sguardi sulla scena della separazione

RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
QUADERNO
2008/1
SGUARDI
SULLA SCENA
DELLA
SEPARAZIONE
W W W. A I A F - A V V O C A T I . I T
QUADERNO
2008/1
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA
SEPARAZIONE
SUPPLEMENTO AL N° 1/2008
DI AIAF RIVISTA
ANNO XIII
NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE
Redazione
GALLERIA BUENOS AIRES 1,
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SOMMARIO
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Premessa
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La logica dei nuovi orizzonti
Alessandro Sartori
Gabriella De Strobel
13 Rottura e riparazione dei rapporti: il ruolo dell’avvocato
Cristina Curtolo
21 Fragilità della coppia e famiglie ricostruite: le emozioni dei figli
Silvia Vegetti Finzi
31 La dinamica coniugale nel farsi e disfarsi del legame. Separazione personale e affidamento condiviso della prole
Francesco Ruscello
63 Trauma emotivo e danno psicologico e/o psichico
Anna Oliva De Cesarei
81 Un tempo per il dolore
Tonia Cancrini
93 L’amore tra biologia e cultura
Grazia Attili
103 L’ascolto del minore nella separazione
Fulvio Scaparro
106 Tutelare i figli nella separazione
Fulvio Scaparro
125 Sul piacere e sulla felicità
Mauro Mancia
139 Le patologie dell’intimità
Giulio Cesare Zavattini
153 Evoluzione giurisprudenziale del rapporto familiare
Vincenzo Carbone
199 DOCUMENTI
Protocollo sull’Ascolto del Minore
203 GLOSSARIO
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AIAF QUADERNO 2008/1
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
PREMESSA
ALESSANDRO SARTORI
AVVOCATO IN VERONA, DIRETTIVO NAZIONALE AIAF
La formazione interdisciplinare ha rappresentato l’impegno più rilevante dell’attività dell’AIAF Sez. Veneto, che ha individuato, ancora dieci
anno or sono, la necessità di una più completa conoscenza delle varie professionalità che si occupano della crisi della famiglia.
Il “Protocollo d’Intesa” del 5.11.2004 è stato un punto d’arrivo e di partenza per una sempre maggior integrazione delle varie discipline scientifiche (giuridica, psicologica, psichiatrica) e delle varie competenze istituzionali (Magistratura, Servizi Sociali delle ULSS e dei Comuni) per assicurare
risposte sempre più adeguate alle sofferenze dei cittadini coinvolti nella
disgregazione familiare.
D’intesa con la Fondazione Campostrini è stato organizzato questo
“Corso” per consentire una più approfondita conoscenza delle dinamiche
del legame coniugale e del suo disfarsi.
Il format propone un percorso conoscitivo sulle determinanti emotive e sociopsicologiche della relazione di coppia e famigliare, al fine di
promuovere una riflessione sul paradosso tra bisogno vitale d’amore ed
instabilità dei legami.
Oggi si vaga cercando i luoghi e le persone che fanno stare bene nel
desiderio di una felicità che, spesso, è fraintesa con il piacere, producendo
come effetto la diffusione di un malessere le cui conseguenze possono essere sia giuridiche che sociali.
Per comprendere lo scenario attuale delle trasformazioni sentimentali è
indispensabile porsi la questione del destino dell’“amore romantico” nella società post-moderna, arrivando così a sviscerare le componenti della
capacità di godere creativamente del momento presente, quale humus del
destino della coppia che, altrimenti, rischia di incagliarsi nella fantasia che
cambiando partner si possa stare meglio.
L’amore segue un ciclo biologicamente determinato, finalizzato alla
procreazione e alla crescita della prole e, in questo, sta l’inevitabilità della
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sua evoluzione affettiva dalla passione al sentimento, perché prioritaria è
la sicurezza dell’attaccamento. Tuttavia, si constata la fragilità dei legami:
si sta insieme, ma la comunicazione sembra difficilmente toccare le corde
emotive dell’intimità poiché occorre riconoscere la qualità delle proprie
emozioni per darci un nome che aiuti a pensarle.
Passione di sapere e capacità d’amare: è la medesima forza che spinge
un uomo ed una donna ad amare e pensare, e in questo si può trovare un
esempio di unione possibile tra ragione e sentimento.
I tempi della vita sono molteplici, dall’amore si può passare al dolore
per separazioni intollerabili che, in alcuni casi, assumono la dimensione
di esperienza traumatica se scandita da scenari distruttivi agiti nella conflittualità processuale.
Partendo dall’assunto che esistono coppie funzionali e coppie disfunzionali, varie sono le modalità comportamentali che segnalano un disagio
della relazione coniugale che può avere ricadute sulla genitorialità. Ed è
in questi momenti di passaggio che la comunità e le istituzioni rivelano
l’efficacia o meno di una rete che possa aiutare ad arginare il rischio di una
crisi devastante della società famigliare.
Alla luce degli apporti della legge 54/06 sull’affido condiviso si intende promuovere la conoscenza delle risorse che possono tutelare gli affetti
(rectius: la capacità di amare) quale perno per l’instaurarsi di una genitorialità condivisa e sostenuta da un clima emotivamente soddisfacente.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
LA LOGICA DEI NUOVI ORIZZONTI
GABRIELLA DE STROBEL
AVVOCATO IN VERONA, DIRETTIVO NAZIONALE AIAF
Il corso formativo organizzato da AIAF Veneto nel 2006/2007 rappresenta da un lato il punto di arrivo di un lungo percorso interdisciplinare
che abbiamo intrapreso a Verona fin dal 1996, dall’altro segna il punto
di partenza per nuove riflessioni sul ruolo dell’avvocato che si occupa di
diritto di famiglia.
Nei primi corsi ci siamo confrontati sui temi tecnico–giuridici più significativi, scambiandoci opinioni ed orientamenti che ci hanno portato ad
ulteriori approfondimenti attraverso incontri di studio e convegni.
Mano a mano che l’Associazione cresceva gli avvocati hanno avvertito
l’esigenza di aprirsi al confronto anche con le altre figure professionali che
gravitano intorno al processo della famiglia e dei minori.
Ci si è accorti, insomma, che per affrontare in maniera sistematica i
temi del diritto di famiglia, non si poteva rimanere isolati e confrontarsi
solo sui problemi giuridici, ma diveniva fondamentale conoscersi e coordinarsi con le altre componenti del processo: giudici, psicologi, operatori
socio-sanitari.
È nato, cosi, a Verona, ormai 10 anni fa, un tavolo di lavoro interdisciplinare cui partecipano avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali,
magistrati uniti di concerto nel cercare di comprendere gli uni e gli altri, attraverso l’acquisizione reciproca del linguaggio e delle procedure di
ogni professione.
Nel solco di tale esperienza è stata avvertita la necessità di comprendere ed ampliare gli aspetti psicologici che si annidano nel profondo dei
soggetti coinvolti nelle controversie familiari.
Ci siamo accorti che per raffinare una professionalità giuridica di eccellenza - per la competenza delle scelte giuridiche da approntare - era indispensabile una maggiore considerazione della sfera emotiva per meglio
capire le ragioni individuali delle persone coinvolte.
Si è capito, infatti, che entrare in campo ed agire sull’onda di emozioni
e sentimenti immediati, sia propri che quelle delle parti coinvolte nel pro7
AIAF QUADERNO 2008/1
cesso, può condurre a scelte processuali sbagliate e a danni, a volte, anche
irreparabili.
Da questa riflessione è sorta la volontà di conoscere più a fondo le dinamiche psicologiche che caratterizzano la scena della separazione per
cogliere le motivazioni che animano i protagonisti.
Il corso si è aperto con la prof.ssa Silvia Vegetti Finzi, la quale utilizzando una stimolante interpretazione teatrale ci ha rappresentato i sentimenti
che attraversano tutti i membri di una famiglia coinvolti nella separazione: figli, genitori, nonni e parenti, ricordandoci che il punto più fragile dei
protagonisti è rappresentato dai figli.
“Gli effetti e le reazioni- legate alla separazione - sono molto diverse”, ma su tutto domina la sensazione di essere protagonisti di “destini
inconclusi”.
Ed è stato con la ricchezza di tale atmosfera che si è ascoltata la lezione magistrale del prof. Francesco Ruscello sul nuovo istituto giuridico
dell’affido condiviso.
Attraverso una interessante rilettura delle “famiglie”, come entità sociale dalla Costituzione ad oggi, il relatore ha enucleato i principi ispiratori dei nuovi “criteri” di affidamento della prole nel caso di crisi della coppia: “bigenitorialità”, esercizio delle potestà in capo ad entrambi i coniugi,
valutazione prioritaria dell’affidamento condiviso.
Nondimeno il relatore ci ha ricordato che la nuova legge ha perso l’occasione di introdurre una riforma che puntasse ad una vera responsabilità
genitoriale, avendo d’altro canto privilegiato, invece, ed accolto le “pretese” dei genitori non affidatari della prole”.
Il nuovo quadro normativo che regola la separazione dovrebbe in qualche misura dare una risposta al “trauma” che le persone subiscono per
l’evento separazione, mentre invece ha finito per rendere più difficoltoso
il raggiungimento di intese condivise.
La dott.ssa Anna Oliva De Cesarei, ci ha parlato della “separazione”
dal punto di vista psicologico in quanto esperienza che le persone “affrontano fin dalla nascita e dalla prima infanzia”, puntualizzando che la
“qualità affettiva” del rapporto che c’è tra le persone ha “effetti strutturanti per lo sviluppo della personalità, e questo segna il processo di crescita.
Più queste relazioni sono ben strutturate e meglio si affronterà l’evento
separazione.
Normalmente nella separazione una persona adulta è in grado di affrontare il periodo grazie alle proprie risorse interne; qualora, invece,
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prende il sopravvento il dolore, la depressione, la rabbia, l’espulsione del
partner, la delusione, la colpa, il fallimento di un progetto, la perdita di
un legame allora nei figli prevale “il fardello psicologico di aver fallito nel
loro tentativo di tenere uniti i genitori”.
La dott.ssa Tonia Cancrini ha affrontato a tutto tondo il tema del “dolore” connesso alle problematiche che riguardano la separazione, ma anche
ad altre vicende di vita.
Il dolore è una esperienza che non possiamo evitare, perché è vitale e
importante, soprattutto perché se c’è dolore significa che amiamo. Diversamente “l’anestesia emotiva” quale difesa per non soffrire porta ad “una
vita affettiva povera e insignificante”.
La separazione è un’esperienza dolorosa per i genitori e per i figli, ma
la relatrice ha sottolineato la necessità di trovare un “tempo per il dolore”,
uno spazio sia per i genitori che per i figli di elaborazione e condivisione per la perdita di un mondo familiare e per potersi, così, preparare al
cambiamento.
La prof.ssa Grazia Attili, invece, ci ha illustrato la natura dell’amore, il modo in cui si sviluppano le relazioni sentimentali che legano le
persone. Il prototipo del legame di coppia è rappresentato dal rapporto
madre–bambino.
E tale legame si struttura attraverso quattro passaggi fondamentali:
1) l’attrazione;
2) l’innamoramento;
3) l’amore;
4) l’attaccamento.
Per questo motivo il distacco dal partner è vissuto in maniera diversa a
seconda della tappa che intreccia.
Ad incastro, quindi, il prof. Mauro Mancia ci ha eruditi sulla differenza
tra il piacere e la felicità.
La ricerca della “felicità può solo essere frutto di un lavoro su sé stessi,
di una ricerca e di una conquista”, è “ il risultato di un lavoro che aumenta
la conoscenza di sé, e questo permetterà anche di affrontare le delusioni,
le frustrazioni e le separazioni.
Mentre il tema degli aspetti patologici tipici di alcuni legami di coppia
è stato analizzato e sviluppato dal prof. Giulio Cesare Zavattini.
Nella sua intensa analisi egli ci ha descritto la relazione di coppia approfondendo la dinamica dell’intimità; a volte le relazioni possono apparire assurde e folli dall’esterno, ma per l’economia psichica della coppia
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sono funzionali a tratti e bisogni psicologici di entrambi.
È importante, pertanto, chiedersi “che tipo di contenitore è il matrimonio” e per quale motivo si mantengono alcuni matrimoni infelici.
Ogni individuo entra in relazione con l’altro mediante il proprio bagaglio psichico e c’è il rischio, quindi, che nei momenti di crisi emergano
violentemente gli aspetti negativi non risolti del passato.
I sentimenti di rivalsa, o frustrazione o delusione non elaborati oppure
che colludono con il partner, possono portare alla separazione che, a questo punto, diventa veramente complessa.
Concluso il percorso psichico – interiore della separazione, ci siamo
interrogati sui modi, tempi, opportunità di “ascoltare” i figli nel processo
giudiziario, novità introdotta dalla nuova legge, anche se già contenuta
nella convenzione di New York e di Strasburgo.
Il prof. Fulvio Scaparro ha ben evidenziato i rischi sottesi ad un cattivo
ascolto del minore, enfatizzando la necessità di approntare spazi, luoghi e
tecniche di ascolto adeguate ai minori e alla loro età.
Ha evidenziato, in fine, la necessità di cogliere tale momento come una
occasione per il minore di esprimersi e di manifestare i propri sentimenti,
piuttosto che il luogo dove perpetrare il conflitto tra i genitori.
Competenza e professionalità di avvocati, magistrati e operatori sono
alla base di un ascolto del minore efficace e positivo.
Al termine, il corso si è concluso con la brillante conferenza del dr. Vincenzo Carbone (Presidente della Corte di Cassazione) sulle nuove pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione in diritto di
famiglia.
Di seguito ha illustrato l’iter che ha portato la Corte Costituzionale ad
abolire la fase preliminare del giudizio di ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale sulla paternità naturale perché il doppio processo nato per tutelare il convenuto da “ iniziative temerarie e vessatorie,
era diventato un irragionevole ostacolo alla dichiarazione di paternità
naturale”.
Il dr. Carbone ha, poi, commentato la sentenza che ha eliminato l’obbligo della prova dell’adulterio per introdurre il giudizio di disconoscimento, prevalendo ormai su tutto la prova del DNA.
Infine, si è soffermato sulla dibattuta questione del cognome da attribuire ai figli naturali e legittimi, auspicando anche in tale settore una riforma
che dia attuazione all’eguaglianza giuridica e morale della donna sancita
dalla Costituzione.
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Il percorso che abbiamo seguito attraverso questi incontri ci ha fatto acquisire maggior consapevolezza delle problematiche psicologiche sottese
all’evento separazione.
Ogni persona che si accinge a separarsi rappresenta una storia a sé, una
situazione unica e, quindi, diversa da ogni altra, con bisogni ed emozioni
che vanno capiti per essere tutelati.
Non è certo sufficiente fermarsi ad applicare le norme giuridiche astrattamente senza calarsi nella singola e concreta realtà del caso in esame.
L’avvocato di oggi deve essere in grado di scegliere e consigliare il percorso giuridico più adatto, puntando a salvaguardare gli affetti di cui le
persone sono portatrici, innanzitutto dei minori.
Il percorso psichico del corso ci consentirà di approntare scelte giuridicamente più corrette e sempre più consapevoli.
Un primo risultato delle lunghe riflessioni che hanno accompagnato
il corso si è tradotto nel “protocollo sull’ascolto del minore” che è stato
elaborato tra avvocati, servizi sociali e consultori e con l’intervento dei
magistrati della sezione famiglia del Tribunale di Verona (vedi allegato
nella sezione documenti).
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ROTTURA E
RIPARAZIONE DEI RAPPORTI:
IL RUOLO DELL’AVVOCATO
CRISTINA CURTOLO
PSICOTERAPEUTA, PROFESSORE A CONTRATTO DI PSICOLOGIA CLINICA, UNIVERSITÀ DI VERONA
LA DIRETTRICE DEL CAMBIAMENTO IN CORSO
Uno dei temi salienti dell’esperienza formativa qui di seguito documentata ha riguardato l’analisi delle emozioni che impregnano la scena
della separazione. Da una parte, quindi, l’interesse si è focalizzato sulle
forme che la sofferenza può assumere sia negli adulti che nei bambini, e
il conseguente riverbero sulla cooperazione e genitorialità*; dall’altra, si è
guardato ai nessi concernenti la scelta dell’impostazione giuridica, consapevoli che tali fili dipendono dall’unicità della configurazione che ogni
rottura coniugale assume.
Sin dall’inizio si è respirata un’atmosfera di calda condivisione, corale
dal punto di vista della trama degli interventi che si sono mano a mano
annodati tra di loro, in un crescendo di partecipazione nel ripensare una
buona prassi alla luce della legge sull’affido condiviso, e ai molti interrogativi suscitati.
Oggi, sembra lontanissima l’epoca in cui la giurisprudenza e la psicologia evitavano di incontrarsi, entrambe arroccate con l’alibi di una
incompatibilità che risaliva all’antinomia tra ragione e sentimento. Tale
prospettiva, ahimé, segnò l’impermeabilità del confine tra il punto di vista
giuridico e il punto di vista psicologico che nella pratica contribuì ad una
rigida separatezza dei ruoli professionali identificati con la dimensione
razionale oppure irrazionale della realtà e della sua interpretazione.
Molti sono i fattori che hanno contribuito a superare l’impasse di una
visione monoculare, rendendo possibile un modus operandi caratterizzato
dalla messa a fuoco della collaborazione. Senza dubbio, determinante è
stata la convinzione nella bontà a fare sistema e nella volontà di coloro i
quali si sono impegnati in tale direzione, privilegiando obiettivi per tute13
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lare i minori e offrire sostegno alla genitorialità.
Storicamente all’AIAF va riconosciuto il merito di aver messo in campo una potenza trasformativa per la specificità degli intenti insiti nel suo
compito primario, funzionando da fattore coagulante rispetto alle risorse
istituzionali ed umane. Emblematico di tale cambiamento è il contesto veronese in cui da tempo si è consolidata una rete istituzionale che efficientemente affronta una casistica di procedimenti di separazione al di sopra
della media nazionale. Altrettanto significativo è constatare che questo
dato statistico non ha offuscato la percezione di icona dell’amore romantico che l’universo mondo attribuisce a Verona. Cosicché, fluttuando tra
fantasia e realtà, il nostro territorio è rappresentativo di un malessere globalmente diffuso per l’instabilità crescente dei rapporti familiari e sociali.
Fortunatamente si ha, ormai, una mole di dati sul fenomeno del farsi e
disfarsi dei legami, e sulle conseguenti trasformazioni che la famiglia del
terzo millennio sta attraversando. Tale cambiamento ci riguarda in quanto
membri della comunità, ma anche come professionisti chiamati ad intervenire sulle lacerazioni relazionali poiché costituisce uno snodo cruciale
per la società. Vediamo perché.
L’imperfezione post-moderna la si può sintetizzare in una forma di tirannia del soggettivismo, nel senso di un iper-investimento del singolo su
di sé, e in un analfabetismo morale che erode i presupposti per una convivenza armonica. Inoltre, si osserva una preoccupante esaltazione dello
spirito tribale1che rispecchia un residuo filogenetico di solidarietà scandita
dalla demarcazione amico-nemico, mitigato in maniera ondivaga dall’avvento della democrazia e della laicità.
Focalizzando le coppie ad alta conflittualità agita si riscontra, coerentemente, la tendenza ad una modalità di pensare polarizzata sul principio
noi e loro che si collega all’abbrutimento etico che alcune persone rivelano
nel corso della separazione.
Purtroppo, sempre più spesso si viene a conoscenza di forme di cattiveria, a volte addirittura di malvagità, che esplodono proprio nel momento
in cui si apre il sipario sulla scena giuridica. Potremmo definirli comportamenti di auto-immolazione, ma tale descrizione non ci aiuta a spiegarne
le ragioni.
Certamente, l’avvocato deve fare i conti con le caratteristiche umane
1
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Questa tematica viene ben trattata da Berreby D., Us and Them: Understanding Your Tribal
Mind, Little Brown, new York 2005.
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delle persone che lo consultano e, verosimilmente, si ritrova ad avere
sempre più spesso una funzione di bilanciamento, di contenimento per
l’inevitabile ingerenza che le emozioni hanno sull’attività cognitiva della
valutazione e della decisione.
Per capire questo fenomeno occorre esplorare alcuni tratti della struttura di personalità dell’Homo Novus di cui ci si rende conto qualora emergono comportamenti oggettivamente definibili senza senso.
PENSABILITÀ A RISCHIO
Ad un primo sguardo il baricentro della metamorfosi nella qualità
dei legami lo si individua nell’innesto tra le inquietudini nella capacità
di amare2 e la fabbricazione psichica dei luoghi comuni3: oggi conta di più la
convinzione rispetto il conveniente perché gli individui credono che si
devono sì accettare gli eventi della vita, ma non ha qualsiasi costo.
Il lato debole di tale logica, culturalmente enfatizzata, emerge attingendo argomenti dalla psicologia clinica; studi recenti rivelano nelle persone
un generale incremento nell’incapacità di distinguere, tipicamente il giusto e l’ingiusto, poiché imperfetto è il riconoscimento dell’esistenza di un
limite. Questa funzione psichica è deputata a garantire il mantenimento di
una dialettica interiore tra ciò che si vorrebbe – lo spazio dell’ideale, delle
fantasie – da quello che si può e si deve fare.
Si tratta, in definitiva, di un sano realismo - che non va confuso con
il relativismo - perché caratterizza un certo modo di pensare che porta
anche a tollerare l’impossibilità di porre rimedio ad alcune cose della vita4. Questo indicatore di maturità trae origine da una modalità autoregolatrice
espletata da una struttura cognitiva ed emotiva che si sviluppa durante i
primi anni di vita, e dalla quale dipende lo stile relazionale e la capacità di
adattamento che sono alla base dell’integrazione sociale5.
2
Mi permetto di rimandare ad un mio recente lavoro, Inquietudini nella capacità di amare,
Libreria Universitaria Editore, Verona 2006.
3
Segnalo per un approfondimento l’originale articolo di Montanini M., “Per una metapsicologia dei luoghi comuni”, in Rivista di Psicoanalisi, 3, Borla Editore, Roma 2007.
4
Un saggio particolarmente illuminante sulla dialettica psicoculturale del concetto di limite e
onnipotenza è di M. Balsamo et al., “Pensare il limite”, in Psiche, rivista di cultura psicoanalitica, 2, Il Saggiatore, Milano 2006.
5
Una esaustiva trattazione dei disturbi relazionali* la si trova in Amadei G., Come si ammala
la mente, Il Mulino Editore, Bologna 2005.
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AIAF QUADERNO 2008/1
Questo schema operativo, unitamente alla funzione riflessiva del pensiero, è un fattore protettivo dei rapporti in quanto regola i comportamenti anche quando gli individui sono sottoposti a stress*, abbassando
notevolmente il rischio di reazioni violente. Si tratta, in definitiva, di poter
contare o meno su una supremazia del pensiero quale modulatore delle
caratteristiche negative dell’aggressività, nelle quali rientrano le azioni per
non pensare. Una carenza psicologica diffusa e che è collegabile a percezioni distorte e, quindi, a probabili errori nella razionalità.
Non mi riferisco, infatti, a quadri clinici di disturbi gravi, ma bensì a
tratti di personalità con i quali l’avvocato può trovarsi ad interagire, magari nel tentativo di sanare le difficoltà che contrastano nella bigenitorialità.
Si pensi ad alcune richieste che i genitori possono avanzare e che appaiono all’osservatore insensate poiché non considerano i bisogni autentici dei
figli; in questi casi, alla fonte può esserci il desiderio di autoaffermazione
e difesa dell’identità individuale che non trova altra strada se non quella
di reclamare un maggiore potere genitoriale.
Errori di attribuzione, cattiverie, spiegazioni personalizzate entrano fisiologicamente nella fenomenologia della separazione: una scena di vita
che si può descrivere con la metafora della barca a vela – frequentemente
le persone si vivono in balia delle onde - il cui destino dipende, pertanto,
dalla presenza o assenza dello skipper-avvocato, la cui abilità nell’ascoltare il vento e nel sentire la corrente determina la differenza nel mantenimento o meno dell’assetto e della rotta.
Uno sforzo, quindi, ancora più grande per gli avvocati, ai quali implicitamente viene richiesto di mettere in campo dei correttori di corrente
utili ad arginare la componente distruttiva, dando così spazio a movimenti
ricostruttivi finalizzati a salvaguardare, in modo particolare, i legami affettivi dei minori.
Nella pratica significa impostare un contesto che possa aiutare le persone a guardare in modo autentico alla scena della rottura del legame, in
modo che i resti della separazione non si polarizzino sul versante dell’odio
e del risentimento, inevitabilmente foriero di una patologia della sofferenza che attraversa anche i figli.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
LA MODERNITÀ DELLA FUNZIONE SOCIALE DELL’AVVOCATO
Tra i mali che affliggono la società post-moderna la conflittualità coniugale non è altro che la punta dell’iceberg di un malessere che riguarda la
convivenza in tutte le sue possibili declinazioni.
Geneticamente l’uomo è un animale sociale e questo dato ha ben falsificato la concezione di Hobbes di natura lupina solitaria e prevaricatrice
sulla quale si poteva intervenire grazie all’istinto di obbedienza.
In realtà l’uomo anela alla cooperazione, ma ne è meno capace poiché
i meccanismi di autoregolazione, come si è visto, possono essere compromessi. Ciò significa che l’incrinatura è nel processo di modulazione che
permette il successo del vivere insieme.
L’attitudine democratica non ha colore partitico, è uno stato mentale ed
emotivo che affonda le sue radici nella memoria delle prime esperienze
relazionali. Lapalissiano, seppur freudianamente rimosso, affermare che
la democrazia è un bisogno vitale per lo sviluppo individuale il cui esito
lo si vede nel comportamento etico, nel gusto per la legalità che fa scattare
naturalmente l’indignazione, sollecitata da un sano disgusto quando essa
viene infranta.
All’origine di tale inclinazione psicologica vi è il vissuto precoce di
sintonia, di riconoscimento di sé da parte dell’ambiente in cui si cresce.
Al contrario, se l’essere persona incontra la natura lupina della disumanizzazione o deumanizzazione6 nel periodo della massima vulnerabilità
e dipendenza, allora potrà sviluppare un falso atteggiamento di autosufficienza, una forma pericolosa di tirannia interna che può manifestarsi in
un agire menzognero, antisociale. Mancando lo spazio interiore per una
dialettica del pensare, garante della liceità, della giustizia, dell’amore per
la conoscenza e per la verità*, si rischia di accettare tutto con indifferenza
oppure agire nell’intolleranza, accecati nell’inaccessibilità di un significato poiché autisticamente chiusi nel proprio punto di vista.
Bambini soddisfatti perché compresi, riescono bene nell’alternanza dei
turni e in età adulta ben si adatteranno alle regole del vivere insieme e
godranno di una buona capacità di lavorare e di amare, praticando naturalmente una democrazia del pensiero poiché emotivamente competenti.
6
Questo tema è attualmente al centro di un dibattito multidisciplinare che offre spunti per
interpretare la realtà dei fatti, come pure pensare a modalità che possano invertire tale tendenza. Un recente compendio lo si trova in Psiche, Rivista di cultura psicoanalitica, Deumanizzazione, 1, Il Saggiatore Milano, 2006.
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Nel ripensare alle linee guida di intervento non va, quindi, trascurato
il dato di realtà che sia gli avvocati che gli psicologi ed assistenti sociali si
incrociano nell’anfratto del dolore, venendo a contatto con la violenza del
conflitto*, nell’intento di addomesticare, placare, governare e risolvere.
Occorre entrare nel teatro delle emozioni per comprendere il rischio
di una banalizzazione del dolore che si verifica quando vi è negazione dei
sentimenti, il che comporta la mancanza di elaborazione ed assunzione di
responsabilità da parte dei coniugi. Tale dinamica la si può definire anfratto psichico poiché è inconscia, ma potenzialmente può generare il male, il
farsi del male per l’incastro con la banalità di circostanze favorevoli7.
È la consapevolezza del dolore e del danno che ne deriva, come pure
dei fenomeni di inganno, il collante che deve unire le forze professionali
tese a mantenere una cultura della separazione che possa significare anche una possibilità di reversibilità del moto mors tua vita mea.
Nell’odierno scenario di problematicità dei legami sociali e di una progressiva polverizzazione della famiglia8 è indispensabile sventagliare il
contributo umano del ruolo e della funzione dell’avvocato.
La mia ipotesi è che vi sia un potenziale terapeutico - nel senso di far
star meglio - insito nell’esperienza legale di scontro tra tesi nella misura
in cui si delinea come un’opportunità vera per gli attori in causa di conoscere qualcosa di sé e dell’altro. La verità non è apparenza, tuttavia vi è
“una tendenza della mente umana a colorare la percezione con preconcetti.9” e
questo può portare a miniaturizzare la complessità con il risultato di una
mistificazione.
Nella prassi vuol dire che il riconsiderare gli steps della separazione dal
vertice della verità degli affetti può prevenire quell’esplosione chimica di
emozioni irrisolte che diffonde particelle che vanno a colpire i figli i quali,
per condizione, sono dipendenti e bisognosi di certezze.
Se in passato il sacerdote, il farmacista e il medico di famiglia erano
7
Questo concetto è tratto dal saggio di Arendt H., La banalità del male, Feltrinelli, Milano
dove si trova un’analisi delle circostanze che hanno determinato la shoah. Mi rendo conto
che di primo acchito il riferimento può sembrare esasperato, ma se si assume il punto di
vista della vittima, il vulnerabile ed inerme, si può cogliere l’assonanza fenomenologica e
la logica del terrore perpetrato. A tal proposito suggerisco il libro di Cavarero A., Orrorismo
ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007.
8
Il sociologo Volpi R. offre un’attenta disamina sulle determinanti che contribuiscono alla
scomparsa della famiglia tradizionale. Segnalo, quindi, il suo La fine della famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti. Mondatori, Milano 2007.
9
Lynch, M., La verità e i suoi nemici, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
investiti del ruolo di referenti sociali con funzione di consiglieri, mediatori, garanti dell’ordine ai quali le persone si affidavano seguendone letteralmente il verbo, oggigiorno è l’avvocato ad avere nella forma e nella
sostanza tale valenza. La conferma a tale investitura viene dal picco di litigiosità che il nostro Paese manifesta attraverso una mole di procedimenti
giudiziari, che rende anche ragione dell’elevata proporzione di avvocati
rispetto al resto dell’Europa.
Siamo una popolazione moralmente sgrammaticata e questa constatazione risulta alquanto allarmante alla luce delle recenti ricerche sulla concezione di mente morale,10 con la quale Hauser descrive i processi interni
che sottendono sia il rispetto che la violazione della norma acquisita. Questa ipotesi innovativa ci interessa in quanto teorizza la matrice genetica
dell’istinto morale, inconscio ed universale, per cui enfatizza la necessità
di chiarire i criteri di condotta che effettivamente riflettono la voce morale
della nostra specie.
Se è vero che i nostri istinti morali sono immuni ai comandamenti
espliciti trasmessi dalle religioni e dalle autorità, altrettanto “…è anche un
problema di stupidità l’atteggiamento di coloro che si occupano esclusivamente
del proprio particulare, ossia degli interessi più gretti di sé stessi e dei propri famigliari, calpestando sistematicamente ogni possibile rispetto per tutto ciò che regola
la convivenza allargata.”11
La stupidità è endemica poiché altamente contagiosa; ma, fortunatamente, anche il comportamento intelligente ha tale prerogativa, oltre al
fatto di promuovere un vantaggio condivisibile, come indubbiamente è il
bene dei minori.
CONSIDERAZIONI FINALI
Verosimilmente l’avvocato di famiglia può incontrare situazioni che
possono rivelarsi ingannevoli, dei veri e propri cavalli di Troia, che sottendono un parterre di carenze individuali preoccupanti e, purtroppo, in
aumento.
Certamente la fragilità è un attributo umano normale quando entrano
10 Hauser M., Moral Mind. How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong,
Harper Collins, New York 2006.
11 Jervis G., Pensare diritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
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AIAF QUADERNO 2008/1
in gioco i sentimenti e, quindi, è una falsa credenza considerarne le manifestazioni quali indicatori di inaffidabilità a tutto tondo. Tuttavia, si è visto
anche che all’origine di un tentativo di sovvertimento del significato - che
si traduce nella pretesa di deformare la realtà – può esservi una sofferenza
indicibile perché impensabile.
Il male è una percezione del dolore che può aizzare la spirale del conflitto qualora prevale il bisogno di risarcimento, piuttosto che di riparazione. In modo particolare, la condizione di impotenza esprime sia una
circostanza esterna – per status quo – sia un vissuto interno di minaccia
esistenziale che incide notoriamente sulla dinamica degli accordi.
Se utilizziamo la dimensione della fragilità-vulnerabilità e della rabbiaaggressività come estremi di un continuum di stati emotivi possibili nei coniugi ci troviamo ad affrontare una questione alquanto spinosa: il destino
dei minori in quali mani viene posto?
Di per sé tale considerazione rinforza l’esigenza di un vertice psicogiuridico per raffinare gli strumenti che il divenire del setting12della separazione richiede per ridurre gli effetti dell’impulsività decisionale oppure
della rigidità mentale delle parti a causa di un’impensabilità, come pure
stupidità, che scotomizza la verità: cioè, tutti i membri di una stessa famiglia, prima o poi, devono elaborare il fallimento di quel progetto di vita.
Ultimo, ma non meno importante, anche l’avvocato viene a contatto
con una miriade di emozioni poiché quando si parla di affetti e di bisogni emotivi* le corde di ognuno vibrano nel profondo dell’intimità, costituendo un sottofondo ineludibile al pensare. Potenzialmente una zona
d’ombra si forma nell’intreccio tra personale e professionale, e solamente
la consapevolezza della sua esistenza ed influenza può evitare l’illusione
per un’allusione cieca.
12 Con questo termine, vicariato dalla clinica psicoanalitica, intendo riferirmi alla complessità
degli scenari e alla modalità di categorizzarli per il tramite di una cornice formale che può
facilitare oppure inibire l’emergere del significato sostanziale che la rottura di ogni legame
produce.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
FRAGILITÀ DELLA COPPIA E
FAMIGLIE RICOSTRUITE:
LE EMOZIONI DEI FIGLI
SILVIA VEGETTI FINZI,
ORDINARIO DI PSICOLOGIA DINAMICA, UNIVERSITÀ DI PAVIA
INTRODUZIONE
Nella mia esperienza privata e professionale ho conosciuto molte famiglie in crisi, in procinto di separarsi o già separate, e ne ho tratto la
convinzione che la rottura dei legami familiari sia una delle prove più
difficili da affrontare. In quei momenti è decisivo il modo con cui marito e
moglie contrattano la fine della loro unione, vivono gli inevitabili conflitti,
esprimono le loro differenti emozioni, elaborano il passato e prospettano
il futuro.
Come esiste, secondo l’efficace espressione di Alberoni, “l’amore allo stato nascente”, così esiste la separazione allo stato nascente: il momento aurorale
dell’apertura al possibile, dell’attesa, dell’idealizzazione, della creazione.
La separazione coniugale, anche quando appare meramente distruttiva,
contiene in sé il lievito del rinnovamento, la speranza di realizzare nuove,
impreviste forme di convivenza.
C’è un momento, scriveva Cabanis, in cui sentiamo che siamo. Questo
momento non corrisponde forse proprio all’esperienza passionale?
Dall’altro canto, in certi casi si ha l’impressione che la decisione di separarsi nasca dalla voglia di accrescere, in mancanza di valori comuni,
l’importanza della propria vita, di investire su di sé energie assopite e
disperse nell’anomia della quotidianità. Alla stanca soggettività contemporanea, i panni della passione sembrano offrire una nuova, promettente
Questo articolo è ampiamente tratto da S. Vegetti Finzi, Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli, Mondatori 2005
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AIAF QUADERNO 2008/1
ricomposizione di sé, a volte anche una trionfale affermazione della propria individualità.
Certo, separarsi bene è possibile e molti lo dimostrano, ma non subito,
né senza aver prima elaborato gli immancabili sentimenti negativi di abbandono, di colpa, di rabbia e di vendetta che corredano ogni lacerazione
degli affetti.
La separazione amichevole è un formula di bon ton più che una realtà, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli. In questi casi la serenità è una
conquista, non un punto di partenza, e spesso un eccesso di controllo razionale tradisce una prematura anestesia delle emozioni.
Ben sappiamo che i figli valutano la situazione di rimbalzo e i loro sentimenti riflettono in gran parte quelli degli adulti, anche se non completamente, perché ognuno ha una sua storia e una propria personalità in
base alle quali filtra e interpreta gli avvenimenti. Allora, se padre e madre
ammettono di soffrire, i figli si sentono autorizzati a fare altrettanto, altrimenti si considerano costretti a imitare i loro comportamenti edulcorati,
ritenendoli più appropriati.
Di fronte alla tentazione della “cultura dello spettacolo” in cui viviamo di rappresentare le vicende della separazione familiare in situation
comedy tipo Friends o Sex and the City, tanto brillanti quanto mistificanti,
occorre, quindi, dare voce alle emozioni dei protagonisti.
LA SCENA MADRE
Di solito i protagonisti della separazione familiare vengono considerati
numeri nelle inchieste demografiche, membri di una generazione in quelle sociologiche, individui in crisi nei resoconti psicologici, casi clinici in
quelli psicoanalitici. Ma il più delle volte si tace la loro soggettività.
Il romanzo della vita è, in questi casi, particolarmente complesso, perché la coppia che si separa non è composta soltanto da due persone, molti
sono i personaggi reali e fantastici che popolano la scena. Intorno ai coniugi che non vogliono più essere tali ci sono i figli, i nonni, i parenti prossimi,
gli amici, i colleghi di lavoro e, nella testa di ciascuno, storie di famiglia,
album fotografici, narrazioni e configurazioni prossime e remote.
Ma, se ascoltiamo i protagonisti, il momento decisivo risulta la
dichiarazione:”Non stiamo più insieme”. L’annuncio rende, infatti, esplicite e definitive intenzioni che potevano fino a poco tempo prima sembrare
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
revocabili. Tanto che, quando viene rievocata, la divisione della famiglia
non appare come un lungo processo ma come un fatto puntuale, situato in
un tempo e in uno spazio determinati.
In realtà le separazioni familiari non si improvvisano, hanno radici lunghe e profonde, eppure i ricordi si fissano su alcune situazioni, spesso su
un’unica scena che sembra, nella sua intensità, riassumerle tutte. Talvolta
bisogna fare o non fare le cose per comprendere in seguito, e soltanto in
seguito, perché si è agito così. “Abbiamo provato una spinta a parlarne”
dicono alcuni genitori, cercando di motivare a posteriori la decisione di
comunicare ai figli la loro separazione.
Senza pretendere di controllare ogni scelta, dato che il pensiero è sempre connesso alle emozioni, possiamo però sottoporla a riflessione nella
convinzione che capire le proprie intenzioni aiuta a essere coerenti e a
valutarne le conseguenze.
Certe volte i genitori intenzionati a separarsi si affrettano a darne notizia ai figli per far precipitare la situazione, perché accada davvero qualche
cosa dopo che tra loro ne hanno parlato troppo o troppo poco. In ogni
caso, anche quando sembra scontata, la dichiarazione “Noi ci separiamo”
risulta sempre traumatica per chi la riceve, soprattutto per i figli, che cercano in ogni modo di schermarsi dall’impatto diretto dei fatti.
Occorre, quindi, tenere presente che i bambini vivono una tale dipendenza dagli adulti che ammetterne l’inadeguatezza, ritenerli incapaci di
svolgere i più essenziali compiti genitoriali risulta loro impossibile. Sentendosi, in situazioni di particolare difficoltà, in pericolo di vita, possono
prendere allora, con il coraggio dell’età, una decisione decisiva. Benché non
si tratti di una scelta razionale e consapevole, quell’atto sarà incisivo, forte,
solenne e, per certi versi, irreparabile. Sono queste segrete determinazioni
che, entro le coordinate del destino, fanno di noi quello che siamo.
In ogni caso, prima di riflettere sul modo migliore di comunicare la
separazione familiare, è necessario affrontare un problema preliminare:
dirlo o non dirlo?
Nonostante una diffusa sensibilità psicologica, persiste ancora il pregiudizio che sia meglio mantenere i bambini all’oscuro di tutto. Per il loro
bene, naturalmente. Ma un figlio è già nel conflitto* dei suoi genitori, non
si tratta di introdurlo arbitrariamente nel campo di battaglia, di farne un
complice, ma di considerarlo un soggetto, con diritto di parola. Di fatto,
la consapevolezza di ciò che si sta vivendo aiuta a superare la paura che
s’insinua negli interstizi dell’imprevisto e dell’ignoto poiché la durezza è
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AIAF QUADERNO 2008/1
nei fatti e si tratta di lenirne l’impatto emotivo. Altrimenti si lasciano soli i
più piccoli nel difficile compito di registrare l’evento, fissarlo nella memoria, dargli un senso.
