimane dopo: Nel gruppo vi sarebbero quindi oltre alla Monti, Gino Paoli, Umberto Bindi, Giorgio Gaber, Meccia, mentre il filo conduttore sarebbe fabbricato dal paroliere Calabrese (Sorrisi e Canzoni, 18 settembre 1960, n. 38, p. 19). 49 Copertine di due EP del 1960: Il nostro concerto (foto Publifoto) e Un giorno, un mese, un anno (foto di G.G.Greguoli). Nel medesimo articolo, questi nuovi “cantanti-autori” (il termine “Cantautori”, ancora al plurale, indica in questa fase lo spettacolo e non i singoli) sono accomunati dallo scrivere testi “mica stupidi”, e canzoni che abbiano “un significato e uno scopo”. Cronologia alla mano, Bindi è uno degli anticipatori di queste ambizioni. Prima della definitiva affermazione del nuovo termine, a cui sarà da subito solidamente associato, è perlopiù catalogato con espressione analoghe come “cantante-compositore”, o “chansonnier”. E questo nonostante sia chiaro a tutti che nessun testo porta la sua firma. Nel suo riconoscimento come “cantautore” conta, naturalmente, anche la collaborazione privilegiata con Giorgio Calabrese: delle trentaquattro canzoni incise e pubblicate da Bindi fra il 1959 e il 1965, diciassette (la metà, quindi) sono co-firmate con lui, e in altre due Calabrese compare come autore insieme a Bindi e altri.4 Inoltre, tutte le canzoni portano la sua firma come compositore della musica, perlopiù esclusivo. Del resto, anche gli altri primi “cantautori” non sono sempre interamente autori dei materiali che propongono, almeno in questa fase. Dunque, se il nuovo termine “cantautore” è da subito svincolato dal dato puramente “tecnico” che sembra suggerire, Bindi non è l’eccezione che conferma la regola, ma uno dei modelli su cui la “regola” stessa si forma. “Cantautore” assume dal primissimo momento una connotazione di intelligenza, di raffinatezza artistica, di alternativa alla canzone commerciale. E di questa tendenza Bindi è, fino al decisivo successo di Paoli con La gatta a partire dalla primavera del 1960, l’indiscusso campione. Basta, per farsi un’idea, leggere le sue prime recensioni sui giornali che si occupano di musica. […] pezzi come Arrivederci e È vero […] non sono solo delle canzoni ma delle autentiche opere d’arte (Recensione di Il nostro concerto / Un giorno, un mese, un anno, Ricordi SRL 10-141, in Musica & Dischi, luglio 1960). Abbiamo già segnalato […] le qualità di questo giovane artista (una volta tanto il termine è usato a proposito) (Recensione di Girotondo per i grandi, Ricordi ERL 128, in Sorrisi e Canzoni, 12 luglio 1959, n. 28, p. 29). Il pubblico tace, si fa improvvisamente attento. Capisce di essere di fronte ad un autentico artista (Rodolfo d’Intino, “Ecco una voce veramente nuova”, in Sorrisi e Canzoni, 24 maggio 1959, n. 21, p. 20). 50 Al punto che nel 1962 già si arriva a riconoscere, implicitamente, il suo ruolo nella costruzione di un nuovo “genere” di canzone. Il genere di Bindi sin dal principio, […] costituì una svolta nella concezione della nostra musica leggera. Erano canzoni che sia nella musica che nelle parole presentavano nuovi concetti e nuove espressioni (Recensione di Noi due / Appuntamento a Madrid, Ricordi SRL 10216, in Il Disco, marzo 1962). Un nuovo tipo di canzone, e i suoi modelli stranieri Intorno al 1960 non era così normale attribuire alla sfera dell’arte un prodotto di canzone “commerciale”, neanche nel contesto di una scrittura giornalistica non specializzata – e meno che mai da parte della critica “colta”, musicale o letteraria che fosse. Il dato è ancora più rilevante se si considera come molte delle canzoni di Bindi di questo primo periodo (anche quelle con Calabrese) aderiscano – almeno in parte – al modello di canzone diffuso in Italia in quegli anni, sia di gusto “moderno” (il rock’n’roll) che – per così dire – “raffinato/da