CAPITOLO PRIMO ARTICOLAZIONI STORICHE DELLA

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CAPITOLO PRIMO
ARTICOLAZIONI STORICHE DELLA PSICOLOGIA CLINICA
Sommario: 1. Definizioni di psicologia clinica. - 2. Le origini della psicologia clinica.
1. DEFINIZIONI DI PSICOLOGIA CLINICA
Nell’ambito della cultura psicologica esiste una profonda scissione
che porta a contrapporre la psicologia sperimentale a quella applicativa
o, in altri termini, la psicologia di base a quella clinica. Yates ancora nel
1970 ironizzava sul fatto che la formazione in psicologia clinica fosse
fondata sui «sistemi teorici principali e su conoscenze empiriche di base
(che sono molte più di quel che non si dica) sulla sensazione, sulla percezione, sull’apprendimento, sulla motivazione ecc.» che di fatto non
trovavano utilità nel mondo della clinica psicologica, ovvero nell’elaborazione e nella descrizione degli interventi sull’individuo. Questa posizione provocatoria sembra essere il presupposto di una riflessione molto
più obiettiva riguardo alla professione clinica. Egli riscontra infatti che
gli psicologi clinici, piuttosto che valorizzare le proprie competenze specifiche e operare come degli specialisti, «troppo spesso sono felici di
assumere un ruolo di pseudopsichiatra, lusingati dalla luce riflessa e dallo
status della professione medica». Individuare invece gli ambiti della
psicologia clinica, definendone un dominio di applicazione, e le sue
modalità d’intervento, descrivendone gli scopi e le tecniche riabilitative
oppure gli strumenti diagnostici o di ricerca per la valutazione degli interventi stessi, sembra essere un buon punto di partenza per sistematizzare i saperi che convogliano in questo ramo di studio e di applicazione
e articolarli in una «teoria della tecnica» formale. Definire in maniera
esaustiva che cos’è la psicologia clinica risulta una questione attualmente
ancora aperta. Tuttavia, una panoramica sui tentativi che sono stati compiuti per farlo può chiarirci le idee riguardo a questa disciplina così complessa e versatile.
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Capitolo Primo
A) Nella presentazione del primo numero della rivista «Psychological
Clinics», redatta da Witmer nel 1912, si riscontra la prima possibilità di
chiarire, mediante gli elementi necessari, l’oggetto di studio e i metodi della
psicologia clinica. Vi si legge, infatti:
«I metodi della psicologia clinica sono necessariamente richiesti ogniqualvolta lo stato di
una mente individuale venga determinato mediante osservazione ed esperimento, ed un trattamento pedagogico sia applicato per produrre un cambiamento, cioè lo sviluppo di tale mente».
Da subito quindi l’attenzione della psicologia clinica sembra rivolta all’indagine sul singolo attraverso una metodologia scientifica. Il suo obiettivo primario è rintracciabile nella conoscenza dell’individuo relativamente
ai suoi meccanismi psichici e all’organizzazione interrelazionale che lo contraddistingue, al fine di operare, sulla base di questo supporto stabile, in
termini pedagogici sul soggetto stesso. L’intervento sull’individuo è concepito, quindi, come una prassi trasformativa volta a sviluppare facoltà utili o
necessarie per la messa in scena di potenzialità coartate non meglio specificate. A mettere a fuoco i motivi che spingono ad una richiesta di cambiamento, ovvero a chiarire quali fossero quelle aspecifiche potenzialità, delle
quali parlava Witmer, ancora prive di un campo d’azione riscontrabile nell’oggettività degli eventi, ci pensò Woodworth venticinque anni più tardi.
Egli riscontrò nell’esigenza di risolvere problemi di varia natura come quelli educativi, di orientamento professionale, di adattamento familiare e sociale, di condizioni lavorative e così via, il ricorso allo psicologo clinico,
esperto nel «fornire assistenza». Evidente rimane l’aspetto applicativo del
lavoro di questa figura professionale e la sua connotazione pedagogica, portatrice di un orientamento che agisce al di là della psicopatologia.
