La Massoneria - RC Milano Naviglio Grande San Carlo

SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Rotary Club
Milano Naviglio Grande San Carlo
Distretto 2040 - Italia - Anno rotariano 2012/2013
SCHEDA
“La Massoneria”
di Giuseppe Calogero
25 settembre 2012
Argomento della Relazione
Titolo:
La Massoneria.
Contenuto:
In Italia la Massoneria è stata sempre oggetto di sospetti, dubbi, inchieste giudiziarie, inchieste
parlamentari, tutte conclusesi in nulla di fatto. Perché? Nell’intervento si cerca di spiegare le
ragioni di questo sospettare tutto italiano su di un’Istituzione iniziatica mondiale che esiste
ufficialmente dall’inizio del 1700, e che ovunque nel mondo è stimata e rispettata.
L’intervento comincia con l’illustrare che cosa è effettivamente l’Istituzione Massonica,
quando è nata e perché, ne spiega i significati e gli scopi, che si traducono in una catena
iniziatica che ne garantisce la regolarità, ossia la validità e la serietà d’intenti, ovunque esista
una Loggia massonica regolare.
Si illustra il significato di “iniziazione” e di “segreto massonico”.
L’intervento spiega che cosa unisce i Massoni a livello mondiale, quali sono gli ideali
massonici e che cosa fanno i Massoni quando si riuniscono nella pace delle loro Logge.
L’intervento spiega le ragioni, tutte italiane, della strisciante avversità contro la Massoneria
esistente nel nostro Paese.
Breve Curriculum professionale del relatore Giuseppe Calogero
Nasce nel 1928 a Napoli, dove segue gli studi classici.
Nel 1955, si laurea con lode in ingegneria industriale elettrotecnica con una tesi sperimentale sui
semiconduttori, i precursori della moderna elettronica.
Nel 1956 è assunto da Adriano Olivetti come progettista in un Laboratorio di Ricerche Elettroniche con sede
a Pisa, dove partecipa alla realizzazione del primo calcolatore elettronico italiano, la ELEA 9001, e del primo
al mondo costruito con soli componenti elettronici a semiconduttori, la ELEA 9003.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Svolgerà poi incarichi direttivi di alto livello (Presidente, Amministratore Delegato, Direttore Generale) in
numerose imprese italiane (Olivetti, Zincocelere, Olivetti Controllo Numerico, Olivetti Osai, Gruppo
URMET, IM3T, Elettrocondutture) e multinazionali (General Electric, TRW, Asea Brown Boveri).
E’ esperto di Tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni (ICT) e dell’automazione dei processi
industriali, ma anche di relazioni internazionali tra imprese come Consulente della DG XXIII dell’UE.
E’ stato Consulente d’impresa in una sua società, la SIBI S.r.l., per la pianificazione strategica e il marketing
internazionale per le telecomunicazioni.
Oggi si dedica a organizzare attività sociali nel non profit com’è, ad esempio, il Programma Monitore della
Società Umanitaria contro l’abbandono scolastico, con l’obiettivo di diffonderlo dove possibile in Italia.
Dal 1987 è stato membro del Rotary Club Milano, di cui è stato Consigliere per il biennio 2006 - 2008. Dal
2011 è membro del RC Milano Est, è anche membro onorario del RC Napoli. Per le sue attività di servizio
rotariano ha avuto tre onorificenze Paul Harris dal Rotary International.
E’ Massone del Grande Oriente d’Italia da oltre quaranta anni.
Ama la vela ed è un buon marinaio, con esperienze di navigazione internazionali anche in regate oceaniche
d’altura. E’ istruttore di vela presso il Centro Velico Caprera.
S’interessa di filosofia dell’esistenza ed ha pubblicato sull’argomento tre saggi e un romanzo spirituale.
Crede nelle capacità intrinseche dell’essere umano che sia libero di realizzare con il lavoro una vita serena
per se e per la sua famiglia.
Relazione ed approfondimenti
Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani
TAVOLA DEL MAESTRO
Giuseppe Calogero
della R L Tito Ceccherini n° 842
Oriente di Milano
LA MIA RICERCA DELLA VERITÁ
Per trovare la Verità bisogna fermare la mente
Noi siamo degli inconsapevoli osservatori.
Da svegli noi non ci rendiamo conto di avere un ruolo molto importante: noi siamo “osservatori”
dell’universo, siamo i “soggetti” che “osservano” il “fervore di opere e di azioni” che vi si svolgono di
continuo.
In pratica, noi siamo “osservatori” di “oggetti”, e li “osserviamo” grazie a un “processo di percezione”, ma
in quel momento mettiamo “noi” da un lato e il “resto del mondo” dall’altra e così creiamo una “situazione
duale”. Noi, tuttavia, siamo dentro ciò che osserviamo ma crediamo di esserne separati, perciò la dualità che
crediamo di creare è illusoria, e non ci rendiamo conto che anche quello che percepiamo potrebbe essere
un’illusione.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Siamo come il comandante di un sommergibile che guarda con il periscopio cosa c’è fuori, sul mare. Lui sa
di essere il comandante e non il sommergibile, dal quale ovviamente si “sente separato”, ma in verità lui ne
fa parte. All’atto pratico lui è solo un “sensore” che fa parte di un sommergibile che osserva cosa c’è lì
fuori.