night”. Ascoltate oggi, queste canzoni sono difficilmente riconducibili al classico modello del cantautore di “scuola genovese”. Non è necessario nemmeno tirare in ballo uno dei primi successi di Bindi come autore (la famigerata I trulli di Alberobello, presentata al Sanremo 1958): il repertorio a suo nome contiene titoli che oggi ci paiono decisamente ingenui. Ad esempio, alcune reveries dal sapore esotico come Appuntamento a Madrid e Luna nuova sul Fuji-Yama, costruite intorno a orchestrazioni ricercatissime, rispettivamente di sapore ispanico la prima, e quasi à la Debussy la seconda, con varie “cineserie” armoniche e timbriche. Le due canzoni non si risparmiano alcun cliché né di contenuto (“Olé”, corride, “ciliegi in fior”, “lanterne”…) né stilistico, compresa una serie di rime baciate tronche (“vincerà” / “dovrà” / “oscurità”, in Appuntamento a Madrid), svariate apocopi, anastrofi (“che rabbioso va in cerca di te”, “una vita seguire la dovrà”), e così via. O basta riascoltare pochi versi di Nuvola per due, canzone “di nozze” su un terzinato da rock’n’roll: 1976 IO E IL MARE, 1982 D’ORA IN POI, the tribute of friends and collaborators in BINDI (1985), and again DI CORAGGIO NON SI MUORE for Renato zero’s Fonopoli (1996) – gave him a successful comeback and he ended his life in poverty in 2002. Therefore, if we consider that his artistic production began well before the introduction of the term “singer-songwriter”, coined in 1960 by the record company RCA to promote some of his singers, it is easy to understand that Bindi was an artist who helped build that idea of the songwriter that today would relegate him to the margins of this category, rather than to have adapted to it. The term was born for a collective project called “I Cantautori”, a travelling show where the artists were united by writing “non stupid” lyrics and songs that had “a meaning and a purpose.” Bindi is one of the forerunners of these ambitions, even if he is not the author of the lyrics of his songs, but he will make good use of important collaborations (first of all with Giorgio Calabrese). Umberto Bindi in una cartolina promozionale del 1960. Ci compreremo una nuvola in ciel per festeggiare la luna di miel, sotto un cartello ricamato con scritto “riservato” andrem a zonzo per il ciel. D’altra parte, né Nanni Ricordi (che lanciò Bindi per primo fra i nuovi “genovesi”), né i suoi colleghi e omologhi alla Rca Italiana dovevano avere ben chiaro che fare dei giovani talenti che gli erano capitati per le mani: semplicemente, in Italia, mancavano modelli (interpretativi, ma anche di marketing) a cui rifarsi. Molti racconti di quel periodo (ad esempio, Cesare Romana e Liliana Vavassori, Il mio fantasma blu – Gino Paoli si racconta, Sperling & Kupfer, Milano, 1996) sottolineano il clima di “sperimentazione”, e citano la possibilità di “sbagliare” concessa ai nuovi artisti come determinante nella formazione degli stili personali. Si cita spesso, in questa fase della storia dei cantautori, 51 The term “singer-songwriter”, and then, beyond a purely ‘technical’ information which seems to suggest, assumes from the very first moment a connotation of intelligence, artistic refinement, of an alternative to the commercial song, of which Bindi is the undisputed champion until the decisive success of Paoli with La gatta, as the critics immediately recognized in their reviews. A new type of song and its models from abroad Many of the early songs by Bindi are “commercial” products they are difficult to relate to the classical model of the songwriters of the “scuola genovese” (i.e. I trulli di Alberobello, presented at the festival of Sanremo 1958). The tracks are built around refined orchestrations, that do not cede to any cliché neither in the content nor in the style. On the other hand, neither