Lightner Witmer, nato nel 1867, fu allievo e successore di Cattel all’università di Pennsylvania. In seguito al suo ritorno dall’Europa, dove aveva intrattenuto relazioni scientifiche con
Wundt, nel 1892, insieme a George Stanley Hall, William James, George Ladd, James Mc
Keen Cattel, è tra i membri fondatori dell’American Psychological Association (APA). Nel
1896, durante il convegno dell’APA tenuto a Boston, per primo utilizzò le espressioni psicologia clinica e metodo clinico in psicologia. Nello stesso anno fondò la prima clinica psicologica, che doveva servire alla diagnosi e alla formulazione di modalità terapeutiche per il
recupero di funzioni psicologiche nei giovani scolari con problemi di sviluppo. Cominciò ad
orientarsi nell’ambito dello studio dei «bambini difficili» in America, sollecitato da Seguin,
allievo di Itard, famoso come il medico che curò il ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Seguin
riteneva che i disturbi dello sviluppo non dipendessero necessariamente da un cattivo funzionamento cerebrale ma fossero recuperabili agendo sul comportamento del soggetto.
Articolazioni storiche della psicologia clinica
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B) Nel 1919 l’APA (American Psychological Association) istituì una
Sezione Clinica che, nel 1935, stabilì le norme per la formazione e l’esercizio della professione in psicologia clinica, proponendone una definizione il
cui orientamento appare centrato globalmente sul versante applicativo. Inquadrava il suo intervento sull’individuo al fine di facilitarne l’adattamento
in casi non obbligatoriamente compromessi a tal punto da sfociare nella
psicopatologia. Anche se era stato esaltato il versante applicativo di questa
disciplina, rimanevano ancora oscure le forme peculiari dell’intervento clinico. Non erano esplicitate né le tecniche di intervento ai fini diagnostici né
gli interventi volti al sostegno e al cambiamento. Vi si legge:
«La psicologia clinica è una forma di psicologia applicata che mira a definire le capacità e
le caratteristiche comportamentali degli individui attraverso metodi di misura, analisi e osservazione; e che, sulla base di un’integrazione di questi risultati coi dati ricevuti da esami fisici e
anamnesi sociali, fornisce suggerimenti e raccomandazioni per un appropriato adattamento
degli individui».
Successivamente le definizioni di psicologia clinica hanno continuato a
mostrarne e in alcuni casi descriverne gli scopi degli interventi; il dominio
di applicazione ovvero la tipologia dei problemi su cui interviene; gli strumenti e le ricerche di valutazione dei propri interventi; le tecniche riabilitative o trasformative e, infine, i casi clinici che costituiscono lo spunto di
riflessione per intravedere nuovi contenuti.
C) Anche Kendall e Norton-Ford nel 1991 individuano nelle questioni
di adattamento dell’individuo, inteso come caso individuale cioè non esclusivamente rappresentato dalla persona singola ma anche da gruppi come la
famiglia o le organizzazioni, l’oggetto di studio e di intervento della psicologia clinica. Considerata, come già in passato era stato evidenziato, nella
sua veste applicativa che si serve di leggi e di tecniche derivanti dalla ricerca sperimentale per spiegare i comportamenti individuali, ipotizzare interventi per il cambiamento e valutarne l’esito. La novità proposta risiede nella
puntualizzazione in merito alle modalità di applicazione, le cui basi d’appoggio vengono individuate semplicisticamente nella psicologia sperimentale. Proprio questo risulta essere il nodo spinoso delle loro concettualizzazioni.
D) Come esplicitano Carli nel 1993 e Rossi nel 1994, il sapere della
psicologia clinica non si esaurisce in quello conseguito dalla ricerca spe-
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Capitolo Primo
rimentale ma deriva anche da un metodo di ricerca proprio della psicologia clinica denominato metodo storico-clinico. La ricerca sperimentale si
serve dell’osservazione del comportamento individuale come mezzo conoscitivo. Tale osservazione deve avere quanto più possibile caratteristiche di neutralità, vale a dire che deve essere protetta da distorsioni nel
comportamento del soggetto e nelle osservazioni del clinico. Per il metodo scientifico, inoltre, il comportamento può essere spiegato a partire da
leggi generali; l’interpretazione dei fatti è affidata al modello ipoteticodeduttivo. Il metodo storico-clinico o storico-motivazionale, contrariamente
al precedente, considera il coinvolgimento tra clinico e individuo una risorsa conoscitiva ineludibile purché rientri nella famosa dinamica di coinvolgimento-distanziamento dove l’osservatore tiene alta la soglia dell’attenzione nei confronti dei propri stati interni. Tale metodo ritiene che i
comportamenti possano essere interpretati sulla base del significato che
assumono per il soggetto in relazione al contesto a cui sente di appartenere e l’interpretazione assume la forma di una narrazione che, sulla base di
leggi generali estrapolate dalle teorie del funzionamento psichico, a sua
volta diventa, per astrazione tipico-ideale, caso clinico, cioè storia tipica.