Per di più la nostra presenza nel sistema osservato potrebbe influenzare l’ambiente circostante e il risultato
delle nostre osservazioni. E’ dunque lecito sospettare che il nostro processo di percezione sia davvero capace
di darci una visione attendibile della realtà osservata e anche che non abbia in se stesso qualcosa che ci illude
circa il risultato delle nostre osservazioni. Nell’infinitamente piccolo, ad esempio, il principio
d’indeterminazione insegna che l’osservatore influenza il risultato di ciò che è osservato, perciò si può
immaginare che qualcosa di simile succeda anche nell’universo infinitamente grande. Da ciò il dubbio se ciò
che percepiamo sia proprio quello che veramente esiste.
Dove c’è il dubbio non c’è ancora la certezza e questa va subito ricercata, altrimenti sopravviene l’angoscia
che, peraltro, è anche la molla che ci spinge a ricercare la Verità.
Per prima cosa, però, dobbiamo capire in che modo percepiamo il mondo che ci circonda.
Il processo di percezione
Ogni cosa esiste perché i sensi ce la rivelano, ma se
chiudiamo gli occhi, l’universo scompare, allora: Qual è il
senso di quest’inevitabile simultaneità?
Il velo di Maia
Corda
L’occhio vede un
oggetto ma non sa
dire cos’è, però
manda uno stimolo
alla mente.
La mente riceve di ritorno
l’informazione e proietta
fuori un serpente
La Mente interroga la
memoria empirica
Stimolo
La verità è che questo mondo, che noi percepiamo solo da
svegli, quindi con attivi i sensi, la memoria e l’intelletto,
esiste soltanto a causa loro e della “mente”, la quale decifra le
informazioni che riceve e ci fa percepire l’universo così come
ci appare. In verità, nei nostri corpi non esiste nessuna mente,
questa è solo la “capacità di pensare”, alla quale diamo
questo nome e immaginiamo che esista come fosse la
“sorgente” da cui scaturiscono i pensieri, ma ciò che lei
percepisce esiste veramente?
Per fare un esempio chiarificatore, s’immagini un viandante che
al crepuscolo percorra un sentiero in un bosco. Nel mezzo del
L’intelletto
sentiero è stato lasciato un pezzo di corda, ma per la poca luce il
analizza
viandante lo percepisce male, lo interpreta come un serpente e ne
ha paura. In pratica, la poca visibilità ha “velato” alla sua vista la
realtà della corda, e i suoi sensi hanno inviato alla mente un segnale poco chiaro. La mente ha attinto alla
“memoria empirica”, che conserva le esperienze di vita, e ha chiesto all’intelletto di valutare quelle
informazioni. Questo, per prudenza, ha interpretato la forma della corda come quella di un serpente. A
questo punto, come un proiettore cinematografico la mente mostra all’esterno l’immagine di un
serpente al posto della corda, e il viandante che lo vede, intimorito, le crede e ritorna sui suoi passi. Il
mattino dopo, con più luce, ritenta il sentiero, ma giunto nello stesso punto riconosce che quello che la sera
prima gli era parso un serpente, invece era solo una corda. Questo effetto avviene per come opera il sistema
di percezione, che è fatto da: “mente + occhio + memoria empirica + intelletto”.
La memoria invia le
sue interpretazioni
all’intelletto che
sceglie: “Serpente”.
L’occhio ha una doppia funzione:
1.
In ricezione è un “sensore” che rileva le immagini e le trasmette alla mente, perché siano interpretate
dall’insieme “memoria empirica + intelletto”. La mente, infatti, non sa riconoscere gli oggetti, ma ha
bisogno di rivolgersi alla memoria empirica che propone all’intelletto una rosa di alternative. Infatti, se
le informazioni che ha ricevuto non sono sufficientemente chiare, l’intelletto formula delle ipotesi, poi
decide che si tratta di A (oggetto falso) al posto di B (oggetto vero). Questo succede perché A è
l’oggetto che all’intelletto è sembrato più vicino al ricordo che l’immagine di B gli ha risvegliato.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
2.
In trasmissione l’occhio diventa un
“proiettore”, che mostra all’esterno quello
che l’insieme: “memoria empirica +
intelletto”, “crede” di avere visto, giusto o
sbagliato che sia. In breve, la mente proietta
all’esterno l’oggetto falso facendolo
“apparire” al sistema di percezione del
viandante al posto di quello vero, proprio
come farebbe un proiettore d’immagini.
Tutto avviene in una piccola frazione di
secondo, tanto che ricezione e proiezione
sembrano contemporanee.
Memoria
empirica +
intelletto
Mente
Il sistema di percezione è allo stesso
tempo una cinepresa ed un proiettore
Il risultato finale è che il processo di percezione ha nascosto alla mente l’oggetto vero (B), e poi a questo
ne ha sovrapposto uno falso (A), perciò l’osservatore viene “illuso” sulla vera qualità di ciò che percepisce.
Questo fenomeno può generare illusioni ottiche che possono sembrare vere. Il nostro sistema di percezione è
dunque ingannevole, perciò non si può escludere che l’universo esista solo in modo illusorio.
Alla fine, quella che noi chiamiamo “realtà oggettiva” non esiste in se stessa, ma “viene creata”
dall’osservatore nel momento stesso in cui lui la osserva. In quel momento l’osservatore è
“convinto” di vedere una reale presenza di oggetti e di situazioni, ma potrebbe trattarsi solo di una
realtà illusoria che “affiora” come verità nella sua “coscienza vigile”.