Nanni Ricordi (who first launched Bindi among the new “Genovesi”), nor his colleagues and counterparts at the Italian RCA had to be clear about what to do with the young talents that they had in their hands: basically, in Italy, there were no models (interpretative, but also in marketing) to refer to. At that time there was a spirit of “experimentation” that in part justifies the mistakes made by new artists in forming their own personal style. In the first songs recorded by the new songwriters it is evident the recovery of the American models in vogue in those years, rather than the French taste (well expressed in the lyrics, instead). Even Bindi – in spite of a greater harmonic variety – at first fell in many of these schemes, and on his debut he was firmly placed within the “pop” world. Arrivederci is – according to Sorrisi e canzoni – the best-selling album of 1959, and its author and interpreter was seen as a champion of the new music youth, like the so-called urlatori (T.N. screamers), both representatives of an opposition “institutionalized” by the recording industry to the traditional Italian song, although acting with different means. The songwriter as an artist The articles on Bindi that appeared on the newspapers between 1959 and 1960 put the emphasis on his “artistry” as the ability to write his own songs with musical 52 l’influenza francese. Questa fu decisiva, a ben vedere, innanzitutto nel senso di una fascinazione, di un guardare alla Francia, nel desiderio di avere una propria tradizione di canzone artisticamente significativa sul modello di quella d’Oltralpe. Non è forse un mero dato aneddotico, dunque, che buona parte degli articoli di lancio di Bindi si premurino di farci sapere che è figlio di padre francese – collegando talvolta esplicitamente questa origine con lo stile delle sue composizioni… I richiami all’immaginario dell’esistenzialismo (un esistenzialismo piuttosto di maniera, in verità), ad una Parigi decadente di café-chantant, al cinema francese sono peraltro all’ordine del giorno anche nella costruzione dell’immagine di Gino Paoli, e in maniera decisamente più esposta. In realtà, la cosa che più salta all’orecchio ascoltando i primi brani incisi dai nuovi cantautori è piuttosto la smaccata ripresa dei modelli americani in voga in quegli anni, più che un qualche gusto francese (ben espresso nei testi, invece). A partire dal sempre citato “giro di do” di Paoli, che si può ascoltare in decine di canzoni rock and roll del tipo “teen angel milksap” (la definizione è in Popular music. Da Kojak al Rave di Philip Tagg, Clueb, Bologna, 1994, p. 236), per lo più a tema amoroso e giovanile, e per un pubblico giovanile. Anche Bindi – pur in una maggiore varietà armonica – ricade dapprincipio in molti di quegli schemi, compreso l’immancabile terzinato di accompagnamento, che sarà stigmatizzato pochi anni dopo nel classico Le canzoni della cattiva coscienza (Michele L.Straniero-Emiio Jona-Sergio Liberovici-Giorgio De Maria, Bompiani, Milano 1964) come epitome della canzonetta “gastronomica”. Lo stesso libro non risparmia, peraltro, taglienti giudizi proprio su Bindi, uno dei pochi cantautori a guadagnarsi una citazione con Arrivederci. Bindi, a dispetto dell’immagine che se ne è tramandata, è dunque al suo esordio collocato ben saldamente all’interno del mondo “pop”. Arrivederci è – secondo Sorrisi e canzoni – il disco più venduto del 1959, e il suo autore e interprete è trattato di conseguenza: come un campione della nuova musica giovanile; al pari, cioè, dei cosiddetti urlatori. La distinzione fra i nuovi “cantanticompositori” e gli urlatori non appare così netta, in questa fase: entrambi rappresentano una opposizione – “istituzionalizzata” dall’industria discografica – al sistema tradizionale della canzone italiana, sebbene