Trombini nel 1994 mette a fuoco un aspetto importante riguardo al dominio di applicazione della psicologia clinica; anch’egli lo riconosce nei problemi di adattamento dell’individuo ma aggiunge alla dimensione oggettiva di quest’ambito quella soggettiva, introducendo in questo modo i concetti di malessere e sofferenza come variabili primarie dell’indagine clinica. Attualmente si può concludere che definire la psicologia clinica in
termini di dominio e modalità di applicazione è riduttivo; a tal proposito
Carli offre, insieme ai suoi collaboratori, la possibilità di rispondere al
problema di individuare la specificità della psicologia clinica. Viene definita come la «teoria della tecnica riabilitativa e psicoterapeutica», implicitamente preventiva. Questa posizione integra aspetti applicativi, teorici
e di ricerca, conferendo alla psicologia clinica il compito di elaborare specifiche teorie dell’intervento riabilitativo e terapeutico che possano essere
valutate empiricamente in merito alla loro efficacia; che possano essere
costruite sulla base di tutte le dimensioni psicologiche:
— psicodinamica,
— psicobiologica,
— psicopatologica;
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e che si servano nelle proprie procedure applicative di tutti gli strumenti e le
tecniche che la psicologia propone, in un’ottica di armonia interna che definisca inequivocabilmente la relazione terapeutica in termini di spazio e tempo
trasformativi, volti alla costruzione di un cambiamento che valorizzi la dimensione del benessere psichico del soggetto-paziente o del soggetto-cliente.
2. LE ORIGINI DELLA PSICOLOGIA CLINICA
Il filosofo francese Michel Foucault riscontra nel concetto di cura di
sé, risalente ai filosofi a ai moralisti ellenistici di Roma imperiale, il terreno
fertile per lo sviluppo della cultura psicologico-clinica. L’aggettivo clinico
deriva greco kliné (letto) e indica le attività che il medico svolge al letto del
malato. La psicologia clinica, quindi, a partire dalla stessa etimologia delinea la sua destinazione alla malattia e alla sofferenza. Il termine clinico tra
Medioevo e Rinascimento si riferiva alle scuole di medicina che formavano
i nuovi medici attraverso l’osservazione diretta del malato. Alla fine del
Rinascimento nascono le prime cliniche che raccolgono pazienti appartenenti alle stesse categorie patologiche, in modo da valorizzare le possibilità
pedagogiche per gli studiosi intorno alla malattia. Il termine, dunque, è da
subito relativo ad un metodo di indagine della realtà che si instaura all’interno della relazione medico-paziente. Alla fine del Settecento, con le riforme
successive alla rivoluzione francese e la diffusione del riformismo sociale e
del filantropismo, nacquero numerosi ospedali pubblici, luoghi oltre che di
ricovero anche di formazione e ricerca medica. In questo clima, Tuke in
Inghilterra, Todd in America, Pinel in Francia avviarono il processo di riforme che condusse alla liberazione dei folli e all’istituzione degli ospedali
psichiatrici. Pinel, insieme al suo allievo Esquirol, creerà le prime categorie nosografiche dei disturbi mentali. In quest’ambito, più tardi, rilevante
sarà il contributo di Emil Kraepelin con il suo capillare studio di innumerevoli pazienti provenienti da diverse parti del mondo.
Il lavoro di Kraepelin (1855-1926), psichiatra tedesco, consistette nell’affrontare in maniera organizzata, sistematica e scientifica lo studio delle varie disfunzioni mentali. Si basò su
una raccolta di dati molto attenta e prolungata nel tempo oltre che su dettagliate registrazioni. La peculiare osservazione di diversi casi clinici, infatti, gli permise di elaborare una
accurata classificazione dei disturbi psichici. Egli riteneva che attraverso l’osservazione
scientifica di individui afflitti da disagio psichico fosse possibile estrapolare modelli di
complessi di sintomi e presumeva che, una volta stabiliti e definiti tali complessi, o sindro-
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Capitolo Primo
mi, si potessero cercare una causa specifica o una serie di cause del problema. Nel 1896
definì per primo il complesso dei sintomi schizofrenici sotto l’espressione «dementia praecox». Il suo lavoro, presentato nelle opere Manuale di psichiatria e Introduzione alla
clinica psichiatrica, rispettivamente del 1883 e del 1901, si integrò a tal punto con lo sviluppo della psichiatria descrittiva che tutt’oggi influenza decisivamente la psichiatria contemporanea.