Da queste considerazioni emerge con evidenza che la mente ha una funzione di tutto rilievo
nell’esistenza umana, ciò malgrado, essa non può aiutarci nella ricerca della Verità ultima, che sfugge
ad ogni suo esame giacché Quella non si trova dentro il campo di percezione sensoriale . Per conoscerla
bisogna allora “trascendere” il sistema di percezione e abbandonare la ingannevole visione che ci
propone del mondo esterno.
Bisognerà invece “guardare dentro di noi” perché è lì che si trova la “coscienza di esistere”.
La coscienza di esistere
Nella comune accezione la parola “coscienza” riguarda solo la nostra vita da svegli e qualcuno dà alla parola
il significato di “rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni”. All’atto pratico la coscienza ci
farebbe sapere se si è nociuto o meno a qualcuno, ma può essere tutto qui? Indubbiamente “avere coscienza”
significa “essere consapevoli di qualcosa”, ma di cosa? Intanto non si può dubitare che ogni essere umano
abbia anche la piena consapevolezza della sua “esistenza” in questo universo. In verità è questo l’aspetto più
rilevante del significato della parola “coscienza” perché riguarda qualcosa che abbiamo in noi e che ci
conferma costantemente la nostra presenza nel mondo, ma senza che ci si debba porre il problema. Per
questo, non sono molti coloro che se lo pongono, e il fatto che si esista sembra essere del tutto scontato.
Questo problema, però, è sentito da chi tra gli esseri umani è più avvertito e sensibile, e lo costringe a
chiedersi:
Di quale esistenza si parla e che cosa è che esiste? Forse si tratta di quella del nostro corpo? Qual è lo
scopo dell’esistenza? Perché siamo capaci di renderci conto della nostra presenza al mondo, ma non di
capirne le ragioni? Alla fine, quale Verità è nascosta dietro tutto questo?
Queste domande fanno emergere che ciò che si cerca è “il perché dell’esistenza” di tutto ciò che esiste,
noi stessi compresi.
La Verità ultima che anche noi Fratelli Massoni cerchiamo, è soltanto questa, e ciascuno di noi lo fa a
suo modo secondo le sue inclinazioni e i suoi interessi. Quando si è giunti a un certo punto della propria
ricerca si sente il bisogno di comunicare ai Fratelli il proprio punto di vista sotto la forma simbolica di
una “tavola scolpita”, che ci ricorda il lavoro compiuto dai muratori costruttori di Cattedrali, dei quali
noi conserviamo intatta la simbologia. Questa presentazione ai Fratelli non richiede il loro giudizio, né
può diventare oggetto di una discussione sui suoi contenuti. Sarebbe, infatti, errato emettere giudizi
sulle tavole dei Fratelli, si rischierebbe di demotivarli e di frenare la loro evoluzione spirituale.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Inoltre, questo sarebbe anche un atto di intolleranza verso il modo di pensare di un Fratello e ciò esula
dal nostro comportamento massonico. Lo scopo di una qualsiasi tavola non è neppure quello di mettersi
in mostra verso i fratelli, piuttosto serve a fornire a chi ascolta - specie agli Apprendisti - un esempio di
ricerca che sia loro di stimolo e di guida e dia a chi l’ha scolpita l’opportunità di perfezionare la sua
ricerca.
E’ solo per questo che noi ci riuniamo nella pace delle nostre Logge, che diventano così piccole scuole
di filosofia dove ogni Fratello cimenta la sua intelligenza, migliora la sua cultura e aggiunge un mattone
alla costruzione del Tempio della Verità e della Conoscenza Assoluta. Perché la Verità è l’Assoluto che
conosce il Tutto perché è il Tutto.
La Verità ricercata e i Vedanta
Grazie alle loro facoltà senzienti e intellettive tutti gli esseri umani sono “inconsapevoli ricercatori”
della Verità ultima, tuttavia, fin dall’antichità alcuni di loro, più avvertiti e sensibili di altri, hanno fatto
eccezione e si sono arrovellati in questa ricerca. Anche noi Massoni dichiariamo di essere ricercatori
della Verità, perciò ognuno di noi s’incammina su un suo sentiero personale, che ha scelto quando ha
capito che il nostro vero scopo è proprio questo, ma prima abbiamo dovuto purificarci e liberarci delle
scorie profane e a questo ha provveduto l’iniziazione e la permanenza nel grado di Apprendista. Ciò non
significa che l’Apprendista non debba scegliere un suo percorso di ricerca, tutt’altro, significa solo che
per ricercare bene deve prima purificare i suoi pensieri ascoltando in silenzio e imparando il senso
profondo della parola “umiltà”.
Il sentiero che io scelsi per la mia personale ricerca, prese le mosse molti anni fa dall’antica filosofia
vedica, che fu descritta da millenni nella grande India nei suoi testi sacri conosciuti come “I Veda”, ma
mi sono stati di grande aiuto anche alcuni loro testi esplicativi noti come i “ Vedanta”. Vediamo di che
si tratta.