agiscano con differenti mezzi. Non stupisce più di tanto che in un “musicarello” uscito all’inizio del 1960, Urlatori alla sbarra (film diretto da Lucio Fulci), Bindi compaia come personaggio secondario a fianco dei grandi divi Mina e Celentano; c’è anche Chet Baker, che esegue proprio Arrivederci in una scena d’amore. Eppure, Urlatori alla sbarra già contiene indizi tanto dell’inadeguatezza dei nascenti cantautori in quel contesto, quanto della nuova idea “promozionale” che sarà alla base della loro affermazione, e dell’ideologia del genere così come la conosciamo oggi. Il personaggio di Bindi nel film non parla, è significativamente soprannominato “Agonia” ed è oggetto di scherzi da parte dei suoi amici più dinamici e vitali (fra cui un iperattivo Gianni Meccia). Una buona metafora. Il cantautore come artista In effetti, gli articoli di presentazione di Bindi sui giornali fra il 1959 e il 1960 spingono su alcuni punti chiave che si riveleranno decisivi. L’artisticità, di cui si è detto, è vincolata in parte al fatto che Bindi scrivesse i propri brani, o al riconoscimento di rimandi musicali al repertorio eurocolto (soprattutto per Il nostro concerto e la sua introduzione strumentale, inusitata per l’epoca). Ma si collega anche, e forse anche di più, ad altre decisive “marche” di autenticità, come la novità nell’uso della voce, la “sincerità” dell’interpretazione, il non essere un professionista della musica e – non da ultimo – una certa prossemica – o posa – “da vero artista” (o da “vero musicista”). Con alcune trovate che insistono sul modello dell’artista come “disadattato”, inadatto alle costrizioni della società e dell’industria, e un po’ naïf: È vero che Umberto Bindi non riesce a cantare se non si accompagna al pianoforte, tanto che quando deve incidere un disco con l’orchestra, ha bisogno di una tastiera muta (“È vero”, in Sorrisi e Canzoni, 20 dicembre 1959, n. 51, p. 21). Le foto pubblicitarie e le copertine dei dischi rinforzano questo tipo di immagine. La pubblicità a tutta pagina di È vero/Luna nuova sul Fuji-Yama che esce – ad esempio – su Musica e Dischi a partire dal febbraio 1960 è una foto in bianco e nero (significativo, in mezzo a pubblicità stampate, come minimo, in bicromia) che ritrae Bindi a figura intera, mentre cammina in un parco, da solo e con sguardo perso. Altrove è colto mentre suona il pianoforte (sulla copertina dell’Lp UMBERTO BINDI, LA SUA VOCE, IL SUO PIANOFORTE, LE SUE CANZONI, Ricordi ERL 126), o mentre scrive (presumibilmente) su un pentagramma Copertina del 33 giri UMBERTO BINDI del 1961, il suo primo album. Grafica di Daniele Usellini. 53 Dall’alto in basso copertine di due 45 giri: Noi due del 1961 (grafica di Pizzorno). Riviera del 1961 (grafica di Daniele Usellini). (sulla copertina di UN GIORNO, UN MESE, UN ANNO, Ricordi ERL 151). Questo tipo di iconografia del cantautore, che ha in Paoli un esempio anche migliore, sembra essere destinata a sostituire un’altra strada tentata nello stesso periodo: quella del cantautore “simpatico”, alla Gaber, o alla Meccia, raffigurato mentre fa smorfie, scherzi, in pose strane o location curiose. Ma è la voce, soprattutto, a guidare l’identificazione di Bindi come primo esponente di una nuova tendenza. Così ad esempio nel lungo pezzo di presentazione, già citato, che Rodolfo d’Intino gli dedica nel 1959 su Sorrisi e Canzoni, recensendo la sua presentazione alla stampa in un night di Roma. Ecco una voce veramente nuova Umberto Bindi è stato definito “la voce che sconvolge”. È diventato cantante per un puro caso: due mesi fa presentò a una casa musicale le sue composizioni. Il maestro Boneschi, presente all’audizione, lo consigliò di cantare lui stesso le sue canzoni. […] Bisognerebbe mettersi d’accordo sulla parola “cantare”: in effetti le canzoni di Umberto