Il concetto di clinica in psicologia ha assunto un significato diverso rispetto a quello della tradizione medica; le radici storiche della psicologia
clinica si riscontrano principalmente in due tradizioni della psicologia scientifica nata in Europa a cavallo tra XIX e XX secolo, quella psicometrica e
differenziale e quella psicodinamica. Attratto dai lavori del belga Quételet
e durante il lavoro condotto da Wundt a Lipsia, Galton attivò nel 1884 a
Londra un laboratorio antropometrico per la misurazione di processi psicologici elementari. Nel 1890 per la prima volta Cattel introdusse il concetto
di test mentale, e intraprese uno studio su larga scala delle differenze individuali in fenomeni psicologici molto circoscritti come la percezione del dolore, del peso, dei colori ecc. La tradizione psicometrica comincia ad avere
una certa diffusione in America proprio grazie a lui a prescindere dal terreno fertile, giacché il taglio della psicologia americana è stato sempre applicativo. Binet e Henri criticarono aspramente il metodo differenziale elaborato da Galton e da Cattel perché incapace di effettuare previsioni sulla riuscita scolastica o lavorativa dei singoli individui. Puntarono l’attenzione sulle
capacità psicologiche superiori degli individui. Nel 1905 Binet propone la
prima scala per la misurazione delle capacità intellettive, avviando, in questo modo, la tradizione dell’uso dei test diagnostici in psicologia clinica.
Alfred Binet nacque nel 1857 a Nizza. Il suo studio si orientò verso la biologia e la medicina, specializzandosi nella psicologia pedagogica. Nel 1905 elaborò con Simon una scala di
misurazione dell’intelligenza, primo prototipo dei test mentali, la «scala Binet-Simon»,
che fornirà le basi per l’odierno test per la misurazione del quoziente intellettivo. Nel 1894
Binet aveva condotto uno dei primi studi psicologici sul gioco degli scacchi, analizzando le
abilità cognitive dei più bravi giocatori. Nello stesso anno esce il suo libro Introduzione
alla psicologia sperimentale. Nel 1895 fonda la prima rivista francese di psicologia, «Anneé Psychologique». Nel 1904 Binet fece parte di una commissione nominata dal ministero
della Pubblica Istruzione Francese affinché studiasse nuovi metodi per l’educazione dei
bambini con ritardo nello sviluppo intellettivo. La prima questione riguarda l’individuazione dei bambini mentalmente limitati. Binet elabora quindi una prima scala metrica, composta da una serie di trenta problemi, che puntavano a fornire una valutazione di alcuni
aspetti dell’intelligenza, come la capacità di comprensione, la capacità di ragionamento
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logico e la capacità di giudizio. Uno dei concetti fondamentali che introdusse è quello di
età mentale. La misura del ritardo mentale per Binet corrispondeva alla differenza tra l’età
mentale del bambino e la sua età cronologica. Naturalmente un ritardo di 2 anni a un’età di
5 indicava un limite intellettivo molto serio, mentre le stesso ritardo in un ragazzo di 14
anni rappresentava uno svantaggio più lieve, per questo motivo risultò un metodo poco
pratico e quindi, negli anni tra il 1908 e il 1911, Binet revisionò, sempre con il suo collaboratore Simon, la scala di intelligenza. La scala Binet-Simon nella revisione Stanford del
1916, a cura di Lewis Madison Terman, viene tutt’ora utilizzata, includendo il concetto di
Stern secondo cui l’intelligenza individuale può essere misurata come quoziente di intelligenza (Q.I.). Con tale revisione, la Stanford-Binet Intelligence Scale evolverà nel moderno test di intelligenza. Binet morì a Parigi nel 1911.