La tradizione indiana vuole che i Veda comparissero migliaia d’anni fa quando alcuni saggi si dedicarono
alla ricerca del significato dell’esistenza. Essi pensarono che doveva pur esserci una ragione perché
nell’universo ci fossero degli esseri che, come loro, si ponevano questo stesso problema. A un tratto essi
“udirono” dei suoni che gli fecero “conoscere” la Verità che cercavano, ossia il perché dell'esistenza
dell’universo. Dovette trattarsi di un’illuminazione istantanea che aprì le loro menti alla piena comprensione
sul significato dell’esistenza del “Tutto”, questo inteso come ciò che “comprende” ogni possibile esistenza.
Quei suoni primordiali che gli trasmisero la conoscenza divennero poi le parole della lingua sanscrita e nel
loro insieme costituirono i testi sacri della “filosofia indiana dell'esistenza”. Furono chiamati “Veda”,
parola che in sanscrito ha il significato di “conoscenza”, ed è sottinteso che si tratta di quella della Verità
ultima.
Un antico saggio di nome Vyasa li ordinò in quattro libri (Rik Veda, Yajur Veda, Sama Veda ed Atharva
Veda) e in appendice a ognuno aggiunse dei “commentari” interpretativi, chiamati “Upanishad” che, nel
loro insieme, furono denominati come i “Veda-anta”, perché rappresentavano la parte conclusiva dei
Veda; in sanscrito, infatti, anta = conclusione. I Veda, però, erano molto difficili da capire, perciò le
Upanishad ebbero il compito di diffonderne la conoscenza anche tra i meno istruiti.
In seguito, altri saggi commentarono a loro volta le Upanishad, e nei secoli si vennero determinando sei
diversi “punti di vista” (detti: darsana) che interpretarono l'enorme quantità d'informazioni contenute nei
Veda, e furono formalizzati in momenti diversi tra il 550 a.C. ed il 1000 d.C. In effetti, lo scopo dei darsana
fu di mettere l’umanità in condizione di comprendere questa illuminante dottrina.
I darsana erano una ricerca filosofica a forte carattere metafisico, una filosofia che proponeva alcune
spiegazioni sul significato dell'esistenza, ma a un primo esame potevano anche apparire tra loro alquanto
discordanti. I vari darsana, infatti, intendevano soddisfare il bisogno di sapere degli esseri umani, ma
bisognava che lo facessero tenendo conto delle loro capacità di comprensione, che erano diverse perché
proporzionate allo sviluppo spirituale raggiunto da ciascuno. Nondimeno, nessun “punto di vista” fu mai
in contrasto con il concetto di ”Essere”, il “Principio incausato dell’Esistenza”, l’Ente Assoluto
“Brahman”, citato così nei Veda originari.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Un “Essere” è considerato “assoluto” se non è individuabile alcuna causa che l’abbia determinato.
L’Essere Assoluto, pertanto, Esiste in Se stesso e per Se stesso, ed è Unico, nel senso che è
perfettamente autosufficiente, perciò per esistere non ha bisogno di nulla e di nessuno. Egli è senza
nascita ne morte, per questo è l’Origine, il Principio di ogni cosa che esiste, è il Principio
dell’Esistenza “in quanto tale”. L’Assoluto è il Tutto, perciò comprende ogni cosa che a noi sembra
che esista, ed esiste ovunque e sempre, per questo è infinito ed eterno ma nello stesso tempo è
indipendente dallo spazio/tempo, che invece caratterizza il funzionamento dell’universo. Per questo è
inutile cercarLo qui.
Nel tempo, tre dei sei suddetti punti di vista hanno assunto una maggiore rilevanza rispetto agli altri, e
sono stati raggruppati nella cosiddetta “Uttara Mimamsa” - che dal Sanscrito si traduce come: “riflessioni
sulla parte finale dei Veda” - e sono noti come i “Vedanta”. Essi sono: l’Advaita Vedanta, il Vischista
Advaita Vedanta e il Dvaita Vedanta.
Vediamo cosa sostengono:
a) Lo “Advaita Vedanta” analizza i Veda dal punto di vista detto “non duale" (a–dvaita) e ne
rappresenta la più alta interpretazione metafisica. Vi si afferma che “non esiste alcuna differenza tra
l'Assoluto e l'universo”, giacché questo è Lui stesso che si manifesta come tale. In pratica l'universo
sarebbe la “forma” dell'Assoluto, così come è percepita dagli esseri senzienti che si trovano al suo
interno; pertanto, ogni essere che ne fa parte, senziente o no che sia, è partecipe della Sua assolutezza.
Di conseguenza l’Assoluto è "presente" in tutti gli oggetti materiali dell’universo. Nei Veda questa
onnipresenza è indicata con il nome di “Paramatma” che tradotto dal sanscrito significa “Supremo
Atma” (param = supremo). Con “Atma”, invece, si indica proprio la “presenza” del suddetto
Principio in ogni essere che si trovi nell’universo, quindi è “riferita” in particolare a ciascuno e
per questo, a volte, è anche chiamata “Atma individuale” ma, si badi, non è diversa dall’Assoluto
Brahman, né potrebbe esserlo.
L’Assoluto, tuttavia, nella Sua infinita ed eterna immobilità, non partecipa in alcun modo alle
problematiche dello spazio/tempo che, invece, condizionano tutto ciò che avviene nell’universo,
pertanto qui la sua presenza può essere solo di natura “virtuale” nel senso di “non reale”.