Infatti, guardando alla scena primaria si riscontra la realizzazione di una
contrapposizione tra un prima felice, un vero e proprio paradiso terrestre,
e un dopo contrassegnato da sentimenti negativi come il dolore, la solitudine, la rabbia, che non coincide necessariamente con la realtà. Si tratta
piuttosto di un mito, un “mito personale” intorno al quale s’impernia la
propria autobiografia. In questi casi la narrazione di sé rimane spezzata in
due tronconi contrapposti, una disgiunzione che si ripercuote sull’identità
rendendola incompiuta, imperfetta, sconnessa. Abbiamo, invece, bisogno
di avvertire un senso di continuità nelle alterne vicende della nostra storia
perché solo così ci sentiamo identici nella diversità, interi nella frammentazione, persistenti nella dispersione delle nostre vite. Capaci di manovrare, almeno in parte, i fili del nostro futuro.
LA STABILITÀ DEL MONDO
Come già detto, la separazione è un processo profondamente emotivo.
Non è possibile lasciarsi senza delusioni, recriminazioni, ansia, aggressività, paura, senza ferire e sentirsi feriti. Tuttavia, quando si decide di
parlarne ai figli occorre che i sentimenti negativi si siano almeno parzialmente sedimentati, che ci si senta in grado di trasmettere loro fiducia e
speranza.
Nel momento della separazione l’etica risiede nel porre al primo posto
il bene dei figli. Una constatazione troppo ovvia per essere esplicitata, un
atteggiamento troppo difficile per non essere mai disatteso. Forte è infatti
la tentazione di discolparsi, di porsi in buona luce, di far valere le proprie
ragioni contro quelle dell’altro; impossibile non cedere mai, neppure per
un attimo, alle pressanti richieste del narcisismo. Ma non si chiede ai genitori di essere perfetti, tanto meno in questi frangenti, basta che siano
genitori abbastanza buoni. Ed è sul compito di gestire la paternità e la
maternità che gli ex coniugi si rincontrano.
Poiché per il bambino sono determinanti i cambiamenti che avvengono
nella sua esistenza, è essenziale esaminare la situazione dal suo punto di
vista, cercando di mettersi, non solo nei suoi panni, ma nella sua pelle.
Il problema si pone però in modo particolarmente pregnante quando i
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
genitori cessano di convivere. Per non destrutturate i punti di riferimento
dei figli, che non sono solo spaziali e temporali, ma anche simbolici ed
affettivi, occorre che, nei limiti del possibile, i bambini continuino a vivere
nella stessa casa, nelle medesime stanze, tra i vicini di sempre, circondati
dagli oggetti abituali.
Per essere ritenuto familiare, lo spazio ha bisogno di essere fermo e costante, disponibile alle esplorazioni infantili e ai rituali di riconoscimento.
I gesti rischiano altrimenti di perdere l’automatismo e di assumere connotazioni problematiche e perturbanti.
Nella realtà i figli di separati si trovano spesso a transitare tra due mondi di vita diversi e contrapposti che da soli non riescono a comporre. Ed
è solo l’attenta osservazione dei bambini che può far comprendere come
essi realmente stanno. Come ogni linguaggio, anche il linguaggio del corpo
risente del contesto in cui si è inseriti.
A tal proposito, vediamo quali possono essere i segni ed i relativi significati di una comunicazione non verbale. Prendiamo uno scena tra tante:
accade che il bambino non stia bene proprio quando il papà viene a prenderlo: appena la mamma inizia i preparativi, si lamenta di mal di pancia
o di mal di testa o è assalito da conati di vomito. È difficile stabilire se si
tratta di coincidenze o di segnali di disagio e se il rifiuto del padre sia un
atteggiamento spontaneo oppure indotto da altri, perlopiù dalla madre
che non si fida del papà o semplicemente non ha ancora superato il trauma della separazione.
Dolto ricorda in proposito che anche la salute è un discorso riuscito:
se il bambino cresce bene vuole dire che stiamo facendo le cose giuste. In
caso di ripetuti episodi di malessere, che sopravvengono giust’appunto
quando il bambino dev’essere affidato al genitore non convivente, sarebbe
meglio che questi incontrasse il figlio in campo neutro: in casa dei nonni,
da una zia, o da amici comuni.
Certamente, quando la famiglia si separa, per i figli s’infrange il medesimo involucro, ma gli effetti e le reazioni sono molto diverse. Spesso il
primogenito si schiera con il genitore più debole, quasi sempre la mamma, il secondogenito con il genitore attivo nella separazione, quasi sempre
il padre, mentre gli altri figli restano dietro le file, riparati dai più grandi.
Vorrei segnalare anche un fenomeno recente come possibile esito positivo della separazione familiare: il sorgere di una nuova fratellanza.
Sentendosi soli per l’assenza dei genitori che lavorano e che, per di più,
sono separati, alcuni ragazzi, dello stesso sesso o anche di sesso diverso,
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AIAF QUADERNO 2008/1
si comportano fra di loro come fratelli condividendo la vita quotidiana
quasi fossero membri di una famiglia in realtà inesistente, evocata dal loro
desiderio.
Paradossalmente è il coetaneo, ora, che assume la funzione di referente
e,a volte, anche di rifornimento emotivo in una società che racchiude sempre più a lungo i ragazzi nella riserva protetta dell’adolescenza, mentre i
figli di genitori separati tendono a crescere più in fretta degli altri.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Chi spezza i vincoli familiari si sente libero anche se, paradossalmente, nuovi legami lo attendono e motivano la sua decisione ribelle, per cui
la libertà appena conquistata è già comunque “condizionata”. Va anche
detto che attuare la separazione non è da tutti: è richiesta una particolare
predisposizione psicofisica, un temperamento passionale che alla fisionomica antica appariva forte, sanguigno, estroverso e determinato, ma che
di questi tempi assume spesso, benché non sempre, i tratti del narcisismo
freddo, dell’indifferenza, della decisione di cambiare tanto per cambiare,
senza preoccuparsi troppo dei costi esistenziali per sé e per gli altri.
Le lettere che abbiamo ricevuto, quasi tutte scritte da adulti, raccontano
per filo e per segno il farsi e disfarsi della famiglia d’origine, le conseguenze che ne sono derivate negli anni successivi e quelle che si attendono
negli anni a venire.
C’è, però, anche un passato che non passa, di chi, incapace di ricominciare, si dibatte per le ferite di una disperazione estrema che disumanizza. E in
questa evenienza genitori e figli si possono disperdere nell’annullamento
di una differenza di ruoli che, ahimé, non si riesce più a mantenere.
Lo strano intrecci di sentimenti è determinato dal fatto che i genitori, anche
i più lontani e indifferenti, costituiscono comunque fondamentali presenze interne, icone che veicolano su di sé cariche di amore e di odio, pronte
a esplodere quando gli eventi mettono in crisi l’equilibrio raggiunto.
I figli di genitori separati che abbiamo conosciuto attraverso le loro
storie sono protagonisti di “destini inconclusi”, hanno avuto indubbiamente vite difficili e ancora oggi stanno cercando una soluzione a conflitti
che rinviano alla separazione dei genitori. La loro identità appare incerta,
l’autostima insicura, il bisogno di rassicurazione e compensazione inappagato. Eppure non si può dire che abbiano ceduto alla rassegnazione e
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
alla disperazione. Il fatto stesso che siano riusciti a trovare la voglia di rispondere e il coraggio di scrivere significa che è in atto un lavoro psichico
profondo che non tarderà a dare i propri frutti.
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AIAF QUADERNO 2008/1
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
Indubbiamente, uno dei traguardi di civiltà della nostra epoca è stata
l’apertura all’educazione sessuale dei bambini, al fine di soddisfare saggiamente le loro naturali e comuni domande “Da dove veniamo? Chi porta i bambini?”.
Se ci si sofferma sul significato di tale cambiamento si coglie che il messaggio ai figli è che loro sono il frutto dell’amore dei genitori – liberando,
finalmente, la cicogna di ogni responsabilità! – il che, di per sé, veicola
un’intenzionalità, un atto di volontà il cui alone è il desiderio di un progetto familiare.
Psicologicamente questa comunicazione è una lezione magistrale di
vita che, frequentemente, trova conferma e, quindi, rinforzo in un climax
di quotidiana condivisione.
Su questa linea di pensiero si situa la testimonianza di Silvia Vegetti
Finzi, la quale ci ricorda la bontà del principio della verità* per i figli, sempre e comunque, ancor di più quando i genitori decidono di separarsi.
Nell’avvicendarsi del disfarsi del legame, purtroppo, sono gli adulti a
manifestare una pericolosa reticenza al vero; forse, perché svelare i sentimenti fa aumentare il senso di responsabilità e di colpa. Comunque sia, è
certo che dal momento in cui si dichiara la separazione – la scena madre
– i grandi dovrebbero dimostrarsi particolarmente sensibili e disponibili
affinché i figli possano digerire i vissuti provati, e che non sempre hanno le
parole per raccontare.
Il dolore è parte della vita, soprattutto nella sfera affettiva, e naturalmente vi è un istinto protettivo genitoriale al quale, ingenuamente, si tende ad appellarsi per sostenere la credenza nel far finta per non provocare
sofferenza.
Di fatto, i genitori hanno prove continue della capacità dei bambini di
leggere la mente al di là delle parole, ed è per questa ragione che la funzione protettiva dell’adulto deve essere di filtro. E questo si realizza con un
comportamento partecipativo, proponendo un significato comprensibile
alle emozioni osservate e provate nei piccoli.
Non dimentichiamo che i sentimenti, gli affetti circolano continuamente all’interno della famiglia e se parte di questi sono negativi – rabbia,
rancore,…- rischiano di generare un’atmosfera tossica. Ecco perché, ad un
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
certo punto, la separazione può essere la soluzione migliore: se i genitori
stanno meglio i figli non possono che goderne.
È prassi, ormai, che gli avvocati siano consultati, magari individualmente, nel momento di apice della crisi di coppia. In presenza di figli,
molti sono gli interrogativi che emergono e che li riguardano. Questo
periodo ha un’alta sensibilità, nel senso che quello che succede nel qui
e ora crea inevitabilmente delle premesse. Può essere utile, quindi, già
in sede di consultazione, impostare una strategia con il cliente che tenga
conto dei desideri ragionevoli1 tanto quanto di quegli altrui.
A mio parere è questo uno dei punti di maggior rilievo rispetto alla
legge sull’affido condiviso in quanto richiede un ripensamento della fase
consultiva.
In senso onnicomprensivo il legislatore legittima un orientamento rivolto alla bigenitorialità per cui l’affidamento esclusivo rientra, oggi,
nell’eccezionalità della motivazione prodotta. Se così è, si evidenzia una
ricaduta sul metodo consultivo poiché l’avvocato, tecnicamente, sin da subito dovrebbe individuare una tattica per bonificare il terreno dalle mine
anti-marito o anti-moglie che le persone furiose fantasticano per rivalsa.
L’esperienza, infatti, ci dice che le prime parole ascoltate si imprimono
a fuoco nella persona con-fusa la quale si rivolge al sogge o supposto
sapere.
Parimenti, però, si individua il nucleo del problema: in quella medesima sede l’avvocato imbastisce una propria valutazione - sia della persona
che della situazione – ma finora aveva avuto anche il tempo per apporvi gli opportuni aggiustamenti, dato che l’impostazione era dettata dalle
circostanze. Ora, a fronte del vincolo giuridico si impone una riflessione
sull’efficacia della consultazione.
La necessità di problematizzare la consultazione deriva dal fatto che
sono in aumento le situazioni che hanno le caratteristiche del cavallo di
Troia, dove il sovvertimento2 – l’inganno – è indice di per sé del disagio
sottostante che può riguardare la persona tanto quanto la famiglia come
sistema.
Anche il sociologo Bauman3 segnala tale caratteristica, definendo la
1
Berlin I., La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano 2005.
2
Odifreddi P., Le menzogne di Ulisse. L’avventura della logica da Parmenide ad Amartya
Sen, Longanesi e C., Milano 2004.
3
Bauman Z., Il disagio della post-modernità, Bruno Mondatori, Milano 2002.
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società contemporanea nei termini di modernità liquida, in quanto gli individui non sempre si presentano con una forma propria – l’identità autentica – ma assumono, con una modalità camaleontica, tratti per adattarsi
al contesto. Da qui deriva quel senso di inconsistenza e mutevolezza che
alcuni incontri suscitano.
Partendo dallo stile personale che l’avvocato ha sicuramente maturato
con l’esperienza alcuni potrebbero avvertire l’esigenza di raffinare strategie che aiutino nella comprensione dei fattori facilitanti ed ostacolanti la
scelta dell’impostazione.
Pensare necessita tempo e fatica, ma non solo, anche di formazione per
riuscire a valorizzare la propria soggettività quale metodo di conoscenza.
Mi riferisco a quella forma di intuito che emerge nel hic et nunc e che per
essere colto necessita di mettere tra parentesi tutto il percepito del mondo. Nella letteratura lo troviamo nell’istinto proustiano, in psicoanalisi nel
concetto di pensabilità4 dal quale discende il metodo del pensiero critico, un’attitudine ad affrontare la realtà con uno stato mentale di curiosa ricettività la quale alimenta interrogativi, ridimensionando il giudizio
saturante.
4
30
Curtolo C., Psicologia clinica per esperti nei processi formativi: il modello della pensabilità,
Libreria Universitaria Verona 2006.
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
LA DINAMICA CONIUGALE NEL
FARSI E DISFARSI DEL LEGAME.
SEPARAZIONE PERSONALE E AFFIDAMENTO
CONDIVISO DELLA PROLE
FRANCESCO RUSCELLO
ORDINARIO DI DIRITTO DELLA FAMIGLIA, UNIVERSITÀ DI VERONA
Sommario: 1. Il «farsi» della famiglia nella storicità dell’ordinamento. – 2. «Farsi» della famiglia e rispetto della funzione promozionale della persona. – 3. Il «disfarsi del legame» coniugale quale causa
di una più complessa realtà familiare. – 4. Il «disfarsi del legame» coniugale e l’«affido condiviso». –
5. Segue: il diritto del minore alla «famiglia». – 6. Segue: affidamento della prole e interesse dei figli.
– 7. Segue: l’esercizio della potestà. – 8. Segue: l’affidamento condiviso quale esercizio condiviso
della potestà. – 9. Segue: il mantenimento dei figli. – 10. Conclusioni.
1. IL «FARSI» DELLA FAMIGLIA NELLA STORICITÀ DELL’ORDINAMENTO
Il suggestivo titolo che si è voluto dare agli incontri che oggi siamo
chiamati a introdurre suggeriscono al giurista, tra gli altri, due quasi ovvi
interrogativi: da un lato, cosa si debba intendere per famiglia; dall’altro,
quale sorte debba essere riservata al «disfarsi» del vincolo coniugale.
Non sempre e non da tutti si pone il problema relativo al primo dei
due interrogativi proposti. Eppure, è sotto gli occhi anche dell’osservatore poco attento quanti modelli familiari oggi si possano prospettare 1.
E, quantunque fondi la sua disciplina sulla base della famiglia fondata
sul matrimonio, lo stesso legislatore conosce diverse realtà familiari: da
quelle nucleari (come, per esempio, nelle ipotesi degli artt. 29 cost. e 143
1
Il problema è posto in evidenza, tra gli altri, da V. Scalisi, La “famiglia” e le “famiglie”, in
La Riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del Convegno
di Verona 14-15 giugno 1985 dedicato alla Memoria del prof. Luigi Carraro, Padova, 1986,
p. 270 ss.; nonché, più di recente, da F. Ruscello, Lineamenti di diritto di famiglia, Milano,
2005, p. 9 ss. Da una diversa angolazione, per certi versi ripercorrendo la via tracciata da
chi reputa necessario «far riferimento agli effetti di natura strettamente personale» tipici della
«famiglia coniugale» (il riferimento è a P. Barcellona, Famiglia (Diritto civile), in Enc. dir.,
XVI, Milano, 1967, p. 799 ss. e spec. p. 787 s.), v., da ultimo, G. Giacobbe, Famiglia:
molteplicità di modelli o unità concettuale, in Familia, 2006, p. 1219 ss., che, individua un
unico «preciso e puntuale modello di famiglia che, nella unitarietà della sua configurazione
normativa, esclude che ogni altra e diversa ipotesi di aggregazione sociale possa essere qualificata come famiglia» (ivi, p. 1244).
31
AIAF QUADERNO 2008/1
c.c.) a quelle allargate (si pensi in materia successoria alla rilevanza della
parentela fino al sesto grado ai fini della successione legittima: art. 565
c.c.); da quelle legittime a quelle naturali (per queste ultime, fra tutte, si
pensi alla famiglia prevista dall’art. 30 cost. con riferimento alla filiazione
naturale); da quelle caratterizzate dal vincolo di consanguineità a quelle
che tale vincolo non pongono quale elemento essenziale (può essere, questa, l’ipotesi della famiglia prevista ai fini del diritto di abitazione di cui
all’art. 1023 c.c.).
Nell’ordinamento, la famiglia nasce quale entità sociale e, in particolare nel diritto romano, quale entità anche politica2. E ancora nel codice
civile del 1942, essa conserva le sue caratteristiche di istituzione o, come
anche si usava dire, e non da pochi ancora si dice, di cellula della società,
secondo quella visione aristotelica che da Cicerone viene indicata come
principium urbis. Non a caso, per lungo tempo, alla disciplina normativa
della famiglia è assegnata una natura affatto particolare, né pubblica né
privata; la sua regolamentazione è confinata in un «limbo» nel quale si
vede, attraverso una formula ormai anche abusata, «un’isola» lambita, ma
soltanto lambita, dalle onde del diritto3. Ne segue una famiglia istituzionalizzata e, per ciò stesso, spersonalizzata; una famiglia che riconosce la
sua «unità concettuale» in un «capo», simbolo di un potere che si manifesta al suo interno allo stesso modo di come il principe esercita il suo potere
sui sudditi.
Il marito, quasi esprimendo una scelta di carattere ideologico4, è il
«capo della famiglia», recita ancora l’art. 144 c.c. del 1942, ed esercita la
potestà maritale sulla moglie e la patria potestà sui figli. Una posizione di
supremazia, quella che al marito attribuisce il codice del 1942, che, forse,
non rispecchia nemmeno il contesto storico nel quale lo stesso codice si inserisce e che, sotto questi aspetti, può apparire anche «grottesca»5; una po2
Sul punto, anche per i necessari ragguagli di letteratura, sia consentito a F. RUSCELLO, Dal
patriarcato al rapporto omosessuale: dove va la famiglia?, in Studi in memoria di V. E. Cantelmo, a cura di R. Favale e B. Marucci, II, Napoli, 2003, p. 657 ss.
3
È sin troppo evidente il riferimento alle pur illuminanti pagine di A. C. JEMOLO, La famiglia e il
diritto, in Annali della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, 1948, II, p. 57.
4
«Nel disegno del 1939» – sottolinea, opportunamente, P. ZATTI, Introduzione, in Tratt. dir.
fam. Zatti, I, 1, Famiglia e matrimonio (a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello),
Milano, 2002, p. 20 – «la struttura gerarchica esistente è piegata al tentativo di adeguare il
diritto di famiglia alle esigenze di un regime ormai totalitario».
5
È l’espressione che usa G. GIACOBBE, Famiglia: molteplicità di modelli o unità concettuale,
cit., p. 1224.
32
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
sizione che, con ogni probabilità, vuole anche indicare quella figura della
donna, moglie e madre, da me definita delicata e odiosa a un tempo, di
«angelo del focolare domestico»6, ma che, ora sicuramente, espone il dettato normativo a un ingiustificato contrasto con il principio di eguaglianza
solennemente sancito dall’art. 3 cost. e coerentemente affermato, in ambito coniugale, dall’art. 29 cost. che, appunto, riconosce nella famiglia una
«società naturale» fondata su un matrimonio che pone l’uomo e la donna
su un identico piano di dignità «morale e giuridica». L’eguaglianza, pur
sancita in termini di reciprocità dei diritti e dei doveri che nascono con
il matrimonio, è una eguaglianza soltanto formale perché quegli stessi
diritti e doveri si contraddistinguono per contenuti diversi: la disciplina
dell’adulterio è differente per il marito e per la moglie e differenti sono i
connotati dei doveri di mantenimento e di assistenza. Anche alla moglie si
riconosce la titolarità della potestà sui figli, ma il suo esercizio è riservato
al solo marito.
2. «FARSI» DELLA FAMIGLIA E RISPETTO DELLA FUNZIONE
PROMOZIONALE DELLA PERSONA
Quando, per contro, con l’avvento della Costituzione, alla visione istituzionale si sostituisce quella antropocentrica, si rovesciano i piani del
discorso, la famiglia viene calata nella società e inizia, irreversibile, quel
processo oggi conosciuto con il nome di «privatizzazione della famiglia»7.
La Carta costituzionale, come è noto, inaugura un sistema in cui l’individuo è posto al centro dell’ordinamento in quanto persona e che affonda
le sue radici su una solidarietà economica e sociale coniugata con l’identica dignità riconosciuta a tutti a prescindere da qualunque condizione di
fatto. Anzi, diviene compito imprescindibile della «Repubblica» quello di
rimuovere ogni ostacolo che, limitando la libertà, impedisca lo sviluppo e
la realizzazione della personalità (art. 3, comma 2, cost.)8.
6
V., infatti, F. RUSCELLO, Crisi della famiglia e affidamenti familiari: il nuovo art. 155 c.c., di
prossima pubblicazione in Dir. fam. e pers., 2006.
7
Sul c.d. processo di privatizzazione della famiglia v., tra i più recenti contributi, P. ZATTI,
Familia, familiae – Declinazione di un’idea. I. La privatizzazione del diritto di famiglia, in
Familia, 2002, p. 1 ss.; e F. RUSCELLO, Dal patriarcato al rapporto omosessuale, cit., p. 657
ss.
8
In questa prospettiva è l’insegnamento di P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino-Napoli, 1972, passim.
33
AIAF QUADERNO 2008/1
Queste solenni affermazioni entrano a far parte anche della famiglia
che, ora, diviene una «formazione sociale» nella quale si devono dispiegare le libertà come dei coniugi così dei figli. Da entità gerarchicamente
ordinata e fondata sull’autorità dell’uomo, si normativizza una comunità
che assume valore non per se stessa ma in quanto strumentale alla realizzazione della personalità di chi a quella comunità partecipa9. I figli stessi
sono considerati non più per la legittimità dello status ma perché nati: «È
dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se
nati fuori dal matrimonio» (art. 30, comma 1, cost.). Si costituzionalizza,
in questi limiti, una famiglia anche naturale che, sebbene formalizzata da
quel disposto per il solo rapporto di filiazione, apre gli orizzonti su un
divenire della comunità familiare contraddistinto da valori di natura squisitamente personali ben diversi e lontani da quelli caratterizzanti un dato
normativo ordinario, quello del codice del 1942, sempre più lontano dalle
concrete manifestazioni delle relazioni familiari.
A queste enunciazioni corrisponde, seppure non completamente, la riforma del 1975. Si stravolgono le disposizioni precedenti e, da un lato, i
coniugi sono posti su un piano di effettiva parità, dall’altro, i figli divengono soggetti attivi di un rapporto al quale loro stessi partecipano e nel
quale non sono più meri «oggetto di tutela»10. Alla scarna formulazione
dell’art. 143 del codice del 1942 si sostituisce un complesso disposto che
immagina la relazione fra i coniugi in un rapporto di collaborazione e
alla potestà maritale preferisce un governo diarchico di una comunità ora
fondata su una comunione di vita materiale e spirituale. La potestà dei
genitori si evolve sempre più in «responsabilità» dei genitori11 e le sue
manifestazioni sono sorrette da un esercizio comune del quale è partecipe
anche il minore. I doveri dei genitori non sono più fondati sui principi
9
Anche la famiglia deve avere una ragione giustificativa della sua rilevanza, e ciò si coglie, in
particolare, nel passaggio dal valore in sé della famiglia al valore persona (v., per esempio,
quanto incisivamente sottolinea D. MESSINETTI, Diritti della famiglia e identità della persona,
in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 146) nei limiti entro i quali si ponga quale «strumento di promozione e crescita della personalità individuale» (testualmente v., tra gli altri, V. SCALISI, La
“famiglia” e le “famiglie”, cit., p. 273 s.); anche la famiglia, in altri termini, è sottoposta a
un giudizio di meritevolezza (v., in particolare, P. PERLINGIERI, Sui rapporti personali nella
famiglia, in Rapporti personali nella famiglia, a cura di P. Perlingieri, Napoli, 1982, p. 19).
10 V., per tutti, anche per gli ulteriori riferimenti, F. RUSCELLO, La potestà dei genitori. I rapporti
personali2, in Il Codice civile. Commentario a cura di P. Schlesinger, Milano, 2006, spec.
p. 23 ss.
11 V., per tutti, M. SESTA, Genitori e figli tra potestà e responsabilità, in Riv. dir. priv., 2000, p.
219 ss. ma spec. p. 230 ss.; e, più di recente, L. D’AVACK, L’affidamento condiviso tra regole
giuridiche e discrezionalità del giudice, in Familia, 2006, p. 611 s.
34
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
della morale – principi ai quali faceva riferimento l’abrogato testo dell’art.
147 c.c. – ma devono tener conto delle capacità, dell’inclinazione naturale
e delle aspirazioni dei figli. Sicché al rispetto che i figli devono ai genitori
(art. 315 c.c.) corrisponde un analogo rispetto di questi ultimi verso i figli.
Ma la famiglia, come detto, amplia i suoi orizzonti. Il dato normativo ordinario considera anche altre comunità e fa assumere a queste una
rilevanza prima sconosciuta. Le convivenze, prima «illegittime» e non a
caso identificate anche sotto la forma del «concubinato», sono sempre più
prese in considerazione dallo stesso legislatore, prima ancora che dal costume sociale. Le più recenti disposizioni normative sono particolarmente significative sotto questo aspetto: penso, fra l’altro, alla rilevanza della
convivenza ai fini della disciplina sulle violenze familiari (artt. 342 bis s.
c.c.), ai fini dell’amministrazione di sostegno (artt. 404 ss. c.c.) o ai fini della procreazione medicalmente assistita (l. 19 febbraio 2004, n. 40).
La famiglia diviene una comunità non necessariamente formalizzata da
un atto, il matrimonio, ma una «formazione sociale» caratterizzata da una
comunione di vita materiale e spirituale che, nel perdurare di un «consenso responsabile», si rinnova nella quotidianità di un rapporto complesso.
3. IL «DISFARSI DEL LEGAME» CONIUGALE QUALE CAUSA DI UNA
PIÙ COMPLESSA REALTÀ FAMILIARE
Anche la disciplina della crisi coniugale risente di questa evoluzione.
La visione istituzionale della famiglia imponeva una normativa coerente
a questa impostazione: al matrimonio si riconosceva il carattere dell’indissolubilità e la separazione personale dei coniugi, pur ipotizzata nelle
forme attualmente ancora conosciute della separazione giudiziale e della
separazione consensuale, era considerata un’eccezione e, per ciò stesso,
tipizzata nei suoi presupposti (art. 150 c.c. nel testo abrogato dalla riforma
del 1975). La crisi della relazione coniugale, per essere formalizzata, dove
accordo non v’era, doveva trovare la sua giustificazione nella colpa di uno
o di entrambi i coniugi.
All’affermarsi dei nuovi principi accennati, per contro, corrisponde una
disciplina della crisi coniugale che lascia ai coniugi una autonomia decisionale ora sottoposta a una valutazione di meritevolezza che deve trovare il suo fondamento nella mancata realizzazione della funzione tipica di
quella relazione: l’intollerabilità della convivenza e il pregiudizio dei figli,
35
AIAF QUADERNO 2008/1
presupposti ora previsti dal legislatore per la separazione personale, vanno letti in considerazione del concreto manifestarsi di una relazione che è
strumentale alla realizzazione della personalità così dei coniugi come dei
figli. All’indissolubilità del matrimonio, sicché, non si sostituisce la sua
mera dissolubilità. Il favor matrimonii, sempre meno rilevante, non è più il
favore nei confronti di una «istituzione» ma il favore per lo sviluppo della
persona in una determinata famiglia. Se questa, in quanto fondamentale formazione sociale nella quale anche si manifestano i diritti inviolabili
dell’uomo e i doveri inderogabili di solidarietà, è strumento per sviluppare e realizzare la personalità individuale, il legislatore non può non prevedere una disciplina che tenga conto di queste finalità. In questa dimensione, dire che, con il divorzio, si è sostituito al principio dell’indissolubilità
del matrimonio quello opposto della dissolubilità è limitativo e fuorviante
nei limiti in cui non si coglie la reale riforma che la nuova disciplina sulla
crisi coniugale ha portato all’interno dei rapporti familiari12.
Al disgregarsi di una famiglia, a un tempo, può corrispondere la formazione di una nuova famiglia che non cancella del tutto quella precedente.
Non a caso da parte della dottrina più recente si parla, forse anche enfaticamente, di «solidarietà post-coniugale»13 proprio per sottolineare una
continuità che, se nei confronti dei coniugi, sebbene in corrispondenza
di precisi presupposti, si dispiega limitatamente a determinate situazioni
di carattere patrimoniale, nei confronti dei figli conserva inalterati i suoi
contenuti. E lo stesso legislatore, quantunque non ve ne fosse bisogno, si
preoccupa di precisare che i doveri dei genitori stabiliti dagli artt. 147 e
148 c.c. permangono «anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o
di entrambi i genitori» (art. 6 l. divorzio)14.
La famiglia diviene un fenomeno ancora più complesso e, nei limiti
in cui si può divenire partecipi anche di una pluralità di famiglie, diffi12 Negli stessi termini v., fra gli altri, F. RUSCELLO, Lineamenti di diritto di famiglia, cit., p. 151 ss.
13 V., in particolare, M. BIANCA, La famiglia, Milano, 2005, p. 284
14 Formula, quella richiamata nel testo, sicuramente incompleta (v., infatti, G. F. BASINI, I provvedimenti relativi alla prole, in G. BONILINI e F. TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio,
in Il Codice civile. Commentario a cura di P. Schlesinger, Milano, 1997, p. 595 s.) e, per
certi versi, anche pericolosa (v., infatti, le osservazioni di E. QUADRI, Il minore nella crisi
coniugale, in Giur. it., 1988, IV, c. 22) ma che, «in quanto riguardante effetti non residuali
al rapporto coniugale in crisi ma direttamente nascenti dal rapporto di filiazione comunque
e in qualunque tempo costituitosi, va intesa come riferita a tutti i figli dei genitori separandi
o divorziandi e, per ciò stesso, formalmente indicativa, paradossalmente proprio nella sua
inutilità, di quella che da più parti viene indicata come responsabilità da procreazione dei
genitori» (F. RUSCELLO, La tutela del minore nella crisi coniugale, Milano, 2002, p. 20).
36
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
cilmente enucleabile in formule più o meno definite astrattamente. Anche la famiglia, in una parola, conosce quel fenomeno di «frantumazione
concettuale» già da anni verificato con riferimento ad altri istituti: fra tutti, la proprietà, la responsabilità civile, il contratto. Si tratta, però, di una
«frantumazione» che non è arbitraria o disorganica, ma indicativa delle
diverse modalità attraverso le quali storicamente si è venuta a manifestare la comunità familiare e, a un tempo, della volontà del legislatore di
riconoscere, a volta a volta, la meritevolezza di tutela di situazioni che, se
considerate all’esterno della famiglia, rimarrebbero prive di tutela15.
4. IL «DISFARSI DEL LEGAME» CONIUGALE E L’«AFFIDO CONDIVISO»
È in questo quadro che si deve inserire la nuova disciplina del c.d.
affido condiviso emanata con la l. n. 54 del 2006. Una nuova disciplina
che, di là da ipocrisie, trova il suo fondamento nelle pur giuste pretese
dei genitori non affidatari della prole16 e che, in realtà, come si accennerà
anche di qui a poco, poggia su una non del tutto corretta interpretazione del precedente dato normativo. È vero, d’altra parte, che i limiti delle
nuove disposizioni sono riconosciuti dallo stesso legislatore allorquando
espressamente sottolinea, in sede di approvazione del progetto di legge, la
possibilità di «tornare nuovamente a riflettere sulla materia»17. Sotto altro
verso, poi, stando almeno ai primi commenti18, anche da parte di chi ha
15 Nei termini del testo v., in particolare, F. RUSCELLO, Lineamenti di diritto di famiglia, cit., p.
153.
16 Non è un caso, d’altra parte, che molte proposte di legge, come è espressamente indicato
nelle rispettive relazioni, altro non erano che elaborazioni di testi suggeriti dalle diverse
associazioni dei genitori: penso, tra le altre e soltanto a titolo esemplificativo, alla Proposta
Cento, espressamente formulata sulla base dell’elaborazione dell’Associazione genitori separati dai figli (http://wai.camera.it/_dati/leg14/lavori/stampati/pdf/14PDL0002390.pdf), alla
Proposta di legge Lucchesi ed altri, espressamente presentate sulla base di uno studio svolto
dall’associazione Crescere insieme (http://wai.camera.it/ _dati/leg14/lavori/stampati/
pdf/14PDL0011220.pdf), o alla Proposta Vitali e Marras, (anche questa presentata sulla
base di uno studio dell’associazione Crescere insieme (http://wai.camera.it/_dati/leg14/lavori/stampati/pdf/14PDL0009740.pdf).
17 Lo pone in evidenza anche F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b)
profili processuali, in Fam. e dir., 2006, p. 402, allorquando sottolinea la modestia e la
discutibilità dell’intervento legislativo di riforma.
18 V., in particolare, P. SCHLESINGER, L’affidamento condiviso è diventato legge! Provvedimento
di particolare importanza, purtroppo con inconvenienti di rilievo, in Corr. Giur., 2006, p.
301 ss.; nonché, fra gli altri, P. LOVATI, Affidamento condiviso dei figli: luci ed ombre della
nuova legge, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 165 ss.
37
AIAF QUADERNO 2008/1
promosso più attivamente la riforma, la soddisfazione dei risultati non ha
raggiunto una soglia, per dir così, del tutto tranquillante19.
È ovvio che tutto è perfettibile, e ciò è maggiormente vero in una materia, quale il diritto di famiglia, così sensibile all’evoluzione dei costumi, nei
confronti della quale il continuo adeguamento della disciplina legislativa
alle trasformazioni sociali è una sicura funzione che l’ordinamento deve
non soltanto perseguire ma anche concretamente svolgere. Mi sembra,
nondimeno, che, di là da alcuni irrisolti problemi di armonizzazione con
il complesso sistema familiare20, si sia persa una occasione21, quantunque
evidente sia lo sforzo, principalmente culturale, di responsabilizzare maggiormente i genitori e si prenda pure atto di alcune nuove manifestazioni
del vincolo familiare, espressamente stabilendo, fra l’altro, che le nuove
disposizioni si applichino anche alle ipotesi di rottura di una convivenza.
I principi che si sono voluti affermare possono, sinteticamente, essere
così enucleati: riconoscimento della bigenitorialità, esercizio della potestà in capo a entrambi i coniugi, valutazione prioritaria dell’affidamento
«condiviso».
Di là da ogni altra considerazione, la prima «novità» che il legislatore
ha reputato di dover introdurre riguarda l’espressa previsione del «diritto» del minore alla bigenitorialità, inteso nella conservazione di «un
rapporto equilibrato e continuativo» con entrambi i genitori per modo da
ricevere da ciascuno di essi «cura, educazione e istruzione» (art. 155, com19 Anche riguardo a quella che dovrebbe rappresentare la vera «rivoluzione» del sistema proposto – il riconoscimento espresso del «diritto» alla bigenitorialità pure in sede di crisi del
rapporto coniugale – non sono mancate osservazioni critiche: ambiguo ed esposto a tentativi
di contraffazione interpretativa, per alcuni, bisognoso, per altri, di essere acquisito dalle
generazioni come modello di vita reale, ovvero di una convinta adesione da parte di tutti i
soggetti coinvolti, e soltanto la mera enunciazione di un principio, per altri ancora (per i riferimenti sia consentito rinviare a F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso»,
in Familia, 2006, p. 628 s.).
20 Lo sottolinea anche nonché F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b)
profili processuali, cit., p. 402, dove pone in evidenza, appunto, «la sconcertante impressione che le nuove disposizioni non tengano deliberatamente conto del sistema in cui si inseriscono e che è assente il benché minimo tentativo di armonizzare le nuove norme con la
complessa disciplina codicistica che regola la potestà genitoria e gli effetti della separazione
coniugale».
21 Di «opportunità» persa nel «delineare non soltanto nei contenuti le diverse modalità dell’affidamento ma anche di assegnare a ciascuna di esse una precisa funzione nel “rapporto
familiare” che si costituisce a seguito della separazione personale fra coniugi» è stato già
posto in evidenza da F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso», cit., p.
652. Cfr., altresí, L. D’AVACK, L’affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità
del giudice, cit., p. 609. Alcuni annosi problemi, non affrontati adeguatamente dall’attuale
normativa, sono posti in evidenza anche da L. LENTI, La legge sull’affidamento condiviso:
nell’interesse dei figli o dei padri separati?, in Minori giustizia, 2006, n. 3, p. 247 ss.
38
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
ma 1, c.c.). Si mira, quindi e salvo che ciò non sia contrario all’interesse
preminente della prole, a salvaguardare la conservazione dei rapporti tra
la prole e i genitori, appunto con l’ipotizzato «diritto alla bigenitorialità»,
anche in sede di crisi coniugale, responsabilizzando entrambi i genitori al
rispetto dei loro diritti e doveri. In questi termini, il principio enunciato, se
espressamente indica la necessità che il rapporto genitori-figli abbia una
sua continuità, ribadisce la rilevanza, oltre che dell’interesse del figlio,
dell’interesse del genitore stesso a conservare un rapporto significativo
con la prole 22. Le ragioni che hanno determinato l’intervento del legislatore, infatti, risiedono negli equivoci ai quali, con ogni probabilità, dava luogo la precedente normativa23. Con questa, come è noto, si prevedeva, di regola, l’affidamento della prole a uno soltanto dei genitori (c.d. affidamento
esclusivo) e, soltanto in presenza di un accertata situazione di accordo,
l’affidamento a entrambi (c.d. affidamento congiunto). La formulazione
dell’abrogato testo dell’art. 155 c.c., tuttavia, permetteva interpretazioni
non del tutto conformi al suo spirito e autorizzava, nella pratica delle aule
giudiziarie e nelle ricostruzioni di molta parte di dottrina, la creazione di
un rapporto della prole, con l’uno e l’altro genitore, differenziato di fatto
secondo le attribuzioni a ciascuno di essi ascritte24: al genitore affidatario si riconosceva l’esercizio esclusivo della potestà e, dunque, la cura del
minore; ciò a tutto svantaggio del genitore non affidatario che, non vedendosi riconosciuto l’esercizio della potestà, diveniva, per dir così, il genitore «del tempo libero»25. Muovendo da questa situazione, il legislatore
22 Con specifico riferimento alla riforma del 2006 v. anche G. DE MARZO, L’affidamento condiviso, I, Profili sostanziali, in Foro it., 2006, V, c. 90. Con ogni probabilità, quelle delineate
nel testo, oltre che, come almeno sembra, l’implicita convinzione dello stretto collegamento
funzionale tra bigenitorialità e affidamento condiviso, sono le ragioni che inducono P. MOROZZO DELLA ROCCA, Alcune considerazioni critiche riguardo alla legge sull’affidamento condiviso, in Minori giustizia, 2006, n. 3, p. 14, a sottolineare «che la clausola generale del best
interest del minore smette di essere tale e viene subordinata all’obbiettivo del mantenimento
della bigenitorialità».
23 V. già, nel senso del testo, F. RUSCELLO, Crisi della famiglia e affidamenti familiari: il nuovo
art. 155 c.c., cit. Nella prospettiva del testo, si può convenire con chi, più di recente, pur
sottolineando l’indiscutibile esistenza del diritto alla bigenitorialità già prima della novella
2006, sottolinea che, di fatto, esso veniva sconfessato: M. G. RUO, Riflessioni di un avvocato
sulla prima giurisprudenza, in Minori giustizia, 2006, n. 3, p. 21 s.
24 Ampiamente, sui problemi accennati nel testo, v. la prima edizione di F. RUSCELLO, La potestà
dei genitori. I rapporti personali, in Il Codice civile. Commentario a cura di P. Schlesinger,
Milano, 1996, p. 214 ss.
25 L’osservazione del testo è pressoché pacifica: v., da ultimi e criticamente, L. D’AVACK, L’affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, cit., p. 612; e, in
nota a una decisione del 2004 della Corte di Appello di Cagliari, E. MARONGIU, “Genitore dei
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ha creduto di dover ribadire espressamente la conservazione in capo al
minore e ai genitori del «diritto alla bigenitorialità» prevedendo, appunto,
il mantenimento di rapporti personali regolari e diretti al verosimile fine
di preservare il più possibile la prole dalle conseguenze traumatiche della
crisi tra i suoi genitori e di garantire ai coniugi-genitori l’esercizio delle
loro funzioni inderogabili e inalterabili se non per ragioni intimamente
connesse all’esigenza di tutelare l’interesse del minore.