In Europa alla fine dell’Ottocento emergevano i modelli psicodinamici
della personalità che ben presto si sarebbero integrati con la psicologia clinica. Il primo a formalizzare modelli sistematici del funzionamento psichico fu Freud. Hall e James, con le conferenze di Freud del 1909, favorirono
l’ingresso della psicoanalisi negli Stati Uniti, dove di lì a pochi anni furono
fondate numerose cliniche psicologiche e molti psicologi vennero contattati
per collaborare con l’esercito americano. Nel 1935 l’APA propone una serie di norme per la formazione in psicologia clinica, che delineano la figura
di un professionista-scienziato con competenze specifiche relative a molteplici interventi in campo diagnostico e psicoterapeutico e alla conduzione
di progetti di ricerca. Già nel 1948 sono una ventina le università americane
con un corso post-lauream per la formazione di psicologi clinici ed un centinaio nel 1975. In Italia i corsi di laurea in Psicologia iniziano nel 1971
nelle città di Padova e di Roma e nel 1982 viene fondata la rivista scientifica
«Psicologia clinica» diretta da Bertini, Canestrari e Carli. Dal 1987 quel
periodico prese in nome di «Rivista di Psicologia Clinica».
GLOSSARIO DELLE DISCIPLINE PSICOLOGICHE
Psichiatria: Il termine è stato coniato in epoca illuministica per designare quella
branca della medicina che si occupa delle malattie mentali. I «disturbi dell’intelletto» sono stati a lungo considerati, e lo sono ancora in alcune forme di civiltà,
come malattie «soprannaturali». Contro tale concezione, la medicina greco-latina e araba avevano da tempo considerata la mania, la malinconia, l’epilessia,
l’isteria e il delirio come «vesanie» di origine naturale e più tardi numerosi teologi difesero, nel Medioevo, questa tesi. Ma, nella stessa epoca e all’inizio del
Rinascimento, la «demonologia» ispirò i peggiori eccessi e si dovettero vincere
grandi resistenze per fare accettare l’idea che le streghe e i posseduti potessero
soffrire di una malattia naturale. Altra difficoltà era quella inerente la natura stessa della malattia mentale, ossia quella di considerarla contemporaneamente come
malattia, ma senza assimilarla tout-court alle affezioni organiche che sono oggetto della patologia generale. È stato pertanto necessario che la patologia mentale
si dimostrasse nella società umana non come un disturbo della vita organica che
minaccia più o meno mortalmente la «vita», ma come una patologia della vita
psichica che minaccia l’uomo nella sua «umanità». Solo nel Settecento, in Francia, Pinel (1793) dettò le prime regole per un trattamento medico razionale dei
malati di mente, fino ad allora reclusi in condizioni disumane, e, con la definizione della malattia mentale in termini medici, liberò il malato mentale dalla sua
condizione di reprobo che la società rinchiude per liberarsi dai devianti che offendono la morale e la ragione. Sempre in Francia, Esquirol (1848) pubblicò un
trattato in cui compare una prima distinzione nosografica tra «pazzi», che dalla
normalità approdano alla follia, e «deficienti mentali» che presentano tratti di
insufficienza fin dalla nascita. Successivamente, in base al presupposto che le
malattie mentali sono determinate da alterazioni cerebrali, si adottarono negli
studi psichiatrici l’osservazione clinica e il metodo anatomo-patologico. Tale impostazione ha portato alla nascita della neuropsichiatria, ossia della scienza che
si basa sul concetto di inscindibilità tra malattia mentale e malattia neurologica.
Nell’Ottocento, oltre all’approccio organicista, nasce quello descrittivo, a opera
soprattutto di Kraepelin, che sottolinea l’importanza di una classificazione delle
malattie mentali sulla base dei sintomi presentati. Sorge in tal modo la psichiatria
clinica, che offre uno schema indispensabile all’osservazione, alla diagnosi e alla
prognosi dei disturbi mentali. Infatti, su tale base, si sono sviluppati gli studi
biologici e anatomo-patologici applicati alla ricerca di substrati neuropatologici
delle malattie mentali. Agli inizi dell’Ottocento, tuttavia, si passò dal livello descrittivo a quello dinamico, dove all’interpretazione organicista della patologia
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Glossario delle discipline psicologiche
mentale si sostituì l’interpretazione psicogenetica, interessata allo studio dei processi e dei meccanismi psicologici che sono alla base dei disturbi mentali. Tale
rivisitazione del concetto di malattia psichica e il maggior peso dato agli aspetti
patogenetici individuali si è operata sotto l’influenza di due grandi movimenti di
pensiero profondamente legati fra di loro. Da un lato, le scoperte fondamentali
della struttura dell’inconscio e del suo ruolo patogeno da parte di Freud hanno
rivoluzionato la psichiatria classica «kraepeliniana». Con questa novità metodologica, dalla psichiatria si separò la psicopatologia, che ha fatto proprio il concetto di malattia come «processo», le cui cause vanno cercate in ambito psicologico
con metodi differenti rispetto a quelli impiegati dalle scienze biologico-naturalistiche. Dall’altro, l’importanza data ai fattori sociali e all’ambiente (storia dell’individuo, relazioni con il gruppo familiare e l’ambiente culturale, reazione alle
situazioni) ha ugualmente portato gli psichiatri di formazione psicoanalitica a
ridimensionare il concetto di malattia mentale. A questa rivoluzione delle idee ha
corrisposto il passaggio, nel campo dell’assistenza, dalla concezione dell’asilo
come luogo dove venivano rinchiuse le forme per così dire ineluttabili di alienazione a quella dell’ospedale psichiatrico o dei servizi di cura aperti come organizzazioni di assistenza destinati a prendersi carico dei malati, la cui evoluzione
era più spesso influenzabile di quanto non si pensasse. Verranno pertanto discussi, di seguito, i principali indirizzi verso i quali si è rivolta la psichiatria nel corso
della sua evoluzione a disciplina autonoma, come è considerata attualmente, pur
restando validi gli stretti legami con altre branche mediche, quali ad esempio la
neurologia.