In un certo senso l’Advaita Vedanta spiega l’esistenza dell’universo “restandone fuori”, vale a dire
da un “punto” - per noi inimmaginabile - che è quello in cui si trova il “concetto di Assoluto”. Se si
prende in considerazione l’esistenza dell’universo stando da questo particolare “punto”, non può
essere mai avvenuta alcuna creazione, perché l’Assoluto non agisce e l’atto creativo è l’azione più
alta che la mente umana può immaginare. Inoltre, l’atto creativo presuppone un “momento” per la
creazione, ma per l’Assoluto il tempo non esiste e ogni momento coincide con ogni altro.
A questo punto sarebbe stato difficile spiegare come mai l’assolutezza a -temporale e a-spaziale
dell’Atma si sia potuta trovare dentro la manifestazione, allora qualche saggio indiano ha pensato che
la manifestazione fosse il contenuto di un sogno sognato dall’Assoluto; ma l’Assoluto può
sognare? La risposta è sì.
Un atto creativo ha sempre come conseguenza la cosa creata e l’Assoluto non crea nulla però può
sognare, perché il sogno è sì un atto creativo, ma solo mentale, perciò è privo di conseguenze; il che
significa che in sogno non si crea nulla.
Quando si sogna ciascuno si costruisce il suo sogno come vuole e ne è anche l’unico testimone, ma il
suo contenuto non esiste veramente perché al risveglio si dissolve in nulla, perciò è certamente
illusorio. Noi non ci chiediamo mai perché sogniamo; ecco, questo darsana ci fa capire che forse
sogniamo per renderci conto che “l’atto di sognare” esiste e che ciò è possibile anche per
l’Assoluto. Pertanto, nulla vieta di pensare che tutto questo possa essere niente altro che il contenuto
del sogno dell’Assoluto che, per essere tale, non esiste veramente ma è solo un’illusione, quella
stessa che il nostro sistema di percezione ci fa conoscere, nascondendo il vero e la sovrapponendogli
il falso, così facendoci credere che sia la verità.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Per inciso, il nostro GADU deriva certamente il fatto di essere un “Architetto” dalla simbologia dei
costruttori di cattedrali, ma si potrebbe anche farlo corrispondere al Principio vedico dell’Esistenza,
perché un atto creativo presuppone una “conseguenza” di natura materiale, mentre un Architetto non
costruisce materialmente la sua opera ma l’immagina, ne ha l’idea, la progetta , la disegna e lascia ad
altri, appunto ai Muratori, la sua costruzione materiale.
Questo effetto di velamento e sovrapposizione fu molto usato nel 700 DC dal saggio indiano Adi
Shankara per spiegare l’esistenza dell’universo. Fu così che egli vinse le sue battaglie dialettiche per
ristabilire la preminenza dei Veda e allontanare le eresie, quali ai tempi erano considerati il Buddismo o
lo Jainismo1 che dopo mille e quattrocento anni di indiscussa presenza, avevano ormai pervaso tutta
l’India.
b) Il Dvaita Vedanta, all’opposto, è del tutto “duale”, nel senso che si ammette sempre l’esistenza di
Brahman l’Assoluto, ma Lui è del tutto separato dalla manifestazione, che esiste solo in quanto è una
Sua creazione. Questo punto di vista è di facile comprensione e corrisponde a quello delle religioni
monoteiste, ma crea subito molte contraddizioni per superare le quali l’immaginazione di chi l’ha
pensato ha dovuto ricorrere a molte altre invenzioni che non interessa raccontare in questa sede.
c) Il “Vischista Advaita Vedanta” o "Vedanta non duale mitigato", è una via di mezzo tra i due
precedenti e riveste una notevole importanza, sebbene non rappresenti la Verità ultima . Quando fu
pensato servì a dare continuità al necessario processo di avvicinamento alla piena comprensione della
Verità che, sia ben chiaro, è solo ed esclusivamente quella indicata dall’Advaita Vedanta.
Contrariamente all’Advaita, questo punto di vista cerca di spiegare
l’esistenza dell’universo “restando al suo interno”, ossia mettendosi
nei panni dell’essere umano che si trova chiuso con tutti i suoi
interrogativi “dentro” la manifestazione, come se fosse in una “scatola”
dalle pareti impenetrabili e trasparenti, dalla quale non può in alcun
modo uscire.
Anche chi ha costruito questo darsana ha dovuto spiegare come potesse
l’Assoluto essere presente dentro la manifestazione spazio/temporale, e allora ha immaginato che vi
si trovasse sotto forma di un Suo "riflesso", come quello che si potrebbe vedere in uno specchio.
Chi osserva l’immagine riflessa da uno specchio crede di vederla al dilà della sua superficie, ma essa
non esiste veramente giacché non può toccarla, spostarla o modificarla. Si tratta pertanto di una
presenza virtuale che, però, si trova “dentro” la manifestazione insieme con lo specchio che la
riflette e come tale è limitata nello spazio e nel tempo. Se ora la sorgente è il Principio Atmico, la
Sua immagine riflessa non perde l'assolutezza né l'immortalità che Quello gli trasferisce
completamente, perché queste qualità sono il suo vero aspetto.