In realtà, il diritto alla bigenitorialità mai è stato negato26 e la stessa precedente normativa, sebbene soltanto implicitamente, lo riconosceva: dato,
questo, ammesso anche da parte di chi sembra guardare con favore alla riforma27. Lo stesso già ricordato art. 6, comma 1, l. divorzio, nemmeno tanto implicitamente, richiama questa garanzia nell’affermare il permanere
dei doveri genitoriali «anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno
o di entrambi i genitori»; una garanzia che non può non essere ipotizzata
nella indiscutibile continuità del rapporto genitori-figli. Anche con riferimento alle relazioni personali, nessuno dubitava che la «bigenitorialità»
dovesse essere valore da salvaguardare ed essere garantita attraverso una
effettiva conservazione di rapporti il più possibile stabili. Tant’è che, da un
lato, se il genitore affidatario non si fosse attenuto alle condizioni stabilite,
si imponeva al giudice di tener conto di quel comportamento al fine del
cambio di affidamento (art. 6, comma 5, l. divorzio); dall’altro, anche in
giurisprudenza, proprio a garanzia della conservazione del rapporto tra il
figlio e il genitore non affidatario, si riconosceva la risarcibilità del danno
sofferto da quest’ultimo a seguito di ingiustificato impedimento da parte
del genitore affidatario alle relazioni personali con il figlio28. Risarcibilità
doveri” e “genitore dello svago”: problemi in tema di affidamento della prole, in Fam. pers.
e succ., 2006, spec. p. 313 s.
26 «Invero» – precisa già prima della riforma del 2006 anche L. ROSSI CARLEO, Famiglie disgregate: le modalità di attuazione dell’affidamento dei figli fra disciplina attuale e prospettive
di riforma, in Familia, 2004, p. 4 – «le discussioni non vertono certo sul diritto dei minori
alla bigenitorialità, che per tutti costituisce un dato incontestabile e rappresenta un punto che
potremmo definire, nel contempo, sia di partenza che di arrivo». Con espresso riferimento
alla novella del 2006 v., nel senso del testo, tra gli altri, L. LENTI, La legge sull’affidamento
condiviso: nell’interesse dei figli o dei padri separati?, cit., p. 251.
27 V., infatti, tra gli altri, prima della riforma, V. ROSSI, Il minore nei procedimenti di separazione e divorzio, in G. CAMPANATO, V. ROSSI e S. ROSSI, La tutela giuridica del minore. Diritto
sostanziale e processuale, Padova, 2005, p. 437; e, successivamente, R. VILLANI, La nuova
disciplina sull’affidamento condiviso dei figli di genitori separati (Prima parte), in Studium
iuris, 2006, spec. p. 521.
28 Negli stessi termini delineati nel testo v. già, quasi testualmente, F. RUSCELLO, La tutela dei
figli nel nuovo «affido condiviso», cit., p. 650, dove anche ulteriori riferimenti.
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che, oggi, è espressamente prevista dal comma 2 del rinnovato art. 709-ter
c.p.c. nelle ipotesi di «gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle
modalità dell’affidamento».
5. SEGUE: IL DIRITTO DEL MINORE ALLA «FAMIGLIA»
Obiettivo del legislatore è di (far apparire e di) garantire al minore una
situazione «somigliante» a quella vissuta nella fisiologia del rapporto coniugale. Da qui la necessità di far conservare al minore le relazioni con
tutti i suoi familiari e, per ciò, di prevedere anche il suo «diritto […] di
conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale» (art. 155, comma 1, c.c.). Non si tratta, però, a mio
avviso, del riconoscimento di un diritto in capo ai familiari del minore di
intrattenere con lui relazioni personali29: in ogni caso, e come in passato, quando una tale previsione non era ancora formalizzata, volendo pur
parlare in termini di situazioni soggettive semplici, i familiari rimangono
titolari di un interesse legittimo che, per ciò stesso, in tanto può essere
tutelato, in quanto il suo esercizio corrisponda all’interesse del minore30.
È indubbio che, di regola, i rapporti parentali, e in particolare quelli con
i nonni, non soltanto per il significato e per il valore riconosciuto alla famiglia dal nostro ordinamento, ma anche per l’importanza che essi assu29 Cosí, invece, S. PATTI, L’affidamento condiviso dei figli, in Fam. pers. e succ., 2006, p. 300
s. Da una diversa angolazione v., invece, v. L. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei
giudizi di separazione e divorzio. Dall’affidamento esclusivo all’affidamento condiviso.
Esperienze pregresse e novità legislative a confronto, Torino, 2006, p. 185 s., allorquando
pone in evidenza che «La titolarità del diritto al permanere di significativi rapporti con i
nonni è […] del minore». Analogamente v. C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli.
Commento sistematico delle nuove disposizioni in materia di separazione dei genitori e
affidamento condiviso dei figli, Torino, 2006, p. 34 ss. Indeciso è il pensiero di G. AMOROSO, Sul diritto di visita degli ascendenti, in Minori giustizia, 2006, n. 3, spec. p. 66 s., secondo il quale «Si potrebbe configurare la titolarità di un vero e proprio diritto riconosciuto
agli ascendenti, ovvero di un interesse autonomamente meritevole di tutela nell’ambito del
diritto privato, secondo quei criteri, già utilizzati per la nozione di interesse legittimo» (il
virgolettato è a p. 67).
30 La contraddizione che teme S. PATTI, o.c., p. 301, di vedere, cioè, tutelato il rapporto avonipoti «quando i genitori sono separati e non quando essi convivono», non si pone, venendo
riconosciuta la stessa situazione soggettiva, di interesse legittimo, sia nella fisiologia sia nella
patologia del rapporto coniugale: v., infatti, F. RUSCELLO, «Diritto di visita» e tutela della personalità del minore, in Rass. dir. civ., 1989, p. 191 ss. e spec. p. 196 ss. In giurisprudenza
v., in linea di principio nel senso del testo, e dopo l’introduzione della novella del 2006,
Trib. Catania, 26 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/ download/catania_prescrizioni1.PDF.
41
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mono nella crescita di una persona, siano da salvaguardare31. È per questo
che, merito del legislatore è non tanto la previsione in sé – che, in buona
sostanza, altro non prevede se non una situazione di fatto indubbia, seppur talvolta contrastata – quanto l’espressa affermazione di ciò che rappresenta la comunità familiare, quale valore indiscutibile della persona
anche nella crisi del rapporto personale fra coniugi: una comunità che, per
realizzare la funzione promozionale alla quale è espressamente chiamata
dagli artt. 2, 29 e 30 cost., si esprime in un insieme di rapporti non esauribili nella famiglia nucleare, ma che si estendono alle relazioni parentali
«di ciascun ramo genitoriale».
6. SEGUE: AFFIDAMENTO DELLA PROLE E INTERESSE DEI FIGLI
Diversamente da quanto enunciava l’abrogato testo dell’art. 155 c.c., per
rendere effettivo il «diritto alla bigenitorialità, è previsto che l’affidamento
esclusivo a uno dei genitori sia decisione soltanto residuale32 e, per altro,
di là dalle ipotesi nelle quali ricorrano i presupposti per l’applicazione
dell’art. 330 c.c. sulla decadenza dalla potestà33, possibile se, dall’affidamento all’altro genitore, possa derivare un grave pregiudizio al minore
(art. 155 bis c.c.). Il giudice, pertanto, deve valutare «prioritariamente la
possibilità che i figli restino affidati a entrambi i genitori» (art. 155, comma
2, c.c.) e, «qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento
all’altro sia contrario all’interesse del minore», può disporre l’affidamento
a uno soltanto di essi (art. 155 bis, comma 1, c.c.). Affidamento a entrambi
e affidamento esclusivo, seppure con la preferenza netta e precisa verso il
primo, sono destinati a convivere – sebbene, per dir così, a parti invertite
– analogamente a quanto avveniva prima della recente riforma34.
31 Ribadisce, anche di recente, quanto sottolineato nel testo, C. M. BIANCA, La nuova disciplina
in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso: prime riflessioni, in Dir. fam.
e pers., 2006, p. 679.
32 Lo si precisa espressamente non soltanto da parte dei primi commentatori (v., per esempio,
M. SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, in Fam. e dir.,
2006, p. 379), ma anche in giurisprudenza: v., a titolo esemplificativo, già Trib. Chieti,
28 giugno 2006, http//www.iuritalia.it/giurisprudenza/G_showdoc.asp?rid=3&ftc=772185;
Trib. Catania, 16 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/catania_condiviso8.PDF.
33 Un caso emblematico è deciso da Trib. Catania, 26 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/ catania_prescrizioni1.PDF.
34 Sembra, d’altro canto, interessante rilevare che, almeno dalla lettura dei primi provvedimenti
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Dall’esclusivo interesse del minore, quale clausola generale con la quale si intende indicare la necessità di salvaguardare una personalità in formazione di fronte a qualsiasi altra esigenza, si passa, nondimeno, a un
esclusivo interesse soltanto presunto che, proprio in quanto tale, si può
vincere non in relazione a ciò che per il minore – il titolare di quell’interesse – può essere il più utile strumento di promozione, ma soltanto quando
il giudice reputi che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del
minore stesso (art. 155-bis, comma 1, c.c.)35. Quanto, invece, specialmente
di fronte a una personalità in formazione, sia necessario passare da una
valutazione in negativo, qual è quella di «non contrarietà», a una valutazione in positivo di promozione della personalità è posto in evidenza con
forza dalla dottrina più recente36. «È tramontata l’epoca della famiglia, che
potremmo definire “protettiva”, la cui funzione primaria consisteva nella
protezione dei suoi membri dalla fragilità, dall’inesperienza, dalla solitudine, dalla malattia, dalla vecchiaia, e quant’altro. Mentre oggi impera un
modello di famiglia che potremmo chiamare “partecipativa”, visto che i
suoi membri intanto la creano e la mantengono in vita in quanto partecipando ad essa si realizzano a pieno nella loro realtà sociale, relazionale
in merito, le motivazioni e le situazioni di fatto che giustificavano le scelte in tema di affidamento all’uno o all’altro genitore precedentemente all’entrata in vigore della novella del
2006 costituiscono elementi delle attuali decisioni per ammettere o escludere l’affidamento
condiviso: v., in particolare, ai fini dell’ammissione, Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Corriere del merito, 2006, p. 984, sull’irrilevanza, nella valutazione dell’idoneità genitoriale
del coniuge e alle determinazioni circa l’affidamento della prole, della condizione omosessuale del coniuge stesso e delle eventuali relazioni omosessuali da questi intraprese; e, ai
fini dell’esclusione, Trib. Catania, 5 giugno 2006, http//www.iuritalia.it/giurisprudenza/G_
showdoc.asp?rid=5&ftc=769308, secondo il quale non si può disporre «l’affidamento condiviso qualora uno dei coniugi non abbia manifestato alcun interesse in tal senso, piuttosto
evidenziando la propria difficoltà nella gestione di tale forma di affido a causa dell’attività
lavorativa esercitata (nel caso di specie autotrasportatore)».
35 Quantunque l’affidamento a entrambi i genitori sia, in astratto, quello che, di regola, offre
le migliori garanzie: tra i contributi più recenti nell’ambito della «sociologia della famiglia»,
cfr. V. POCAR e P. RONFANI, La famiglia e il diritto, Roma-Bari, 2003, spec. p. 173 ss., i quali,
pur riconoscendo appunto nell’affidamento congiunto – inteso «come piena condivisione
delle responsabilità genitoriali» (ivi, p. 173) – la modalità di attuazione più «compiuta» del
principio di «cogenitorialità», sottolineano come questo principio possa trovare attuazione
anche con l’affidamento a uno soltanto dei genitori (ivi, spec. p. 179). Con riferimento,
invece, a precedenti progetti di riforma dell’art. 155 c.c. v., da due diverse angolazioni, M.
DOGLIOTTI, Idee per una riforma: breve analisi del progetto, in Fam. e dir., 1998, p. 487 ss.;
e C. RIMINI, Separazione e divorzio: verso una riforma, ivi, 1998, p. 490 ss.
36 Già da tempo è, quello delineato nel testo, l’insegnamento di P. PERLINGIERI, La personalità
umana nell’ordinamento giuridico, cit., passim. Con specifico riferimento al problema di
cui è questione in questa sede, mi sembrano nella stessa prospettiva anche le osservazioni di
L. ROSSI CARLEO, Famiglie disgregate: le modalità di attuazione dell’affidamento dei figli fra
disciplina attuale e prospettive di riforma, cit., p. 1 ss.
43
AIAF QUADERNO 2008/1
e professionale. Si è passati, dunque, dalla famiglia “nido” alla famiglia
“trampolino”. E cioè alla famiglia la cui esistenza ed il cui funzionamento
operano da precondizione per raggiungere determinati risultati concreti
in termini di realizzazione della propria identità»37.
Il dubbio che si sia inteso effettivamente garantire l’«esclusivo interesse
del minore» di fronte all’emersione di altri interessi evidentemente reputati, se non superiori a quello, almeno equivalenti38 diventa un interrogativo39. «La verità è che oggi troppo spesso l’egoismo del genitore […]
sembra prevalere sugli interessi dei figli, soggetti deboli che subiscono le
scelte degli adulti»40. Eppure il soggetto – siamo ormai abituati a sentire
– non è più soltanto il punto di riferimento di situazioni soggettive e lo
stesso disposto costituzionale, in questo, è inequivoco nei limiti in cui alla
soggettività, intesa quale momento statico dell’essere, sostituisce la persona nel suo dinamico divenire41. La realizzazione dell’interesse del minore,
quale persona in formazione, esige, in questi termini, prima ancora che
una valutazione di non contrarietà, una valutazione in positivo di meritevolezza della decisione, a volta a volta, presa42.
37 D. MESSINETTI, Diritti della famiglia e identità della persona, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 153 s.
38 Forse non a caso, già si sottolinea che, quantunque l’esclusivo interesse della prole rimanga
il criterio fondamentale sulla base del quale devono essere presi i provvedimenti concernenti
la prole, «non v’è dubbio che per effetto della novella legislativa l’interesse del minore debba
essere valutato applicando i nuovi principi enunciati dalla legge e, primo fra tutti, quello
alla bigenitorialità»: L. BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento
condiviso, in Familia, 2006, p. 656.
39 E, infatti, non manca chi (G. CASABURI, Dall’affidamento congiunto all’affidamento condiviso, in Foro it., 2006, I, c. 1411) pone in rilievo la circostanza che, optando per una presunzione legislativa di favore verso l’affidamento condiviso, si potrebbe essere indotti a credere
che la nuova normativa abbia intesi salvaguardare non tanto l’interesse del minore quanto
quello dei genitori.
40 Lo sottolinea ancora D. MESSINETTI, Diritti della famiglia e identità della persona, cit., p. 152.
41 Esemplari, in questa prospettiva, sono ancora le pagine di P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, cit., passim. «Alla capacità giuridica» – sottolinea su questa
scia F. RUSCELLO, Garanzie fondamentali della persona e ascolto del minore, in Familia,
2002, p. 937 s. – «situazione bensí inviolabile (arg. ex artt. 2, 3 e 22 Cost.) ma qualificante
il momento statico della soggettività, si affianca la dinamica dell’essere persona che si proclama con gli artt. 2 e 3 Cost.: l’individuo, dunque anche il minore, è soggetto titolare di
situazioni soggettive ma, a un tempo, persona alla quale l’ordinamento riconosce la garanzia dello sviluppo e della realizzazione della personalità» (già prima, in questo senso, v.,
diffusamente, P. STANZIONE, Capacità e minore età nella problematica della persona umana,
Camerino-Napoli, 1975, spec. p. 85 ss.).
42 Nei termini delineati nel testo, è pensabile che all’eventuale accordo raggiunto circa l’affidamento della prole, sia esso condiviso o esclusivo debba riconoscersi un valore eminentemente relativo, ed è in quegli stessi limiti che, a mio avviso, si deve intendere l’inciso sulla
«presa d’atto» da parte del giudice degli accordi intervenuti fra i genitori. In argomento, v.,
da due angolazioni parzialmente diverse, S. PATTI, L’affidamento condiviso dei figli, cit., p.
44
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Non soltanto; un dubbio si potrebbe affacciare all’orizzonte anche
sull’effettiva bontà della scelta preferenziale, sebbene a livello soltanto
presuntivo, di un affidamento a entrambi i genitori; e ciò specialmente in
considerazione delle motivazioni che sorreggevano, vigente la precedente normativa, la possibilità data al giudice di pronunciare l’affidamento
congiunto43. Sotto questo profilo, credo che non si abbia del tutto torto
– ma, come accennerò di qui a poco, se con ciò si realizzi effettivamente
l’interesse della prole – quando si afferma che le identiche motivazioni
poste dalla giurisprudenza e dalla dottrina a fondamento dell’affidamento
congiunto debbano sorreggere anche i provvedimenti che, oggi, il giudice è chiamato a emanare, posto che, per espressa previsione dell’art. 155,
comma 2, c.c., i provvedimenti relativi alla prole devono essere presi «con
esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa»44. La scelta
302, secondo il quale «violerebbe la legge […] il giudice che si discosti dagli accordi senza
motivi apprezzabili, e cioè nei casi in cui la sua decisione, che comunque deve porsi in
linea con le scelte dei genitori, non contrarie all’interesse del minore, non sia evidentemente
diretta a realizzare ancor meglio tale interesse»; e, secondo una impostazione più in linea
con la prospettiva che si va delineando in questa sede, M. SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, in Fam. e dir., 2006, p. 382, secondo il quale,
fermo restando il limite dell’interesse del minore, il giudice «ben può disattendere le intese
raggiunte dai genitori» non potendo, questi ultimi, «sic et simpliciter abdicare al principio
della bigenitorialità, di cui l’affido condiviso è tipica espressione».
43 Ancora appena immediatamente prima dell’emanazione della l. n. 54 del 2006 la Cassazione ha precisato quale presupposto per l’affidamento congiunto l’assenza di conflittualità fra
i coniugi: Cass., 20 gennaio 2006, n. 1202, in Foro it., 2006, I, c. 1406 ss., dove anche la
nota di G. CASABURI, Dall’affidamento congiunto all’affidamento condiviso, cit., c. 1406 ss.
È pur vero, tuttavia, che nella giurisprudenza di merito le posizioni che si facevano strada
erano diversificate e a quanti spingevano – specialmente più di recente – per una preferenza verso l’affidamento congiunto anche in ipotesi di una certa conflittualità fra i coniugigenitori, conflittualità che, comunque, non doveva essere di ostacolo alla comune gestione
della vita del figlio [v., per esempio, Trib. Venezia, 22 gennaio 2003, in Fam e dir., 2003,
p. 241 (dove anche la nota di L. SACCHETTI, Dell’affidamento congiunto imposto, p. 243 ss.);
Trib. Viterbo, 14 giugno 2004, in Gius, 2004, p. 3941 s.; Trib. Napoli, 18 gennaio 2005, in
Corriere del merito, 2005, p. 265 s.], si contrapponevano quanti richiedevano uno «spirito
collaborativo» o l’accordo fra i genitori (v., per esempio, Trib. Genova, 18 aprile 1991, in
Giust. civ., 1991, I, p. 3095, dove anche la nota di M. MIGLIETTA, I presupposti dell’affidamento congiunto, p. 3095 ss.; App. Perugia, 18 gennaio 1992, in Dir. fam. e pers., 1994, p.
148 ss.; Trib. Catania, 8 giugno 1994, ivi, 1995, p. 222 ss.) reputandolo addirittura modello
eccezionale (in questo senso App. Venezia, 24 maggio 2004, in Giur. merito, 2005, p. 64).
In dottrina v., fra gli altri e per gli opportuni riferimenti, F. RUSCELLO, La tutela del minore
nella crisi coniugale, cit., p. 110 ss.; nonché, da ultimo e con particolare riferimento anche
alla riforma del 2006, G. F. BASINI, L’affidamento ad un solo genitore prevale ancora sull’affidamento “condiviso”, se cosí impone l’esclusivo interesse della prole, in Fam. per. e succ.,
2006, spec. p. 788 s.
44 V., in particolare, G. F. BASINI, L’affidamento ad un solo genitore prevale ancora sull’affidamento “condiviso”, cit., pp. 781 ss., 784 ss. e spec. p. 789 s.; e di S. ASPREA, La tutela dei
figli nella separazione, nel divorzio e nella famiglia di fatto. Alla luce della legge sull’affido
condiviso e del nuovo patto di famiglia, Torino, 2006, spec. p. 22. Nei limiti entro i quali si sottolinea la difficile pratica applicabilità del nuovo istituto, v., inoltre, G. CASABURI,
45
AIAF QUADERNO 2008/1
dell’affidamento congiunto, come è noto, era dettata dalla necessità di realizzare il più compiutamente possibile l’interesse del minore45 e questo
si immaginava che si potesse attuare quando fra i genitori fosse esistente
una situazione non conflittuale, se non proprio di accordo46. È possibile,
allora, ipotizzare un mutamento di prospettiva da parte del legislatore
rispetto a quanto anche la giurisprudenza della Cassazione reputava doversi accertare per pronunciare un affidamento congiunto? Se l’interesse
esclusivo dei figli esigeva quel modello di valutazione, è possibile interrogarsi sul perché oggi l’affidamento c.d. condiviso dovrebbe essere in via
di logica astratta preferibile?
In realtà, il conflitto fra i coniugi, grave o no che sia, non mi sembra, oggi
Dall’affidamento congiunto all’affidamento condiviso, cit., c. 1412 s. Sul punto v., altresí,
P. MOROZZO DELLA ROCCA, Alcune considerazioni critiche riguardo alla legge sull’affidamento
condiviso, cit., p. 18, dove sottolinea: «come fare ad evitare che, in queste condizioni di
dissenso e frizione, l’affidamento condiviso non risulti essere un salto nel buio di cui i minori
diverrebbero le prime – ma non certo le uniche – vittime?». Singolari, invece, appaiono
le osservazioni di M. SANTINI, L’affidamento congiunto, http://www.altalex.com/index.
php?idnot=35539, che, mentre in un primo momento sottolinea la necessità che, nell’affidamento condiviso, il rapporto tra i genitori sia caratterizzato da «spirito collaborativo» e
da «senso di responsabilità», successivamente precisa, a un tempo, «che ove la litigiosità dei
genitori possa assurgere ad elemento ostativo ad un affidamento congiunto, il nuovo testo
dell’articolo 155 c.c. sarebbe di fatto svuotato di ogni significato», sicché dovrebbe «ritenersi
superato il principio sulla base del quale l’accordo dei coniugi sarebbe presupposto imprescindibile per l’affidamento congiunto della prole».
Sul profilo della conflittualità pongono l’accento anche le prime decisioni in merito: secondo Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Corriere del merito, 2006, p. 984 ss., «la fortissima
conflittualità tra i coniugi osta all’affidamento condiviso»; e secondo Trib. Catania, 1 giugno
2006, http//www.iuritalia.it/giurisprudenza/G_showdoc.asp?rid=6&ftc=770921, l’affidamento condiviso «non può ritenersi precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente tra
i coniugi» [analogamente, già lo stesso Trib. Catania, 18 maggio 2006, http//www.iuritalia.
it/giurisprudenza/G_showdoc.asp?rid=7&ftc=746417, allorquando esclude la possibilità di
un affidamento condiviso quando la richiesta provenga «dal genitore detenuto per episodi
di violenza nei confronti della moglie (madre del bambino) trattandosi di situazioni che
travalicano i limiti dell’ordinaria conflittualità tra i coniugi separandi (di per sé non ostativa
all’affido condiviso)»].
45 Il quale, come è noto, a seguito dell’affidamento congiunto era sottoposto, non a caso,
all’esercizio congiunto della potestà da parte di entrambi i genitori quale «conseguenza
necessaria di tale tipo di affidamento» (testualmente, per tutti, M. MIGLIETTA, I presupposti
dell’affidamento congiunto, cit., p. 3097, dove ulteriori riferimenti).
46 Anche in considerazione delle osservazioni esposte nel testo ho avuto già occasione di chiedermi, infatti, in cosa si potesse distinguere l’attuale affidamento «condiviso» con il precedente affidamento «congiunto»: F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso»,
cit., pp. 636 ss., 644 ss.; sotto quest’ultimo profilo, si esprime, in linea di principio, in senso
analogo G. F. BASINI, L’affidamento ad un solo genitore prevale ancora sull’affidamento
“condiviso”, cit., p. 788 ss. Si ricordi, per altro, che, proprio nella prospettiva accennata
nel testo, l’affidamento congiunto era considerato «un sistema di assai difficile attuazione» (testualmente M. COSTANZA, Quale interesse nell’affidamento congiunto della prole?,
in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 595, dove anche ulteriori ragguagli di dottrina e di
giurisprudenza).
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
più di ieri per l’espressa scelta del legislatore, possa essere di per sé causa
sufficiente per escludere un affidamento condiviso, dovendo rimanere essenziale la prioritaria esigenza di realizzare l’interesse del minore. Credo,
infatti, si abbia ragione quando si precisa che, se emerga una conflittualità
coniugale fondata «esclusivamente nella rottura del rapporto di coppia e
nelle conseguenti problematiche di natura economica tra coniugi» senza
investire «il profilo della condivisione delle responsabilità genitoriali, non
potrà essere ritenuta per ciò solo legittima la previsione dell’affidamento
ad un solo genitore»47.
7. SEGUE: L’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ
Continuando nei suoi intendimenti, il legislatore ha, poi, dissolto inequivocabilmente la discutibile dissociazione fra titolarità ed esercizio della potestà, riconoscendo che la potestà è esercitata da entrambi i genitori e
specificando, forse nel tentativo di adeguare la regolamentazione dei rapporti conseguenti alla separazione a quella immaginabile nella fisiologia
del rapporto familiare (artt. 147 e 316 c.c.), che «Le decisioni di maggiore
interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono
assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione
naturale e delle aspirazioni dei figli» (art. 155, comma 3, c.c.).
Nulla si dice, per contro, relativamente all’esercizio della potestà in
ipotesi di affidamento esclusivo, con ciò lasciandosi aperta una breccia
per quanti ancora vogliano scindere la titolarità dall’esercizio della potestà48: una scissione che, a mio avviso, non trova alcuna spiegazione nella
47 L. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e divorzio, cit., p. 188
s. Già qualche pronuncia, quantunque in una prospettiva diversa da quella che si è andata
delineando in questa sede e mirata a responsabilizzare uno dei genitori, in concreto reputato inadeguato, propende a dichiarare l’affido condiviso pur in presenza di una situazione
conflittuale fra i genitori «perché il distacco dalla figura materna potrebbe essere di grave pregiudizio al minore»: Trib. Ascoli, 16 marzo 2006, http://www.minoriefamiglia.it/
download/ascoli_condiviso1.PDF.
48 V., infatti, quanti escludono l’esercizio in capo a entrambi i genitori della potestà in ipotesi di
affidamento esclusivo: in giurisprudenza, Trib. Catania, 1 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/catania_condiviso5.PDF; e, in dottrina, R. VILLANI, La nuova disciplina
sull’affidamento condiviso dei figli di genitori separati (Seconda parte), in Studium iuris,
2006, p. 668; M. SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali,
cit., p. 380 s.; L. BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, cit., p. 660; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Alcune considerazioni critiche riguardo alla
legge sull’affidamento condiviso, cit., p. 15; M. G. RUO, Riflessioni di un avvocato sulla
prima giurisprudenza, cit., p. 27; L. LENTI, La legge sull’affidamento condiviso: nell’interesse
47
AIAF QUADERNO 2008/1
dinamica delle situazioni soggettive le quali, come mi sembra evidente, devono avere un loro ciclo di realizzazione che dalla nascita va fino
all’estinzione e che nell’esercizio trova uno dei momenti maggiormente
significativi. Per altro, qui si discute della potestà dei genitori, cioè di una
situazione soggettiva di rango costituzionale e tutelata, se non esclusivamente, almeno prioritariamente nell’interesse del minore49. Si tratta di una
situazione soggettiva complessa che non può essere compromessa da fatti
non collegabili all’interesse della prole. Sicché, se questo interesse esige
che il genitore non eserciti la potestà, allora mi sembra evidente che sia
necessario ricorrere alla decadenza dalla potestà. La stessa decadenza dalla potestà, non a caso, non estingue la situazione, ponendola soltanto in
uno stato di quiescenza e fino a quando, «escluso ogni pregiudizio per il
figlio», il giudice non decida di reintegrare il genitore nell’esercizio delle
sue funzioni (art. 332 c.c.).
Oggi, più di ieri, coerentemente al sistema di valori e di principi espressi dal nostro sistema, non si possono non interpretare gli artt. 155 e 155-bis
c.c. in considerazione del principio espresso dall’art. 317 c.c. che si richiama bensì, per l’esercizio della potestà, alle disposizioni previste per la crisi
coniugale ma garantendo, a un tempo, la comune potestà ai genitori50.
Diversamente dalla normativa previgente, d’altro canto, il legislatore non
si è preoccupato di riconoscere in capo al genitore non affidatario il diritto
di «vigilanza» – che, nell’ipotesi in cui si dia rilevanza al silenzio normativo, dovrebbe essere escluso al genitore, con la conseguenza, per certi verdei figli o dei padri separati?, cit., p. 257. In senso contrario, però, v., in giurisprudenza,
Trib. Trento, 11 aprile 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/trento_condiviso1.
PDF; e, in dottrina, F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso», cit., p. 651
s.; ID., Crisi della famiglia e affidamenti familiari: il nuovo art. 155 c.c., cit.; F. TOMMASEO,
Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 394; L. D’AVACK,
L’affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, cit., p. 610; S.
ASPREA, La tutela dei figli nella separazione, nel divorzio e nella famiglia di fatto, cit., pp.
22, 25; L. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e divorzio, cit.,
p. 188; C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli, cit., p. 17; nonché, almeno sembra,
G. GIACOBBE, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, in Dir. fam. e
pers., 2006, p. 710.
49 Nel senso del testo v., in particolare, F. RUSCELLO, Potestà genitoria e filiazione incestuosa,
in Riv. giur. Molise e Sannio, 1996, p. 150; ma già prima l’insegnamento di M. GIORGIANNI,
Della potestà dei genitori, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di G.
Cian, G. Oppo e A. Trabucchi, IV, Padova, 1992, p. 286, ricorda che la riforma del 1975
è fondata, tra l’altro, «su una decisa affermazione che la potestà viene attribuita ai genitori
nell’esclusivo interesse del figlio».
50 Opportunamente, e sebbene con riferimento ad altro problema, S. ASPREA, La tutela dei figli
nella separazione, nel divorzio e nella famiglia di fatto, cit., p. 14, pone in evidenza che la
nuova normativa trova nell’art. 147 c.c. il suo «principio ispiratore».
48
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
si paradossale, che la sua posizione dovrebbe essere equiparata, a questi
fini, a quella di qualunque altro parente – ma ha soltanto ribadito, senza
stabilire a quali ipotesi si dovesse applicare il disposto, che «Le decisioni
di maggiore interesse per i figli […] sono assunte di comune accordo» dai
genitori (art. 155, comma 3, c.c.). Ed è di palmare evidenza che, quando si
parla di decisioni da prendersi nell’interesse dei figli, non si può parlare
d’altro se non di decisioni che sono esplicazioni della potestà e, dunque,
del suo esercizio51: non a caso, lo stesso comma 3 dell’art. 155 c.c. aggiunge
che, per le questioni di ordinaria amministrazione, «il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente»52.
8. SEGUE: L’AFFIDAMENTO CONDIVISO QUALE ESERCIZIO
CONDIVISO DELLA POTESTÀ
Per cogliere le ragioni che mi inducono a concludere nel senso appena
prospettato, devo chiarire il significato che mi sembra doversi assegnare
all’affidamento condiviso, un modello di affidamento colpevolmente non
definito dal legislatore53 e che suscita già qualche incertezza54. Se da un
primo lato, infatti, pur precisandosi da alcuni che l’innovazione potrebbe
non essere esclusivamente terminologica55, si accosta l’affidamento condiviso al precedente affidamento congiunto56, da un secondo lato si distin51 Lo sottolineano anche M. GIORGIANNI, Della potestà dei genitori, cit., p. 336; e L. FERRI, Della
potestà dei genitori, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, a cura di F. Galgano, Libro Primo, Delle persone e della famiglia, Bologna-Roma, 1988, p. 46.
52 Disposizione, quella richiamata nel testo, che secondo F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 394, si dovrebbe applicare soltanto in
ipotesi di affidamento condiviso, giacché, nell’affidamento esclusivo, le questioni di ordinaria amministrazione dovrebbero essere nell’esercizio del solo genitore affidatario.
53 Amaramente sottolinea, in proposito, F. SASSANO, Diritto di famiglia: siamo veramente sicuri che cambi tutto?, http://www.personaedanno.it/site/se_browse1.
php?campo1.=26&campo2=243& browse_id=1444, che la conquistata parità di ruoli
tra madre e padre, pur meritevole, è un «grosso equivoco», atteso che «nessuno ha spiegato
in termini pratici come realizzare l’affidamento condiviso».
54 Incertezze che, con ogni probabilità, si devono all’inadeguatezza del testo legislativo, carente – secondo P. SCHLESINGER, L’affidamento condiviso è diventato legge!, cit., p. 304,
del quale anche le parole tra virgolette in questa nota – di criteri direttivi ai quali il giudice
possa affidarsi per «disciplinare come debba “condividersi” l’affidamento ad “entrambi i
genitori”».
55 Il riferimento è, in particolare, a G. GIACOBBE, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, cit., p. 708.
56 Nei termini del testo v., infatti, G. GIACOBBE, o.l.u.c.; e, almeno sembrerebbe, F. TOMMASEO,
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AIAF QUADERNO 2008/1
guono nettamente i due modelli di affidamento57. Da quest’ultima angolazione, in particolare, precisato che la locuzione «affidamento condiviso»,
secondo il significato letterale dell’espressione «condividere» che indica
uno «spartire insieme con altri», rimanda a un’idea di «compartecipazione», si individua, nell’affidamento condiviso, un affidamento «ripartito fra
i genitori» e, nell’affidamento congiunto, un affidamento «che vede i genitori esercitare il loro ruolo assieme, cioè a mani unite»58. Una distinzione,
questa, che – almeno così mi pare di poter rilevare – se può trovare un suo
fondamento letterale nel riconosciuto esercizio della potestà in capo a «entrambi i genitori» (art. 155, comma 3, c.c. prima parte)59, sembra, nondimeno, ancora da un punto di vista letterale, contrastare con l’attribuzione
del dovere ascritto in capo a entrambi i genitori di assumere «di comune
accordo» le decisioni di «maggiore interesse per i figli»60 e con il potere del
Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 393, secondo il
quale, in particolare, l’affidamento condiviso «si specifica nel mantenimento diretto e nel diretto impegno di ciascuno nell’educazione, cura e istruzione del figlio minore e ciò secondo
criteri oggetto di determinazione pattizia o giudiziale». Parlano, invece, indifferentemente,
equiparandoli nella sostanza, di affidamento «congiunto» e di affidamento «condiviso» M.
SANTINI, L’affidamento congiunto, cit., passim; e S. PASCASI, Il nuovo affido condiviso, risvolti pratici, http://www.altalex.com/index.php?idstr=26&idnot=10408. La distinzione,
pur concettualmente possibile, è sfumata secondo L. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori
nei giudizi di separazione e divorzio, cit., p. 188.
57 Espressamente nel senso del testo cfr. M. SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso, cit., p. 380. In giurisprudenza, v. Trib. Catania, 16 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/catania_condiviso8.PDF, secondo il quale, in particolare,
«L’affidamento condiviso non può ritenersi […] precluso di per sé dalla mera conflittualità
esistente tra i coniugi, poiché altrimenti avrebbe solo un applicazione residuale, coincidente
con il vecchio affidamento congiunto; e ciò anche considerato il fatto che l’uno dei coniugi
potrebbe strumentalmente innescare in via unilaterale i conflitti al fine magari di orientare il
decidente verso un affidamento esclusivo».
58 M. SESTA, o.l.u.c.
59 E ciò a differenza di quanto stabilisce il comma 2 dell’art. 316 c.c. in base al quale la potestà «è esercitata di comune accordo» dai genitori: differenza terminologica, dunque, che
potrebbe lasciar supporre, appunto, la distinzione richiamata nel testo e proposta da M.
SESTA, o.l.u.c., che, pur tuttavia, passando a distinguere i caratteri dell’affidamento condiviso e dell’affidamento esclusivo, riconosce, come anche si preciserà di qui a poco, che «la
nozione di affidamento non può degradare al mero profilo materiale della collocazione del
figlio presso l’uno o l’altro genitore» – profilo, quest’ultimo, che «si pone allo stesso modo
nell’affidamento condiviso ed in quello esclusivo» – non potendo altro significare se non
attribuzione al genitore delle responsabilità connesse al compito di crescere il figlio e di
prendersene cura: va da sé – continua M. SESTA, o.l.u.c. – che la differenza tra i due modelli
di affidamento (condiviso ed esclusivo) «non può che ricercarsi nello strumento che ai genitori è dato per esercitare tali funzioni, che è la potestà».
60 Ora, per contro, diversamente da quanto stabiliva il precedente testo dell’art. 155, comma 3,
c.c. in base al quale «le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi
i coniugi», ma sicuramente in un modo che lascia intendere nella sua formulazione letterale
un esercizio fatto, appunto, «assieme, cioè a mani unite» (è la richiamata espressione di M.
SESTA, o.l.u.c., per contraddistinguere l’affidamento congiunto dall’affidamento condiviso).
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
giudice di «stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente» per
le decisioni «su questioni di ordinaria amministrazione» (così la seconda
parte dello stesso comma 3 dell’art. 155 c.c.)61.
Certo mi sembra che, di là dalle questioni terminologiche alle quali si è
accennato62, quando il legislatore del 2006 si riferisce all’affidamento, si
richiama a una nozione ben diversa da quella immaginata dal legislatore
del 1975 nell’abrogato testo dell’art. 155 c.c. A ben vedere, il testo abrogato
dell’art. 155 c.c. rimandava a una nozione di affidamento che indicava la
collocazione materiale del minore presso uno dei genitori; sicché, quando
si individuava il genitore affidatario, si individuava, in buona sostanza, il
genitore presso il quale il figlio doveva vivere. Era in questa prospettiva
che si riconosceva, nel genitore affidatario, il genitore «esercente la potestà» (era, in particolare, il genitore che poteva curare nelle necessità quotidiane il figlio) e, nell’altro genitore, il genitore che «vigilava» sull’istruzione e sull’educazione del figlio e che «esercitava» la potestà relativamente
alle questioni di «maggiore interesse», le quali, non a caso, dovevano essere «adottate da entrambi i coniugi»63: il legislatore, in una parola, prendeva atto della situazione di non convivenza dei genitori e della necessità di
allocare la prole presso uno di essi prevedendo modalità attuative dell’accordo diverse da quelle stabilite nella fisiologia del rapporto coniugale64.
Oggi, per contro, quando si richiama all’affidamento «a entrambi i genitori» (l’affidamento c.d. condiviso), il legislatore non fa più riferimento
alla collocazione materiale del minore, ma, più verosimilmente, alla sua
cura65. Di là da quanto accennerò di qui a poco, anche in alcuni progetti di
61 Con ciò – e di là da qualunque altra considerazione sul contenuto della disposizione – ipotizzando un esercizio «ripartito» che tale – almeno mi sembra sulla base del disposto letterale – dovrebbe essere soltanto con riferimento alle questioni di «ordinaria amministrazione»
e non per ogni altra relativa all’esercizio della potestà.
62 La dizione «affidamento condiviso», d’altra parte, non risulta mai nel testo delle nuove disposizioni: gli unici riferimenti sono nel titolo della legge n. 54 del 2006 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) e nella rubrica del nuovo
art. 155 bis c.c. (Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso).
63 Diffusamente sul punto v. la prima edizione di F. RUSCELLO, La potestà dei genitori. I rapporti
personali, in Il Codice civile. Commentario a cura di P. Schlesinger, Milano, 1996, p. 214
ss.
64 Nel senso del testo oltre a F. RUSCELLO, o.l.u.c., cfr., altresí, ID., Lineamenti di diritto di famiglia, cit., p. 170 s.
65 In linea di principio è quanto sembra evincersi anche nel pensiero di P. SCHLESINGER, L’affidamento condiviso è diventato legge!, cit., p. 302, quando sottolinea che l’affidamento condiviso è «tale da comportare un onere a carico di padre e madre di ricercare con ogni maggiore
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legge precedenti a quello definitivamente approvato si precisa, dopo aver
affermato il principio che la potestà è congiunta ed è esercitata da parte
di entrambi i genitori, che il giudice designa, con il consenso delle parti,
con quale genitore il figlio debba convivere (il riferimento è, in particolare,
all’art. 1 della Proposta di legge presentata dall’on. Cento)66 e nella stessa
relazione al progetto definitivo presentato all’approvazione della Camera dei deputati67 si sottolinea che «affidamento condiviso non vuol dire
permanente oscillazione dei figli da una casa all’altra. Un conto è l’affidamento, un conto è la collocazione abitativa o la frequentazione. Sono due
concetti completamente diversi. Sì può avere una collocazione ripartita
secondo standard sostanzialmente attuali, quindi, anche con prevalenza
presso l’abitazione di uno dei due genitori, ma senza la discriminazione
che oggi comporta l’affidamento esclusivo»68.