Bindi sono un cocktail di parole, di grida, di silenzi, di musica, di sguardi, di gesti. La sua preoccupazione non è l’acuto, non è la “modulazione pastosa” (Rodolfo d’Intino, “Ecco una voce veramente nuova”, in Sorrisi e Canzoni, 24 maggio 1959, n. 21, p. 20). E così, retrospettivamente, un critico su Discoteca, ricordando (forse) il medesimo spettacolo: […] quella sua voce agra, ruvida, acerba, quasi sdrucita e lacera, produsse […] un effetto straordinario sul pubblico che gremiva la sala e che certo non s’aspettava una prova così originale (R.G., recensione a Umberto Bindi, Ricordi MRL 6012, in Discoteca, gennaio 1962, p. 52). 54 Ripensata oggi, Bindi è la decisiva figura di passaggio nello sviluppo della vocalità della canzone italiana. Sebbene la sua voce non sia la tipica voce da tenore leggero che dominava nei decenni precedenti, è comunque lontana dall’essere una “voce da cantautore” come la intendiamo oggi. Non è una voce “stonata” alla Paoli; riprende, piuttosto, alcuni birignao di Modugno (ad esempio, una certa chiusura delle “o”), ma con una minore impostazione attoriale. Se il modello di partenza era – come è ragionevole, e come la struttura e le armonie delle canzoni sembrano suggerire – un certo tipo di interpretazione da ballad alla Nat King Cole, la sua applicazione alla lingua italiana non sembra essere Bindi al pianoforte. (Foto Leoni) così lineare nelle prime prove di Bindi, ad esempio in Arrivederci. Il risultato è che, non venendo da un’impostazione lirica, e soprattutto quando si trova a dover “timbrare” la voce (specie nel registro acuto), Bindi sforza e deforma le “o”, le “e”. L’impressione è quella di una voce “naturale” che cerca in ogni modo di suonare come una voce “da cantante”5. Può essere anche utile confrontare questa interpretazione con quelle di Sergio Endrigo (che era invece un cantante di professione) all’inizio della sua carriera, tanto nel suo esordio come cantautore (Bolle di sapone/Alle quattro del mattino, Tavola Rotonda, T 70001, 1960) quanto nelle incisioni con il complesso “da night” di Riccardo Rauchi: emissione potente, leggermente impostata, con vibrato, ma che suona decisamente più “naturale” di quella di Bindi. Per capire al meglio la questione della “naturalezza” della voce di Bindi nel 1959, basta confrontare la sua versione di Arrivederci con quella incisa nello stesso anno da Don Marino Barreto Junior, che la portò al successo. Nonostante l’accento cubano, la versione di Barreto suona decisamente più “naturale”: è references to the “euroeducated’ repertoire and the authenticity of a new use of the voice, the “sincerity” of his interpretation and a certain proxemics – or pose – like “a true artist” a kind of “misfit”, unsuitable to the constraints of society and industry, and a bit naïve. Even the publicity photos and covers of the discs will contribute to strengthen that picture. This type of iconography of the singer seems to be intended to replace another road attempted in the same period, that of the “endearing” singer-songwriter, like Gaber. But it is the voice, above all, the guide to the identification of Bindi as the first representative of a new trend, a harsh, rough, unripe voice that captivates the audience with its originality. It is a voice built thinking of Nat King Cole, but that at the beginning, 55 Bindi nel 1980. (Foto Publifoto) 56 when Bindi was not yet a professional singer, sounded quite unnatural. It is right on the “naturalness” that he will work to give credibility to his interpretations, taking example from the version of Arrivederci recorded by Don Marino Barreto junior, that led it to success, despite his Cuban accent. And this is the prototype on which the interpretations of songwriters will take shape - including the subsequent Bindi: clean interpretation, no