In questo darsana si sostiene che lo strumento/specchio che riflette l’Atma sia la stessa “mente”
degli individui senzienti. In questa ipotesi, essendo l’immagine contenuta nella loro mente, si trova
anch’essa “dentro” la manifestazione ed è stata chiamata “Jiva”, o Sé individuato o semplicemente:
“il Sé”, e ovviamente conserva tutte le caratteristiche della sua Sorgente atmica.
In certo modo, l’idea dello Jiva è simile al concetto occidentale di “Anima”, ma al contrario di
questo, che è di solito riferito solo agli esseri umani, lo Jiva è presente in tutti gli esseri
dell’universo, siano essi o no “animati”.
Nel suo significato più profondo la Verità non può che essere “Una” soltanto, infatti, se ve ne fosse
un'altra bisognerebbe chiedersi quale delle due è quella giusta, di conseguenza, quella rivelata dai Veda agli
antichi saggi non poteva essere altro che il “vero segreto” che essi cercavano. Trasmessi all’orecchio di
generazioni di discepoli, i Veda sono stati poi tramandati attraverso i millenni, e sono giunti quasi intatti fino
a noi.
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Il giainismo insegna che ogni singolo essere vivente, dal moscerino all'uomo, è un'anima eterna e indipendente, responsabile dei propri atti.
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Il Sé è la Coscienza di esistere
Grazie al Vedanta la mia ricerca mi ha condotto lontano e oggi posso dire che mi ha dato molto, nel
senso che almeno intellettualmente ora io sono consapevole del perché della mia esistenza in questo
universo, e questo è già tanto, ma mi manca l’ultimo passo, la piena “presa di coscienza” della Verità
che io credo di avere trovato. Questa, tuttavia, non può essere realizzata con il solo ausilio del nostro
ingannevole sistema di percezione, perché quella Verità non si trova dentro l’universo che, l’abbiamo
appena visto, i nostri sensi percepiscono malamente, perciò bisogna cercarla altrove, ma dove? Ed esiste
un “dove” cercare?.
Abbiamo accertato che noi esseri umani abbiamo “coscienza” del nostro esistere in questo
universo/manifestazione, però è anche certo che noi non possiamo negare la nostra esistenza. Non
siamo in grado di farlo perché per negarla ci vuole chi lo faccia e gli unici che possono farlo siamo
soltanto noi stessi, perché ciascuno di noi è il solo ad avere coscienza della sua esistenza individuale.
Così pure non c’è nessun altro che possa negarla al posto nostro, perché lui non può avere coscienza
della nostra esistenza, ma solo della sua. Si può concludere che la nostra coscienza individuale di
esistere non dipende da noi stessi e neppure da nessun altro, pertanto, si tratta di un “Ente
Assoluto”.
Questo “Ente/Coscienza” è la presenza in noi dell’Assoluto, dunque è proprio “il Sé” indicato
dell’Advaita Vedanta. Secondo la tradizione spirituale indiana perven ire alla piena consapevolezza di
questa Esistenza Assoluta significa “realizzare la Verità ultima”, vale a dire che si tratta di renderci
conto che “il Sé siamo noi”, solo che non lo sappiamo perché ce lo impedisce il fenomeno dell’illusione
(maya) che sovappone al Sé l’immagine dell’universo.
Testualmente “Realizzarsi” significa: “accorgersi” di essere qualcosa. Ciò di cui ci si vuole accorgere è la
piena conoscenza della Verità ultima, e ora sappiamo che per ottenerla basta cercarla dentro noi stessi,
giacché è proprio lì, nella nostra mente, che si trova “il Sé”, la nostra “Coscienza Assoluta di esistere”.
La realizzazione del Sé
Secondo il non dualismo non c’è nessuna realizzazione da compiere perché, in effetti, siamo già
perfettamente realizzati, noi siamo il Sé e dobbiamo solo farci capaci di questa semplice Verità, ma
raggiungere questa consapevolezza non è semplice, perché gli ostacoli frapposti sono notevoli.
Ramana Maharishi, un grande realizzato indiano dei tempi moderni, ebbe a dire:
“La realizzazione non va raggiunta partendo da zero, perché si è già realizzati, bisogna solo
liberarsi dell’idea che non si è realizzati.”.
Realizzazione, pertanto, è solo la presa di coscienza della Verità, è l’unione (yoga in sanscrito) del Sé,
che è già in noi - che siamo nello spazio/tempo - con l’Assoluto, che invece ne è fuori.
Il significato della trascendenza è tutto qui, e l’ostacolo principale a trascendere la manifestazione è la falsa
identificazione di noi stessi con il corpo. L’essere umano si trova chiuso in questa scatola cosmica nella sua
inconsapevole “ignoranza del Sé” perciò non sa in cosa credere e, in mancanza di meglio, si identifica con il
suo corpo e con “l’ego”, ossia con l’io vigile che lui conosce bene, perché è la sua “identità” di essere
umano sveglio. E’ l’ego che non vuole che si conosca la Verità, perché a quel punto lui scomparirebbe;
infatti, nel momento stesso della realizzazione il realizzato capisce di essere il Sé e non il suo corpo
grossolano, quindi neppure l’ego che lo rappresenta da sveglio. A quel punto l’ego scompare ed emerge la
vera identità dell’essere umano: Il Sé.