È indubbio il valore relativo e non vincolante dei lavori preparato-
possibile buona volontà una collaborazione tra loro per favorire un riparto non conflittuale
delle loro funzioni a favore dei figli, specie di quelli più piccoli, e del tempo con cui ciascuno di essi può cercare di dargli assistenza e affetto» (v. anche, infra, testo e note). V., altresí,
P. MOROZZO DELLA ROCCA, Alcune considerazioni critiche riguardo alla legge sull’affidamento
condiviso, cit., p. 16, dove si interroga su cosa voglia dire l’espressione «”affidamento condiviso” di diverso ed in più rispetto all’esercizio della potestà in comune». In giurisprudenza
v., nella prospettiva del testo, Trib. Messina, 18 luglio 2006, http://www.minoriefamiglia.
it/download/messina_condiviso1.PDF, secondo cui, in particolare, «la caratteristica saliente
dell’affidamento ad entrambi, nel nuovo sistema normativo, appare individuabile non tanto
nella dualità della residenza e nella parità dei tempi che il minore trascorre con l’uno o l’altro
genitore, bensì nella paritaria condivisione del ruolo genitoriale: in questo senso depongono
le indicazioni per la determinazione giudiziale dei tempi che il minore trascorre con l’uno
o l’altro genitore e la mantenuta disposizione sulla assegnazione della casa familiare. Il minore necessita, infatti, di un riferimento abitativo stabile e di una organizzazione domestica
coerente con le sue necessità di studi e di normale vita sociale: da qui la necessità di una
collocazione privilegiata e di una regola organizzativa anche sui tempi da trascorrere con il
genitore non domiciliatario».
66 http://wai.camera.it/_dati/leg14/lavori/stampati/pdf/14PDL0002390.pdf
67 http://wai.camera.it/_dati/leg14/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?pdl=%2066
68 Una impostazione, quella accennata nel testo, che l’on. Paniz preannuncia nella discussione
sulle linee generali del testo unificato delle proposte di legge nella seduta n. 600 del 10 marzo 2005, quando, in particolare sottolinea: «Il testo in esame non tende ad una ripartizione
analitica dei tempi di convivenza del minore con i genitori: nel testo unificato, affidamento
ad entrambi i genitori non significa 50 per cento del tempo del figlio con ciascun genitore
né 50 per cento delle competenze, né ping pong tra due case, ma conservazione di effettiva
responsabilità genitoriale per entrambi i genitori, con modalità di esercizio della potestà da
stabilire caso per caso. Si può anche avere una divisione temporale, se necessario, simile
ad un affidamento esclusivo, ma senza rigidità e senza le umilianti discriminazioni che il
regime attuale, purtroppo, prevede» (http://wai.camera.it/_dati/leg14/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?pdl=%2066).
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
ri69, ma da essi non sembra si possa aprioristicamente prescindere70. In
questi termini, mi sembra certo che il minore, ancora oggi, debba vivere
(comunque, prevalentemente) con uno dei genitori71: salvo a intendere la
«condivisione» dell’affidamento in termini di «turnazione» della vivenza
del figlio con i genitori 72 allo stesso modo di come da taluni si defini69 È quanto si sottolinea anche in giurisprudenza allorquando si precisa che i lavori preparatori
non si possono sovrapporre a quanto espresso dal disposto normativo quale emerge dal suo
dato letterale e logico: v., in questi termini, espressamente, Cass., 27 febbraio 1995, n.
2230, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 532; nonché, in linea di principio analogamente, Cass., 22
aprile 1980, in Rep. Foro it., 1981, voce Legge penale, c. 1813 s., n. 5; Cass. pen, 3 luglio
1997, n. 8962, in Cass. pen., 1998, p. 1431.
70 Ancora in giurisprudenza v. Cass., 27 febbraio 1995, n. 2230, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 532,
secondo la quale, in particolare, ai lavori preparatori si può riconoscere valore sussidiario ai
fini ermeneutici quando essi, unitamente ad altri canoni interpretativi o elementi di valutazioni emergenti dal disposto normativo, siano idonei a chiarire la portata di una disposizione
legislativa della quale appaia ambigua la formulazione. Analogamente, nei limiti entro i quali i lavori preparatori sono richiamati, tra le altre motivazioni, a fondamento della decisione,
specialmente quando ciò sia utile al fine di individuare «l’intenzione del legislatore», v., per
esempio, Cass., Sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338, in Danno e resp., 2004, p. 499 ss.; e,
già prima, Cass., 11 luglio 1989, n. 3266, in Giust. civ., 1989, I, p. 2283 ss.; Trib. Pordenone, 26 gennaio 1994, in Giust. civ., 1994, I, p. 1103 s.; Cass., 16 marzo 1996, n. 2238, in
Mass. Giust. civ., 1996, p. 375. Nella stessa logica sembrano richiamare i lavori preparatori
anche i giudici di Palazzo della Consulta: v., infatti, Corte cost., 22 febbraio 1990, n. 72,
in Giust. civ., 1990, I, p. 1429 ss. Per gli opportuni richiami anche di letteratura e per una
puntuale sintesi sul punto, cfr. V. RIZZO, Delle fonti del diritto, in Codice civile annotato con
la dottrina e la giurisprudenza2 a cura di P. Perlingieri, I, Bologna-Napoli, 1991, spec. p.
104 ss.
71 V., infatti, anche Trib. min. Bologna, 26 aprile 2006, http://www.personaedanno.it/files/
personaedanno_browse1_it_ 3725_resource_orig-doc, che parla, in particolare, di
«collocamento principale» del figlio minore presso uno dei genitori; e, implicitamente, seppure con riferimento all’affidamento congiunto, Cass., 28 febbraio 2000, n. 2210, in Rep.
Foro it., 2000, voce Separazione di coniugi, p. 2096, n. 64. In dottrina v., espressamente,
F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 394;
nonché G. CASABURI, Dall’affidamento congiunto all’affidamento condiviso, cit., c. 1411; P.
MOROZZO DELLA ROCCA, Alcune considerazioni critiche riguardo alla legge sull’affidamento
condiviso, cit., p. 16; e C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli, cit., p. 53 s., che
espressamente reputa «provvedimento che il Giudice dovrà sempre adottare» quello relativo
alla «stabile collocazione materiale del minore presso l’abitazione di uno dei genitori» (il
virgolettato è a p. 54).
Sotto altro verso, mi sembra di poter sottolineare che l’affermazione di cui nel testo non possa essere smentita dal disposto dell’art. 155, comma 4, n. 3, c.c. che impone al giudice, in
sede di determinazione dell’assegno periodico di mantenimento della prole, di tenere conto,
tra l’altro, dei tempi di permanenza del figlio «presso ciascun genitore»: da un lato, perché la
stessa determinazione dell’assegno è soltanto eventuale («ove necessario», precisa, infatti, lo
stesso legislatore), dall’altro, perché il giudice deve, comunque, garantire alla prole il diritto,
espressamente indicato dal comma 1 dell’art. 155 c.c., «di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo» con ciascun genitore (in senso contrario v., però, M. BERGONZI PERRONE, La
nuova legge sull’affido condiviso, http//www.altalex.com/index.php?idstr=26&idnot=2508,
secondo il quale, infatti, «i figli dovranno in linea di principio “permanere” (id est: vivere)
con entrambi i genitori, paritariamente», come testimonierebbe, tra l’altro, proprio il menzionato n. 3 del comma 4 dell’art. 155 c.c.).
72 V., in questi termini, però, già qualche primo commentatore: M. SANTINI, L’affidamento congiunto, cit., secondo il quale, infatti, una delle modalità attraverso le quali si può esplicare
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AIAF QUADERNO 2008/1
va l’affidamento alternato73, lo testimonia anche l’art. 155 quater c.c. che,
a prescindere dal modello di affidamento, prevede l’assegnazione della
casa familiare «tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli»74.
Se quanto precede è vero, va da sé che la decisione sull’affidamento non
può che essere intesa nel senso di decisione circa le modalità attraverso le
quali si può realizzare la cura del minore75. D’altro canto, se la prole deve
conservare, sempre e nei limiti del possibile, un rapporto con i genitori
«equilibrato e continuativo» (come precisa l’art. 155, comma 1, c.c.), tale
rapporto dovrà indicare non tanto la necessità di un «elemento» materiale, quale può essere quello, pur importante, della coabitazione76, quanto la
presenza di un «elemento» che garantisca al minore un corretto sviluppo
l’affidamento condiviso sarebbe, appunto, «l’affidamento a residenza alternata, caratterizzata dal fatto che il minore alterna periodi di convivenza presso l’uno e l’altro genitore o sono
gli stessi genitori ad alternarsi nella casa dove i figli abitano stabilmente». In giurisprudenza
v., per esempio, Trib. Catania, 16 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/catania_condiviso8.PDF.
73 Un affidamento che – non è inutile ricordarlo, e quantunque da parte di alcuni ne si vorrebbe la reviviscenza proprio con l’attuale normativa (M. BERGONZI PERRONE, La nuova legge
sull’affido condiviso, cit.) – era a tal punto denigrato, specialmente quando individuato in
questi termini, da suscitare addirittura dubbi sulla sua costituzionalità: v., ancora, F. RUSCELLO, La tutela del minore nella crisi coniugale, cit., p. 122 ss., dove anche gli opportuni
riferimenti di dottrina e di giurisprudenza.
74 Lo rileva, sebbene ad altri fini, anche F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 394, quando precisa che «L’affidamento condiviso
non impedisce […] la collocazione abitativa del minore presso uno dei suoi genitori, come
avviene quando si tratta della casa familiare assegnata a uno di essi […]: restano ferme sia la
possibilità che il minore possa dimorare anche con l’altro genitore, sia la reciproca frequentazione dei genitori allo scopo di garantire al minore il godimento dei diritti riconosciutigli
dal 1° co,,a dell’art. 155: si tratta dunque di “mantenere un rapporto continuativo e equilibrato con i genitori” e di ricevere da entrambi “cura educazione e istruzione”».
75 All’esercizio della potestà, come s’è accennato, fa riferimento, in questo senso opportunamente, anche M. SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso, cit., p. 380; nonché L.
LENTI, La legge sull’affidamento condiviso: nell’interesse dei figli o dei padri separati?, cit., p.
254 s.; e la prima giurisprudenza che si è venuta formando in questi primi tempi di applicazione della nuova normativa. V., per esempio, Trib. Bologna, 10 aprile 2006, http://www.
personaedanno.it/files/personaedanno_browse1_it _3654_resource_orig-doc, secondo il quale all’affidamento condiviso «consegue non tanto una parificazione circa modalità e tempi di svolgimento del rapporto tra il figlio e ciascuno dei genitori, quanto piuttosto
l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi i genitori e una condivisione delle
decisioni di maggiore importanza»; e Trib. min. Milano, 6 ottobre 2006, http://www.personaedanno.it/files/personaedanno_browse_it_4737_resource_orig. doc, secondo
il quale, ancor più in particolare, «il regime dell’affidamento, che va inteso come esercizio
della potestà, ovvero assunzione delle decisioni relative alla educazione, alla istruzione, alla
salute, alle attività extrascolastiche o altro che riguardino il figlio minore, non va confuso
con il collocamento del minore stesso presso l’uno o l’altro genitore».
76 Elemento sul quale il giudice, in ogni caso, è chiamato a decidere nei limiti entro i quali
deve determinare «i tempi e le modalità» della presenza dei figli presso ciascun genitore (art.
155, comma 2, c.c.).
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
della personalità attraverso la cura e l’educazione da parte di entrambi i
genitori quale può essere la continuità della «vita relazionale». Da qui, la
necessità di riconoscere l’esercizio della potestà in capo a entrambi i genitori (art. 155, comma 3, c.c.) anche quando, nei limiti precisati dall’art. 155
bis c.c., il giudice pronunci l’affidamento esclusivo.
Nella prospettiva delineata, nella quale l’esercizio della potestà rimane in capo a entrambi i genitori, salvo contrario interesse del minore che
esiga, addirittura, il rinvio al giudice competente per l’eventuale adozione
di un provvedimento ablativo della potestà, e di là dalle osservazioni già
svolte riguardo alle possibili motivazioni che sorreggevano l’affidamento
congiunto previsto in sede di divorzio, mi sembra, allora, che la previsione
di un affidamento esclusivo accanto all’ipotizzata regola dell’affidamento
a entrambi i genitori ponga il problema di verificare in cosa l’affidamento
esclusivo sia diverso dall’affidamento a entrambi i genitori77.
Se è vero che la potestà è funzione di rango costituzionale posta a garanzia dell’interesse del minore, che la nozione di affidamento fa riferimento
non all’elemento materiale della coabitazione ma all’aspetto della cura e
della corresponsabilità attribuita ai genitori, e che l’affidamento esclusivo,
proprio per questo, si immagina doversi disporre in casi eccezionali, sembra vero anche, per un verso, che la potestà non può aprioristicamente essere esclusa dalla sola circostanza che sia disposto l’affidamento esclusivo,
per un altro verso, che non è possibile dare risposte meccaniche e aprioristiche, in un senso come nell’altro. Va da sé che, per conciliare quanto indica il legislatore proprio con riferimento all’affidamento esclusivo quando
precisa che, per quanto possibile, di deve far salvo il diritto del minore di
conservare «un rapporto equilibrato e continuativo» con ciascun genitore
(art. 155 bis c.c.), occorre conciliare le ragioni che hanno indotto a questo
modello di affidamento con l’esercizio stesso della potestà che, in ogni
caso, presuppone la realizzazione dell’interesse del figlio. Credo, allora,
che se un senso possono avere le soluzioni proposte dal legislatore, questo
deve essere ipotizzato nelle peculiarità che sono riconosciute all’esercizio
della potestà. Credo, in altri termini, che qui possa e debba valere quanto,
vigente la precedente disciplina, si sottolineava quando si riconosceva in
77 Interrogativo che, non a caso, si pone la dottrina che esclude il permanere dell’esercizio della potestà in capo a entrambi i genitori nelle ipotesi di affidamento esclusivo: v., per esempio, L. BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, cit.,
p. 660, che pur precisa come anche in ipotesi di affidamento condiviso «si porrà il problema
del collocamento stabile presso uno dei genitori».
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capo al genitore non affidatario una «potestà affievolita» o, comunque,
come io stesso preferivo, «differenziata». È, dunque, non l’esercizio in sé
quanto il suo contenuto a essere modificato78. Al genitore non affidatario,
cioè, si dovranno riconoscere soltanto quelle modalità per le quali è indispensabile, nell’interesse del figlio, il suo intervento – perché modalità
predisposte a tutela della prole – e un diritto alla conservazione dei rapporti con la prole «compatibile» con le ragioni – sicuramente diverse da
caso a caso – che hanno consigliato l’affidamento esclusivo79.
9. SEGUE: IL MANTENIMENTO DEI FIGLI
Sotto altro verso, è vero anche che i compiti dei genitori non subiscono
variazioni a motivo dell’intervenuta crisi coniugale. Anche il contributo
patrimoniale per far fronte ai doveri stabiliti dall’art. 147 c.c. rimane, di
regola, identico a quello prefigurato nella fisiologia del rapporto, pur dandosi spazio all’accordo dei genitori in un ambito nei confronti del quale
l’autoregolamentazione pur incontra più di un limite80. Si dispone, infatti,
che, «Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti», accordi in
ogni caso mai possibili in contrasto con l’interesse dei figli (art. 155, comma 2, c.c.), ciascun genitore «provvede al mantenimento dei figli in misura
78 Nella prospettiva delineata nel testo v., ora, anche C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei
figli, cit., p. 17 s., dove sottolinea che il provvedimento di affidamento «servirà essenzialmente al fine di stabilire, da un lato, la collocazione prevalente del minore presso uno dei
genitori (la c.d. domiciliazione privilegiata), anche in ragione dei consequenziali provvedimenti economici e sull’assegnazione della casa familiare; dall’altro, servirà a determinare
i tempi e le modalità di permanenza del minore presso ciascun genitore, nonché a fissare i
loro compiti di cura rispetto alla prole (oltre all’eventuale regolamentazione dell’esercizio
separato della potestà genitoriale su questioni di ordinaria amministrazione. […] Conseguentemente […] il provvedimento di affidamento della prole dovrebbe costituire una sorta di statuto, di programma riguardante i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun
genitore, ed indicare, altresí, le responsabilità assunte da questi ultimi, con riferimento ai
compiti di cura del minore» (ivi, in nota, ulteriori riferimenti).
79 Testualmente, nel senso del testo, F. RUSCELLO, Crisi della famiglia e affidamenti familiari: il
nuovo art. 155 c.c., cit. «Il rischio» – sottolinea opportunamente L. D’AVACK, L’affidamento
condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, cit., p. 622 s. – «è certamente
quello di dare vita ad un diritto fatto dai giudici in violazione dell’art. 12 delle disposizioni
sulla legge in generale. Ma ciascuno sa che, liberata dagli eccessi esegetici che sovente
niente altro sono che dei paraventi, la libertà non è arbitrio e che deve avere per limiti le
già ricordate esigenze della ragione, della coerenza degli insiemi legislativi, dei bisogni di
sicurezza e d’equità del diritto che i giudici hanno il compito di rispettare e conciliare».
80 È quanto rilevano già F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso», cit., p.
632; e L. BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, cit.,
p. 662 s.
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SGUARDI
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proporzionale al proprio reddito» (art. 155, comma 4, c.c.). Anche sotto il
profilo materiale del mantenimento, dunque, l’intendimento del legislatore sembra mirato alla tendenziale conservazione di un rapporto genitori-figli simile a quello precedente la crisi coniugale: con l’affidamento
condiviso nulla dovrebbe mutare, se non l’incidenza della diversa presenza giornaliera dei genitori rispetto alle quotidiane necessità economiche
della prole81. Da qui la possibilità di far fronte al dovere di mantenimento
in via diretta da parte di ciascuno dei genitori, provvedendo in proprio
all’acquisto di beni e a quanto necessario nella vita quotidiana della prole,
e, qualora il giudice lo reputi necessario e, comunque, in considerazione
delle particolarità della situazione di fatto conseguente alla separazione
dei genitori, secondo i parametri di riferimento espressamente indicati dal legislatore (art. 155, comma 4, c.c.)82, in via indiretta, mediante il
versamento all’altro coniuge di un assegno periodico, verosimilmente a
conguaglio del contributo che residua a quello dovuto ove il modo diretto
non lo copra interamente.
Si adegua espressamente, a un tempo, il disposto normativo a un ormai
consolidato orientamento, stabilendo la possibilità di «disporre in favore
dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di
un assegno periodico» (art. 155-quinquies c.c.)83. Viene eliminato, a mio av81 Analogamente Trib. Catania, 16 giugno 2006, http://www.minoriefamiglia.it/download/catania_condiviso8.PDF.
82 Parametri, quelli espressamente indicati dall’art. 155, comma 4, c.c., ai quali deve aggiungersi quello eventuale relativo al godimento della casa familiare che, secondo l’art. 155 quater c.c., concorre nella regolamentazione dei rapporti patrimoniali fra i genitori. È evidente,
infatti, che «il genitore titolare di un diritto reale sull’immobile già adibito a casa familiare e,
in ipotesi, assegnata a favore dell’altro genitore convivente con i figli (o affidatario esclusivo
degli stessi), avrà adempiuto, per una rilevante quota parte, all’obbligo di mantenimento su
di lui gravante, garantendo alla prole un’idonea dimora in cui vivere» (C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli, cit., p. 90).
83 V., infatti, anche per gli ulteriori riferimenti, F. RUSCELLO, La tutela del minore nella crisi
coniugale, cit., p. 210 ss. Rimane, però, il dubbio sui limiti del diritto riconosciuto e delle
«circostanze» da valutare ai fini della determinazione dell’assegno periodico. Secondo F.
TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 398,
da un lato, il diritto del figlio maggiorenne all’assegno periodico continua a presupporre,
come precisato in passato anche dalla giurisprudenza (v., però, in senso contrario, le osservazioni di M. BESSONE, Diritto al mantenimento del figlio maggiorenne e direttive dell’art. 30
comma 1°, Cost., in Giur. it., 1975, I, 2, c. 625 s.), «il carattere incolpevole della mancata
indipendenza economica», dall’altro, «le circostanze che il giudice deve valutare sono i fatti
secondari la cui prova dà la prova indiretta dell’esistenza del fatto costitutivo del diritto al
mantenimento eventualmente quantificabile nell’assegno». Reputa, invece, che l’orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza lascia «qualche margine alla riflessione se si dovesse riconoscere all’affermazione valore assoluto e astratto dalle specifiche connotazioni del
caso concreto», F. RUSCELLO, La potestà dei genitori. I rapporti personali2, cit., p. 101 s., testo
e nota 286, dove anche ulteriori indicazioni.
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AIAF QUADERNO 2008/1
viso, in questo modo, il pericolo di dubbie interpretazioni, attraverso le
quali si esclude la reviviscenza del dovere di mantenimento a favore del
figlio che, resosi autonomo con lo svolgimento di una adeguata attività
lavorativa, perda poi questa autonomia per l’insuccesso in quella stessa
attività84; interpretazioni che, giustificabili forse in una logica formale, mal
si conciliano con l’effettivo diritto spettante ai figli di qualsiasi età ma bisognosi di ultimare il processo di formazione personale.
Anche a quest’ultimo riguardo, tuttavia, mi si prospettano dei dubbi.
Mentre, in una dimensione mirata a responsabilizzare i genitori con la
condivisione delle scelte relative ai figli, non può non destare meraviglia
la previsione del versamento diretto al figlio dell’assegno di mantenimento, prefigurandosi, con ciò e sebbene entro certi limi, la rottura dei
rapporti fra i genitori; sotto diverso aspetto, proprio questa previsione
sembra porsi in contrasto con quanto da alcuni si suggeriva in dottrina e
in giurisprudenza sulla natura solidale dell’obbligo di mantenimento dei
genitori85. È ben noto, infatti, che da più parti – me compreso – l’obbligo
di mantenimento si definiva quale dovere dei genitori a questi ascritto per
il solo rapporto di filiazione e, in quanto tale, enucleabile alla stregua di
una situazione esistenziale e inviolabile del figlio. Sicché si configurava
l’obbligo di mantenimento dei genitori come dovere solidale nei rapporti
esterni (dunque, nei rapporti con il figlio) e parziario nei rapporti interni
(dunque nei rapporti fra i genitori): ciò che legittimava, a maggior tutela
dell’interesse della prole, la possibilità di richiedere la totalità dell’obbligo
indifferentemente a ciascun genitore. Bene; alla luce della nuova disciplina, si può reputare modificata questa soluzione dalla previsione in parola? Ha forse il legislatore voluto scindere effettivamente l’unitario dovere
dei genitori in due distinti obblighi di mantenimento? Se questa dovesse
essere la soluzione, non soltanto la scelta si porrebbe in contrasto con gli
84 V., infatti, tra le più recenti, Cass., 7 luglio 2004, n. 12477, in Mass. Giust. civ., 2004, 1551;
e Cass., 2 dicembre 2005, n. 26259, http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.
jsp?idCat=40&idArt =31231.
85 In questo senso v., fra gli altri, in dottrina, M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in
Comm. Schlesinger, Milano, 1990, p. 302; RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, Milano, 2000, p. 500 s.; C. M. BIANCA, La famiglia, cit., p. 320 s.; e, in giurisprudenza, Cass., 26
giugno 1987, n. 5619, in Rep. Foro it., 1987, voce Filiazione, 1132, n. 90; Cass., 20 aprile
1991, n. 4273, in Giur. it., 1991, I, 1, 634 ss., dove anche nota di riferimenti e osservazioni
di L. LENTI, Sulla collaborazione dei genitori al mantenimento del figlio naturale, 635 ss.;
Trib. S. Maria Capua Vetere, 24 gennaio 2000, in Giur. napoletana, 2000, 110; Cass., 22
novembre 2000, n. 15063, in Giust. civ., 2001, I, 1296; Cass. 16 ottobre 2003, n. 15481,
in Rep. Foro it., 2003, voce Matrimonio, 1532, n. 106.
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
intendimenti del legislatore della riforma, che ha tentato di modellare il
rapporto dei figli con i genitori sulla scorta della fisiologia del rapporto
familiare, ma, a un tempo, non potrei non manifestare più di un dubbio
sulla sua costituzionalità: da un lato, sarebbe in evidente contrasto con il
principio di eguaglianza, ponendo i figli di genitori separati in una posizione diversa rispetto ai figli di genitori conviventi; dall’altro contravverrebbe al disposto dell’art. 30 cost. che solennemente riconosce in capo ai
genitori il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli per il
solo fatto di essere genitori. È vero, d’altra parte, che lo stesso legislatore
ordinario, con l’art. 279 c.c., riconosce questo diritto del figlio a prescindere dal suo formale status.
10. CONCLUSIONI
Tralascio ogni eventuale considerazione sul potere riconosciuto al giudice di disporre «l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni
dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento» (art. 155 sexies, comma 1, c.c.); disposizione, quest’ultima, che non può non suscitare
qualche dubbio allorquando dovesse essere intesa quale attribuzione al
giudice di un vero e proprio dovere di ascoltare il minore 86: una scelta
in tal senso, almeno mi sembra, tralascerebbe di considerare che la tutela
della persona del minore e dei suoi interessi impongono di porre, se si
vuole, sullo stesso piano ascolto e non ascolto privilegiando la soluzione
coerente con l’interesse esclusivo del minore 87.
86 Tra i primi commentatori, non manca chi già parla di «obbligo» di ascolto del minore capace
di discernimento: v., infatti, M. FINOCCHIARO, Commento alla l. 8 febbraio 2006, n. 54, in
Guida al diritto, 18 marzo 2006, n. 11, p. 29; M. R. VERARDO, Per la continuità della genitorialità oltre la separazione, in Minori giustizia, 2006, n. 3, p. 10, che sembra individuare
un diritto del minore a essere ascoltato a fronte del quale vi sarebbe un obbligo del giudice;
nonché L. FADIGA, Problemi vecchi e nuovi in tema di ascolto del minore, in Minori giustizia, 2006, n. 3, p. 138 s. Reputa, per contro, in una prospettiva sicuramente condivisibile,
che l’ascolto del minore sia «momento essenziale per la formazione del convincimento
del giudice, la cui pretermissione, se non motivata con espresso riferimento al contrario
interesse del minore, è causa di nullità del procedimento», F. TOMMASEO, Le nuove norme
sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 397, che, non a caso, aggiunge la
necessità di un «ascolto protetto» e che, in ogni caso, tenga «conto delle speciali esigenze
di protezione della personalità del minore».
87 In argomento v., diffusamente, F. RUSCELLO, Garanzie fondamentali della persona e ascolto
del minore, in Familia, 2002, p. 933 ss. e spec. p. 956; nonché, con particolare riferimento
alla nuova disciplina, ID., La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso», cit., p. 634 s.,
dove anche ulteriori riferimenti.
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Come anche, per evidenti ragioni di tempo, evito di trattenermi sull’art.
155 quater c.c. relativamente all’assegnazione della casa familiare: anche
questa, disposizione che prospetta più di un dubbio sulla sua costituzionalità nella parte in cui prevede la perdita del diritto al godimento della
casa familiare qualora il genitore assegnatario «conviva more uxorio o
contragga nuovo matrimonio» 88. Se si possono cogliere le ragioni della
scelta del legislatore, non si può mancare di avvertire che, nella decisione
sulla assegnazione della casa familiare, si intrecciano interessi di natura
patrimoniale ed esistenziale che, sotto il profilo evidenziato, non mi sembra vengano bilanciati nel disposto normativo tenendo conto dell’imprescindibile gerarchia dei valori imposta dall’ordinamento costituzionale.
Non potendo ancora trattenermi anche su questi temi, mi avvio a concludere. Come ho avuto modo di precisare in altre occasioni, credo che
ogni riforma, per realizzare i suoi intendimenti, debba essere accolta dalla coscienza sociale. Proprio per questo, ho fatto mio, conseguentemente, l’insegnamento di chi pone in rilievo che «Il diritto può assolvere una
duplice funzione: conservare le situazioni presenti di fatto, conformando
le proprie regole a quelle esistenti, dove la norma non fa che trasfigurare,
tradurre in termini normativi gli interessi prevalenti ed egemoni; modifi88 Dubbi che già si sollevano da F. RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo «affido condiviso»,
cit., p. 636, testo e nota 40. Tra gli altri, dubbi vengono sollevati anche da F. MICELA, L’assegnazione della casa familiare fra interessi dei figli e degli adulti, in Minori giustizia, 2006, n.
3, p. 99; da L. LENTI, La legge sull’affidamento condiviso: nell’interesse dei figli o dei padri
separati?, cit., p. 260 s.; nonché, se alla disposizione si riconosca «un carattere tassativo per
il giudice», da parte di L. D’AVACK, L’affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, cit., p. 619; e, se «Riguardata nell’ottica del fondamentale interesse dei
figli alla conservazione dell’ambiente domestico», da parte di L. BALESTRA, Brevi notazioni
sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, cit., p. 666. In una prospettiva meno
traumatica per l’ordinamento ma senza nascondersi i pericoli destabilizzanti di una attuazione del disposto normativo che non corregga «il tenore letterale della nuova norma con il
dare il dovuto spessore alle esigenze di tutela del minore», v. F. TOMMASEO, Le nuove norme
sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 397. Sulla legittimità del disposto,
invece, v. C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli, cit., p. 147 ss.
Sotto altro aspetto, l’art. 155 quater c.c. si potrebbe reputare illegittimo anche nella parte in
cui, non rinviando, come invece faceva l’art. 6 l. divorzio, all’art. 1599 c.c., sembrerebbe
richiedere, ai fini dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare
ai terzi, sempre la sua trascrizione. Sul punto v., fra gli altri e da due diverse angolazioni,
A. ZACCARIA, Opponibilità e durata dell’assegnazione della casa familiare, dalla riforma del
diritto di famiglia alla nuova legge sull’affidamento condiviso, in Fam. pers.e succ., 2006, p.
780, che non esclude l’incostituzionalità della disposizione; e E. QUADRI, Nuove prospettive
in tema di assegnazione della casa familiare, in Corriere giuridico, 2006, p. 1146, secondo
il quale, di fronte a una possibile questione di legittimità, «la pronunzia della Corte, per
coerenza con le finalità di necessaria tutela dell’interesse dei figli […], non potrebbe prevedibilmente che essere costituita da una decisione interpretativa orientata nel senso del ripudio
di una esegesi tale da pregiudicare irragionevolmente, e in misura decisiva, la realizzazione
dei valori costituzionali ritenuti assolutamente preminenti in materia».
60
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
care quelle strutture creando nuove regole, sotto la spinta di interessi contrastanti ed alternativi. […] Il legislatore non sempre fa proprie le istanze
che la società esprime; talvolta le disattende o le interpreta diversamente
sì da trasformare la realtà secondo un’autonoma valutazione» 89.
Se questo, come credo, è vero, non mi è difficile pensare che la riforma
ponga, in buona sostanza, un problema di ordine culturale 90 per l’espressa
responsabilità che riconosce ai genitori – quali soggetti destinati a concretizzare le diversificate manifestazioni dell’esercizio dei loro doveri di cura
ipotizzabili a seguito della separazione – di conservare nei figli almeno
l’illusione di non averli persi.
89 P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale2, Napoli, 1991, p. 64 s. (ma già
prima ID., Profili istituzionali del diritto civile, Camerino-Napoli, 1975, p. 3 s.)
90 Una spinta in tal senso, per vero, si può rinvenire anche in alcune decisioni giurisprudenziali
precedenti all’emanazione della l. n. 54 del 2006. Espressamente v., in particolare, Trib.
Milano, 9 gennaio 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 584 ss. (dove anche la
nota critica di M. COSTANZA, Quale interesse nell’affidamento congiunto della prole?, cit.,
p. 592 ss.), secondo cui l’affidamento congiunto della prole presuppone il massimo spirito
collaborativo tra i genitori, e deve pertanto escludersi allorquando persistano contrasti tra i
medesimi; tuttavia il giudice, in considerazione dell’esclusivo interesse della prole, può ben
disporre l’affidamento congiunto anche in presenza di una situazione conflittuale tra i genitori stessi. In tale ipotesi – continua il tribunale – la soluzione dell’affidamento congiunto,
pur non rispecchiando una attuale disponibilità dei genitori a collaborare, va inteso come
provvedimento che imponga agli stessi un simile dovere di collaborazione, al fine di realizzare le esigenze di ordine affettivo e psicologico della prole.
61
AIAF QUADERNO 2008/1
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
TRAUMA EMOTIVO E DANNO
PSICHICO E/O PSICOLOGICO
ANNA OLIVA DE CESAREI
MEDICO PSICHIATRA, PSICOANALISTA DIDATTA SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA.
Nella separazione, il problema si definisce apparentemente nei termini di una problematica individuale di due persone ormai “legalmente
separate”che devono affrontare la perdita del legame; ciò che complica
ulteriormente la situazione è cosa rimane – i resti – della problematica
personale e della coppia e come vengono messi in gioco.
Da qui la necessità di considerare gli affetti in gioco nella unione per
comprendere meglio caratteristiche specifiche della separazione.
La separazione è l’esperienza che ognuno di noi deve affrontare dall’inizio alla fine della vita, con tanti passaggi intermedi che segnano il processo di crescita.
La vita dell’uomo comporta, per definizione, continui rimaneggiamenti di fronte ai tempi della vita, alle separazioni e vicissitudini varie.
Il tempo, i limiti costituiscono categorie di base nella possibilità di elaborare: capacità di attesa, tolleranza della frustrazione, dilazione del bisogno e del desiderio, poter tollerare le separazioni e la caducità della vita.
Come affrontiamo i tempi della vita, i passaggi, le speranze, il futuro… e
il passato con i suoi ricordi…
Per la costituzione del Sé come costruzione dell’esperienza interna è necessario uno scambio continuo con l’altro. Nella coppia madre-bambino,
la madre contiene angosce e frustrazioni del bambino e gliele restituisce
in una forma modificata e assimilabile gradualmente per il bambino. La
matrice relazionale della mente prevede la formazione di un equipaggiamento base del sé; una salda interiorizzazione di esperienze buone permette di affrontare le separazioni che ogni passo evolutivo prevede con
una attrezzatura e dotazione personale. Secondo Freud (1926), l’angoscia
di separazione è radicata nel legame primitivo con l’oggetto; il neonato,
se perde l’oggetto, perde l’oggetto capace di soddisfare i suoi bisogni e i
suoi desideri. In queste fasi, l’oggetto è un prolungamento narcisistico del
63
AIAF QUADERNO 2008/1
bambino, tanto che ogni frattura del legame è sentita come mutilazione
fisica. Se avviene una rottura in questi stadi, il bambino non è in grado di
rappresentarsi l’oggetto in sua assenza; lacune in questa esperienza costringono il soggetto che vive la perdita a ricorrere a qualcosa di concreto
che detensioni l’angoscia e il dolore (come vedremo successivamente a
proposito degli schermi per proteggersi dal dolore).
Freud indica l’angoscia di separazione come matrice originaria delle
successive angosce. Winnicott afferma che non si può parlare di affetto
nel bambino senza parlare degli affetti della madre. La madre fornisce le
cure necessarie, garantisce una continuità di esistenza fornendo un buon
ambiente di sostegno; nella crescita, aiuterà gradualmente i processi di
individuazione e separazione. Bion sottolinea come la funzione materna
strutturi la pensabilità delle diverse esperienze, attribuendo significato
agli elementi grezzi che il bambino comunica alla madre.
Il rapporto con una madre sufficientemente buona permette il riconoscimento e il passaggio all’altro, come altro da sé e come altro in sé, anche
attraverso il legame con il padre, permettendo al bambino di aprirsi alla
relazione oggettuale.
Una madre può però essere in difficoltà, e non funzionare da buon contenitore per il bambino, può restituire non modificate le proiezioni del
bambino o perché va in panico, o è depressa, o perché crea una barriera
impermeabile, o non è adeguatamente supportata dal padre del bambino,
oppure ha bisogno del figlio come supporto del sé e ne impedisce i processi separativi e la crescita…
Parliamo di impingement, se ci sono carenze nello scudo protettivo
materno, e il bambino è sottoposto a urti destabilizzanti il fragile status
del neonato.
Ogni storia individuale è fatta quindi di complesse interazioni tra l’investimento e la vitalità del bambino con la personalità interna delle figure
fondamentali nei vari passaggi della sua crescita; questo interscambio è il
fattore determinante della possibilità o meno di elaborazione e trasformazione delle esperienze affe ive di ogni individuo e della qualità di
investimento affettivo che può vivere nelle relazioni che intreccia.
Ci sono differenze fondamentali di patologia o deficit strutturali, a seconda del tipo di interazione, di situazioni traumatiche precoci o di difficoltà che il bambino può incontrare nel suo sviluppo psicologico successivo. A seconda che l’oggetto sia investito con valenze narcisistiche e/o oggettuali, potremo parlare di caratteristiche prevalentemente narcisistiche
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
e/o oggettuali nella struttura psicologica interna dell’individuo; si tratta di
valenze affettive fondamentali nel complesso interagire tra il bisogno di
essere amati e la capacità di amare.
Ritengo fondamentale questa breve premessa sulla costituzione di
una base psichica, di un nucleo identitario di base, anche come possibilità di una rete di elaborazione delle angosce e del dolore connesso alla
perdita,per almeno due ragioni che riguardano il tema su cui riflettiamo:
in primo luogo, è l’elemento determinante nella costruzione di una
struttura psicologica abbastanza flessibile che mette in grado di affrontare
meglio le situazioni separative. Strutture più rigide, viceversa, crollano,
poiché con la separazione cade ogni punto di riferimento delegato al ruolo rigido. In secondo luogo, nella convinzione che la problematica narcisistica connessa a deficit in questo nucleo sia alla base delle separazioni più
difficili e traumatiche.
Passo ora ad alcune considerazioni su come interagiscono nella coppia
i legami significativi interni dei due partner.
Possiamo considerare la coppia una diade che si costituisce sulla base
di affinità inconsce, un fiuto primitivo, su desideri parziali, sulla ricerca di
un doppio, o sulla sostituzione di dipendenza (travaso della dipendenza
dalla famiglia originaria al partner), sulla idealizzazione del partner ecc.
Ognuno “porta” nella coppia la sua storia individuale.
Poter essere se stessi, avere un buon nucleo interno, poter accettare il
partner come altro da sé permette una buona complementarietà finalizzata al benessere e alla crescita della coppia, naturalmente non con un
andamento lineare, ma attraverso la possibilità di vivere le inevitabili conflittualità in un clima costruttivo.
D’altra parte, la coppia può invece essere un luogo privilegiato dove si
manifestano tendenze arcaiche e nevrotiche della personalità, ci interessa
quindi capire cosa viene portato nella coppia della condizione affettiva e
relazionale di ognuno dei partner.
Il termine “vincolo”, nella doppia accezione di legame e costrizione,
esprime bene l’intersecarsi di problemi a vari livelli: apertura alla trasformazione e evoluzione da un lato o cristallizzazione e rigidità se prevale
l’aspetto di coartazione.
H. Dicks ha dato un grande contributo nell’approfondimento delle
motivazioni inconsce dei legami nella coppia eterosessuale, in particolare
65
AIAF QUADERNO 2008/1
riguardo:
La scelta del partner complementare, ossia come proiezione reciproca
dell’immagine interna del genitore di sesso opposto, o la scelta del partner
per contrasto (l’opposto della complementare).
La collusione inconscia, la cui funzione è proteggere l’illusione che ha
motivato la scelta.
Giannakoulas e Giannotti (1985) la definiscono “connivenza inconscia”,
considerando che la collusione sia basata su aspetti normali e patologici
inconsciamente condivisi. Si tratta del complesso campo della selezione
del compagno, degli elementi di difesa come la reciproca rimozione e dissociazione nella coppia stessa.
Il confine diadico come legami inconsci profondi che fanno della coppia una unità intorno alla quale si delinea una specie di comune confine
dell’io.
Giannakoulas e Giannotti hanno descritto una stratificazione della
membrana diadica allo scopo di rendere possibile una semiologia che
possa valutare la qualità, lo spessore, l’elasticità, la costituzione e le componenti della membrana diadica.