1) Indirizzo medico-biologico. Questo modello si richiama alla concezione anatomo-cerebrale e fisiologica della malattia mentale dove la malattia, e non la figura
del malato, si configura come obiettivo primario, a partire dalle opere di Griesinger
e Kraepelin che collocano la psichiatria all’interno delle scienze naturali, regolate
dal concetto di causalità lineare. Tale indirizzo, che ancora oggi rappresenta un
importante aspetto della psichiatria, si avvale dei contributi della genetica per il
ruolo dell’ereditarietà della malattia mentale; della neuropsicologia per le correlazioni tra gli aspetti psicopatologici e le alterazioni delle strutture anatomiche; dell’endocrinologia per le modificazioni emozionali e comportamentali dovute ai disturbi della regolazione e della reattività del sistema ormonale; della neurologia per
il rilievo che i fattori biologici hanno, nell’ambito di disturbi degenerativi, infiammatori, tossici, traumatici, neoplastici nella genesi di talune patologie psichiche;
della psicofarmacologia per il contributo dei farmaci nel trattamento dei sintomi
psichiatrici e per il numero significativo di ricerche rese possibili in ambito neurofisiologico. Tale indirizzo ha permesso di riordinare i sintomi in unità sindromiche,
costruite in base alla loro apparenza fenomenica, contribuendo alla costruzione
della clinica e della nosografia psichiatriche.
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2) Indirizzo psicodinamico. Si avvale soprattutto dei contributi offerti dalla psicoanalisi e, più in generale, dalla concezione psicodinamica dell’apparato psichico, che danno maggiore importanza agli aspetti psicologici e interpersonali
rispetto a quelli biologici. Alla base si pone la nozione di inconscio, dove sono
contenute le pulsioni emotive di cui il soggetto non ha coscienza, ma che agiscono dinamicamente sull’espressione emotivo-comportamentale dell’individuo. Il
disturbo psichico viene pertanto riletto in termini di conflitti fra istanze psichiche
diverse che si possono comprendere a partire da una concezione energetica della
vita psichica, con azione e reazione di quelle tensioni biologiche che sono le
pulsioni di fronte ai dati e agli eventi della realtà. Lo scopo della terapia è una
presa di coscienza di tale conflittualità inconscia, con progressivo superamento
attraverso una modificazione dei termini di conflittualità.
3) Indirizzo fenomenologico. In questo ambito i sintomi non vengono più interpretati come indice di malattia, ma viene considerato il senso che l’esperienza
psicopatologica ha nel vissuto soggettivo. Questa corrente, che ha come capiscuola K. Jaspers (psicologia comprensiva) e L. Binswanger (analisi esistenziale), studia la relazione tra mondo interiore, mondo degli altri e mondo-ambiente,
che non sono in un rapporto di causalità lineare, ma nella modalità del circolo
ermeneutico. Tale indirizzo sostituisce alla «spiegazione» della malattia la «comprensione» del malato psichico, riuscendo in tal modo a evidenziare aspetti qualitativi che sfuggono a una analisi quantitativa dell’indirizzo medico biologico.