Come avvedersi del Sé che è in noi
Tutte le dottrine filosofiche sviluppate in Oriente sostengono che per realizzare la Verità bisogna fermare
la mente. La mente, si è detto, è lo specchio che riflette la Verità ultima, ma è anche la fabbrica dei pensieri
che prima la nascondono e poi le sovrappongono l’universo.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Per questo, se si riesce a fermare il flusso dei pensieri l’universo scompare di colpo, e il Sé può
finalmente emergere nella mente ora vuota, tuttavia, fermarla non è facile invece è più semplice abituarla ad
essere meno agitata.
La via più seguita per rallentare l’attività della mente è sempre stata la “meditazione concentrata” su un
oggetto, ma “chi medita” è sempre il solito “io vigile” ossia “l’ego”, e lui è il meno adatto a raggiungere
qualche risultato pratico, perché non vuole che sia raggiunto, perciò questa tecnica non può portare alla
realizzazione, come molti credono, può solo abituare la mente ad essere più calma.
Tutte le discipline che inducono alla meditazione sono “dualistiche”, perché l’aspirante alla realizzazione
cerca la Verità fuori di se stesso. Pure questo approccio è inefficace, perché il Sé è la presenza dentro di
noi dell’Atma, che è la Verità ultima, perciò basta cercare il Sé per trovare l’Atma. Si tratta allora di
fare un’indagine investigativa su noi stessi, e a questo scopo esiste un particolare percorso, noto come
l’Atma Vichara (ricerca dell’Atma), che è la via più diretta per la “ricerca del Sé”, e riguarda la mente e
il suo funzionamento. E’ lei, infatti, che impedisce di conoscere la Verità a causa della cortina di pensieri che
frappone tra il Sé e l’aspirante. Si tratta allora di capire come e perché lo fa e in che modo si può arrestarla.
E’ un po’ quello che fa un investigatore che indaga per scoprire l’autore di un delitto al fine appunto di
“arrestarlo”. Il problema si riduce allora al modo più opportuno di femare la mente, di farla smettere di
pensare, in breve di “arrestarla”, e così tenerla sotto controllo.
Come conseguire il Sé
Secondo l’Advaita Vedanta non c’è niente da “realizzare” perché noi “siamo già il Sé”, piuttosto dobbiamo
“accertarcene”. “Realizzare”, infatti, significa “conseguire” qualcosa che prima non si aveva, ma il Sé è
fuori del tempo quindi non ha un prima e un dopo, perciò Lui è già con noi e non c’è nulla da ottenere. Si
tratta, piuttosto, di “conseguire” il Sé, ossia di far “seguire” la “piena consapevolezza” alla semplice
“conoscenza intellettuale” della Verità.
“Conseguire il Sé”, quindi, ha il significato di “riconoscere” che la Sua natura Assoluta “partecipa”
all’esistenza di tutti gli esseri della Sua manifestazione. In termini metafisici è come guardarsi attorno al
risveglio da un sogno e riconoscere in un attimo che l’immobile “Esistenza” dell’Assoluto e il continuo
“divenire” dell’universo sono la stessa cosa, e che solo questa è la vera natura del Cosmo, che questa è la
Verità ultima rivelata dai Veda.
La domanda è allora: Cosa bisogna fare per conseguire il Sé?
E’ difficile farlo ma è più semplice dirlo: bisogna “sospendere”, almeno per qualche attimo, il flusso di
concetti, di idee, di immagini, che la nostra mente proietta fuori di noi in continuazione, perché è solo
questo che ci separa dal Sé. Come è noto i pensieri sono la conseguenza dell’osservazione sensoriale degli
oggetti, ed è con questo processo che noi percepiamo la manifestazione illusoria, ma se fossimo capaci di
fermarli, non la percepiremmo più, l’illusione si dissolverebbe e conosceremmo il Sé.
Per prima cosa bisogna capire il modo di funzionare della mente e da ciò trarre i criteri per sospendere la sua
attività, anche solo temporaneamente.
Immaginata “inattiva”, la mente è priva di pensieri, perciò questo è il punto da cui partono, è la loro
“sorgente”. Quando è “attiva” essi sgorgano da lei senza sosta, proprio come l’acqua, e nascondono il Sé. E’
come se in lei vi fosse una insolita forma di energia che si libera senza posa traducendosi in un’esplosione di
migliaia di pensieri, idee, concetti, che prorompono in continuazione e in modo del tutto casuale.
La mente è come una caldaia a vapore munita di una valvola limitatrice della pressione; quando questa
sale oltre un certo limite, la valvola si apre e il vapore sgorga rapido e inarrestabile. Per fermare la fuoriuscita
bisogna chiudere la valvola, ma ciò richiede uno sforzo notevole. E’ invece più facile “agire alla radice” ad
esempio leggendo la pressione con un manometro e ponendo molta attenzione al momento in cui questa si
avvicina al limite di apertura della valvola. Un attimo prima di questo momento si può intervenire per
abbassare la pressione, a esempio lasciando raffreddare la caldaia.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Le idee, i pensieri, i concetti, sono come il vapore in pressione; se non si fa a tempo a fermarli essi
sgorgheranno, inevitabilmente, e con tanta più violenza quanto maggiore sarà lo stato di agitazione delle
mente, vale a dire la loro pressione interna. Per questo motivo, se si vuole fermare la mente, per prima cosa
bisogna abbassare il suo stato di agitazione. Si può ottenere lo scopo con la “concentrazione meditativa”
applicata su un oggetto qualsiasi, ad esempio la fiamma di una candela. Questa disciplina, se seguita con
costanza, allena la mente a mantenersi calma. Quando sarà meno agitata, a quel punto si potrà “agire alla
radice dei pensieri” nel punto preciso da dove essi sgorgano. Questo punto è la loro sorgente, è la mente
priva di pensieri, è la mente pura, e corrisponde alla valvola limitatrice della pressione.