“Lo strato esterno è formato da elementi etico-religiosi e socio-politici;
se gli altri strati sono atrofici e il matrimonio è basato prevalentemente su
questo strato, rischia la disintegrazione quando questi elementi vengono
a mancare. Lo strato medio è formato da componenti culturali e familiari
in senso lato. Il terzo strato, interno, più sensibile, è costituito da aspetti personali, emotivi e istintuali. Qui i conflitti e le tensioni riguardano
sempre qualcosa di intimo”. La stratificazione permette di capire come
la membrana possa organizzarsi e diventare una barriera verso il mondo
esterno, portando a una fusione diadica, a un sé comune, o addirittura a
una folie à deux; in questo caso, il mondo esterno, diventa l’equivalente
del non-io e il dentro può esistere solo in una armonia totale, idealizzata
di accordo completo.
Nelle situazioni più gravi dal punto di vista della struttura interna, è
una regola trovare che le relazioni amorose ripetono in maniera grezza,
non elaborata psichicamente, l’impatto col trauma originario.
Si instaurano meccanismi di regolazione omeostatica per ripristinare lo
stato quo ante e “proteggere” la coppia dal cambiamento.
Ad esempio, se la caratteristica delle relazioni presenti (nella coppia) e
passate è l’adesività, essere incollati l’uno all’altro, quando appare la benché minima discontinuità, vi è un precipitare di ruoli automatici legati al
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
trauma, una chiusura in una corazza di insensibilità e impenetrabilità che
protegge dal precipitare in uno stato di panico o di frantumazione; oppure, se la coppia si regge attraverso l’adesione a modelli culturali e intellettuali asettici per ottenere riconoscimento e senso di appartenenza, se un
partner muove un timido accenno più affettivo, l’altro partner si chiude in
un gelo assoluto e sprezzante, che va a spegnere il piccolo germoglio di
novità.
In questa ottica, ogni esperienza di alterità è bandita in quanto ripetizione del primitivo incontro traumatico con il non-me; i ruoli sono scambievoli e le possibilità di alternative diverse sono automaticamente destinate all’insuccesso, anche perché questi pazienti hanno una filìa e un
fiuto specifici (l’olfatto primitivo!) nel “ricercare” nei partner situazioni
simmetriche, che ripropongono risposte uguali al trauma precoce. Quando i pazienti ne diventano consapevoli, parlano di una situazione a incastro difficile da “schiodare” in quanto ogni breccia comporta l’affiorare di
angosce paniche; significativa mi pare la definizione di Racamier di “ingranamento”, come “modalità di influenza reciproca, sul modello di un
intrico completamente privo di qualunque intermediario psichicamente
elaborato”. L’ingranamento designa il fantasma e la messa in opera di una
relazione interattiva tra le più strette e costrittive che vi siano. Niente può
essere sentito, pensato, desiderato e voluto dall’una senza una risonanza
nell’altra. ‘E possibile che un “fantasma” dell’uno vada in presa diretta
su un’azione dell’altro: ciò che uno immagina (senza dirlo, e forse senza
nemmeno avere in sé lo spazio per immaginarlo veramente) sarà sempre e
regolarmente messo in atto dall’altro. Pensate a “Doppio sogno” di Arthur
Schnitzler.
Meltzer (1979) ritiene che “ognuno di noi può avere molteplici relazioni, alcune collegate con la parte sana della personalità, altre con la parte
malata o addirittura psicotica”; spesso il sintomo del bambino è l’espressione di una relazione a incastro dei genitori.
A PROPOSITO DEL TRAUMA
“Può agire come trauma qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi
del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico”(Breuer e
Freud 1892-5) “e dipende ovviamente dalla sensibilità della persona col-
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pita se l’esperienza stessa agisce come trauma”.
Freud, dai lavori del 1915 in poi, concentra la sua attenzione e studio
su “tutte quelle situazioni indesiderate e dolorosi stati affettivi” che fanno
sentire all’uomo l’inevitabilità della perdita, della morte e del dolore. In
“Lutto e Melanconia” parla della insopportabile intensità del dolore.
Inibizione sintomo e angoscia (Freud 1926) costituisce una svolta fondamentale del pensiero psicoanalitico del trauma. L’angoscia, “reazione
originaria all’impotenza vissuta nel trauma”, viene messa in rapporto
all’angoscia di separazione e alla perdita dell’oggetto e, successivamente,
all’angoscia di evirazione e all’angoscia della perdita d’amore del SuperIo (vi sono quindi, a seconda della fase, problematiche più spiccatamente
narcisistiche o oggettuali).
Gli elementi fondamentali che entrano in gioco nel trauma riguardano
la forza o la debolezza dell’Io e la qualità del sostegno della relazione
esterna (o l’assenza di un adeguato appoggio); nell’interazione di questi
due elementi si gioca la possibilità di affrontare il trauma. Vi è inoltre
l’elemento della sollecitazione quantitativa., se la madre fallisce nel prevenire che l’affetto raggiunga un’intensità intollerabile e soverchiante per il
bambino, si può manifestare un trauma psichico.
Mentre Freud ha sempre cercato di rintracciare una complessa interazione tra realtà esterna e vissuti fantasmatici, S. Ferenczi ha sottolineato
con forza il fattore traumatico reale; entrambi però ritengono che non è
l’evento in sé traumatico, ma il terrore e le reazioni che il trauma sollecita
nella psiche. Il soggetto può “reagire” al trauma con una iperattività o
restare paralizzato, in uno stato di torpore, blocco e immobilità (quest’ultima evoluzione è indice di un danno maggiore).
Ferenczi approfondisce ciò che succede al bambino quando la sofferenza supera la capacità del bambino di tollerarla; l’esperienza di un sé morto
o assassinato non può essere inscritta nella psiche. Ne conseguono meccanismi di scissione che lasciano del buchi nella psiche su qualcosa di impensabile. Un’altra difesa è una identificazione con caratteristiche arcaiche
con l’oggetto maltrattante, con l’aggressore, con l’oggetto che schernisce…
meccanismi che sono alla base di ripetizioni inconsce nefaste di ciò che la
persona ha subìto. Il tutto avviene in uno stato di torpore e di confusione
che alienano il soggetto dalla realtà che sta vivendo. Senza la protezione
dal trauma, crolla la possibilità di pensare.
Si dimentica ciò che ci fa soffrire, e però, da questo oblìo, può permanere una traccia mestica; la traccia mestica è una sorta di residuo percettivo
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
che rimane inscritto, conservato nella mente e che può essere rievocato.
Molto diversa è la memoria traumatica, che si può manifestare nella
ripetizione di comportamenti (ad esempio, pazienti borderline ripetono
situazioni traumatiche e attraverso le ripetizioni “ricordano” i vissuti”), o
con l’apparire di flash – residui sensoriali su un fondo di black out.
Nessuno di noi è “vaccinato” definitivamente dall’impatto col trauma.
Nel profondo possono giacere esiti di trauma “in letargo”, pronti ad apparire quando le vicende della vita sollecitano nuclei legati alla situazione di
impotenza e fragilità che caratterizza l’umano nel suo primo sviluppo.
La separazione nella coppia è spesso l’occasione per uno scatenarsi
di manifestazioni patologiche fino ad allora incistate, latenti o mascherate finché la coppia è unita. In questi casi, si vede bene l’unione come
adattamento che favorisce la localizzazione degli aspetti regressivi della
personalità.
Il legame di coppia può essere sorretto da tendenze narcisistiche profonde (aspetti arcaici) e si possono manifestare fratture della personalità
quando il legame si rompe.
Da questo punto di vista, possiamo considerare traumatica la rottura di
un rapporto che supporti e sostenga la continuità psichica dell’esistere nel
partner, un rapporto quindi necessario a fondare il senso di sé e a garantirne la coesione. Si ha trauma quando le funzioni di autoprotezione del
Sé sono messe in scacco.
Su questo punto a mio parere fondamentale, ho rilevato una sintonia
con quanto afferma Sartori “ogni evento traumatico, ancorché modesto o
naturale, è potenzialmente idoneo ad innescare dinamiche intrapsichiche
atte a dare poi corpo ad una quadro psicopatologico”.
Secondo una mia giovane paziente, i suoi genitori da soli sono dei
naufraghi, insieme costituiscono una diga. Non si tratta, in questo caso,
di partner con una buona maturazione affettiva, aperti a modificazioni e
flessibilità della coppia, a possibilità di riorganizzazioni nella coppia permesse da una buona capacità emotiva, ma di una alleanza ferrea per la
reciproca sopravvivenza psichica.
Si può affermare che maggiore è la simbiosi patologica all’interno della
coppia, più rigida è la membrana verso l’esterno, poiché ogni incrinatura
è la minaccia di una catastrofe schiacciante per la coesione del sé; la separazione sollecita un disancoraggio delle radici che produce un effetto
traumatico sul sentimento di appartenenza. Il disingranamento, secondo
quanto afferma Racamier, nelle strutture che non hanno potuto affrontare
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AIAF QUADERNO 2008/1
il lutto originario (inteso come graduale disillusione delle posizioni idealizzanti), è temuto come una lacerazione, lo strappo delle pelli incollate.
In questi casi, le angosce arcaiche si esprimono attraverso sintomi somatici, agiti ripetitivi, o come angosce catastrofiche di annichilimento e di
crollo, di frammentazione, di morte psichica.
Per chiarire le difficoltà che una separazione può scatenare quando siamo di fronte a problematiche narcisistiche, mi aiuterò con una situazione
clinica.
Si tratta di una paziente, donna colta, molto affascinante, brillante professionista che ha affrontato molte problematiche nella sua storia analitica,
lasciando però immobile e inattaccabile un “nocciolino” duro rappresentato da un rapporto di coppia molto civile e bene educato, ma altrettanto
congelato.
Decide dopo una lunga preparazione di separarsi e si avvia lo scongelamento di questo nocciolino duro che teneva blindata gran parte
dell’affettività.
Per un certo periodo, il corpo manifesta i tratti di espulsione di qualcosa di molto forte che non ha alcuna possibilità di essere pensato: il dolore
si presenta con un pugno allo stomaco, sbianca in volto, la vita cade, c’è
un senso di sfinimento. Sente un dolore fortissimo poiché con il marito
non c’è stata nessuna possibilità di spiegarsi, anzi ha trovato un muro
impenetrabile.
Ha la fantasia di isolarsi in un buco per proteggersi dalla sovrastimolazione attuale che La rende inquieta, dorme male, fatica a concentrarsi. Oppure vorrebbe cercare una anestesia o surrogati che tamponino il vissuto
di precipitare negli abissi, come succedeva con la madre nell’infanzia. In
alternativa, la delusione-caduta in un baratro, che si esprime anche con
una stanchezza fisica mortale.
Sogno: casa di montagna isolata, si abbatte sulla casa un uragano, la
porta sbatte, tutto è in pericolo.
Sogno: casa in montagna, questa volta c’è una coppia, dalla finestra
vedo come una nuvola che si forma, un tornado di polvere o lava.
I sogni e la sintomatologia somatica esprimono bene come la separazione faccia precipitare una situazione di iperstimolazione, di una Sé minacciata alle radici dell’essere, la propria casa-identità è in grave pericolo per
un non senso che ripresentifica una sé sradicata e sbalzata via.
È preda di ondate di angoscia, “è qualcosa di più profondo della rabbia, è l’annientamento e la dispersione dell’identità”. Si era costruita su
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
ruoli, che costituivano dei muri di contenimento, una testa pensante che
aveva dovuto far morire tutta l’affettività.
Faccio notare che la paziente ha deciso la separazione (è stata quindi
soggetto attivo dell’evento separazione) ed è accompagnata in questo cataclisma dall’essere in analisi.
DANNO PSICOLOGICO
La separazione è il fallimento di un progetto, la perdita del legame
ravviva l’angoscia di abbandono, di esclusione, può essere vissuta come
prova di incapacità personale, ferita narcisistica (svalutazione, danno del
senso di sé..), non c’è più la possibilità di avere un futuro insieme…
Vi è la perdita di un ruolo, a livello personale e sociale, ruolo che definisce e stabilizza.
La realtà psichica si alimenta con il legame, quando questo sostegno
vacilla o viene perso, la vita psichica subisce una trasformazione.
La perdita si inserisce inevitabilmente sul senso di sé, sull’identità, e va
a sollecitare passate ferite, poiché comunque viene intaccato quel terreno
di base necessario per la strutturazione e il buon funzionamento della vita
psichica, specie per ciò che riguarda i processi di mediazione e trasformazione. Quale lavoro psichico è possibile? mi sembra l’interrogativo fondamentale che può segnare il confine e il passaggio al danno psichico. Intendo per lavoro psichico la possibilità di affrontare l’angoscia e il dolore,
senza esserne travolti, potendo avviare un processo di lutto del rapporto
di coppia precedente. Se un lutto è affrontato, la persona può ripercorrere
la sua storia precedente, portare con sé ricordi di quanto ha vissuto “nel
bene e nel male”, e aprire gradualmente piccole isole di piacere e desiderio che permettono nuovi investimenti vitali.
DANNO PSICHICO
Può essere considerato un danno nella struttura psichica. Vi possiamo
includere senz’altro la psicopatologia classica; come psicoanalista, però,
negli esempi clinici ho volutamente privilegiato la descrizione di situazioni apparentemente bene adattate nella vita, nella professione ecc. allo scopo di sensibilizzare l’attenzione alla delicatezza del tema psichico e delle
sue risorse.
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AIAF QUADERNO 2008/1
Cambia nettamente la situazione se il soggetto, di fronte all’evento separazione, sia minacciato di annullamento di sé, di perdersi nel crollo delle sue risorse.
Nella relazione su “il rilievo civilistico del danno psichico” A. Sartori
descrive il danno psicologico come “un danno a sintomatologia soggettiva e relativo alla modifica della personalità dell’individuo, può comportare la lesione della dignità offesa, il mero turbamento dell’animo, il peggioramento della qualità della vita, senza far conseguire al danneggiato
una patologia permanente”. “Il danno psichico, invece, presuppone una
patologia; non solo il manifestarsi di una sintomatologia soggettiva, ma
anche di una oggettiva rilevabile con parametri comuni”. Viene citata la
patologia dissociativa, fobica, isterica, paranoica… e il danno alle tre fondamentali facoltà: conoscitiva, affettivo-istintiva, volitiva.
Ho molto apprezzato, nella Sua relazione, la constatazione della crescente sensibilità per il problema dell’integrità psichica (e ne condivido
l’importanza) insieme alla citazione secondo cui “il disturbo psichico non
è la mera somma di tanti fattori, ma l’irripetibile modo secondo cui in quel
soggetto i singoli fattori si sono integrati” (Ponti).
Nella mia libera interpretazione, intendo queste considerazioni significative a evidenziare la difficoltà, in molte situazioni, a differenziare il
danno psicologico dal danno psichico, oltre che la necessità di pensare a
parametri più dinamici, meno cristallizzati, che tengano conto della complessità della persona e del cammino evolutivo.
PERDITA ELUSA, PERDITA ELABORATA E PASSAGGI INTERMEDI.
In base a quanto detto finora, possiamo affermare che un quantum di
esperienza traumatica è sempre connesso alla separazione, e ognuno si
trova ad affrontare un dolore inevitabile legato alla rottura del rapporto di
coppia. Molte persone sono in grado di affrontare un periodo di difficoltà
e di turbolenza emotiva e di superarlo con le proprie risorse interne.
D’altra parte, nell’esperienza della perdita, il quantum di dolore sollecitato può essere uno stimolo eccessivo rispetto al momento in cui il
soggetto lo vive, o perché mette in evidenza un nucleo prima compensato
di disturbo della personalità. L’esperienza è eccessiva, non può essere metabolizzata e l’Io si trova in una impasse, non si attiva l’angoscia segnale e
relativi adattamenti, è il trauma.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
È quindi importante considerare quanto le persone sono in grado di
elaborare e trasformare le esperienze vissute, e quanto viene evacuato,
espulso in agiti distruttivi, in quanto il dolore legato a esperienze traumatiche travalica la possibilità di pensare.
Per ogni separazione è importante considerare vissuti, angosce, paure, che cosa ha dato a ciascuno la vita di coppia, il senso di liberazione
nel lasciarsi (e confini con l’espulsione della sofferenza), ricordi, nostalgia,
apertura del nuovo… e la struttura psichica di cui la persona dispone. La
perdita è tollerabile, può essere vissuta? È essere gettati, senza pelle, in
un abisso dove ogni legame è tranciato, e la persona è nel buio più totale,
nulla, non esistente?
Chi porta i pesi del dolore della separazione? Chi “mente” per non sentire il dolore, la responsabilità? Chi vive il dolore psichico? Questo dolore
è riconosciuto come tale?
Se per varie ragioni non può essere affrontata e elaborata l’esperienza
del dolore, la persona può ricorrere a processi vari di mascheramento, con
una funzione di schermo per non soffrire.
Il senso della “bugia”e del mentire riguarda proprio le manovre della
psiche per eludere il dolore.
Alcuni nascondono la vulnerabilità e il dolore per la vergogna di fronte
a un ideale (anche interno) oppure per il timore di un giudizio negativo.
Altri possono ricorrere a meccanismi molto primitivi di fuga, quali il
congelamento come forma di anestesia.
In seguito a una separazione, può scaturire una depressione importante, ma anche il diniego della perdita dà luogo a problematiche consistenti
(maniacalità ad es.); vi può essere il tentativo di calmare o obnubilare il
dolore attraverso l’uso di sostanze (alcool, cibo, farmaci, droghe…).
Un significato di schermo possono avere molte relazioni sessuali; con
le parole di un mio paziente “varie donne mi servono per tenere insieme
i pezzi, per trovare una possibilità di galleggiare; non posso tenere conto
delle esigenze di chi si sente trascurato, poiché scombina l’incastro, scardina questi pezzi miei che tengo uniti, e i miei pezzi verrebbero scollati”.
Vi possono essere molti agiti rabbiosi; si trasforma il dolore in rabbia
e si impedisce di soffermarsi sul dolore. La rabbia distruttiva può essere
agita nella conflittualità processuale, come ha sottolineato C. Curtolo nella introduzione. È anche molto importante poter capire e differenziare la
rabbia che esprime l’odio, la rabbia come tentativo di reagire alla passività-schiacciamento dell’evento separazione, la rabbia come tentativo di
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AIAF QUADERNO 2008/1
uscire da una angoscia di morte legata alla separazione e che potrebbe
altrimenti esitare in violenza autodistruttiva…
Mi soffermo ora, in modo più esteso, su una forma radicale, ma non
rara, di frattura come evento traumatico nel corso di una separazione.
Si tratta della espulsione come forma più radicale di evacuazione di
una “possibile” realtà psichica; non c’è possibilità alcuna di avvicinare il
dolore, pena un gravissimo sconvolgimento e scompenso psichico.
Per definizione, diventa impossibile qualsiasi funzione di comunicazione e di trasformazione, mancando la persona di uno spazio intermedio, in quanto dominata da un funzionamento psichico arcaico. Usa il diniego come processo di cecità psichica; risulta impossibile ogni forma di
mentalizzazione.
Sono in genere relazioni dove un partner pretende che la compagna
(o il compagno) accudisca i suoi bisogni, sia tutta d’un pezzo, non abbia
o non mostri alcuna difficoltà. Un modello di relazione madre-bambino
dove è idealizzata una madre totalmente supportante, costituita da una
persona che ha dovuto (per la propria storia personale) denegare il proprio bisogno e crescere fin da bambina come se fosse una adulta.. Quando
il bisogno si affaccia nel partner che sostiene la relazione, squilibra l’assetto
precedente; il partner “bambino”, minacciato di essere invaso da una ondata emorragica di aspetti fragili, non può saperne niente, non può averci
a che fare, espelle il/la partner e cerca un tamponamento con una nuova
partner che ricostituisca l’equilibrio precedente fondato sulla staticità e
l’immobilità. “Non può” è relativo a strutture o narcisistiche o borderline,
con la funzione di impedire la ripetizione di ferite antiche al nucleo identitario. Vi è un grave rischio di scompenso e gravi TS quando si rompe la
possibilità di espellere, e sono invasi da un essere disorientati, depressioni
gravi, senso di morte…senza alcuna possibilità di lavoro psichico.
Sono relazioni dominate da una dinamica “mors tua, vita mea”.
L’altro partner, chi subisce l’espulsione, rimane in una posizione totalmente scoperta, è costretto a portare da solo i pesi del senso di esposizione
totale del proprio bisogno e dell’abbandono.
Porta i pesi, è derubata del “contenitore famiglia” e deve tenere insieme i pezzi; vive uno sradicamento con riattivazione della situazione infantile di perdita, “costretta” dall’espulsione a confrontarsi con una frattura
profonda che viene messa a nudo, esposta.
Domina il vissuto di una situazione irrecuperabile, di tradimento della
fiducia di base; su un terreno minato, instabile, prova una rabbia omicida
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
per essersi sentita strumentalizzata “esclusivamente” ai fini del partner,
di essere servita all’altro/a per costituire certe sicurezze e poi di essere
buttata via.
Mentre il partner che espelle cancella tutto ciò che c’è stato nella coppia, l’altro partner vive l’enorme dolore della ferita aperta, sente di sparire
(spesso come nella storia infantile).
Ricorre alla ricerca di prove-testimonianze che gli anni insieme non
sono svaniti nel nulla per il partner, che non c’è stata una espulsione totale, vi è l’aspettativa che l’altro provi dolore per la destabilizzazione che ha
provocato, la distruzione che ha creato, che diventi responsabile delle proprie azioni…che l’altro comprenda in che situazione ha lasciato la partner,
che si scusi. Il fatto che, in realtà, rimanga “impunito” e totalmente inconsapevole (anzi, è frequente la proiezione della colpa di tutto su chi è stato
espulso) scatena la furia.
La situazione di espulsione è una situazione estrema e, come tale, mi
sembra evidenziare bene le problematiche esposte e l’importanza, per chi
subisce l’espulsione, di trovare una rete di accoglimento di una ferita molto dolente, che scompagina la vita psichica.
E I FIGLI?
Pensando di poter avere con Voi uno scambio di riflessioni su situazioni concrete, mi soffermo solo su alcuni rischi che riguardano i figli di
genitori separati.
Il pericolo di banalizzare l’impatto sui figli della separazione della coppia. I figli portano il pesante fardello di aver fallito nei loro tentativi di
tenere uniti i genitori; spesso “mascherano” a lungo la loro sofferenza individuale, cercando di riunire la coppia.
In altri casi, c’è uno schieramento del figlio con un genitore:
un mio paziente, arrivato da adulto in analisi, alla separazione dei genitori quando era bambino, si era schierato, per motivi complessi, con la
madre, perdendo poi quasi del tutto il rapporto con il papà. A un certo
punto dell’analisi si può permettere il grande dolore di aver perso il padre, mi dice della costrizione psicologica di allora e della sua disperazione
“perché voleva molto bene al padre”.
Molti aspetti della storia di questo paziente potrebbero aprire una
discussione sulla “Sindrome di alienazione genitoriale”, prendendo in
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AIAF QUADERNO 2008/1
considerazione anche caratteristiche del bambino e della sua storia precedente la separazione, che possono influire sulla collusione con il genitore
denigrante.
Un altro problema molto frequente è quando i figli “devono” assumere
un ruolo di curanti del genitore depresso in seguito alla separazione.
Certamente sono importanti le collusioni in cui possono essere intrappolati i figli nel reciproco odio, desiderio di vendetta e rivalse dei genitori
divisi.
Vorrei concludere con una novella orientale (che ho trovato in
M.L.Algini); narra che un padre morendo lasciò in eredità ai tre figli diciannove cavalli da dividersi in parti diseguali: la metà al maggiore, un quarto
al secondogenito, un quinto al terzo figlio. Tutti i cavalli dovevano essere
assegnati, nessuno doveva rimanere fuori, né essere fatto a pezzi…
I tre figli, pur desiderando intensamente di realizzare la volontà paterna, presto si scoraggiarono per la difficoltà di venire a capo di quell’enigmatica divisione…
Quand’ecco arrivare, ignaro dell’accaduto, un vecchio amico del padre,
che condividendo con loro il dolore della perdita, li prega di accettare in
prestito un cavallo della sua mandria e di riprovare ancora una volta a
dividere l’eredità. A quel punto, tutto divenne semplice. Dei venti cavalli
disponibili, il maggiore prese la metà, cioè dieci, il secondo un quarto, cioè
cinque, il terzo un quinto, cioè quattro e il cavallo restante fu restituito al
suo padrone.
Quel prestito da parte di un estraneo-vicino aveva reso possibile quanto l’aritmetica da sola non sapeva sciogliere…
Così Algini sente la funzione dell’analista infantile, come quella di un
cavallo aggiunto in prestito, temporanea e finalizzata a consentire snodi
non semplici.
La novella mi è sembrata significativa per questo incontro in quanto,
nella funzione di Avvocati per la famiglia e per i minori, penso sia fondamentale svolgere un ruolo di “terzo”, come possibilità di sviluppare
uno sguardo e un pensiero differenziativi su situazioni difficili e spesso
traumatiche.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
BIBLIOGRAFIA
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Breuer e Freud (1892-5) Comunicazione preliminare sul meccanismo psichico dei fenomeni
isterici. In Freud.S. Opere vol I
Dicks H., Tensioni coniugali, Borla Ed. 1992
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Giannakoulas A., Giannotti A.(1985) Il setting con la coppia genitoriale in Il setting Borla
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2 Borla Ed.
Racamier P.C. (1993) Il genio delle origini, Cortina Ed.
Winnicott (1974) Oggetti transizionali e fenomeni transizionali in Gioco e realtà, Armando Ed.
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AIAF QUADERNO 2008/1
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
Pensare il trauma è umanamente difficile, andarlo a verificare ancora di
più. La logica scorciatoia è che si generi fisiologicamente una zona d’ombra, invisibile perché impensabile.
Altrettanto vero, però, è che la parola “trauma” è entrata nel linguaggio
comune, tra uso improprio e abuso, come succede peraltro per altri termini. Si può cogliere in questa trasformazione linguistica una sorta di fascinazione collettiva per il gergo psicologico che riflette l’esasperato intento
di palesare vissuti emotivi. Probabilmente è forte l’esigenza di parole per
distinguere meglio le sfumature, i toni dell’affettività.
Nello specifico della tecnica giuridica, incardinata peraltro sul verbo,
si avverte la necessità di consolidare un linguaggio condivisibile. Ed è su
questa linea che si pone l’approfondimento di Anna Oliva De Cesarei, la
quale analizza il binomio trauma-separazione per poi collegarlo con la
dinamica della separazione coniugale e, quindi, dei suoi esiti.
Naturalmente non può esserci separazione senza dolore, tuttavia, occorre discriminare le reazioni sane da quei casi in cui la rottura affettiva
elicita problematiche individuali irrisolte.
Nel caso in cui l’avvocato si trovi in dubbio rispe o il discrimine una
consulenza psicologica – anche a raverso colloqui clinici – può dare
una risposta a codesto quesito.
Emblematica di tale situazione è il ruolo di garante dell’equilibrio psicoaffettivo che il partner può ricoprire, una condizione di profonda dipendenza affettiva1 che fa sì che l’evento della separazione letteralmente
sradichi le fondamenta su cui poggia l’identità, producendo un vissuto
psicologico di angoscia e pericolo. Un vero e proprio tsunami emotivo che
rischia, però, di essere negato, mascherato producendo effetti devastanti
sulla capacità di pensare e di preoccuparsi.
Perché è importante individuare la capacità del sogge o ad una elaborazione della perdita affe iva?
Se il distacco dal partner intacca la radice dell’identità personale può
esserci, come conseguenza, un’incapacità a prendersi cura congiunta-
1
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Mitchell S., L’amore può durare? Il destino dell’amore romantico, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2003.
PATTO DI FAMIGLIA - ATTI DI DESTINAZIONE - TRUST
mente dei figli, i quali facilmente rischiano di incarnare il territorio del
conflitto*.
I figli vanno protetti ad ogni costo, su questo punto l’accordo è indubbio. Da questo vertice, quindi, è interessante guardare ai resti della rottura
del legame come ad una scena che deve obbligatoriamente illuminare la
reale dotazione di funzioni di entrambi i coniugi, nel senso dell’autenticità
della loro maturità affettiva.
Da un punto di vista giuridico il collegamento importante è con il concetto di capacità di amare quale parametro valutativo non solo della dinamica di coppia, ma anche della genitorialità*.
Infatti, nel prendere in considerazione un progetto di affido condiviso non va dimenticato che i minori devono essere tutelati anche nei loro
bisogni emotivi. Qualora, però, un genitore è troppo sofferente oppure
preoccupato per sé potrebbe non riuscire a riconoscere le comunicazioni
dei figli in quanto prevaricano i suoi bisogni e/o interessi.
Ovviamente, tale evenienza segnala anche che la capacità genitoriale
già antecedentemente alla rottura si poneva su una zona limite, magari
compensata dalla situazione di coppia, e che lo stress e la sofferenza per la
separazione hanno fatto esplodere.
Se il genitore è psicologicamente stravolto è opportuno valutare la
funzione genitoriale rispe o alla capacità riflessiva che è alla base del
sapere pensare al bene dei figli.
Un altro collegamento che si ricava dal contributo di Oliva De Cesarei riguarda il confine tra stress e trauma, come pure la loro differenziazione.
Certamente, una dose di stress durante il disfarsi del legame è inevitabile, anche tenendo conto della durata della crisi che la coppia ha maturato e delle diverse posizioni, attiva o passiva, che i coniugi ricoprono
rispetto alla decisione di separarsi.
Per alcuni lo stress, se di breve durata, può far sentire il cambiamento
di vita come una sfida trasformativa versus la felicità.
Quando i partners di una coppia concordano nella volontà a
separarsi?
La risposta risale alla scelta inconscia che del partner si è fatta. Se da
una parte sconcerta sapere che la scelta del partner è guidata dall’inconscio, e quindi dalla memoria dei legami passati, dall’altra la presenza di
questo fiuto primordiale che orienta nella formazione della coppia ci fa
dire che c’è stato un momento in cui queste due persone hanno concertato
sulla base di un quantum di bisogni emotivi e relazionali che può esaurirsi
79
AIAF QUADERNO 2007/2
per percorsi di crescita che, invece di unire, hanno contribuito a dividere.
Ritorniamo al trauma2.
Già l’etimologia del termine introduce l’idea di un evento che produce
una ferita, una lacerazione. Metaforicamente questa immagine ben descrive come la mente – l’apparato per pensare – possa risentire, se non addirittura ammalarsi, a seguito di un’esperienza che viene vissuta come uno
stravolgimento esistenziale che impone un dolore psichico intollerabile,
soprattutto, qualora appare privo di alcun senso.
L’intensità dipende, come si è detto, dalla memoria delle relazioni affettive dell’infanzia che riaffiora nel vissuto di smembramento e mutilazione
suscitato dalla separazione.
Quali novità rispe o alla rilevazione del danno?
Curiosamente, vi è stata una sorta di reticenza in ambito giuridico rispetto al riconoscimento dell’esperienza traumatica, un timore comprensibile di varcare un confine insidiato da possibili mistificazioni. Un po’
come succede per i casi di violenza domestica, si tende a bypassare, mentre la comunità scientifica documenta e spiega la complessità del trauma,
individuando un continuum di stati psicologici che rende ragione della
variabilità di manifestazioni sia negli adulti che nei bambini.
2
80
Garland C., Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico, Bruno Mondatori, Milano
2001.
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
UN TEMPO PER IL DOLORE
TONIA CANCRINI
PSICOANALISTA MEMBRO ORDINARIO CON FUNZIONI DI TRAINING DELLA SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA, ROMA
IL RUOLO DEL DOLORE NELLA VITA
Certamente il dolore accompagna tutta la nostra vita, dalla nascita fino
all’età più avanzata. Diverse possono, però, essere le modalità con cui il
dolore viene affrontato se si è bambini o adolescenti o adulti o anziani.
Le cause fondamentali del dolore sono collegate ai problemi che riguardono il nostro corpo: malattie, deperimento fisico, invecchiamento,
morte; eppoi al rapporto con gli altri, causa prima del dolore emotivo.
Nel rapporto con l’altro ci possono essere situazioni di perdita, di lutto, di
delusione, di separazione. L’altro ci può amare, capire, arricchire di belle
esperienze, ma può anche al contrario farci del male, odiarci, deluderci,
lasciarci; può ammalarsi e/o morire.
Nel mio libro Un tempo per il dolore1 affronto il problema del dolore nelle
sue diverse connessioni, in particolare con tematiche che riguardano la
separazione, la morte, la colpa.
Dolore, gioia, soddisfacimento, sono inevitabilmente imbricate: tanto
più siamo aperti alle esperienze, alla realizzazione di noi stessi e della nostra vita affettiva e relazionale, più siamo esposti al rischio della sofferenza; più abbiamo nella vita una ricchezza di amicizie, di amori, di relazioni,
di interessi, più siamo esposti al pericolo della delusione e della perdita di
ciò che ci è caro, più corriamo il rischio di soffrire. Nella vita, dunque, non
si può non dare spazio al dolore: il dolore nel nostro vissuto emozionale
è un’esperienza così legata alla vita che possiamo dire che non provare
dolore equivale a non vivere. C’è una dimensione vitale del dolore perché
è un’esperienza emozionale importante e fondamentale, che necessariamente ha un posto all’interno di una vita ricca e creativa.
Il paradosso della nostra esistenza è così descrivibile: se conquistiamo
dentro di noi la capacità di sentire, di avere emozioni e sentimenti, ci di1
Cancrini,T., Un tempo per il dolore, Bollati Boringhieri, Torino 2002
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AIAF QUADERNO 2007/2
sponiamo alla sofferenza. “Mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla
sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici2” (pag. 574). C’è un profondo contenuto di
verità* in questa affermazione di Freud poiché legando così strettamente
l’amore alla sofferenza coglie un aspetto drammatico del nostro vivere.
Se invece non ci apriamo alla ricchezza dell’affettività e non lasciamo spazio ai nostri sentimenti, ci ritroviamo nel deserto cupo della noia.
Come, a più riprese, ha sottolineato Schopenhauer: la vita è dolore e, se
non è dolore, è noia. La “noia”, che appare essere quel vuoto interno, quella incapacità di sentire, di provare emozioni e sentimenti che attanaglia il
cuore in una morsa di freddo e di ghiaccio. La noia che accompagna i momenti neri della depressione.
Più amiamo, dunque, più siamo liberi e coinvolti nella vita emotiva e
più siamo potenzialmente esposti alla sofferenza e al dolore. E, all’opposto, più siamo isolati e lontani dagli affetti, più ci ritroviamo nel deserto
della noia.
Con queste considerazioni abbiamo anche aperto il discorso su quali sono le difese rispetto al dolore: l’anestesia emotiva, innanzi tutto, e
poi il vuoto e la noia. Lì dove il dolore appare intollerabile accade che
si annulli ogni risposta emotiva e si cade, allora, nel freddo e nel gelo
dell’indifferenza.
Nella clinica, con i pazienti capita frequentemente che uno dei problemi che ci pongono è quello di una sorta di anestesia emotiva, un’incapacità cioè a vivere la pienezza della vita emotiva. Si sentono vuoti, senza
interessi, senza spinte vitali, incapaci di pensare alla propria vita in modo
costruttivo. Questo tipo di situazione è perlopiù legato ad esperienze infantili traumatiche, spesso a dei lutti.
Alla radice vi è la memoria del dolore sentito come una minaccia, come
qualcosa di così violento e insostenibile che fa scattare in queste persone,
preventivamente, il bisogno di un rifugio, una prigione in cui chiudersi
che tenga al riparo da stimoli e sensazioni che potrebbero coinvolgere in
situazioni che, inconsciamente, si avvertono intollerabili.
Nella tradizione psicoanalitica ci sono molte ricerche sul significato della ricostruzione della storia personale e, dunque, sul ruolo della memoria
nella nostra vita. Da Freud a Melanie Klein fino a Bion si considera che le
esperienze del passato e, soprattutto le esperienze più precoci, segnano
2
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Freud, S. (1929), Il disagio della civiltà, in Opere,Bollati Boringhieri, Torino.
PATTO DI FAMIGLIA - ATTI DI DESTINAZIONE - TRUST
il futuro sviluppo del bambino. La Klein, in particolare, sottolinea molto
l’importanza delle esperienze precoci, di come sono vissute ed elaborate;
fra queste hanno una particolare rilevanza quelle esperienze che hanno a
che fare con momenti di separazione, di distacco, di lutto, di elaborazione
del lutto.
Da come queste esperienze sono vissute nell’infanzia, e da come sono
elaborate, dipenderà la capacità dell’adulto di affrontare, in seguito, eventi di dolore e di perdita. Spesso nella vicenda infantile ci sono anche momenti confusi, non ancora espressi ed elaborati, vissuti solo a livello di
sensazioni corporee, di brividi e inquietudini non meglio identificabili,
di percezioni inespresse sia a livello conscio che inconscio che vagano
pericolosamente nella sensibilità dell’individuo. Sono come delle mine
inesplose che spesso riguardano i problemi che hanno a che fare con la
separazione, il lutto e la morte.
L’IMPATTO DELLA PERDITA AFFETTIVA
Perdite precoci e morti improvvise possono compromettere lo sviluppo normale della vita emotiva impoverendo e soffocando l’affettività e la
vitalità. C’è poi una connessione molto importante tra questi eventi traumatici e la possibilità di pensarli, perché non è solo la violenza dell’evento
ad essere rilevante, ma anche e soprattutto la capacità di metabolizzare
mentalmente l’esperienza. Tale capacità e, quindi, la pensabilità del trauma può essere influenzata da diversi fattori, che hanno a che fare con la
sensibilità dell’individuo, ma anche con i rapporti e le situazioni affettive
che si vivono nel momento del trauma. La violenza, l’impatto violento
sull’emotività e sulla mente di chi subisce il trauma è, pertanto, determinata sia dalla gravità dell’evento, sia dalle condizioni interne ed esterne
che ne permettono o non ne permettono l’elaborazione personale.
Se penso a tanti miei pazienti colpiti da traumi precoci, come p. es.
la perdita di uno dei genitori quando erano molto piccoli, me li ricordo
arrivare in studio spenti e con una vita affettiva povera ed insignificante.
È come se nella loro vita avessero attraversato un terreno così potenzialmente doloroso e sconvolgente che non sono riusciti a vivere e ad elaborare il lutto e sono stati, in qualche modo, costretti alla chiusura, all’allontanamento nell’indifferenza e nella solitudine.
Sottolineavo prima quanto sia importante non solo l’evento traumatico,
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AIAF QUADERNO 2007/2
ma anche e soprattutto la possibilità di pensarlo, di elaborarlo mentalmente. E quanto la violenza dell’esperienza possa essere amplificata dalla
difficoltà di metabolizzarla mentalmente.
Fra le esperienze traumatiche e dolorose dell’infanzia il primo posto
spetta certamente alla morte dei genitori, poi ad altre morti di persone
importanti e poi a disaccordi e a separazioni dei genitori. Innanzi tutto mi
soffermo sulla morte di uno dei genitori.
Prenderò in esame tre pazienti che hanno perso il padre intorno ai tre
anni e mostrerò come si è determinato il loro vissuto in relazione alle diverse circostanze relazionali e affettive che hanno accompagnato questa
vicenda. Un primo elemento molto importante è la condivisione. È infatti
importante per l’elaborazione della sofferenza quanto si è potuto partecipare e quanto invece si sia stati esclusi dalla condivisione del dolore,
quanto si sia stati tenuti lontani e lasciati soli. In questi pazienti vediamo
tre diversi modi di vivere la stessa esperienza che, certamente, sono stati
determinati dallo loro sensibilità individuale e dal loro mondo interno,
ma anche dal modo con cui si sono poste intorno a loro le persone affettivamente importanti, in particolare la madre. Possiamo così vedere come
accanto alla morte del padre, ancora più forti e drammatiche sono risultate nel loro vissuto interno le emozioni collegate alla depressione della
madre e al venir meno della buona coppia genitoriale. E vediamo, altresì,
come sia stata fondamentale nella loro esperienza il modo in cui le madri
hanno elaborato e vissuto questo lutto.
Posso così individuare tre situazioni:
1. Condivisione e vicinanza (Sandro).
2. Non condivisione e solitudine (Maria).
3. Non condivisione e colpa: non solo c’è morte e solitudine, ma anche si
è segnati dalla colpa (Ludovico).
Il primo di questi pazienti, Sandro, ha avuto una madre molto capace
di amare, che ha sofferto molto per la morte del marito avvenuta improvvisamente, ma che è riuscita a elaborare questa perdita e a ritrovare in sé
l’affetto e il ricordo dell’uomo amato. Sandro può così conservare internamente un’immagine dei genitori uniti nell’amore. Anche il ricordo del padre può rimanere dentro di lui come una realtà carica di grande affetto.
Sandro, con una maggiore facilità rispetto agli altri pazienti menzionati, ha potuto trovare, ad un certo punto della sua esperienza e del lavo84
PATTO DI FAMIGLIA - ATTI DI DESTINAZIONE - TRUST
ro analitico, un’immagine viva del padre che gli ha permesso una buona
identificazione con lui. Pertanto, nel rapporto con il proprio figlio ha potuto recuperare e sperimentare un modello paterno che aveva conservato
dentro di sé.