4) Indirizzo comportamentista. Nasce dalle prime indicazioni della riflessologia
operate da Pavlov e considera il disturbo psichico come derivante da un difetto di
apprendimento, per cui occorre ricondizionare il paziente affinché possa essere
in grado di fornire risposte adattate alla realtà, abbandonando quelle disadattate
apprese in situazioni ansiogene. In tal senso, il disturbo viene ricondotto al sintomo e alla sua risoluzione, escludendo esplicitamente la possibilità di un’indagine
introspettiva che non offre garanzie scientifiche e oggettivabili.
5) Indirizzo cognitivista. Questa corrente parte dal presupposto che l’individuo
operi un’elaborazione mentale della propria esperienza del mondo, analogamente a un sistema informativo in cui i dati ambientali e sensoriali vengono organizzati secondo codici di entrata (input) per l’immagazzinamento e rielaborazione e
codici di uscita (output) per le risposte, ciascuno in grado di esercitare un feedback sugli altri. In tale contesto, il disturbo psichico viene interpretato come l’effetto di un’alterazione cognitiva che si verifica ogni volta che il soggetto sperimenta informazioni che non si accordano con il suo precedente assetto mentale,
con conseguente incongruenza che produce tensione, non altrimenti risolvibile
se non con una ristrutturazione del proprio campo cognitivo.
6) Indirizzo sistemico. Deriva dagli studi della scuola di Palo Alto, in particolare
da Bateson e Watzlawick, e considera il singolo individuo come originariamente
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Glossario delle discipline psicologiche
inserito in un sistema di comunicazione, dove, come in ogni sistema, vigono i
criteri della totalità, per cui la parte può essere compresa solo a partire dal tutto,
della retroazione: l’attività di ogni singolo elemento influenza ed è influenzata
dall’attività di ogni altro elemento, e dell’equifinalità, in base alla quale ogni
sistema è la miglior spiegazione di se stesso perché i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni da cui esso ha tratto origine. Ne consegue che la spiegazione del disturbo psichico non va cercata nel passato, ossia in dati che non appartengono al sistema, ma nei parametri e nelle regole che appartengono al sistema stesso, che può essere modificato dall’intervento terapeutico. Esso infatti interviene, attraverso la comunicazione, a modificare l’altro sistema rappresentato
dal paziente, dalla famiglia, dal gruppo o dalla comunità, mediante quell’area di
contatto dove i due sistemi entrano in relazione.
7) Indirizzo sociologico. Questo indirizzo pone l’accento sul rapporto tra problematiche psichiche e fattori sociali. Si basa sulla teoria interpersonale della psichiatria ideata da Sullivan e si è sviluppata da Baruk, che ha studiato l’influenza
della vita collettiva sui disturbi psichici individuali, oltre ai disturbi tipici di una
società che si ripercuotono sui singoli individui. Parallelamente, si sono delineati
tre ordini di studi, che vanno sotto il nome di psichiatria sociale: i processi di
desocializzazione individuale, le correlazioni tra disorganizzazione sociale e disorganizzazione individuale e le relazioni fra le malattie mentali e determinati
fatti etnici o socio-ambientali, quali la stratificazione in classi, la struttura della
famiglia, le particolari forme religiose, oltre il problema relativo alla trasferibilità dei quadri nosologici della psichiatria occidentale ad altre culture.
8) L’antipsichiatria. Tale movimento ha rappresentato un importante fenomeno
negli anni Sessanta, in America con Goffman e Szasz e in Italia con Basaglia, che
ha contribuito a una riorganizzazione dell’impostazione della psicopatologia e
dell’assistenza psichiatrica, col rifiuto della concezione manicomiale e di ogni
trattamento coatto, partendo dal presupposto che i disturbi mentali non possono
essere curati come si curano le malattie dell’organismo, poiché nella maggior
parte dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Una concezione esclusivamente sociogenetica delle malattie psichiche comporta pertanto l’affermazione del carattere ideologico e politico della psichiatria classica.
Psichiatria d’urgenza: La definizione più accettata di urgenza in psichiatria è una
situazione di sofferenza psichica acuta e grave che richiede un trattamento immediato. Esistono quindi un elemento descrittivo e nosografico (l’acuzie), un
elemento prognostico (la gravità) e un elemento terapeutico (necessità di un trattamento immediato). Alcuni autori, accanto alle situazioni psicopatologiche, hanno
introdotto ulteriori elementi, come la perdita di tolleranza da parte dell’ambiente,
l’interpretazione soggettiva del medico, nonché la presenza di molteplici fattori
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