E’ stato osservato che quando non si pone attenzione all’atto del pensare (attenzione passiva), allora la
mente è agitata e i pensieri sgorgano da soli, invece, se vi si pone un’attenzione molto forte (attenzione
attiva), allora si può impedire che essi sgorghino e la mente si ferma. Ciò avviene perché i pensieri sono la
conseguenza dell’osservazione sensoriale degli oggetti, ma quando si pone una forte attenzione all’atto del
pensare in se stesso, in quel momento al sistema di percezione viene di colpo a mancare un qualsiasi
oggetto che possa generare un pensiero che lo riguardi. La mente si ferma e l’universo scompare di colpo.
Per fermare la mente bisogna allora applicare un’attenzione molto attiva sull’atto stesso del pensare.
Fermare la mente
L’atto del pensare è nient’altro che la stessa mente, perciò basta rivolgersi a lei con messaggio forte, ad
esempio come questo: “Tu pensa, che io ti ascolto”.
Questo messaggio è molto particolare perché induce chi lo invia a porre una forte attenzione sull’atto di
pensare. Egli potrà notare che il suo “pensare” si fermerà immediatamente.
L’attenzione posta è “attiva” perché è “voluta”, ma anche è “molto forte” perché “soggetto e oggetto
coincidono”, infatti, chi lo manda si rivolge a se stesso perché la mente è la sua. Questa coincidenza mette
insieme chi ha mandato il messaggio con chi lo riceve, ossia quello che ascolta con quello che pensa,
quindi con l’atto del pensare in se stesso. Si crea così un “corto circuito”, e più forza di così non si
potrebbe mettere nell’attenzione attiva.
Quando si dice a se stessi “tu pensa che io ti ascolto”, c’è un ascoltatore che ascolta i pensieri che lui stesso
pensa, perché l’atto di pensare e i suoi pensieri sono tutti dentro di lui, perciò in questa situazione non c’è
più il dualismo soggetto/oggetto, perché quel “tu” e quel “io” sono la stessa persona. In questa situazione il
pensiero si ferma, perché chi vuole ascoltare conosce già ciò che il pensatore penserà un attimo prima
che lui lo pensi, perché loro due sono la stessa persona, perciò non serve più pensarlo e neppure si può
ascoltare ciò che non si è pensato.
Insomma, non c’è più nulla a cui pensare e ciò equivale a dire che il pensiero si è fermato, che la mente
è muta e vuota.
Quando la mente si ferma, non si pensa più a nulla, perciò non vi è più il mondo fatto di milioni di
oggetti, per ciascuno dei quali pensiamo il suo nome nel momento stesso in cui lo vediamo. La mente vuota
di pensieri non percepisce più nulla, perciò in quel momento compare solo un “immobile, silenzioso e opaco
vuoto”. In Verità ciò che compare è l’Assoluto, invisibile, eterno, infinito e silente. Perché il silenzio è la
vera voce dell’Assoluto
“Pensa, io ti ascolto” è un aforisma che serve a fermare la mente, all’inizio anche solo per un attimo, poi un
po’ alla volta, a furia di dirsi: “tu pensa, che io ti ascolto”, quell’attimo si allungherà quanto basta perché “il
Sé” possa finalmente emergere.
“Pensa, io ti ascolto” è la soluzione più semplice che è stata trovata al problema di fermare la mente.
A simili conclusioni giunse anche il realizzato indiano Ramana Maharishi con il suo “self enquiry”, o
“inchiesta sul Sé”. In questo caso la domanda da rivolgere a se stesso, ossia alla mente, è: “Chi è che
pensa?”, e la mente risponde subito: “Io” e di rimando: “Io chi sono?”. Con la prima domanda si attiva con
molta forza l’attenzione sulla mente e sull’atto di pensare, con la seconda si obbliga la mente a rispondere a
una domanda precisa che la riguarda direttamente, ma lei non è un oggetto e non esiste veramente perché è
un’invenzione di se stessa, perciò non ha più niente a cui pensare. E si ferma.
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SCHEDA: “La Massoneria” di Giuseppe Calogero – 25 settembre 2012
Il Sé, tuttavia, emergerà solo se esisteranno le giuste condizioni, vale a dire se lo sviluppo spirituale di chi
ricerca la Verità sarà capace di “reggere” la piena Conoscenza che segue alla realizzazione della Verità
ultima, e ciò dipende dallo stato dello sviluppo spirituale raggiunto da ciascuno, ma nessun ricercatore è in
grado di conoscerlo. Tuttavia, essersi messi in cammino per ricercare la Verità è già l’indice di uno sviluppo
spirituale abbastanza evoluto, e noi Massoni siamo per nostra vocazione sul quel sentiero di ricerca, allora,
perché non provare la via diretta dell’Atma Vichara? Potrebbe succedere che troviamo davvero la Verità
che cerchiamo.
Per quanto mi riguarda io sono certo che prima o poi a me succederà di incontrarla.
Giuseppe Calogero
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