Questa è stata una situazione che nel lavoro analitico si è riusciti ad
affrontare abbastanza facilmente perché il paziente ha potuto recuperare
dentro di sé delle immagini genitoriali positive ed affettive.
Una situazione del tutto diversa ha vissuto Maria, la quale ha ritrovato
il ricordo del padre solo dopo molti anni di lavoro psicoanalitico. Prima
si è dovuta recuperare una capacità di provare le emozioni, di sperimentare il dolore perché la possibilità di vivere l’affettività era stata del tutto
annullata.
Il nesso di tale anestesia risaliva al fatto che quando il padre morì la
madre fuggì dal dolore, andandosene di casa e lasciando la bambina con
dei parenti. La sofferenza della bambina non è stata per nulla presa in considerazione, come se la famiglia avesse pensato: ma che può mai capire, è
una bambina! La madre ha poi ricostruito la sua vita fuori di casa, in un
nuovo matrimonio, escludendo la figlia da questa sua nuova sistemazione. La madre, quindi, ha cancellato dalla sua vita mentale ed affettiva, con
una negazione totale del lutto e con una espulsione violenta, la persona
perduta.
Maria, bambina di quasi tre anni, si è ritrovata da sola con questa perdita terribile, senza poterne parlare e senza poter condividere il suo dolore. Si è ritrovata così con la mente e il cuore vuoti di sentimenti e di ricordi.
È stato dopo la morte di una zia molto cara che Maria ha richiesto l’analisi:
chiaramente aveva bisogno di poter elaborare i problemi della separazione e del lutto con la vicinanza di qualcuno che la capisse, e condividesse
con lei le esperienze della separazione, del lutto e dell’abbandono.
Quando Maria, attraverso l’esperienza psicoanalitica, è riuscita a prendere contatto dentro di sé con la possibilità di provare anche dei sentimenti rispetto alle situazioni di abbandono, di separazione, di perdita, allora
ha potuto rivisitare la sua storia e ha cominciato a cercare il ricordo del
padre.
Mi dice: “Sono spinta al ricordo, voglio ricostruire la mia storia”. Comincia così a cercare le fotografie del padre, sfoglia i suoi libri, le sue carte,
e comincia anche a fantasticare intorno al significato che questa figura
così importante deve aver avuto nella sua vita. Si chiede il senso di questa
mancanza e riesce piano piano a tollerare dentro di sé immagini, ricordi,
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AIAF QUADERNO 2007/2
sentimenti, ed anche un po’ di sofferenza che, fino a quel momento, era
completamente negata.
Così, quello che era un malessere oscuro e inespresso diviene un’esperienza vitale che arricchisce la sua vita affettiva. E questo poter vivere ed
elaborare il lutto ha determinato in seguito delle trasformazioni vitali e
creative nella sua vita.
Un altro paziente, Ludovico, mi permette di accennare alla connessione
tra dolore e colpa.
Ludovico ha avuto l’esperienza di un padre morto improvvisamente e
di una madre devastata da una depressione molto forte. Ha così avuto la
preoccupazione di dover sempre sostenere e aiutare la madre. Non è riuscito perciò a dare uno spazio adeguato a se stesso, alla sua vita interna,
ed anche alla sua vita esterna e alla socialità. I suoi rapporti sono stati molto ridotti e sacrificati ed anche la relazione analitica ha risentito, a volte, di
queste difficoltà: ci sono stati ritardi e sedute saltate, perché c’era spesso
qualcosa di più importante che riguardava la mamma che gli impediva di
trovare uno spazio e un tempo per se stesso.
Alla morte improvvisa del padre, e alla conseguente depressione della
madre, Ludovico si é ritrovato all’improvviso di fronte ad un universo
affettivo completamente cambiato, dove sono diventati predominanti la
solitudine e il vuoto. Ma non c’era solo questo, c’era in Ludovico anche
preponderante un vissuto di colpa che invadeva tutta la sua vita. Si sentiva in colpa perché non riusciva a consolare la madre; si sentiva in colpa
perché era, comunque, forte il suo desiderio di vivere malgrado la morte
del padre e la depressione della madre; la colpa di vivere, malgrado tutto.
E così Ludovico per anni è stato impegnato in questa fatica terribile di
tenere in vita la madre, che era però inconsolabile.
Mano a mano che l’analisi è andata avanti, sono emerse queste angosce
e sono riaffiorate queste situazioni vissute. Poter capire e condividere con
l’analista il dolore e le angosce profonde sulla colpa ha aperto una nuova
possibilità di elaborazione e di vita. Nell’analisi è stato così accompagnato
attraverso i terremoti che hanno sconvolto la struttura della sua esistenza,
come rappresentato da diversi sogni, fino ad arrivare alla ricostituzione
interna di una sua capacità di vedere e di capire la sua esperienza che ha
aperto la possibilità di una ricostruzione.
Anche per sensazioni sgradevoli e inquietanti come la colpa vale, infatti, il discorso dell’importanza del capire e del condividere. Finché rimangono zone oscure e cupe dentro l’Io c’è una compressione interna che
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PATTO DI FAMIGLIA - ATTI DI DESTINAZIONE - TRUST
impedisce di vivere liberamente. È soltanto vivendo e affrontando queste
esperienze inquietanti che può aprirsi un nuovo spazio per possibilità vitali e creative. La colpa “disintegra il vissuto emotivo e destruttura la mente”
(Cancrini, op. cit., p.110). È importante portare la colpa nel tempo e nello
spazio; poterla raccontare, pensarla e condividerla con altri.
Quanto possano essere terribili queste perdite precoci per i bambini
appare chiaro a tutti; a volte si riflette meno su quanto l’elaborazione della
perdita sia condizionata nel bambino dalle presenze affettive che possono
condividere con lui queste esperienze tremende.
Quando il bambino non è aiutato a sperimentare e tollerare la sofferenza, il dolore diviene un’esperienza invivibile e accade, allora, che la vita
emozionale sia compressa, a volte annullata. E dove c’è un soffocamento
dell’affettività, questo ha un suo corrispondente a livello di pensiero e di
capacità mentali, perché la compromissione dello sviluppo emotivo danneggia fortemente anche le capacità mentali e di apprendimento.
I bambini appaiono particolarmente esposti, vulnerabili, non ancora attrezzati a vivere momenti di sofferenza troppo intensi. È, pertanto, particolarmente importante per loro essere accompagnati e sostenuti in questa
loro esperienza.
In realtà, quello che accade molto spesso è che si trovino soli di fronte
al dolore senza che gli adulti siano capaci di condividere con loro queste
esperienze così difficili. E questo è tanto più vero se abbiamo a che fare
con delle situazioni difficili o con dei lutti o con delle crisi violente all’interno della famiglia che coinvolgono anche gli adulti, che si trovano così
anche loro sotto un peso a volte insostenibile, troppo provati dalle loro
preoccupazioni e dal loro personale dolore, per riuscire a comprendere i
loro piccoli.
IL RIVERBERO EMOTIVO DELLA CONFLITTUALITÀ CONIUGALE
Un’altra situazione particolarmente drammatica per i bambini è il disaccordo e la separazione dei genitori. Anche queste situazioni sono esperienze molto dolorose sia per i genitori che per i figli.
I momenti di incomprensione e disaccordo che precedono le separazioni, così come le fasi della separazione, sono perlopiù caratterizzate da
emozioni molto intense, forti, a volte violente e questo comporta una situazione di grande destabilizzazione per tutta la famiglia. C’è una perdita
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AIAF QUADERNO 2007/2
insita nel cambiamento; i sentimenti che si attivano sono certamente di
dolore, di rabbia, di colpa. Un insieme di emozioni che può avere un carattere fortemente dirompente.
La capacità di gestire le proprie emozioni e di contenerle è certamente
uno dei fattori più importanti per l’equilibrio psichico; se le emozioni sono
troppo forti si rischia di esserne travolti e si perde la capacità di aver cura
degli altri e di se stessi.
Un dolore troppo forte può essere sentito come intollerabile e può trasformarsi in una rabbia altrettanto violenta che fa perdere il lume della
ragione e spinge ad agiti assurdi ed incontrollabili.
Il senso di colpa, spesso inconscio, destruttura la mente; viene, allora,
meno la capacità di pensare e si cade facilmente in situazioni di reciproci
rimproveri e recriminazioni: la colpa è sempre dell’altro e cade ogni possibilità di essere obbiettivi.
La rabbia per qualcosa che si sente ingiusto e immeritato crea ancora di
più una situazione esplosiva.
Torniamo al punto da cui siamo partiti: l’importanza che le proprie
emozioni abbiano un contenimento, l’importanza che ci sia un tempo per
elaborare quello che si sta vivendo, un tempo per il dolore. Se c’é una
separazione e, quindi, una perdita, un venir meno di qualcosa che è importante, è fondamentale che ci sia un tempo per vivere le emozioni, un
tempo per il dolore.
Che significa questo? Significa rendersi conto e accettare che si sta vivendo una situazione dolorosa, che procura una grande sofferenza, una
grande rabbia, dei forti sentimenti di colpa e che è necessario quindi elaborarla così come si fa per una morte, per un lutto.
Ma c’è un altro punto che merita una grande attenzione ed è l’esperienza vissuta dal punto di vista dei bambini. Anche loro hanno una perdita,
anche loro hanno un dolore, anche loro possono sentirsi in colpa. Ma vediamo, innanzi tutto, cosa perdono e come lo perdono.
Se la separazione riguarda solo il legame coniugale la coppia riesce a
mantenere un rapporto genitoriale nella cura del bambino; la situazione è
certamente triste, ma molto più facile da accettare per il bambino. Il fatto
che, comunque, permanga un legame tra i genitori, è fondamentale per il
figlio perché possa conservare in sé la fiducia nei rapporti affettivi.
Se invece si ha una rottura violenta per cui il livello di conflittualità e di
scontro è così alto da spezzare il legame anche della coppia genitoriale, la
separazione diventa un’esperienza molto traumatica per il bambino.
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PATTO DI FAMIGLIA - ATTI DI DESTINAZIONE - TRUST
Particolarmente difficile diviene per il bambino la dinamica edipica,
sperimentata in un momento di lotta e di conflitto* molto violento tra i genitori. Ritengo che ci siano situazioni edipiche molto differenti a seconda
che la coppia genitoriale sia sentita unita nell’amore, o piuttosto minata
dal dissidio e dal furore distruttivo.
L’esperienza dei genitori che si amano può far sentire il bambino solo,
escluso e, allora, appare geloso, triste, arrabbiato. L’esperienza dei genitori
che si odiano e si distruggono vicendevolmente e attaccano il loro legame fa sperimentare al bambino un senso di caos e di catastrofe che lo fa
sentire annientato, disintegrato, a pezzi. Una situazione, dunque, molto
più drammatica ed inquietante che rischia di destabilizzare il bambino in
modo molto grave. La sua stessa rabbia gli viene ricatapultata addosso e
il bambino è così sopraffatto dalla violenza. Io credo che le sue fantasie
siano come un’esplosione che fa andare tutto a pezzi.
La rottura del legame tra i genitori pone il bambino di fronte a una realtà che lo disorienta e lo disintegra. Sente spezzato proprio quel legame
che ha come scopo l’aver cura di lui e che è, pertanto, il suo punto fondamentale di appoggio. E allora la gelosia, la rabbia, l’esclusione non solo
turbano il bambino, ma lo lasciano solo nel suo disastro interno. Non c’è
una coppia che ha cura di lui, che lo accudisce e pensa al suo benessere.
Nel materiale clinico di bambini disturbati possiamo spesso cogliere
l’evidenza di questo dramma, ritrovando un riscontro nel loro mondo
interno.
Emanuele, un bambino venuto in analisi quando aveva 3 anni e mezzo,
mi fece riflettere molto su quel particolare vissuto edipico che si ha nel
momento in cui i genitori sono in lotta tra di loro.
Il bisogno che il bambino ha di una coppia genitoriale buona e affidabile che colgo nel rapporto con me mi ha dato la possibilità di capire come
sia terribile per Emanuele proprio la percezione di una coppia in lotta che,
disintegrando se stessa, lo uccide. La coppia in lite non solo distrugge se
stessa e uccide il legame, ma non ha spazio per il figlio, il quale si sente
annientato, disintegrato. Il bambino vive, allora, i genitori come una coppia genitoriale cattiva che non solo lo esclude e l’abbandona - come nella
situazione edipica classica - ma che nel lasciarlo lo annienta: non c’è più
legame, non c’è più spazio per lui: è la morte, la disintegrazione.
Ricordo delle sedute drammatiche nel periodo in cui c’erano stati degli
scontri molto violenti tra i genitori, che preludevano a una separazione.
Il bambino portò in seduta tutta la rabbia e la violenza, ma soprattutto il
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AIAF QUADERNO 2007/2
senso di disgregazione interna e di disperazione collegato al venir meno
della buona coppia genitoriale. L’odio dei genitori tra di loro e la percezione di un’assenza di legame penso abbia aperto la via all’abbandono e
allo sconforto assoluto da un lato e, dall’altro, ad una disgregazione annullante. Verso i genitori uniti Emanuele stava provando gelosia, senso di
esclusione, e certamente ha sentito di odiarli e li ha attaccati nella sua fantasia, ma il suo referente era comunque una coppia unita che non si faceva
distruggere dalla sua rabbia. Ma ora tutto è cambiato e Emanuele si trova
a dover affrontare una situazione drammatica e disgregante.
La crescita, l’elaborazione di fatti dolorosi e di perdite importanti è, a
volte, per il bambino molto sofferta. Per i figli che vivono queste esperienze
dolorose e inquietanti è fondamentale la condivisione da parte dei genitori e degli adulti che li amano, che possono aiutarli a dare parole al dolore
e possono vivere con loro il tempo della sofferenza e della disperazione.
Ed è solo con la presenza e la condivisione che noi possiamo veramente
aiutare i bambini di fronte alle situazioni più drammatiche della vita. Non
possiamo a volte fargliele evitare, ma le possiamo vivere con loro.
BIBLIOGRAFIA
Bion W. R. (1962),Learning from Experience, Heinemann, London (trad. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972).
Britton R., Feldmann M., O’Shaughnessy (1989), The Oedipus Complex today, ed. J. Steiner,
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Cancrini T. (1993), Fantasie edipiche precoci e controtransfert, Rivista di psicoanalisi, 4, 709-720.
(1998) Precocious Oedipal fantasies and countertransference, in Journal of Child
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(2002) Un tempo per il dolore, Bollati Boringhieri 2002.
Freud S. - (1917) Lutto e melanconia. Vol. 8.
(1929), Il disagio della civiltà. Vol. 10 op.cit.
Klein M. - (1963), Our Adult World and other Essays, Hogarth, London (trad. it.Il nostro mondo
adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze 1972).
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
Rotolano come pietre parlanti sul corpo inerme tutti i dolori non elaborati; non c’è scampo, alla resa dei conti psicologici una ferita del presente
può far sanguinare l’edema di un trauma non riconosciuto.
Con questo scritto Tonia Cancrini scuote con parole che penetrano nella
carne, richiamandoci ai temi fondamentali dell’esistenza umana. La morte
è l’evento più drammatico rispetto alla perdita affettiva, ma anche la rottura di un legame può esserlo poiché comporta di per sé l’affrontare la morte
dell’amore sentito nei termini della fine di un mondo.
Se quando si ama si tocca il cielo con un dito quando si è abbandonati si
sprofonda nel vuoto terrificante: il nero del lutto, allora, rispecchia lo stato
di prostrazione abissale e cupo che appare infinito nella lentezza del suo
divenire, nell’afflizione tra il desiderio di ricordare e il bisogno di dimenticare per porre fine al tormento.
Sciogliere i nodi che legano al partner, pertanto, può necessitare più
tempo che per l’annodarsi del legame stesso. Più fitta è la trama più travagliato è il processo di sfilamento per lo struggimento del dolore, della
rabbia, del rimpianto, della ribellione, sopraffatti dall’impotenza e terrorizzati dalla solitudine.
Perché all’avvocato può interessare la fenomenologia del dolore?
Esiste una soglia di tollerabilità individuale al dolore mentale ed emotivo, superata la quale l’urto sulla mente può comportare una temporanea
défaillance delle capacità cognitive di analisi e valutazione di quello che è
sentito un problema personale che nessuno può comprendere. Aforisticamente
si può dire che si sbaglia perché si soffre e non si soffre perché si sbaglia
poiché è vacillante la capacità riflessiva necessaria per pensare prima di
agire.
Se la sofferenza non può essere pensata facilmente si traduce in fa i
violenti, l’inevitabile passaggio dal dolore alla violenza1. Nell’arcipelago delle emozioni affe i e pensieri possono alloggiare in modo contraddi orio nella mente.
Psicologicamente è L’urlo di Munch l’icona dell’esperienza che il verbo
1
De Zulueta F., Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1999.
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AIAF QUADERNO 2008/1
traduce nell’ impazzire dal dolore.
Occorre un tempo per il dolore, ma se questo tempo viene negato si
rischia di precipitare nella patologia del lutto, uno stato mentale di sofferenza che tende a deformare l’esistente. Diversamente l’elaborazione del
dolore è vitale, è un’esperienza trasformativa poiché generatrice di nuova
conoscenza verso se stessi e verso il mondo.
Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza. Odiare significa
essere ancora legati. Se la persona non riconosce autenticamente i propri
sentimenti e, ancor peggio, non li vede riconosciuti da coloro che gli stanno intorno, può verificarsi il fenomeno della banalizzazione del dolore.
Nella complessità della confli ualità coniugale l’avvocato compie
delle valutazioni sulle parti in causa per delineare i contorni di uno
scenario di relazioni che si sta modificando. In virtù di tale operazione
è importante sapere che non può esserci uno spazio autentico di bigenitorialità se entrambi i coniugi non hanno elaborato e, quindi, superato
il lu o e la colpa per il fallimento di un proge o di vita2.
Ma, pensare la colpa è una conquista particolarmente difficile, sopra u o, quando non si prospe a uno spazio di riparazione possibile.
Traslare questa conoscenza nell’impostazione giuridica può significare
prendere in considerazione la diacronia o la sincronia tra tempi giuridici e
tempi psicologici in modo da tentare di controllarne gli effetti.
Una delle possibili implicazioni è ben trattata da Cancrini con il concetto di fenomenologia del dolore invisibile – perché non adeguatamente
riconosciuto - nel bambino, facendoci capire le inevitabili ricadute sullo
sviluppo complessivo.
Certamente è contro natura per un genitore assistere al dolore del figlio
eppure nel corso di separazioni ad alta conflittualità questo può accadere,
come pure possono configurarsi strategie ingannevoli di misconoscimento oppure di negazione.
A partire da Flaubert, il padre di Madame Bovary, si è consapevoli che il
male assoluto è quello che non trova alcun bene al suo opporsi. Realisticamente l’avvocato psicologicamente sensibilizzato può contenere l’evolversi di una patologia del male3 di cui molti genitori si ammalano e che si rende
evidente ogni qualvolta si colpiscono attraverso i figli.
2
Cigoli V., Psicologia della separazione e del divorzio, Il Mulino, Bologna 1998.
3
Ricoeur P., Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
L’AMORE TRA BIOLOGIA
E CULTURA
GRAZIA ATTILI
ORDINARIO DI PSICOLOGIA SOCIALE, UNIVERSITÀ DI ROMA “LA SAPIENZA”
Sigmund Freud scriveva “Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo
proviamo non possiamo amare”. È da questa asserzione, forse, che partono
quelle considerazioni che vedono, in questi stati dell’anima, sentimenti
e bisogni contrastanti, come se si trattasse di istanze quasi opposte della
vita affettiva dell’individuo. Alcuni studiosi, su questa base, arrivano perfino a sostenere che il matrimonio, con la sua istituzionalizzazione di un
legame stabile e duraturo, o comunque il coinvolgimento in un legame
sentimentale di lunga durata è il frutto della cultura e della società, cui si
oppongono tendenze ineluttabili a provare attrazioni labili per individui
sempre diversi.
In effetti non è così. Se si utilizzano i postulati dell’ approccio evoluzionistico e un paradigma scientifico ormai ampiamente diffuso in ambito
psicologico - la teoria dell’attaccamento, formulata negli anni Sessanta da
uno psichiatra inglese di nome John Bowlby- si può asserire che il desiderio, l’innamoramento, l’amore, l’attaccamento non sono dimensioni separate e contrastanti della vita affettiva. L’amore, quello di cui si vede nei
film e si legge nei romanzi, quello che dura tutta la vita non è una costruzione storico-culturale oppure il risultato di un’invenzione che ha preso
le mosse dai poeti del XIII secolo. I legami di coppia non sono destinati
ad essere caratterizzati da passione, in una fase iniziale, per poi languire
nella noia codificata di un matrimonio, che viene mantenuto per pure convenzioni sociali.
Le relazioni sentimentali si sviluppano, se sane, secondo un percorso,
che è allo stesso tempo biologico e sociale, secondo un itinerario che evolve
per tappe imprescindibili e necessarie, ciascuna con un suo potenziale che
Questo articolo è largamente basato su G. Attili, Attaccamento* e Amore, Il Mulino, 2004
93
AIAF QUADERNO 2008/1
contribuisce al buon adattamento dell’individuo al suo ambiente sociale e
fisico. Il punto è che l’amore, così come l’intende l’immaginario collettivo,
è solo una fase della relazione di coppia che, se di tipo affettivo è, tuttavia, d’amore, in un senso ben più profondo, lungo tutto il suo percorso.
Il desiderio e l’eccitazione non sono in contrasto con l’amore, l’amore non
è l’antitesi dell’attaccamento, ma è proprio l’attaccamento il filo rosso che
tiene legati i partner di una coppia, all’interno di un percorso che porta gli
amanti e poi i coniugi, a provare, nelle varie fasi del loro rapporto, particolari emozioni, ciascuna funzionale al buon andamento della relazione e,
quel che più conta, cruciali per il loro benessere.
L’amore, in altri termini, secondo gli approcci che utilizzano sia i costrutti della psicologia cognitiva che le concettualizzazioni proprie del
neo- darwinismo, può essere considerato sinonimo di attaccamento,
e, nello stesso tempo, una sua parte. Esso può essere visto come frutto
dell’evoluzione e della selezione naturale, della filogenesi, in altri termini,
e, pertanto, nelle sue connotazioni, può essere considerato ancorato con
le sue radici nel nostro patrimonio genetico, ed è assimilabile, nelle sue
funzioni, all’amore che lega un bambino alla madre.
Questo non vuol dire che si ama il proprio partner come se questi fosse
la propria madre, né viceversa. Esistono, tuttavia, delle somiglianze sostanziali tra i due legami, a livello fenomenologico e a livello funzionale,
così che, nella sua impalcatura universale, il rapporto madre-bambino può
essere utilizzato per capire la complessità del legame d’ amore tra adulti. Quello, come questo, infatti, si è evoluto perché è proprio attraverso
un forte coinvolgimento con una persona specifica (la madre, il partner)
che ciascun individuo può sopravvivere al meglio ed ottenere successo
riproduttivo.
In entrambi i rapporti sono rintracciabili quattro componenti, le quali,
peraltro, appaiono in sequenza, lungo il percorso che porta allo strutturarsi del legame affettivo. Esistono, in altri termini, delle fasi di sviluppo
comuni, ciascuna caratterizzata da emozioni e stati mentali diversi: in una
prima fase quando si è legati sentimentalmente, si desidera mantenere la
vicinanza con quella persona specifica piuttosto che con un’altra, si ha,
quindi, l’effetto mantenimento della vicinanza. Questo accade nei primi mesi di
vita del bambino e nella fase del legame di coppia, tra adulti,caratterizzato
dal corteggiamento e dai momenti iniziali dell’innamoramento. In una seconda fase si cerca proprio quella persona (la madre, in età infantile, il
partner, in età adulta) quando si è turbati o si è sotto stress*, o quando si
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
sta male, e solo quella ha il potere di rassicurarci e farci sentire confortati,
secondo quello che viene detto effetto rifugio sicuro. Questo accade intorno
ai cinque mesi nel bambino e nella fase vera e propria dell’innamoramento negli adulti. È in una terza fase che si entra in ansia, o comunque ci si
rattrista quando l’altro non c’è, secondo l’effetto ansia da separazione. Perché
questo accada è necessario che il piccolo abbia raggiunto l’ottavo mese.
A questa età egli ha infatti le capacità cognitive necessarie a che si renda conto che la madre è “permanente”, ovvero che esiste anche quando
non la vede. Riscontrare che non c’è lo mette in ansia. Negli adulti l’ansia
compare perché il partner è ormai considerato necessario e insostituibile.
In una quarta fase compare l’ effetto base sicura. Se il partner (la madre o il
compagno della vita adulta) viene percepito come vicino e disponibile, in
caso di necessità, ci si sente leggeri e si ha voglia di esplorare e conoscere
il proprio ambiente sociale e fisico, mentre il solo immaginarsi che l’altro
non avrà voglia di accoglierci tarperà inevitabilmente qualsiasi volontà di
esplorazione.
Anche le reazioni alla perdita della persona considerata, ormai, la propria figura di attaccamento, oppure una separazione, sono analoghe nei
bambini e negli adulti. Esse costituiscono, un pattern universale e si articolano in una sequenza costituita dal succedersi di tre fasi, la protesta, la
disperazione, il distacco.
I LA PROTESTA.
Questa reazione iniziale è caratterizzata da agitazione, grida, pianto,
iperattività, urla, resistenza all’offerta di conforto da parte degli altri, ansia
estrema, panico. Si tratta di reazioni che sembrano indicare che la persona
abbandonata o che ha subito un lutto creda che attraverso le sue urla e le
sue proteste, attraverso il suo controllo della situazione, la persona morta,
o che se ne è andata, possa essere convinta a tornare.
II LA DISPERAZIONE.
La protesta attiva, con il passare del tempo, rivelandosi inutile, viene
sostituita dalla disperazione, ovvero da un periodo di letargia, di inattività, di depressione, di alterazioni fisiologiche quali disturbi del sonno,
alterazioni del comportamento alimentare, diarrea, elevata conduttività
cutanea, battito cardiaco accelerato.
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AIAF QUADERNO 2008/1
III IL DISTACCO.
Col tempo si verifica il distacco. Ci si allontana emozionalmente dalla
figura di attaccamento perduta, come se la separazione fosse stata accettata e ci si fosse resi conto che non c’è niente da fare, che la situazione è al
di fuori di qualsiasi controllo personale. Nel caso la persona perduta sia
morta, l’amore per essa permane, ma l’individuo comincia a riorganizzarsi emozionalmente, a riprendere le attività normali e a funzionare come
faceva prima della perdita.
Questo succedersi di fasi non è limitato alle situazioni di perdita permanente. Anche brevi separazioni sono sufficienti per produrre queste
modalità di risposta sia nei partner che nei bambini che vengono allontanati dalla madre. In caso di lutto, di divorzio o di abbandono da parte
di un coniuge, tuttavia, questa sequenza ha una durata di otto mesi, un
anno.
Reagire con la protesta e l’ansia perfino alla perdita temporanea di
qualcuno che ha la funzione di assicurare protezione e cura, sia fisiche
che emozionali ha un senso dal punto di vista biologico. E il fatto che tali
reazioni sono presenti a seguito della rottura del legame madre- bambino
e dei legami sentimentali che tengono uniti una coppia di adulti, ma non
si verificano se viene meno un legame amicale o qualsiasi altra relazione
sociale è un’ulteriore dimostrazione di come i rapporti di coppia possano
essere considerati legami con un loro sviluppo e con bisogni propriamente biologici.
Non a caso la rottura di una relazione, e in particolare un divorzio,
rende una persona più vulnerabile ad un ampio spettro di alterazioni fisiche e psichiche, che vanno dalle disfunzioni del sistema immunitario, al
procurarsi involontariamente incidenti, all’abuso di sostanze, al suicidio e
a varie altre forme di psicopatologie.
RIFLESSIONE FINALE
Queste considerazioni acquistano spessore se ci si muove in una prospettiva che vede alla base dei nostri comportamenti, delle nostre emozioni, della tendenza a formare legami con certi individui e non con altri,
una spinta ineluttabile, a base innata, a lasciare le nostre caratteristiche
genetiche, culturali, psicologiche in quanti più individui possibile (è il
96
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
raggiungere questo traguardo che viene detto successo riproduttivo). A
guidare le nostre azioni ci sarebbe una sorta di bisogno inconsapevole
di immortalità, una necessità di raggiungere la vita eterna attraverso la
propagazione delle nostre caratteristiche nella discendenza. In pratica, la
selezione naturale ha operato al fine di far distillare nel nostro patrimonio
genetico spinte che non si esauriscono nel perseguimento della sopravvivenza e della riproduzione. Esse operano, piuttosto, a far sì che noi, in
maniera inconsapevole, facciamo il possibile perché sopravvivano quante
più copie possibile di noi stessi non solo nei nostri figli, ma nei figli dei
nostri figli e nei collaterali.
Data la lunga immaturità dei nostri piccoli è cruciale che essi si leghino
in maniera ineluttabile alla persona (che per lo più è la madre) che può
assicurare ad essi sopravvivenza e condurli a divenire a loro volta adulti e
buoni genitori. Allo stesso modo, al fine di raggiungere successo riproduttivo, è cruciale che due adulti, un padre ed una madre, si prendano cura
insieme di un piccolo che porta le caratteristiche genetiche di entrambi.
Ecco perchè si evoluto l’amore e perché amiamo!
Parlare dell’amore (e dell’attaccamento) come parte di un processo universale a base innata non significa non tener conto del semplice ed ovvio
dato che non tutti amano alla stessa maniera, così come non tutti i legami
di coppia hanno le stesse caratteristiche. La struttura che assume un legame sentimentale, le distorsioni dell’amore, la scelta stessa del partner
sono,infatti, da ricondurre alle aspettative che ciascuno ha su se stesso e
sugli altri, al valore che ciascuno assegna ai propri bisogni affettivi e alle
strategie delle quali si serve per ottenere affetto.
Queste aspettative, il modo in cui ci si lega alla persona amata e si vive
il rapporto di coppia sono, fortemente influenzati dalle esperienze peculiari che ciascuno ha avuto da bambino con la propria figura di attaccamento, nel corso dell’ontogenesi, sulle quali ha un largo peso l’ambiente
sociale e la cultura di appartenenza. Il rapporto madre-bambino può essere considerato, pertanto, il prototipo del legame di coppia, non solo per
le sue caratteristiche generali, ma anche, come del resto già evidenziato
da Freud, per quelle individuali e l’amore fortemente influenzato sia dalla
biologia che dalla cultura.
Una volta apprese, nella prima infanzia, le caratteristiche di quella figura particolare (la madre o chi per lei), che dà cure e con la quale si instaura
un legame affettivo speciale è quella, comunque essa sia, qualsiasi siano le
forme di accudimento di cui sia capace, che viene cercata per ricevere con97
AIAF QUADERNO 2008/1
forto, quella dalla quale ci si aspetta cure e amore. Sofisticati meccanismi
cognitivi, dei quali siamo totalmente inconsapevoli, esito della qualità di
quella prima relazione, faranno, poi, sì che, da adulti, le persone con quelle stesse caratteristiche, o comunque con un modo simile di rapportarsi a
noi siano attivamente scelte al fine di costruire i nostri legami di coppia. In
altri termini, da adulti, si tende ad instaurare legami che somigliano, nella
loro struttura, a quelli di cui si sia fatta esperienza, da piccoli.
Essere gelosi come Otello e incapaci di fidarsi, o infedeli come il Don
Giovanni, o appassionati e teneri come il Rodolfo della Boheme; reagire
ad una separazione o ad un divorzio con minacce, vendette e una rabbia
senza fine, o con una esibita indifferenze e freddezza sono i correlati di
strutture di personalità che emergono da come si è stati trattati quando si
era bambini.
Delineare i percorsi della nostra vita affettiva, a livello generale e a livello individuale non significa proporre un quadro di ineluttabilità, un
assetto dove tutto si gioca nell’incrocio tra livello genetico ed esperienze
personali solo nei primi anni di vita. È vero, piuttosto, che l’interazione
organismo-ambiente è una costante nel processo di sviluppo degli esseri
viventi, ed è tanto più continuamente in progress quanto più gli individui
sono complessi.
Esperienze di coppia, nella vita adulta, con partner che sanno porsi in
maniera continuativa e costante come diversi rispetto alle prime figure di
accudimento hanno il potere di cambiare le aspettative su di sé e sugli altri
e di porre gli individui in grado di formare legami affettivi funzionanti,
anche lì dove le relazioni infantili non siano state soddisfacenti.
98
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
Per cogliere appieno i risvolti psicologici e sociali, oltre che della salute
fisica, connessi alla rottura di un legame affettivo occorre partire dall’analisi della potenza che l’amore detiene in quanto è un bisogno vitale all’esistenza stessa.
La persona umana si nutre essenzialmente di affetti, anche se a volte
sono confusi. Ed è per questo motivo che il contributo di Grazia Attili
opportunamente toglie il velo sul fraintendimento tra amore e passione,
andando alla matrice biologica dei bisogni emotivi*: l’attaccamento.
Etimologicamente il termine deriva da attaccare, con il senso di unire,
poiché per la formazione del legame conta la vicinanza, la responsività, la
sensibilità, la continuità che fa si che due persone estranee, mano a mano,
tendano a fondersi in un senso del noi condiviso.
Secondo la teoria dell’attaccamento è il senso di sicurezza che deriva da
un legame d’amore che fa sì che le persone impegnate in relazioni sentimentali durature abbiano una vita più sana, più felice e più lunga rispetto
a quelle non sposate, così come la ricerca della psicologia della salute ci
riporta.
Dall’altra parte, il matrimonio etimologicamente riporta alla mater perché vi è l’impronta dell’amore assoluto e devoto che un bambino riversa
nel suo primo legame, la cui qualità influenzerà i rapporti successivi.
L’attaccamento, quindi, è una naturale evoluzione della passione romantica ed è il garante per la crescita della prole, unitamente alla differenziazione di funzioni genitoriali: di cura per la madre e di sostentamento
per il padre, da qui il termine patrimonio.
Si sa, però, che la natura viene vestita dalla cultura e questo ha comportato un’evoluzione negli equilibri di ruoli e di funzioni all’interno della
coppia, come pure rispetto alle cure parentali.
A tal proposito la legge sull’affido condiviso rispecchia tale cambiamento, legittimando una rivalutazione dei coniugi-genitori secondo il criterio della partecipazione alla vita familiare.
Se questo è l’intento va anche, però, ascoltato e tutelato il punto di vista
del minore cioè il suo legame di attaccamento.
99
AIAF QUADERNO 2008/1
Il rischio insito nell’affidamento condiviso per i bambini da zero a
cinque anni riguarda la sindrome abbandonica versus il trauma che l’alternanza con i genitori può scatenare. I margini di tale rischiosità combaciano, peraltro, con l’esito che alcuni affidamenti esclusivi possono
comportare.
La chiave di volta è capire che il bambino entra in ansia1 ogni qualvolta è lontano dalla sua figura di riferimento per un tempo superiore
alla sua tollerabilità.
Questo succede perché il bambino sviluppa un attaccamento completo
con un solo genitore, mentre può avere alcuni comportamenti di attaccamento con l’altro o verso altre persone.
A fronte di ciò sono state evidenziate una serie di esperienze terrorizzanti che vengono indicate come trauma di a accamento2 che si verificano qualora il bambino subisce la percezione di una minaccia alla disponibilità della figura di attaccamento, unitamente ad una minaccia al sé.
Clinicamente vengono considerati quattro tipi di traumi di
attaccamento:
1. ro ura per una separazione reale che fa sentire indisponibile l’adulto
di riferimento;
2. abuso da parte di un genitore;
3. ferite di a accamento quando il bambino si sente abbandonato in un
momento di bisogno;
4. morte della figura di attaccamento.
Nel caso dell’alternanza tra assenza e presenza dei genitori, ovviamente, il livello di sviluppo del bambino costituisce una variabile saliente rispetto il rischio di reazioni disfunzionali. Studi recenti hanno dimostrato
che a monte di disturbi psicologici e fallimenti scolastici vi sono gli esiti di
una rottura precoce di attaccamento.
Lo scenario cambia con la seconda infanzia, quindi dai sei anni, dato
che lo sviluppo linguistico e cognitivo pone il bambino nella condizione
di poter rappresentarsi mentalmente la disponibilità della sua figura di riferimento, anche aiutato dalla fiducia che si è consolidata interiormente.
1
Gerhardt, S., Perché si devono amare i bambini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
2
Rholes W.S., Teoria e ricerca nell’attaccamento adulto, Raffaello Cortina Editore, Milano
2007.
100
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Si auspica, quindi, che il criterio base nell’impostazione giuridica
dell’affidamento sia la rilevazione clinica della figura di riferimento. In
caso contrario si costituiscono le premesse per la formazione di un trauma
irrisolto, una forma di danno di cui si intuisce la gravità.
Un’ultima riflessione che accomuna: sia in ambito giuridico che psicologico da anni ci si trova ad osservare la versione tragica della famiglia che
pone in risalto la questione perturbante della durata dell’amore. Siamo
consapevoli che si è attivato un circolo di affettività insicura tra le generazioni per cui lo sforzo, e anche la sfida, deve riguardare il perfezionamento
di procedure e prassi per l’umanizzazione della separazione familiare.
Il principio cardine sta nel rispe are la condizione ontologica del minore, persona con diri i di cui, però, la priorità affe iva è messa troppo
spesso a repentaglio. Ogni qualvolta il bisogno affe ivo non viene autenticamente riconosciuto il bambino – inerme - subisce l’effe o di non
sentirsi riconosciuto sogge o ma rido o ad ogge o inanimato perché
privato dell’anima, cioè del suo esserci nel mondo.
Se così andrà, allora il Leitmotiv della sua vita sarà Io non sono
nulla.3
3
Bisagni F., Io non sono nulla. Riflessioni psicoanalitiche sui bambini e uomini d’oggi, La
biblioteca di Vivarium, Milano 2006.
101
AIAF QUADERNO 2008/1
102
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
L’ASCOLTO DEL MINORE NELLA
SEPARAZIONE
FULVIO SCAPARRO
PSICOTERAPEUTA, DIRETTORE SCIENTIFICO DEL GEA-GENITORI ANCORA, MILANO
So che molti dei presenti sono avvocati o magistrati e quindi bene al
corrente di quel che dice la legge n. 54/2006 nell’Art. 155 – sexies1 quando
1
1. L’articolo 155 del codice civile è sostituito dal seguente: «Art. 155. - (Provvedimenti riguardo ai figli) – Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione
personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati,
determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì
la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura,
all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli
accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli
relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo
conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria
amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al
mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove
necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di
proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4) le risorse economiche di entrambi i genitori
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato
dalle parti o dal giudice.
Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente
documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni
oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi».
2. Dopo l’articolo 155 del codice civile, come sostituito dal comma 1 del presente articolo,
sono inseriti i seguenti:
«Art. 155-bis. - (Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso) –
Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con
provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.
Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se accoglie la domanda,
103
AIAF QUADERNO 2008/1
prevede la possibilità per il presidente di assumere mezzi di prova anche
prima dell’emanazione dei provvedimenti provvisori relativi (però) solo
ai figli; è infatti presente il richiamato esplicito al solo art. 155, e ciò sia su
istanza di parte che in via officiosa.
Molto più problematico sarà giungere a una lettura coerente e uniforme del verbo dispone che è utilizzato con riguardo all’audizione del figlio
ultradodicenne e di età anche inferiore purché dotato di discernimento.
Come fa notare il magistrato Gloria Servetti2, il presente indicativo, secco, e la scelta di non utilizzare la diversa formula ‘può disporrÈ sembra
indicare un orientamento volto alla rigida applicazione delle Convenzioni
internazionali (New York 1989 e Strasburgo 1996) e allo strumento dell’audizione personale e diretta come un passaggio obbligato prima dell’assunzione di qualsiasi provvedimento.
Se così dovesse concludersi (e mi pare che una lettura nel senso dispone
= può disporre, pure già da taluni prospettata, non possa essere condividispone l’affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvi, per quanto possibile, i
diritti del minore previsti dal primo comma dell’articolo 155. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini
della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli, rimanendo ferma
l’applicazione dell’articolo 96 del codice di procedura civile.
Art. 155-ter. - (Revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli) – I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi
e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.
Art. 155-quater. – (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza) – Il
godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei
figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i
genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa
familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643.
Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l’altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento, la ridefinizione degli
accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici.
Art. 155-quinquies. - (Disposizioni in favore dei figli maggiorenni) – Il giudice, valutate le circostanze, può
disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.
Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio
1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
Art. 155-sexies. - (Poteri del giudice e ascolto del minore) – Prima dell’emanazione, anche in
via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare
l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti,
tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse
morale e materiale dei figli».