drawl and forcing, which expands and slows down. Bindi isn’t therefore, in this passage, different from anyone. On the contrary, the others tend to be like him, sometimes imitating him, and then each developing their own independent artistic path, each with their own peculiarities. Be marginalized or discriminated against, or stood on the side on purpose, or be that his work has run out: nothing can downsize the weight Umberto Bindi had in that invention called ‘singer-songwriter’, which still acts as a protagonist of every day in our music. un’interpretazione da crooner, quasi a mezza voce. È questo, paradossalmente, il prototipo su cui si modelleranno le interpretazioni dei cantautori, compreso il Bindi successivo. Bindi incise due versioni di Arrivederci. La prima è quella sopra descritta, con le “e” e le “o” chiusissime e un arrangiamento ritmato e terzinato (per clavicembalo, contrabbasso, pianoforte e batteria). È inclusa sull’ep del 1959 LA SUA VOCE, IL SUO PIANOFORTE, LE SUE CANZONI (Ricordi Erl 126), e sul singolo dello stesso anno (Ricordi SRL 10029; da matrice, risulta incisa il 24 marzo). L’altra, successiva alla versione di Marino Barreto, risale al 3 maggio del 1960, ed è inclusa nel primo lp di Bindi, BINDI E LE SUE CANZONI.6 Un pubblico diverso (45 giri contro lp), aspettative diverse per, infine, un genere diverso: la band sparisce e lascia spazio al solo piano. Il terzinato rimane di sfondo come figura ritmica del pianoforte, ma l’interpretazione si fa pulita, senza birignao e forzature, si dilata e si rallenta, fino a durare oltre un minuto in più. Una versione “da cantautore” (o da Marino Barreto…), infine. La distanza fra le due versioni di Arriverci simboleggia bene il passaggio che porterà, di lì a pochi mesi, alla definitiva esplosione dei cantautori come nuovo fenomeno della canzone italiana. Questo è il momento chiave per capire come una serie di caratteristiche “nuove” siano state razionalizzate come coerenti e, poco a poco, siano divenute tipiche di un nuovo genere musicale. Bindi non è, in questo passaggio, diverso da nessuno. Umberto Bindi alla fine degli anni Novanta. (Foto Leoni) Sono piuttosto gli altri ad essere simili a lui, talvolta imitandolo, e sviluppando poi ognuno il proprio autonomo percorso artistico, ognuno con le sue peculiarità. La parabola artistica di Bindi è piuttosto corta: resterà sempre, fino alla morte, l’autore di Arrivederci e Il nostro concerto. Che sia stato emarginato o discriminato, che si sia messo ai margini da solo, che la sua vena si sia esaurita: nulla può ridimensionare il peso avuto da Umberto Bindi in quell’invenzione sociale chiamata “cantautore”, che ancora oggi agisce da protagonista di tutti i giorni nella nostra musica. NOTE 1 Fra le eccezioni: Umberto Bindi, di Michele Neri e Franco Settimo, Coniglio Editore, Roma, 2011. 2 I dati sulle canzoni, così come quelli discografici riportati in tutto il saggio, sono tratti dalla Discografia Nazionale della Canzone Italiana, http://discografia.dds.it. 3 Sorrisi e canzoni, 7 agosto 1960, n. 32, p. 12. Sul tema dell’origine di «cantautore» si veda Jacopo Tomatis, “Vorrei trovar parole nuove”. Il neologismo “cantautore” e l’ideologia dei generi musicali nella canzone italiana degli anni Sessanta, in Iaspm@Journal, vol 1. n. 2, 2010, iaspmjournal.net. 4 Con la necessaria avvertenza che è sempre difficile, soprattutto in questo periodo e in Italia, capire quanto gli autori secondari registrati corrispondano agli autori reali. 5 Stessa impressione che ad esempio darà, nel 1961 (la data è corretta, contrariamente a quanto riportato da molte discografie) Nuvole barocche di Fabrizio De André, la cui interpretazione pare riprendere quella di Arrivederci. 6 Ringrazio Franco Settimo per l’aiuto decisivo nel ricostruire questa cronologia. 57