2
104
Testo trasmesso dall’A. a Fulvio Scaparro il 4 aprile 2006
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
sa), la ricaduta sui tempi dei giudizi e sulle modalità organizzative degli
uffici giudiziari (per non parlare della ricaduta sui minori di cui dirò tra
poco) sarebbe imponente; non voglio affatto scendere nel merito della previsione e del mancato espresso riconoscimento del potere del giudice di
distinguere un caso dall’altro e, così, di non coinvolgere il minore ove non
ve ne sia affatto necessità, ma qui mi preme anzitutto sottolineare come i
tribunali non siano affatto pronti ad accogliere ogni giorno piccoli eserciti di minori, spaesati, intimoriti e accompagnati da genitori che neppure
riescono in quel momento a parlarsi se non attraverso il canale dei loro
difensori.
Ed ancora, se così fosse, dovrebbe forse pensarsi ad approntare strutture idonee e ad avvalersi – in via stabile e organicamente riconosciuta – di
personale ausiliario dotato di competenza specifica, anche solo per evitare
che quello che è sempre stato visto come il diritto del minore di far sentire
la propria voce nel processo degli adulti finisca con il diventare occasione
maldestra di sofferenza e destabilizzazione, prima fra tutte quella che si
crea ove dovesse il minore pensare di essere diventato ex lege arbitro della
propria situazione e ago della bilancia anche della controversia della coppia genitoriale.
La necessità di approntare un setting adeguato e tutelante non potrebbe
essere differita, così che non posso che condividere l’opinione della Servetti circa l’urgente necessità sul piano organizzativo di attuare un protocollo di intesa e una collaborazione con i servizi territoriali, in modo da
avere la garanzia di personale ausiliario del giudice pronto ad accogliere
il minore per una sua audizione delegata.3
La neurofisiologia del piacere nasce con le esperienze di autostimola3
Servetti, G., cit.:”Forte è la preoccupazione nata da una lettura che sembrerebbe imporre questa audizione prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori, sia perché in quel momento il presidente
non può essersi fatto alcuna idea della situazione del nucleo familiare nel suo complesso sia perché è
ben intuibile che i tempi di fissazione e di espletamento di queste udienze finirebbero con il dilatarsi a
dismisura, in contrasto con quella che è l’esigenza sempre più da tutti rappresentata.
Potrebbe allora suggerirsi una lettura che ‘stacca’ questa previsione dalla prima parte dello stesso 1° co.
(dove è presente l’inciso “anche in via provvisoria”, non ripetuto nella seconda parte) e ipotizzarsi che
l’audizione sia sì sempre un passaggio obbligato ma da collocarsi nel momento processuale più opportuno, lasciandone l’individuazione al giudice istruttore: questa soluzione avrebbe in sé l’innegabile
vantaggio di garantire il mantenimento dei tempi normali di fissazione dell’udienza presidenziale e, al
tempo stesso, di consentire al G.I. di trovare il momento e, quindi, le modalità più convenienti per il
suo contatto diretto, o mediato, con il minore.
Va da sé che una simile opzione interpretativa non escluderebbe la possibilità per il presidente, ove
sollecitato e in presenza di un forte contenzioso sul tema dell’affidamento, di procedere ancor prima
dell’emanazione dei provvedimenti provvisori a detta audizione, così come del resto nessuna preclusione vi sarebbe ad una reiterazione dell’incombente in un momento successivo, ad opera dell’istruttore.”
105
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Tutelare i figli
nella separazione
Prof. F.Scaparro
Negli esseri umani una causa del disturbo posttraumatico da stress è l’assenza (privazione)
o l’interruzione (deprivazione) del legame di
attaccamento con la figura parentale primaria.
Quando i legami ci sono ma sono deboli oppure
sono recisi più tardi, i bambini possono crescere
con gravi problemi psicologici, come depressione
e comportamento antisociale o delinquenziale.
106
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
fonte: http://www.neuroskills.com/brain.shtml
Prof. F.Scaparro
Separare prematuramente un piccolo dalla
famiglia ha effetti rilevanti in termini di sistema
di attaccamento. Si ritiene che il danno si
verifichi perché il legame di attaccamento è
vitale per il corretto sviluppo della regione
corticolimbica dell’emisfero destro del cervello.
Se i neuroni non sono stimolati nel primo
periodo dello sviluppo vanno perduti,
lasciando i piccoli incapaci di regolare le loro
emozioni, vulnerabili agli effetti dello stress e
più inclini alla violenza.
107
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Vale per i nostri figli quello che
vale per ogni essere vivente la cui
crescita dipenda da una struttura
di relazioni sociali e affettive:
Prof. F.Scaparro
stress
sociale
microbi
scarsa
nutrizione
tossine
fattori
genetici
sistema
immunitario
SISTEMA
DI DIFESA
DEL CORPO
sistema
nervoso, memoria,
percezione, strategie di
comportamento
MALATTIA
108
fattori
endocrini
Rosenzwige, 1998
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Ecco perché, nel momento in cui tentiamo,
attraverso nuove disposizioni legislative, di
meglio regolare le procedure e le pratiche di
separazione e divorzio, dobbiamo innanzi tutto
tenere a mente ciò di cui i nostri figli hanno
assoluta necessità: non perdere quei riferimenti
sociali e affettivi dei quali il loro corretto
sviluppo non può fare a meno.
Prof. F.Scaparro
Per questo mi permetto di
chiedere ai presenti di prestare
attenzione alle difficoltà
che comportano l’ascoltare
bambini e ragazzi e l’essere
ascoltati da loro.
109
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Prima che come psicologi, avvocati o magistrati
conosciamo queste difficoltà come genitori o
insegnanti.
E soprattutto perché siamo stati bambini e
ragazzi e forse ancora ricordiamo quanto sia
difficile il dialogo tra generazioni diverse.
Prof. F.Scaparro
E’ una pericolosa illusione credere che basti
rendere obbligatoria “l’audizione del minore”
per superare quelle difficoltà di comunicazione
che sono ancora maggiori quanto più profondo è
il coinvolgimento emotivo
di chi è ascoltato e di chi ascolta.
110
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Già, perché non può esserci dialogo e dunque
vero ascolto se tra adulto e bambino o ragazzo
non esiste una relazione di fiducia che non si
stabilisce ope legis.
Prof. F.Scaparro
Faccio dunque appello alla vostra pazienza per
riflettere con voi su come sia possibile
costruire una base di fiducia dalla quale far
nascere il difficile dialogo tra generazioni
diverse e distanti.
111
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
La premessa, ovviamente, è che l’audizione del
minore non è un interrogatorio
e non dovrebbe avere nulla di burocratico e
rigorosamente formalizzato.
Prof. F.Scaparro
Si tratta invece di aiutare il/la bambino/a o il/la
ragazzo/a a esprimere bisogni, dubbi e proposte
in uno dei momenti più delicati della sua
esistenza: quello che lo/la vede coinvolto/a, suo
malgrado, in un’aspra contesa tra i suoi genitori.
112
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Tutti sappiamo o dovremmo sapere,
non solo perché esperti della materia, ma
perché esperti di vita, che esistono alcune cose
da evitare quando si ha a che fare con i figli di
genitori ‘in guerra’.
Prof. F.Scaparro
1.
Parlare male dell’altro genitore in presenza
del figlio o lasciare intendere che è cattivo e
responsabile del dolore di tutti.
113
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
2.
Coinvolgere i figli nelle discussioni degli adulti
sia in maniera indiretta, come ascoltatori, sia
in maniera diretta, chiedendo loro di dire chi ha
ragione tra i genitori, se mamma o papà.
Prof. F.Scaparro
3.
Usare i figli come ‘ambasciatori’
delle richieste o delle lamentele
nei confronti dell’altro genitore.
114
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
4.
Fare dei figli dei confidenti sulle questioni della
separazione e degli stati d’animo dei genitori, la
spalla su cui piangere, i consolatori.
Prof. F.Scaparro
5.
‘Far decidere’ sempre ai figli, soprattutto se
molto piccoli, come gestire la loro vita ed i
rapporti con ciascuno dei genitori.
115
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
I cinque punti sopra riportati si sono dimostrati
particolarmente distruttivi per i figli. I minori
che incontriamo in audizione hanno quasi
sempre già subìto in tutto o in parte gli effetti
dei comportamenti sbagliati dei genitori che li
hanno coinvolti nella loro battaglia.
Prof. F.Scaparro
Che ora sia un giudice o uno psicologo ad
ascoltarli non garantisce affatto che sul
minore non gravino indebiti carichi emotivi
e responsabilità, molto simili a quelli di cui li
hanno gravati i genitori.
116
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Bambini e ragazzi che per anni sono stati
coinvolti in disastrosi conflitti familiari, spesso
soli, senza sapere a chi rivolgersi per ottenere
aiuto, sono oggi davanti a un magistrato e/o a
uno psicologo che li ascolta.
Prof. F.Scaparro
O meglio ascolta ciò che una vittima riesce a dire
quando si trova ancora nel pieno della catastrofe
che l’ha colpita. Il bambino o il ragazzo possono
tacere perché non vogliono o non possono
parlare, possono schierarsi da una parte o
dall’altra per sopravvivere, possono contenere o
meno il dolore, la rabbia o la paura.
117
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Ma per immaginare un futuro diverso da quello
attuale non basta un’audizione ‘durante la
battaglia’ ma qualcuno/a che segua il minore
più a lungo nel tempo, un progetto,
una persona a cui fare riferimento per
monitorare ed eventualmente correggere le
decisioni prese oggi.
Prof. F.Scaparro
Quindi, la legge è legge e va rispettata. Se è
necessaria l’audizione del minore che audizione
sia. Ma nessuno può impedirci di progettare
una legge migliore, una legge che quando parla
di ascolto del minore si basi su quanto la scienza
e l’esperienza hanno dimostrato necessario
per ascoltare i minori.
118
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Proviamo a riflettere su quanto si è
dimostrato utile per creare le condizioni
necessarie all’ascolto del minore. Partiamo dai
preadolescenti e dagli adolescenti.
Prof. F.Scaparro
Come ha insegnato Carl Rogers [Rogers, 1980],
empatia è sentire il mondo personale dell’altro
come se fosse nostro, senza però mai perdere
questa qualità del come se:
sentire l’ira, la paura, il turbamento dell’altro,
senza però aggiungervi la nostra paura,
il nostro turbamento.
119
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Essere empatici vuol dire recepire lo schema di
riferimento interiore di un altro con accuratezza
e con le componenti emozionali e di significato
ad esso pertinenti, come se una sola fosse la
persona - ma senza mai perdere di vista questa
condizione del come se.
Prof. F.Scaparro
Significa perciò sentire la ferita o il piacere di
un altro come lui lo sente, e di percepirne le
cause come lui le percepisce, ma senza mai
identificarmi con l’altro dimenticando che è
come se io fossi ferito o provassi piacere. Se
questa qualità di come se manca, allora lo stato
è quello dell’identificazione.
120
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
Per conoscerci, riconoscerci e
crescere insieme si richiede empatia e non
identificazione con l’altro.
Come afferma Rogers, “ […] un alto grado
di empatia in una relazione è probabilmente
il fattore più potente nell’apportare
trasformazioni e apprendimento”.
Prof. F.Scaparro
Se non abbiamo sensibilità e preparazione
psicologica, se non abbiamo tempo, se riduciamo
l’audizione del minore a un incontro (spesso un
solo breve incontro) perché così vuole la legge,
non raccontiamoci la storia consolante che
l’abbiamo ascoltato.
121
AIAF QUADERNO 2008/1
Prof. F.Scaparro
Lo abbiamo sentito nel senso di ‘udito’, abbiamo
raccolto le sue dichiarazioni, le dichiarazioni di
una vittima delle guerre familiari e lo abbiamo
fatto proprio mentre la battaglia infuria.
Prof. F.Scaparro
Ma i ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati e
seguiti più a lungo nel nuovo assetto di vita che
segue la separazione, fargli esprimere le loro
proposte di modifica di quell’assetto,
i loro ripensamenti, assisterli nel recuperare
buone relazioni con entrambi i genitori ogni
volta che questo è possibile.
122
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Prof. F.Scaparro
In altre parole, occorre sensibilizzare in primo
luogo i genitori ma anche tutti coloro che a vario
titolo entrano in contatto con i figli (magistrati,
avvocati, psicologi, ecc.) affinché capiscano che
tutelare bambini e ragazzi è interesse di tutti,
dei singoli e della collettività e che nessuna
sentenza o nessun accordo apporterà pace se i
bisogni dei figli non sono stati soddisfatti.
123
AIAF QUADERNO 2008/1
124
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
SUL PIACERE E SULLA FELICITÀ
MAURO MANCIA
NEUROFISIOLOGO DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO;
PSICOANALISTA MEMBRO ORDINARIO CON FUNZIONI DI TRAINING DELLA SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA, MILANO
zione eseguite nel ratto da James Olds nel 1954. Quando gli stimoli elettrici riguardavano le aree ipotalamiche laterali attraversate dal fascicolo
prosencefalico mediale, il ratto continuava ad autostimolarsi trascurando
il cibo e gli stessi richiami sessuali.
La sostanza attiva nel produrre piacere è la dopamina che, liberata dal
nucleo accumbens, produce un fenomeno a cascata con liberazione di altri
trasmettitori che attivano altre aree cerebrali responsabili del piacere. La
dopamina è coinvolta anche nel desiderio e nel piacere sessuale, e partecipa all’attenzione, che facilita la fissazione delle proteine prodotte dai geni
sulle sinapsi deputate alla memorizzazione delle esperienze.
Più che il piacere, la felicità ha interessato i filosofi fin dall’antichità. È
stata considerata un momento di espressione di sé, di confusione con il
mondo, un’immersione nel tutto che esclude il dolore della separazione.
Questa concezione rimanda alle prime esperienze fusionali del bambino
con la madre. La felicità può però essere definita anche da un altro vertice: non l’esperienza di un attimo, ma una ricerca e un lavoro su di sé che
riguardano l’intera vita.
Questa visione filosofica è in linea con il pensiero psicoanalitico che in
questo capitolo ho cercato di elaborare. Partendo dalle prime e più traumatiche relazioni del bambino con la madre, avanzo l’ipotesi che la felicità
possa essere raggiunta attraverso una conoscenza di sé che duri nel tempo
e permetta la trasformazione del negativo e della sofferenza che è in noi
in modo che possiamo gestire creativamente il nostro daimon interno distruttivo, fonte di infelicità.
Anche se Aristotele sostiene che Dio è felice come l’uomo e che la sua
Questo lavoro è tratto da Mauro Mancia, Sentire le Parole, Bollati Boringhieri Editore, Torino
2004. Con gentile autorizzazione dell’Editore per la riproduzione.
125
AIAF QUADERNO 2008/1
felicità è collegata al piacere, il mio pensiero è che il piacere può essere
scisso dalla felicità. Se infatti è sicuramente vero che il dispiacere genera infelicità, è altrettanto vero che il piacere non garantisce la felicità. Gli
stessi Greci nell’istantaneità del piacere hanno subodorato una forma di
inganno, una beffa degli, dèi (Natoli, 1994). Da neurofisiologo e psicoanalista, cercherò di affrontare qui la sottile distinzione tra piacere e felicità
seguendo un criterio epistemologico dualistico, parlando di quel piacere
che ha le sue radici essenzialmente nel corpo (cervello) e di quella felicità
che appartiene all’area del mentale.
Cominciamo dalla biologia del piacere. Nel 1954 James Olds, psicologo
sperimentale americano, ha pensato che la stimolazione elettrica della sostanza reticolare del tronco, una delle parti più antiche del nostro cervello
o cervello rettiliano, capace di attivare la corteccia cerebrale e la vigilanza,
potesse interferire con l’attenzione e favorire pertanto l’apprendimento e
la memorizzazione (Olds e Milner, 1954). Ha iniziato così una ricerca sperimentale tesa a dimostrare l’azione favorente l’apprendimento da parte
della stimolazione elettrica della formazione attivatoria ascendente del
tronco cerebrale, scoperta da Moruzzi e Magoun nel 1949
Un giorno, per errore, la punta dell’elettrodo stimolante, anziché essere fissata in questa struttura reticolare mesencefalica di un ratto, è finita
qualche millimetro più avanti, nell’area dell’ipotalamo laterale. Il protocollo prevedeva l’osservazione del comportamento del ratto durante l’applicazione di un breve stimolo elettrico ogni volta che il ratto attraversava
un cancello. James Olds si accorse che il ratto cui stava stimolando l’ipotalamo ritornava continuamente al cancello per essere stimolato, come se
dallo stimolo stesso ricevesse un intenso piacere. Colpito dall’osservazione, progettò un esperimento in cui l’animale
veniva prima impiantato
con elettrodi nell’ipotalamo laterale e quindi posto
in una scatola di Skinner
per esperimenti di condizionamento (fig. 1). Il
ratto era lasciato libero
di esplorare l’ambiente
e di toccare la leva colFigura 1
legata allo stimolatore.
126
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Quando nella sua esplorazione capitava all’animale di azionare la leva,
lo sperimentatore assisteva a un fenomeno curioso: era come se il ratto
avesse imparato un gioco che gli dava grande piacere. Continuava ad autostimolarsi ripetutamente e compulsivamente (fino a migliaia di volte in
un’ora), trascurando il cibo e persino le attenzioni di un disponibile partner sessuale.
L’area coinvolta in questo sistema del piacere era rappresentata da un
fascio di fibre, il fascicolo prosencefalico mediale, che proviene dall’area
tegmentale del tronco e raggiunge il nucleo accumbens e la corteccia frontale (fig. 2). Se l’elettrodo stimolante era collocato in altre parti dello stesso
sistema, come il setto o l’area orbitofrontale, l’effetto che si otteneva era
opposto: l’animale, come se avesse sentito dolore o disagio, si asteneva
dallo stimolarsi.
L’osservazione era di grande interesse, poiché dimostrava l’esistenza
nel cervello di un potente sistema motivazionale, deputato a procurare
piacere. L’ipotesi che i ricercatori hanno subito avanzato è stata che le fibre
del fascicolo prosencefalico mediale contenessero delle sostanze capaci di
attivare nel cervello un sistema da cui il ratto otteneva piacere. Impossibile, naturalmente, precisare di che natura fosse sul piano soggettivo questo
piacere che appariva così motivante per l’animale.
Nasceva a questo punto un’altra fondamentale questione: esistono nel
cervello sostanze che provocano piacere? E, se sì, da quali strutture sono
prodotte e di quali sostanze si tratta? Ricerche neurofarmacologiche hanno dimostrato che le fibre componenti il fascicolo prosencefalico mediale
usano sostanze particolari con funzioni trasmettitoriali chiamate catecolamine. In particolare, la sostanza attiva è la dopamina. Il sistema dopaminergico, che veicola la
«molecola del piacere», si
unisce al recettore D2 della dopamina che, nel cervello, è fortemente implicato nella «ricompensa» e
nel piacere. La dopamina
è liberata dai neuroni del
nucleo accumbens attraverso un «meccanismo
a cascata». Inizialmente,
Figura 2
infatti, il cervello produce
127
AIAF QUADERNO 2008/1
serotonina, che a sua volta stimola l’ipotalamo che produce encefalina,
che a sua volta inibisce la produzione del GABA, un trasmettitore inibitorio. L’inibizione del trasmettitore inibitorio produce disinibizione e facilita
quindi la liberazione di dopamina nel nucleo accumbens. l recettori della
dopamina hanno dunque la chiave che regola il piacere e il benessere, e
partecipano anche alla riduzione dello stress (Blum, Braverman e altri,
2000).
Il ruolo della serotonina in questo meccanismo «a cascata» è determinante. 1 suoi recettori distribuiti diffusamente nel cervello (in particolare
nel sistema limbico-ipotalamico) costituiscono un fattore importante per
l’azione di questo trasmettitore che dà inizio al-«circuito del piacere». E
interessante qui notare che alcuni di questi recettori sono anche sensibili al cioccolato, e che l’alcool, la cocaina, l’eroina, la marijuana e la nicotina attivano la liberazione cerebrale di dopamina. Sperimentalmente si
può dimostrare che i ratti possono diventare tossicodipendenti come gli
umani: esposti a un’iniezione di droga (cocaina) possono, con opportuni
accorgimenti sperimentali, iniettarsi da soli le stesse droghe. E possibile
pensare, antropomorficamente, che queste operazioni siano state motivate nell’animale dalla ricerca del piacere.
Altre esperienze hanno dimostrato che la manipolazione farmacologica
del sistema dopaminergico modifica il comportamento sessuale in un’ampia varietà di specie animali (Gessa e Tagliamone, 1974). La dopamina e
i suoi recettori appaiono quindi oggi gli elementi centrali di un sistema
che opera nel cervello dei mammiferi ed è in grado di produrre i seguenti
effetti: produce piacere, media l’effetto dell’introduzione di droghe (come
la cocaina, l’eroina e le anfetamine), regola il desiderio e il comportamento sessuale, partecipa a livello molecolare alla fissazione nelle sinapsi di
quelle proteine espresse dai geni che sono implicate nella memoria.
Nell’uomo, è lo stesso sistema dopaminergico a regolare le tossicodipendenze e il piacere. La sua attivazione (attraverso la stimolazione elettrica del fascicolo prosencefalico mediale, che unisce l’area tegmentale al
nucleo accumbens) produce intenso piacere ed euforia. Questo circuito è
fortemente coinvolto nelle tossicodipendenze dell’uomo, e gli stessi recettori della dopamina sono sensibili a molte droghe, anche pesanti (oppiacei come morfina e eroina).. Questi sistemi cerebrali studiati sperimentalmente, che controllano il piacere e il dolore, la dipendenza da droghe e
dal sesso e regolano il tono dell’umore, sono presenti anche nell’uomo e
possono essere studiati con sofisticate tecniche di bioimmagini (risonan128
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
za magnetica). Ad esempio, è possibile registrare una differente attività
del lobo frontale dei due emisferi in rapporto al temperamento allegro o
depresso del soggetto. La corteccia prefrontale sinistra è molto più attiva
in soggetti di buon carattere e di buon umore. La corteccia prefrontale
destra è invece più attiva in soggetti melanconici. Persino il riso presenta
l’attivazione di vari sistemi centrali. Anche se non è sinonimo di felicità peraltro, nemmeno di piacere - il riso coinvolge l’attività di aree frontali
e del nucleo accumbens, oltre che dell’area motoria supplementare che
controlla l’espressione mimica del riso.
A questo punto si pone l’interrogativo: che rapporto esiste tra il piacere
e la felicità?
Di fatto, quando dal discorso sul piacere (collegato soprattutto al corpo) si passa a quello sulla felicità, si esce dalla biologia e si entra in una
più ampia e più complessa dimensione psicologica e culturale. Se, infatti,
il piacere è certamente il referente delle scienze biologiche, la felicità ha
più a che fare con le scienze umane. Per l’uomo non è sufficiente stare
«biologicamente» al mondo, dice Natoli (2000) citando Hegel: è necessario
che lo sappia abitare.
Certo la felicità ha interessato il mondo del pensiero fin dall’antichità.
Per i Greci era legata alla fortuna,la cui radice fero, che significa portare,
suggerisce un evento che viene dall’esterno. Oggi potremmo pensare che
i filosofi greci, legando la felicità alla fortuna, negassero la possibilità che
questo stato della mente provenisse dall’interno, cioè dal mondo psichico,
invece che dalla realtà esterna; anche se Plotino dice che la felicità è sempre
goduta nel presente, poiché consiste di uno «stato» fuori dal tempo, nel
profondo della nostra interiorità. Comunque, nessuna circostanza esterna
garantisce la felicità, secondo i Greci, se non si è capaci di coltivare il senso
della misura; cioè se non si è in grado di gestire quelle parti della propria
personalità che rendono infelici per voracità e distruttività (Natoli, 1994).
Il senso della saggezza - è un detto popolare - sta nel saper godere di ciò
che si ha senza soffrire per ciò che manca.
Ma - come insegna Leopardi nello Zibaldone - per gli uomini non è
possibile essere felici, poiché non possono esserlo per sempre. E qui il pensiero di questo poeta dell’infelicità umana rimanda a quello di Freud così
come emerge in quello straordinario scritto intitolato Caducità (1915e),
dove analizza le ragioni per cui un giovane poeta (Rainer Maria Rilke) con
il quale passeggiava in montagna non poteva godere di un bel prato fiorito: il poeta non tollerava di dover elaborare il lutto per la caducità della
129
AIAF QUADERNO 2008/1
bellezza, per il fatto, appunto, che la bellezza non può durare in eterno.
L’uomo - è sempre Leopardi che parla - una volta sperimentata la felicità
vuole averla per sempre. Poiché la felicità non è uno stato durevole, l’uomo
non può che essere infelice, in quanto non tollera la «caducità» dello stato
di felicità. È un problema che si collega alla «separazione» da uno stato
vissuto come «espansione» di sé, dilatazione del proprio mondo. Questo
sentimento presuppone una confusione con il mondo, un’immersione nel
tutto che esclude il dolore della separazione. In termini psicoanalitici potremmo pensare all’esperienza primaria del bambino che si confonde con
la madre e vive con lei il senso di una totale integrità, o piacere infinito.
Questo sentimento di espansione presuppone dunque una relazione con
l’altro e permette all’uomo di vivere la felicità quando la sua mente è occupata interamente dall’oggetto da cui è disponibile a farsi investire (Natoli,
1994)
La felicità ha un legame con la rivelazione, in quanto permette all’uomo
di rendersi manifesto nella sua pienezza; con la morte, in quanto evento
essenziale e simbolico; con l’estasi, in cui il tempo è annullato, senza passato e senza futuro, come esperienza di un eterno presente che permette
all’uomo di viversi nella propria completezza; con l’amore, in quanto luogo della felicità relazionale (Buber, 1987). Da analisti possiamo pensare a
una felicità che rimanda a esperienze confusive più arcaiche del bambino
con la madre, depositate nella sua memoria implicita.
Ma la felicità non si risolve nell’intensità di un attimo. Essa deve poter definire una vita. È vero - come dice Natoli - che gli attimi di eternità
possono rendere felice una vita, ma solo una vita nel complesso felice può
accogliere e valorizzare questi attimi. La felicità - in questa visione esistenziale - può solo essere frutto di un lavoro su sé stessi, di una ricerca e di
una conquista. In questa misura la felicità è il risultato di una lunga ricerca
su di sé. «La felicità - scrive Natoli (1994) - non si risolve nell’esperienza immediata della propria pienezza. Quanto più ci si lascia conquistare
dall’immediatezza della soddisfazione, appiattendosi su di essa, tanto più
la felicità diviene per l’uomo un pericolo, rischia di fargli dimenticare la
complessità dell’esistenza» (p. 114). E più avanti precisa: «Il dominio della
felicità è più ampio dell’attimo, più complesso è il suo profilo (...) Se la felicità la si considera a partire dall’esperienza dell’attimo essa è qualcosa che
si guadagna e si perde, è qualcosa che il tempo consuma. Se, al contrario,
la si considera come il carattere da attribuire per intero a una vita, essa è
qualcosa che si cumula, che paradossalmente contraddice l’attimo che si
130
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
guadagna nello svolgimento della vita stessa come capacità di utilizzare
al massimo le possibilità che l’esistenza offre» (pp. 125 sg.).
Questo è un pensiero molto vicino alle riflessioni psicoanalitiche che
ho qui sviluppato. Freud si è interessato al rapporto tra principio di piacere e felicità nel Disagio della civiltà (1929), dove afferma che tutti gli
uomini tendono alla felicità, identificata sia in senso passivo con l’assenza
del dolore sia in senso attivo con il raggiungimento del piacere vero e
proprio. Ma la costituzione stessa dell’uomo (il suo essere un misto di
pulsioni di vita e di morte) è tale da rendergli meno difficile essere infelice
piuttosto che essere felice. «Nessuna meraviglia - dice allora Freud - se ci
riteniamo felici per il solo fatto di scampare all’infelicità, di sopportare le
sofferenze se (...) il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello
di procurarsi il piacere» (ibid., p. 569). L’uomo cerca comunque il piacere,
e dall’amore sessuale può trarre un piacere particolarmente intenso. Con
il limite - precisa Freud - rappresentato dalla possibile perdita dell’oggetto
d’amore che trasforma una felicità in infelicità, ma anche con il limite della
proibizione e della ferita narcisistica che può essere subita dall’oggetto
d’amore o dai tabù o dalle leggi o dai costumi che ridimensionano comunque i desideri umani: «Non solo, ma ciò che non è stato messo al bando,
l’amore genitale eterosessuale, viene ulteriormente circoscritto dalle barriere della legittimità e della monogamia» (ibid., p. 594). Per tutte queste
limitazioni, il programma impostoci dal principio di piacere (che è quello
di raggiungere la felicità collegata al piacere sessuale) appare agli occhi di
Freud irrealizzabile.
Nonostante questo, l’uomo non può abbandonare la speranza di essere felice sia cercando direttamente il piacere, sia eludendo il dispiacere.
«Là felicità è un problema dell’economia libidica individuale - conclude
Freud. - E qualcosa di assolutamente soggettivo» (ibid., p. 580). Ma «esistono molte strade che possono condurre alla felicità per quanto umanamente essa è raggiungibile; tuttavia nessuna di queste strade è sicura»
(ibid., p. 576).
Qui c’è tutto il pessimismo e anche la saggia rassegnazione di Freud
che, subito dopo, rincara la dose affermando che esiste un ultimo problema, non certo meno importante: il sentimento di colpa inconscio quale
risultato di un’ancestrale ambivalenza emotiva verso il padre è per l’uomo
uno dei grandi ostacoli al conseguimento della felicità. Il progresso civile
ha comunque un prezzo pagato in perdita di felicità. E il senso di colpa
sarebbe responsabile di questa infelicità umana. La conclusione di Freud è
131
AIAF QUADERNO 2008/1
che il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini.
Che cosa può dire la psicoanalisi attuale sulla felicità? Innanzitutto è
necessario sottolineare la differenza tra piacere e felicità. Il primo coinvolge il corpo e non costituisce un’esperienza duratura nel tempo, la seconda
è una forma o stile di vita duraturo nel tempo. E possibile recuperare oggi
un pensiero di Freud che, nel Disagio della civiltà, considera la felicità un
problema soggettivo di soddisfacimento libidico individuale, ma anche,
soprattutto, di conoscenza di sé come consapevolezza del proprio modo
di vivere nel mondo. Questo è un passaggio molto significativo del suo
pensiero. Riguarda non la felicità come momento episodico di relativa
euforia destinata a durare lo spazio di un mattino, ma piuttosto la felicità intesa come stato della mente dialettico e relazionale, ridimensionato
nella sua possibile maniacalità ma duraturo nel tempo, espressione di un
lavoro su sé stessi, presa di coscienza che permette all’uomo di gestire le
parti narcisistiche, negative e distruttive della propria personalità - fonte
di sofferenza e infelicità (propria e altrui) - e di metterle al servizio della
parte razionale e matura, capace di trasformare la frustrazione e la sofferenza tanto da farne motivo di conoscenza di sé e di crescita.
L’esperienza psicoanalitica ci insegna che l’infanzia è il momento critico
in cui la felicità umana appare più minacciata. Questo discorso ci rimanda indietro nel tempo all’organizzazione della mente e della personalità
del bambino, radicata nelle prime esperienze relazionali con la madre e
con l’ambiente in cui cresce. Sappiamo che lo sviluppo mentale del bambino dipende da tre fattori: i) il desiderio, che è la base motivazionale di
ogni funzionamento mentale; z) l’equipaggiamento interno, che riguarda
la dote genetica (biologica e psicologica) che i genitori danno ai figli; 3)
l’ambiente, e in particolare la madre, che deve essere capace di tollerare
ed elaborare le ansie del bambino e di ridurre al minimo i traumi impliciti nelle prime relazioni umane. Il desiderio del bambino è totalizzante e
onnipotente, e non potrà mai essere completamente soddisfatto neanche
dalla migliore delle madri.
Di fatto, lo scarto tra il desiderio e il suo soddisfacimento regola il destino mentale ed emozionale dell’uomo. A questo si aggiunge un eccesso
di frustrazioni e di sofferenza, incomprensioni, violenze fisiche e psicologiche, abusi anche sessuali, ambienti degradati eticamente, psicologicamente e persino esteticamente, che potranno creare disturbi gravi dell’attaccamento (Bowlby, 1969/82) e dei processi «riflessivi» madre-bambino
(Fonagy e Target, 1999) fino ad alterare l’organizzazione del Sé (Stern,
132
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
1985) e dare luogo a difese patologiche come la scissione, l’identificazione
proiettiva, la negazione, l’idealizzazione, difese queste che saranno alla
base delle patologie relazionali anche nella vita adulta. E da queste difficoltà nasce l’infelicità dell’uomo.
Queste esperienze precoci possono essere depositate nella memoria
implicita (non cosciente e non verbalizzabile) e far parte di un inconscio
non rimorso che condizionerà l’uomo nel corso della vita e lo spingerà
a rivivere inconsciamente la sofferenza delle esperienze traumatiche di
un tempo, allontanandolo dal raggiungimento di quella felicità cui consciamente aspira. Da questa infelicità possono nascere forme di violenza,
perversioni e tossicodipendenze.
Come psicoanalista, vedrei la felicità come risultato di un lavoro che aumenti la propria conoscenza di sé e la capacità trasformativa della mente
riguardo a difese che si sono strutturate nell’infanzia e che costituiscono le
«componenti negative» della personalità, caratterizzate da competitività,
voracità, invidia, gelosia, persecutorietà, incapacità a entrare in relazione
con il mondo. Sono queste le caratteristiche alla base del dolore mentale e
dell’infelicità umana. La felicità appare, in questa prospettiva, come una
visione del mondo che permette di tollerare le diversità, le frustrazioni, le
delusioni, le dissonanze e, nello stesso tempo, alimenta la creatività, uno
stile di vita in cui si realizzi una buona sintonizzazione affettiva, emozionale e cognitiva con il mondo, un’accettabile «capacità» depressiva che
permetta di tollerare frustrazioni, delusioni e lutti,_,e protegga dalla depressione, ma anche una coerenza con i propri valori morali,, collegati alle
rappresentazioni interne dei genitori e dell’ambiente in cui si è cresciuti
(la propria legge interna superegoica e ideale). Se questa coerenza e fedeltà ai propri valori morali non si realizza, il sentimento inconscio di colpa
sarà fonte di infelicità. Si tratta dunque di un metaforico abbattimento
della tirannia del Super-io a favore della democrazia di un ideale dell’Io
che assista l’individuo nel rafforzare la propria identità. Non dunque un
momento di elazione effimera e breve nel tempo, ma il raggiungimento
di una conoscenza e di un dominio di sé che duri nel tempo e permetta
di trasformare il negativo e la sofferenza che è in noi e di gestire creativamente il nostro daimon interno distruttivo. Mi vengono qui in mente le
infelici vite di Francis Bacon o di Van Gogh o di tanti altri scrittori e artisti
che hanno forse vissuto il solo momento di felicità quando hanno potuto
rappresentare in forme artistiche significative ed esteticamente emozionanti la loro sofferenza e il loro dolore mentale.
133
AIAF QUADERNO 2008/1
Non si può non riconoscere che tutto questo è la finalità di ogni analisi:
aiutare il paziente a gestire meglio le sue parti più negative, fonte d’infelicità, e a trasformare le figure interne così da renderle più tolleranti e più
creative. Non tanto, dunque, la liberazione da un sintomo, nevrotico o psicotico che sia, ma l’acquisizione di un nuovo modo di vivere e di vedere la
realtà esterna attraverso una trasformazione della propria realtà psichica.
In un numero di «Psiche» del 1998 dedicato alla felicità, vari autori italiani hanno espresso il loro pensiero su un tema caro - come dice Chianese
(1998) - ai poeti e agli amanti, ma che non sembra far parte del lessico dello
psicoanalista. Riporterò il pensiero di alcuni di questi autori. Per Chianese, «la felicità consiste nel saper accettare non solo la “necessità” della vita,
ma anche il “caso” e l’imprevedibilità, accogliere, in tal modo, la realtà
non come una ripetizione ma come un dono». Egli sottolinea anche come
esistano diverse forme di felicità in rapporto all’età, alle trasformazioni cui
vanno incontro la nostra mente e il nostro corpo. Comunque, tutte queste
diverse forme di felicità attingono al «senza tempo» dell’inconscio.
Una concezione teologica (laica) della mente è espressa da Orsucci
(1998), per il quale felicitar risale alla radice indoeuropea fe, «il cui senso
primario è quello di fecondità e prosperità». E ricorda, attraverso Socrate,
la necessità per l’uomo di un costante rapporto con il proprio duimon intertio, che garantisca una consonanza estetica tra mondo interno e realtà
esterna.
Una lettera di Freud permette a Riccardo Lombardi (1998) di riportare
la felicità al corpo e al fascino dell’illusione collegata al funzionamento
dei processi primari, dominata dalla logica binaria piacere/dispiacere, e
all’appagamento allucinatorio del desiderio.
Restando aderente all’esperienza psicoanalitica, Luciana Bon de Matte
(1998) pensa che sentimenti di felicità possano comparire dopo un lungo e
intenso lavoro su conflitti, angosce e sofferenze psichiche. Di conseguenza, «l’unica forma di felicità reale e duratura è quella che viene da dentro
di noi, che scaturisce dalla sicurezza in noi stessi, dalla fiducia nelle proprie possibilità, dalla serena certezza che prima o poi riusciremo a esaudire i nostri desideri. E se non riusciremo, poco male, perché l’accettazione
della realtà sarà altrettanto serena e appagante, dato che avremo fatto il
possibile per farla andare come volevamo noi».
Dalle riflessioni mie e di altri analisti che ho riportato, appare evidente
che agli occhi di un analista la felicità è molto ridimensionata nelle sue
aspettative antropologiche. E riduttivamente riportata, nel mio pensiero,
134
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
alla possibilità di mantenere una stabilità dei propri oggetti interni, cioè
delle proprie rappresentazioni affettive, e di tollerare le inevitabili conflittualità tra questi oggetti psichici. Una visione molto lontana da quella
consumistica di una società che vuol vedere tutti obbligatoriamente felici
e che considera perdente e soccombente l’infelicità.
Spesso si sottovalutano il piacere e la felicità che possono derivare dal
sentimento della propria stabilità interna, o dai propri pensieri autonomi,
o dal godimento della natura, di un’opera d’arte o di una composizione
musicale. Il piacere procurato da queste esperienze può avvicinarsi alla
felicità nella misura in cui esse stabilizzano il nostro mondo interno. Ma
queste esperienze possono anche destabilizzarci. Mi riferisco ad alcune
espressioni artistiche contemporanee o ad alcune composizioni musicali
tese a provocare emozioni «negative» e a destabilizzare il nostro mondo
interno. Allora il piacere può derivare dal lavoro che facciamo per tollerare la provocazione e ricreare la stabilità interna momentaneamente minacciata o perduta.
Forse queste idee sono troppo semplici e modeste rispetto all’idealizzazione della felicità che l’uomo ha fatto nei secoli, specie nel mondo occidentale. La mia idea è che la felicità può scaturire solo dalla conoscenza di
noi stessi. Come dice Seneca, che conclude con queste parole il suo Tieste:
«Infelice quel Re che, tristemente noto a ognuno, muore sconosciuto a sé
stesso.»
135
AIAF QUADERNO 2008/1
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
L’improvvisa scomparsa di Mauro Mancia non ha reso possibile la pubblicazione della relazione originale che, tuttavia, rimane nella memoria di
coloro i quali hanno potuto godere della sua generosità intellettuale ed
umana. Ringraziamo, pertanto, l’editore Bollati Boringhieri per aver autorizzato la riproduzione di un capitolo attinente al tema trattato dall’Autore nel corso della conferenza.
Desidero riportare alcuni pensieri autobiografici di Mauro Mancia
quale tributo al suo ricordo. “Tutta la mia vita è stata concentrata sull’impegno e sul lavoro: ho coltivato la conoscenza verso l’interno, come funziona
il cervello e poi come funziona la mente…..Ho studiato medicina per scelta e
ho una personalità inconscia di tipo riparativo. Una fantasia riparativa è conseguenza di una infanzia ambivalente nei confronti dei genitori interni. Io ho
avuto una coppia di genitori molto forti eticamente, per cui anche sul piano
professionale posso dire di non avere mai avuto un comportamento in contrasto
con la mia coscienza. Solo nella vita amorosa ho acconsentito a compromessi.
Nella vita amorosa il compromesso è sempre attivo. Il rapporto tra legame e
fedeltà è sempre difficilissimo. Ma anche nei rapporti con le donne non ho mai
ingannato. Sono quello che sono.1”
Agli studi sul cervello Mancia ha dedicato una vita di ricercatore tra
neuroscienze e psicoanalisi, dimostrando come le conoscenze neuroscientifiche diano sempre più corpo al lavoro clinico dello psicoanalista. Esemplificativo è il suo insegnamento sul valore terapeutico della musicalità
della voce poiché è il ritmo, il tono e il timbro che vanno a stimolare le
strutture precoci della memoria implicita, aprendo la strada all’elaborazione trasformativa.
La psicoanalisi è in contatto con l’infelicità umana e considera l’infanzia il momento critico in cui la felicità è più minacciata. Infatti, la predisposizione all’infelicità nasce dalle esperienze traumatiche infantili e, così,
dall’antinomia fondamentale cui l’uomo è esposto tra la logica aristotelica
della coscienza e la logica simmetrica dell’inconscio. Parimenti, la psicoanalisi considera una difesa dall’infelicità la conoscenza di sé e del proprio
1
136
Bianchi Rizzi, A. (a cura di), Il Bene e il Male. Centocinquanta confessioni laiche, in corso
di pubblicazione.
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
mondo inconscio; conoscenza che permette una capacità di elaborazione
della colpa.
Dal vivo, il dolore mentale può essere osservato nel corso di una analisi
personale ogni qualvolta il transfert si manifesta e le emozioni di un tempo - depositate nella memoria - ritornano al soggetto sotto forma di angoscia che punge la sua pelle dal di dentro. È compito dell’analista, quindi,
aiutare il paziente a rendere verbalizzabile questo dolore così da trasformarlo e renderlo maturativo e terapeutico.
Affrontare il tema della felicità vuol dire fare i conti con la dimensione epistemologica della realtà (le cose come le conosciamo) che implica,
senza dubbio, una differenza ontologica (le cose come sono realmente).
Benché sia più semplice attribuire agli altri la causa del nostro star male
l’evidenza insegna che ciò non è foriero di maggior benessere, anzi. Guardando, invece, di più ai nostri comportamenti, e meno a quelli degli altri,
è possibile modulare situazioni relazionali al fine di renderle molto più
soddisfacenti, appaganti e, quindi, meno pericolose.
Alla base di tale accadimento vi è il nucleo dell’umore interno, inteso
come condizione psicologica, il quale contribuisce alla confusione e incomprensione, facendo sentire le persone molto sole. Come Mancia aveva
ben descritto “…ci ritroviamo tra individui la cui pesantezza di vivere sta nella
fitta rete di costruzioni, imposizioni, pregiudizi, fraintendimenti, false propagande, ideologie violente, che hanno stretto in nodi sempre più inestricabili le loro personalità fino ad annullare nella pesantezza la loro stessa identità2.” (pag.157).
Se all’interno della personalità vi sono delle aree dominate da invidia,
competitività, odio, sadismo, aggressività, voracità, violenza e varie forme
di distruttività, si è di fronte a quella che Mancia aveva definito personalità negativa, un concentrato di rabbia e delusione che non trova pace,
quindi, ben lontano dall’ideale di felicità. Come precisava l’Autore “Ma il
negativo può essere facilitato dall’ambiente, dal suo degrado culturale e morale,
da modelli genitoriali e sociali devastanti nella loro ignoranza, arroganza e violenza. Questo tipo di ambiente, insieme a genitori violenti e moralmente degradati,
faciliterà nel bambino l’introiezione di modelli violenti, cattivi e moralmente compromessi, che condizioneranno lo sviluppo della sua personalità e il suo comportamento3...” (pag. 223).
2
Mancia M., Percorsi, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
3
Mancia M., “Personalità negativa, colpa e responsabilità” in Ferrando e Visintini (a cura di),
Follia e diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
137
AIAF QUADERNO 2008/1
Da sempre l’individuo organizza difese rispetto all’infelicità. La religione monoteista, per esempio, con la negazione della morte e con il dogma della trascendenza rassicura l’uomo e dà un senso alla sua vita.
La dimensione laica della difesa umana rispetto all’infelicità può essere
rappresentata dall’arte, dalla musica, dalla creatività in generale. Numerosi esempi presi dalla pittura, poesia e musica, dimostrano come parti sane
e creatrici della personalità degli artisti sono in grado di rappresentare le
parti sofferenti e infelici dando loro un carattere universale e permettendo
l’identificazione a chi ne fruisce.
Sull’onda del contributo di Mancia riecheggia l’importanza di una funzione riflessiva personale che si declina nella capacità di pensare i propri
pensieri per orientarsi nelle scelte. Riflettendo si agisce meno impulsivamente e si ha il tempo per capire effettivamente quello che è il desiderio
rispetto il bisogno. Il bambino ha dei bisogni che sono ineludibili, ma in
età adulta l’eccesso di bisogni emotivi va a gravare sul partner in un groviglio di aspettative errate che ne confondono il ruolo.
Nei legami affettivi e sociali dell’Altro occorre tenere vivo il desiderio,
non certamente il bisogno poiché questo appartiene al mondo dell’infanzia ed è inevitabilmente destinato ad essere disatteso.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
LE PATOLOGIE DELL’INTIMITÀ
GIULIO CESARE ZAVATTINI
PSICOANALISTA DELLA SOCIETÀ DI PSICOANALISI ITALIANA, ORDINARIO DI PSICOLOGIA DINAMICA, UNIVERSITÀ LA SAPIENZA, ROMA;
ASSOCIATED MEMBER SOCIETY PSYCHOANALYTIC COUPLE PSYCHOTHERAPIST, LONDON;
MEMBRO DELL’INTERNATIONAL ASSOCIATION OF COUPLE AND FAMILY PSYCHOANALYSIS.
INTRODUZIONE
Sara e Luca, due genitori esausti di un bambino di sei anni, stanno discutendo animosamente a notte fonda.
Sara: Non posso pensare che permettiamo a Giorgio di comportarsi in quel
modo a scuola
Luca: Si stava soltanto difendendo da alcuni ragazzi violenti.
Sara: Stai solo cercando di fargli fare quello che tu non hai potuto fare. Quello
che i tuoi genitori ti rimproveravano di fare.
Luca: Bene, almeno i miei genitori hanno cercato di aiutarmi a difendermi dai
bulli nella vita. Cosa hanno fatto i tuoi ? Loro sono dolci e corretti, ma non c’erano
quando avevi bisogno di loro.
Sara: Non devo difendere i miei adesso. Il problema sei tu ed il comportamento
di tuo figlio.
Luca: Il problema non sono io. È la tua iperprotezione. Il tuo coccolarlo. Il non
permettergli di essere un uomo. Ti spaventa troppo.
Sara: Luca non è questo il momento per iniziare a parlare di questa questione.
Mi devo ancora riprendere dal nostro ultimo litigio.
Luca: Beh, non posso tollerare che tu cerchi di cambiare qualcosa che è veramente importante per me nella mia relazione con mio figlio.
Come osservano a proposito di questo brano Philip Cowan e Carolyn
Pape Cowan efficace (Cowan, Pape Cowan, 2001), della Berkeley University, le relazioni positive tra i partner e la loro capacità di trovare un punto
di incontro sulla funzione di genitori, non dipendono soltanto dal fatto
di avere un repertorio comunicativo efficace. In realtà ciò dipende dalle
esperienze nelle prime relazioni nell’infanzia ed è stato trovato un indice di correlazione tra i modelli di attaccamento* dei genitori rispetto alle
loro famiglie di origine e la tendenza a replicarli nelle relazioni familiari
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AIAF QUADERNO 2008/1
successive.
Va anche aggiunto che dallo scambio di battute tra Sara e Luca emerge
con chiarezza il fatto che ai figli viene affidato qualcosa di sé, ma anche,
appunto, ciò si mescola con le aspettative che ognuno dei coniugi ha sull’altro e sul matrimonio come progetto affettivo (Zavattini, 2004; Castellano,
Zavattini, 2007).
In secondo luogo va sottolineato che la ricerca sulle dinamiche di coppia nel campo della teoria dell’attaccamento (Santona, Zavattini, 2007 a,
2007 b) ha messo in evidenza quanto sia fallace l’aspettativa ingenua che
presuppone che tanto più “sicuri” sono gli individui e tanto più stabile e
duratura sarebbe stata questa relazione. In realtà le relazioni più disfunzionali possono anche essere le più stabili e ciò vale in tutti i ceti sociali,
sebbene poi i conflitti e gli scontri possano assumere “forme” diverse.
La ricerca suggerisce che nelle storie d’amore adulte i partner spesso
costituiscono figure di attaccamento primaria uno per l’altro e ciò, almeno in parte, ha le radici nelle relazioni affettive dell’infanzia. Se, infatti,
i genitori sono stati capaci di sensibilità e di sostegno, è probabile che i
figli svilupperanno aspettative positive nei confronti degli altri e saranno
fiduciosi di essere meritevoli di amore e appoggio e ciò faciliterà successivamente lo sviluppo di relazioni di attaccamento sicure nella vita adulta
(Zaccagnini, Zavattini, 2005, 2007).
Al contrario una storia familiare caratterizzata da varie forme di cura
incoerente (rifiutante/distanziante o ansiosa/preoccupata) può generare
maggiormente modelli d’attaccamento insicuri che possono portare gli individui a ricreare e riprodurre modelli disfunzionali nelle relazioni adulte. Inoltre i dati di varie indagini mettono in luce che talora gli individui
a rischio di essere coinvolti in relazioni problematiche e d’abuso possono
trovare una maggiore difficoltà ad interromperle (Bartholomew, Henderson, Dutton, 2001).
La presenza di uno stile d’attaccamento sicuro nei partner non garantisce, tuttavia, in modo deterministico la continuità e la capacità di mantenere una relazione affettiva anche se va notato che nei casi di conflitto*, di
mancanza d’amore e d’intesa gli individui sicuri hanno maggiore capacità
di mettersi in contatto con il partner o, in ogni caso, di limitare gli aspetti
più violenti di un’escalation simmetrica in quanto possiedono un Senso del
Sé più integrato che li porta a richiedere un trattamento più rispettoso.
Oppure possono “pensare” di separarsi, probabilmente perché ritengono che non sia tollerabile l’aggressività, hanno una visione più positiva
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
di sé e maggiore fiducia nell’altro, aspetti che possono far pensare loro di
potere in futuro essere amati e trovare un partner amabile.
In altri termini non è così facile separarsi ed è necessario sempre chiedersi
cosa sia stato “affidato” ad un matrimonio, o comunque ad una relazione
intensa e duratura. In altri termini quale funzione sul piano dell’organizzazione del Sé è sottesa, in modo adattativo, o disadattivo, in modo conscio ed in modo inconscio, alla relazione col partner.
Va precisato che sto facendo riferimento ad una certa tipologia della coppia in crisi, quella che incontro nel mio lavoro di psicoterapeuta
di coppia, una quota minoritaria della popolazione che si rivolge ad un
esperto (circa il 10% delle coppie si rivolge ad uno psicologo e circa un
5% agli assistenti sociali nei servizi; vedi Barbagli, Saraceni 1998). Per altri
versi le separazioni di fatto e quelle legali sono sicuramente in aumento e
costituiscono un fenomeno rilevante, così come, a mio avviso, il tasso di
sofferenza di molte coppie.
Non va, cioè, infatti sottovalutato quello che Vittorio Cigoli (Cigoli,
1998) chiamerebbe con il termine suggestivo di sleeper effect (un aspetto
cioè silente e dormiente), l’effetto ritardato del divorzio, sottolineandone
il carattere latente e l’improvviso riemergere dei problemi in età giovaneadulta. Cigoli fa, cioè, riferimento ad un aspetto di dolore diffuso presente
nei “figli del divorzio” senza che ciò corrisponda a una conclamata patologia come messo in evidenza da Kelly (2000) in un’ampia rassegna sulle
ricerche sul tema.
Questo aspetto di dolore può essere presente anche in tante situazioni
di coppia che tuttavia non esitano in una separazione od in un divorzio,
ma le persone vivono in un “matrimonio infelice” –apparentemente felice in cui sembra prevalere una sorta di “né con te, né senza di te” (Santona,
Zavattini, 2005; Velotti, Gigli, Zavattini, 2006).
IL SÉ ALIENO
Nel saggio, del 1918 “Vie della terapia psicanalitica”, Freud acutamente osserva che:“Detto per inciso, un matrimonio infelice e l’infermità fisica sono
le forme in cui più frequentemente si risolve la nevrosi. Tali vie soddisfano in particolare modo il senso di colpa (bisogno di punizione), che è il motivo per cui molti
malati si attaccano così tenacemente alla loro nevrosi. Un’infelice scelta coniugale
è il mezzo di cui costoro si avvalgono per punirsi” (Freud, 1918).
141
AIAF QUADERNO 2008/1
L’esperienza clinica insegna che le coppie nell’intimità interagiscono
spesso in modi del tutto folli. Questa “follia privata” può apparire agli
occhi estranei come assurda, senza senso e talora può “scappare” di dire:
“Ma separatevi, non vedete che non andate più d’accordo ?”. Con tale commento - qualche volta presente anche in terapeuti che hanno poca esperienza del lavoro con le coppie - emerge come non si colga sia l’aspetto di
“gioco”, cioè di copione ripetitivo che nasconde accanto alla rabbia anche
eccitamento e sfida, sia l’incastro inconscio per cui quel legame, per quanto
sofferto, assolve ad un equilibrio nel mondo interno dei due partner che va
compreso (Zavattini, 2006 a, 2006 b).
Freud, del resto, nel passo citato mette in evidenza un paradosso, ossia ciò che sembra una relazione insensata, infelice, assolve una funzione,
per quanto disadattiva. Ha cioè un senso, per esempio quello di essere il
luogo in cui viene collocata una parte sofferente o francamente disturbata
del Sé.
Ciò rimanda a chiedersi che tipo di contenitore è il matrimonio, o comunque una relazione affettiva lunga e significativa, quesito che necessita di
alcune considerazioni preliminari relative a come si può costruire precocemente la personalità. A tal fine farò riferimento, anche se in modo sintetico, al modello dell’evoluzione del Sé proposto da Peter Fonagy (Fonagy,
Gergely, Jurist, Target, 2002):
1. L’aspetto più saliente della funzione della genitorialità* è che un genitore riesca non solo a comprendere e contenere le ansie dei figli, ma sia
in grado anche di farsi un’idea di cosa pensano i figli e che tipo di emozioni provino. In altre parole la funzione della genitorialità si estrinseca secondo quella che viene chiamata la Funzione Riflessiva in cui
si insegna ai figli a pensare, comprendere e differenziare le emozioni
che rappresenta una strada maestra per potere cominciare a costruire
il senso della relatività.
2. Infatti se tale processo si verifica armonicamente, si creerà via via nella
mente del bambino la capacità di distinguere tra il ‘modo dell’equivalenza’, cioè l’idea che non c’è differenza tra gli eventi concreti ed il fatto
che essi possano essere esperiti soggettivamente dalle varie persone
ed il ‘modo del far finta’, ossia la consapevolezza che la realtà interna
(soggettività) è diversa dalla realtà esterna (oggettività). Ossia c’è una
differenza tra i fatti ed i significati dietro i fatti.
3. Nel caso invece si verifichi una cronica mancanza di sensibilità e sintonia con il caregiver, si crea un difetto nella costruzione del Sé, per cui
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
il bambino è costretto ad internalizzare la rappresentazione dello stato
mentale del genitore come una parte centrale di se stesso, seppure ciò
costituirà una sorta di Sé alieno. Un bambino cioè introietterà l’aspetto
opaco della mente dei genitori, sarà “meno competente”, come oggi si
dice, nel discriminare tra le proprie emozioni e quelle di un altro, sarà
meno abile nel capire le sfumature dei propri sentimenti e del perché
prova sentimenti positivi o negativi a seconda dei casi.
4. Il “Sé alieno” è nocivo soprattutto quando successive e ripetute esperienze di trauma, di trascuratezza o d’insensibilità costringono un individuo a distanziarsi e dissociarsi dal dolore, creando nella propria
mente aree cieche e non affrontabili psicologicamente. Questa parte
del Sé vuota può infatti essere colonizzata dalle immagini proiettate
dai genitori ed il bambino può fare esperienza di sé come poco amabile, se non addirittura come malvagio e mostruoso.
5. Nello sviluppo questo Sé alieno necessita di essere esternalizzato, ma
quando la capacità di mentalizzare si sviluppa, il Sé alieno può essere
maggiormente incapsulato nel Sé creando un’illusione di coerenza in
una struttura che invece ha nella sua trama interna una contraddittorietà ed incoerenza. La disorganizzazione del Sé può destabilizzare le
relazioni di attaccamento, creando un bisogno costante di proiezione
per potere esternalizzare qualcosa di non amalgamato ed estraneo.
6. Va infine precisato che una quota di Sé alieno è, in vario modo, presente in tutti noi, poiché l’essere trascurati momentaneamente, o non essere ‘completamentÈ capiti, è parte di un normale processo di crescita.
Vanno segnalate tre conseguenze di questo processo:
a) in primo luogo un danneggiamento della capacità di riflettere sull’esperienza mentale e sul differenziare le emozioni, ciò che si può chiamare
un ripudio della mentalizzazione.
b) un disturbo del Sé psicologico causato dall’emergere di altri Sé all’interno di una personalità non unitaria che si rivolge a sé ed agli altri in
modo contraddittorio ed incoerente.
c) una dipendenza fisica dagli altri, un dovere stare insieme, non come
espressione di un bisogno genuino d’affetto e comprensione, ma come
un veicolo per l’esternalizzazione di ciò che è avvertito in sé come
intollerabile.
143
AIAF QUADERNO 2008/1
IL MATRIMONIO INFELICE E LA COLLUSIONE
Ai fini del tema che stiamo affrontando si può comprendere che se da
un lato la relazione di coppia può essere un luogo psichico, oltre che una
realtà dell’organizzazione degli affetti, dove appoggiare gli aspetti irrisolti
di un Sé “non coeso”, dall’altro lato questo sorta d’equilibrio è di per sé
precario e molto frequentemente fonte di sofferenza per le contraddizioni
insite nei suoi medesimi presupposti determinate dalla negazione della
realtà psichica e dai frequenti fenomeni di proiezione e misconoscimento
delle differenze tra Sé e l’Altro.
In altri termini si può pensare che le relazioni umane abbiano sia la
funzione di contenimento o d’integrazione di aspetti di sé, sia, al contrario
di scissione e di negazione di qualcosa di doloroso o disturbante. Si può
cioè ipotizzare che gli esseri umani non solo abbiano sempre bisogno di
un contenitore per potergli affidare, ritrovare o non perdere la propria “posizione respinta”, ma che sia anche necessario un contenitore idoneo, ossia
in grado di accogliere questa proiezione.
Va cioè presupposto che vi sia nell’altro - perlomeno a livello inconscio
- una ‘compiacenza’ od una tendenza collusiva.
Può accadere così che una donna, segnata da vissuti penosi infantili
d’abbandono, cerchi a livello conscio un compagno che le offra finalmente
il rifugio della stabilità e della fedeltà, ma poi, inconsciamente, trascorra
la vita a tentare di smascherare in lui la tendenza segreta a tradire, a deludere, per avere così la masochista conferma della fondatezza delle proprie
paure e il misero vantaggio secondario di poterlo mascherare.
Parimenti un uomo, pressato quotidianamente da questa accusa, potrebbe interagire secondo un proprio schema interno che gli fa vivere la
moglie come una riedizione di una madre soffocante e castratrice, trovando così a sua volta conferma delle proprie paure più profonde e l’occasione di potersi, inconsciamente, rivalere sulla partner di uno schema interno
di relazioni deludente.
È su questi presupposti che si potrebbe dire che siamo indotti a giocare
parti nei drammi interni degli altri nel senso che ogni individuo tenta di attualizzare nella relazione reale la relazione fantasticata di cui é portatore
nella relazione.
Dobbiamo, tuttavia, chiederci ulteriormente da cosa dipenda non solo
la costruzione, ma soprattutto il mantenimento di uno scenario condiviso
nella coppia a dispetto del sorgere e del protrarsi di molte difficoltà, delu144
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
sioni e conflitti?
Nel lavoro clinico non è infrequente sentire espressioni come: “Il nostro
matrimonio è diventato un inferno”, con cui s’intende dire che rispetto all’iniziale periodo di luna di miele la situazione è peggiorata senza che si riesca
a fermare un aspetto coattivo. Ci potremmo chiedere se invece l’inferno
personale venga “appoggiato” sul matrimonio preservando talora altre
aree della vita interpersonale come appunto il lavoro e, talora, i figli.
Sono due punti di vista diversi ed è in un quesito che possiamo porci:
- a volte è vero che il matrimonio può “diventare” un inferno nel senso
che un accordo può via via rovinarsi,
- ma forse è anche vero che l’inferno era “già presente” in partenza
ed a un certo momento della vita della coppia la situazione iniziale si
trasforma.
In realtà è difficile dirimere completamente questo dilemma poiché se
da un lato ogni partner si “porta dietro” gli schemi relazionali costruiti
nelle relazioni familiari, dall’altro lato, “l’incontro” di una coppia, crea
sempre una realtà nuova, o enfatizza o minimizza, intrecciandoli, questi
schemi interni (Messina, Zavattini, 2007).
RIVALSA E RIPARAZIONE
Cercherò ora di ripercorrere i vari passaggi di quanto ho affrontato oggi
con l’idea di segnalare alcuni punti e di non trarre conclusioni definitive:
sono partito da un primo quesito relativo al chiedersi se un legame affettivo duraturo all’insegna, tuttavia, della delusione e del non sentirsi capiti,
sia l’espressione di un deteriorarsi del legame o se nel legame emergano
aspetti latenti e non visti prima.
Indubbiamente vari fattori, come la nota diminuzione della soddisfazione coniugale - la ricerca mette in evidenza l’inizio di una certa diminuzione dopo i tre anni sino ai sei e poi una relativa stabilizzazione (Bradbury, Fincham, Beach, 2000; Banse, 2004) -, i passaggi del ciclo vitale, militino
nel considerare consistente la prima ipotesi, ossia col tempo si possono
perdere quegli aspetti positivi che avevano inizialmente alimentato una
relazione sentimentale. Oppure molte coppie riescono a mantenere una
creatività ed una effettiva capacità di amore ed altre non riescono a trovare un equilibrio sereno od accettabile a parità di difficili condizioni.
Vorrei partire di nuovo da un’osservazione di Freud che in “Psicologia
145
AIAF QUADERNO 2008/1
delle masse ed analisi dell’Io” osservava: “L’identificazione è comunque sempre ambivalente fin dall’inizio; può tendere tanto all’espressione della tenerezza
quanto al desiderio dell’allontanamento” (Freud, 1921).
Il riferimento al tema alle dinamiche dell’identificazione mi sembra
che ci possa offrire una prima via di riflessione: facendo riferimento al
tema dell’ambivalenza e al fatto che una non risoluzione delle dinamiche
infantili con i genitori può portare ad un bisogno di rivalersi, se non addirittura vendicarsi. Si tratterebbe di una forma di ritorno del rimosso, ma
nello scenario dell’intersoggettività che porta, tramite il meccanismo della
proiezione, ad indurre nell’altro le caratteristiche delle figure affettive del
proprio passato con cui ci si è trovati in conflitto
Uno “schema interno disadattivo” può, cioè, ingenerare un irresistibile
crescente bisogno di trasformare il coniuge in una proiezione di una immagine
ambivalentemente investita anche in palese contraddizione con le reali qualità delle persone. In questo senso potremmo rispondere parzialmente al
quesito: cosa tiene insieme quei due ?
Potremmo dire: l’incessante bisogno di rivalsa che rischia di trasformare il
rapporto coniugale nel campo di manifestazione per eccellenza di irrisolti
aspetti del passato.
Va anche considerata un’altra dimensione, ossia quella della speranza
di trovare nell’altro una smentita di rappresentazioni di relazioni interne
disadattive e sofferenti. Il rischio è che si verifichi una sorta di patologia
della riparazione nel senso che un soggetto pretende inconsciamente che
l’altro corrisponda a questa attesa senza valutare se ciò è possibile o nel
modo totalizzante desiderato.
Quando alla prova incessante della vicinanza fisica il coniuge fallisce
come oggetto idealizzato il rapporto può in alcuni casi diventare all’insegna dell’odio e della persecuzione. In altri termini l’infelicità nascerebbe
quando un rapporto interpersonale desiderato e di cui si ha bisogno nel
proprio mondo interno e che il partner è stato designato a realizzare, non
si traduce in pratica.
Le due interpretazioni, che potremmo considerare come intrecciate tra
loro, ossia quella della rivalsa e quella della patologia della riparazione, ci
obbligano tuttavia a chiederci come mai si tende a ripetere la medesima
scelta sbagliata trovando partner simili e similmente deludenti. In altri
termini perché mai si continua la vecchia guerra con un nuovo nemico ?
Diversi clinici che si sono occupati dei rapporti di coppia hanno messo
in evidenza un fenomeno che potrei chiamare accecamento da luna di miele
146
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
che, se perdura può portare non solo a successive grandi delusioni, ma
anche a quella tendenza a ricercare figure che poi si riveleranno analoghe
a quelle precedenti già sperimentate come frustranti.
La seconda osservazione si riferisce alla rigidità degli schemi culturali
che può fortemente limitare in ambo i partner il repertorio di modi alternativi di
trattarsi come persone e non come figure dello spostamento di un’immagine genitoriale.
In altri termini, come scriveva Dicks (Dicks, 1967) venendo a mancare
la fantasticata somiglianza del partner alla desiderata immagine genitoriale attesa, la più profonda ambivalenza verso l’oggetto d’amore viene
alla superficie con sentimenti di odio prima nascosti dall’idealizzazione e
qualità rifiutanti vengono attribuite ed evocate ciascuno dall’altro.
Le tensione tra i coniugi possono cioè nascere dalla delusione provata
quanto vengono frustrate le attese sia rispetto allo spostamento di aspettative di ruolo sul partner, sia nel matrimonio per contrasto ai modelli genitoriali arrivando a constatare che alla fin fine il coniuge espleta il ruolo
coniugale alla maniera della figura genitoriale frustrante, somiglianza che
durante il corteggiamento era stata negata.
In secondo luogo si può fare riferimento a quanto ho già messo in evidenza nel modello di evoluzione del Sé proposto da Peter Fonagy a proposito degli effetti sulla personalità quando un genitore con un Sé disorganizzato costringe un bambino, seppure inconsciamente, ad incassare un Sé
alieno che porta un individuo a distanziarsi e dissociarsi dal dolore, creando nella propria mente aree cieche e non affrontabili psicologicamente.
Si può pensare, in particolare, sia al tema dell’aspettativa di un amore
incondizionato, sia all’idea di un’impossibilità di potere reintroiettare, ossia riconoscere come propri sentimenti negati ed attributi al partner, oppure,
talora ai figli. Separarsi davvero allora è difficile, se ciò significa non potere
separarsi da qualcosa di sé doloroso ed impensabile, oppure con il rischio
di continuare a proporre l’ingaggio affettivo a partner che sono la replica
di figure frustranti e deludenti, per potere continuare a punirsi, rivalersi o
inseguire idealizzazioni impossibili.
147
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mentalizzazione nelle relazioni di coppia, in Ugazio V., De Filippi P.G., Schepisi L., Solfaroli Camillocci D. (a cura di) Famiglie, gruppo e individui. Le molteplici forme della psicoterapia sistemico-relazionale. Angeli, Milano, pp. 191-197.
149
AIAF QUADERNO 2008/1
DISCUSSIONE
CRISTINA CURTOLO
Il sapore che la sapienza attribuisce alla parola intimità riguarda la natura del legame, una sorta di valore aggiunto al riconoscimento di una
relazione reciprocamente soddisfacente, anche in amicizia, che sancisce
la condivisibilità. Diversamente, quando ci si riferisce all’intimità di un
soggetto si dà per scontato l’inviolabilità di un limite oltre il quale non è
dato conoscere. Il trait d’unione tra i due significati è, psicologicamente, la
zona oscura e le sue propaggini.
Risuona originale, in quanto innovativo, il titolo proposto da Giulio Cesare Zavattini in quanto accentra l’attenzione non solo sulla zona d’ombra
del legame, ma sulla logica sottostante alla sofferenza che una relazione di
coppia può provocare nei casi in cui è il legame ad essere pato-logico..
Da sempre si è riconosciuto un afflato di follia nell’innamoramento,
uno stato psicologico caratterizzato da una alternanza vorticosa di pensieri su se stessi – ci si sente baciati dalla fortuna – e sul partner, il quale diventa
il contenitore privilegiato dell’idealizzazione – è perfetto, nessuno come lui.
Altrettanto si sa che è temporaneo, che il soggetto incantato1 vive la condizione viscerale del trionfo del corpo, del piacere sensoriale ed erotico che
invade il pensiero.
Tuttavia, solamente nel ruolo di osservatori – quindi alla giusta distanza -si riconosce che negli innamorati (per inciso nella prima fase dell’amore) vi è un’alterazione nella razionalità poiché prevale il bisogno di dare
spazio all’illusione della fantasia. Tale andamento rimane fino a quando il
partner viene guardato attraverso la lente del realismo che innesca il principio di rottura dell’incantesimo: un’escalation che ripristina la dialettica
interiore tesa a trovare un punto di equilibrio tra emozioni e cognizione.
Con il crescere della familiarità, quindi, prende l’avvio il processo di
normalizzazione: la testa è meno tra le nuvole, si è dissolta l’atmosfera
magica, non si ha più la tachicardia e l’insonnia, ma accresce la fiducia e
la sicurezza, all’incirca verso il secondo anno, che diventano il cardine del
legame di attaccamento.
E qui si situa il primo spartiacque tra il buon funzionamento di una
coppia e gli stati disfunzionali, come Zavattini chiarisce fornendoci un’ag1
150
Dufourmantelle A., Sesso e filosofia, Donzelli Editore, Roma 2004.
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
giornata griglia di lettura delle più diffuse dinamiche coniugali.
Esistono, infatti, dei legami di coppia che invece di essere vitali sono
mortiferi in quanto non si basano e, quindi, non alimentano la bontà, la
bellezza, la virtù del sentimento di amore; ma altresì si incardinano sugli
aspetti perversi, potenzialmente crudeli e violenti, di cui la logica della
sofferenza – la patologia - è che non c’è spazio per due. Questa è la culla
del problema in cui si individua una vittima e un aggressore, uniti in una
imbricata stratificazione psicologica, spesso resa invisibile perché mascherata dalla forza del collante fornito dalla collusione che, a qualsiasi costo,
li tiene insieme.
Fortunatamente, però, esiste una variabilità di situazioni all’interno di
un continuum clinico che va dalla perversione* alla perversità*, le cui manifestazioni possono interessare tutte le aree della vita di coppia oppure
solo alcune, per esempio la sessualità. Allarmano, peraltro, i dati recenti
che riportano un aumento di casi di impotenza giovanile e di frigidità!
Attualmente si verificano casi paradossali di matrimoni infelici che durano, come pure separazioni precoci, a volte durante la gravidanza del
primo figlio.
In senso lato, la capacità di separarsi è un indicatore di sanità rispetto
alla patologia dell’intimità che segnala, invece, una forma di contagio che
la relazione subisce per il trasferimento di aspetti disturbati di uno dei
due.
Frequentemente l’avvocato si sente dire che il partner, dopo la nascita di un figlio, non è più stato lo stesso, tu o si è trasformato in senso
catastrofico.
Molto si sa, sebbene parecchio ci sia ancora da fare sul versante della
prevenzione, sulla depressione post-partum; mentre sugli effetti patologizzanti che la paternità può comportare si legge in letteratura, ma scarsi
sono i riscontri clinici poiché si consumano nell’anonimato, almeno fino a
quando la coppia compensa tali défaillance.
Ebbene, la condivisione di desiderata tra i partners è un aspetto importante per la stabilità familiare e tra i molti, certamente, il desiderio di un
figlio è il passaggio fondativo da coppia a famiglia.
Ora, dalle versioni di alcune donne raccolte dagli avvocati si viene a
sapere che il pensiero di un figlio ha riguardato la coppia, ma quando il
bambino è diventato una realtà – quindi dalla gravidanza alla nascita – il
marito si è progressivamente mostrificato nei comportamenti, nei modi,
nelle abitudini con un raffreddamento affettivo e, proporzionalmente, un
151
AIAF QUADERNO 2008/1
aumento della conflittualità.
Indicativamente questa tesi è possibile; di fatto può succedere che l’impatto della genitorialità su taluni possa essere psicologicamente traumatizzante nella misura in cui riporta nel presente tracce irrisolte del loro
passato. Ineludibilmente il figlio incarna i bisogni emotivi*, e questa nuova esperienza può essere un detonatore psicologicamente potente per coloro i quali sono stati precocemente deprivati di buone cure e, in aggiunta, non hanno avuto l’opportunità di sviluppare una elaborazione intima
della sofferenza.
Una madre è biologicamente predisposta alla maternità poiché la
gravidanza prepara il terreno neurochimico per l’empatia* e la sintonia,
in primis l’ossitocina che per questo motivo viene soprannominata the
cuddle hormone2(l’ormone delle coccole).
Il mito di Medea ci ricorda l’orrore del crimine del figlicidio, come le
cronache di questi tempi, ahimé, riportano; ma ci dice anche che il gesto
folle trae origine dalla confusione relazionale tra Medea-madre e Medeamoglie di un uomo che la tradisce. E come Zavattini ben ci spiega, niente
è più micidiale della rivalsa, dell’invidia, dell’incapacità a riconoscere il
proprio limite per il bene dell’altro.
2
152
Eleison K., The mommy brain. How motherhood makes us starte, Basic Book, New York
2005.
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
DEL RAPPORTO FAMILIARE
VINCENZO CARBONE
PRESIDENTE AGGIUNTO DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
È opportuna una riflessione sulle tematiche alla base dell’istituto, relativo al rapporto genitore-figlio, alla prova della paternità e all’attribuzione
del cognome. Le riflessioni sono state suscitate da due recenti decisioni
della Corte costituzionale - abrogative la prima (Corte cost. 10.2.2006 n.
50) dell’art. 274 c.c. e la seconda (Corte cost. 6.7.2006 n. 266) dell’art. 235
comma 1 n. 3 c.c. - nonché da due sentenze della Corte di Cassazione (Corte cass. 14.7.2006 n. 16093 e 26.5.2006 n. 12641) sui contrasti tra i genitori
per l’attribuzione al figlio del cognome, diversamente disciplinata per il
figlio legittimo e per quello naturale.
I
PATERNITÀ NATURALE: INCOSTITUZIONALE LA FASE
PRELIMINARE DEL GIUDIZIO.
1.1. NASCITA E SVILUPPO DELL’ART. 274 C.C.
Il libro primo del codice, pubblicato con r.d. 12 dicembre 1938, con l’art.
272 c.c. (divenuto poi art. 274 c.c.) introdusse, dopo molte esitazioni, il
giudizio preventivo di ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale sulla paternità naturale, sconosciuta nel codice del 1865, ritenendo
che la nuova azione dovesse essere preceduta da una fase preliminare di
ammissibilità, mediante “un’inchiesta sommaria” e “segreta” 1 dalla quale
possono risultare, anche attraverso “sommarie informazioni”, indizi tali
da fare apparire giustificata la proposizione del successivo giudizio avente
1
Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo n. 282, in Pandolfelli, Scarpello, StellaRichter, Dallari, Codice civile, Lib. 1, Milano 1939, 308.
153
AIAF QUADERNO 2008/1
lo scopo di conseguire la dichiarazione giudiziale di paternità naturale2.
Nella relazione del Guardasigilli si legge che l’istituendo giudizio pregiudiziale all’ammissibilità deve avvenire nella massima segretezza, “per
evitare che attraverso azioni infondate si facessero valere intenti ricattatori, profittando del timore di scandalo e del turbamento che dibattiti sulla paternità possono determinare in delicate situazioni personali e familiari”, e, quindi, al fine di paralizzare, sin dall’inizio, qualsiasi richiesta
pretestuosa.
Si risentono, anche nel tono, le radici di un costume assai diverso. È
da sottolineare il divieto di indagini sulla paternità sancito dall’art. 189
c.c. 1865, tranne i casi di ratto e di stupro violento3, basato sulla profonda
diseguaglianza tra uomo e donna (si pensi alla pena inflitta alla donna per
adulterio da cui l’uomo era esente tranne l’ipotesi di concubinato in casa
o notoriamente altrove). La cultura dell’epoca era orientata a credere, ma
non sempre4, alla “virgini pregnanti sempre esse creditur”, mentre “meretrici
non idem”, per cui bastava proporre l’exceptio plurium concubentium, per
evitare la dichiarazione giudiziale di paternità, il tutto basato sull’idea di
fondo attribuita a Napoleone, Primo Console, che “l’Etat n’a aucun interêt
à ce que la filiation dell’enfant naturel soit établie5.
L’entrata in vigore nel 1948 della nuova Costituzione, e in particolare
dell’art. 30, comportò una svolta culturale, conferendo piena tutela, giuridica e sociale anche ai figli nati fuori dal matrimonio6. Ma ci sono voluti anni perché la norma costituzionale fosse considerata non meramen-
2
La natura pregiudiziale è ben chiara in Piras, l’accertamento giudiziale della paternità naturale, in Riv. dir. priv. 1941, II, 241 s. Cfr. Cass. 22 novembre 1980, n. 6217, con nota di
Scalisi, Ammissibilità dell’azione ex art. 274 c.c., e giudizio di merito, in Giust. civ., 1981,
I, 2704.
3
Cicu, La filiazione, Milano 1927, 202.
4
Si pensi al caso posto innanzi al Parlamento di Grenoble nel 1974 in cui un certo avv. Servan
confutò la distinzione, in Malarie-Aynes, Droit civil. La famille, Cujas 1989, 327 n. 101;
Hauser e Huet-Weiller, La famille, in Traité de droit civil a cura di Ghestin, Paris 1993, 451
ss. insistono sulla importance croissante de la filiation naturelle.
5
Sono le parole di Napoleone. Bisognerà attendere la legge francese dell’8 gennaio 1993,
n. 93 per addivenire all’attuale formulazione dell’art. 340 Cod. Nap. onde stabilire che “la
paternité hors mariage peut être judiciairement déclarée. Per ulteriori richiami all’evoluzione
normativa connessa ad una diversa concezione dei rapporti di famiglia, Carbone, Il padre
può disconoscere il figlio da quando sa che non è suo, in Corr. giur., 1985, 7,738; Id., La
paternità... è una questione di logica, ivi, 1985, 4,409; Id., Contrasti tra ammissibilità e
merito della dichiarazione giudiziale di filiazione naturale, ivi, 1987, 11, 1156; Id., La crisi
della paternità biologica, ivi, 1991, 5, 553.
6
Bessone, art. 30, in Comm. cost. a cura di Branca, Bologna-Roma 1976, 86 ss.
154
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
te programmatica, ma precettiva, per cui la disposizione codicistica ha a
lungo resistito, nonostante la dichiarazione di parziale incostituzionalità
(Corte cost. 12 luglio 1965 n. 70)7, sollecitata dai giudici milanesi8.
La Corte costituzionale invece di sopprimere l’inutile giudizio preliminare, preferì “ricarburarlo” dandogli nuova veste processuale, consentendone l’impugnabilità e la riproponibilità. Si sono poi succedute
continue modifiche del testo, a seguito della riforma operata prima dalla l.
23 novembre 1971 n. 1047 che ammette l’impugnazione della decisione al
termine della fase dell’ammissibilità, e poi dell’art. 117 della l. 19 maggio
1975, n. 151, non priva anch’essa di difficoltà formulative, perché le specifiche circostanze “concorrono” nel testo approvato, mentre nella pubblicazione, poi modificata da un’ulteriore correzione, si legge “occorrono”9.
Agli operatori più accorti apparve subito chiaro che l’art. 274 era rimasto “un ramo secco”10 un “residuo storico”11, un “relitto storico12” una
“singolare procedura”13 o anche “un inutile (e defatigante) doppione del
giudizio di merito”, incoerente con il diritto del figlio naturale, costituzionalmente riconosciuto, all’accertamento della paternità naturale al di
fuori del matrimonio. Inoltre, le modifiche apportate e il passaggio dagli
“indizi” alle “specifiche circostanze” non sortirono minimamente l’effetto
voluto, anche perché i giudici di legittimità hanno più volte precisato che
la sostituzione nel co. 1 dell’art. 274 c.c., a seguito della riforma del diritto
7
Corte cost. 12 luglio 1965, n. 70, in Foro it. 1965, I, 1369; in Giust. civ. 1965, III, 212, in
Riv. dir. mat. 1965, 536 con nota critica di Borghese, Questioni costituzionali in materia di
difesa e contraddittorio; in Giur. cost. 1965, 863 con nota di Chiarloni, Diritto di azione e
diritto di difesa nel procedimento preliminare per la dichiarazione giudiziale di paternità o
maternità naturale, e ivi 881 con nota di Nocella, Sentenza interpretativa di accoglimento o
sentenza di accoglimento parziale dell’art. 274 c.c.? La sentenza è richiamata favorevolmente da Sgroi, Sul procedimento di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale del
rapporto di filiazione naturale dopo la sentenza n. 70 del 1965 della Corte costituzionale,
in Giust. civ. 1970, I, 602 e da Majello, Profili costituzionali della filiazione legittima e
naturale, Napoli 1969, 148 s.
8
L’ordinanza del Trib. Milano 25 settembre 1964, è in Temi 1964, 399 con nota adesiva di
Candian.
9
A. e M. Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia, vol. II, t., I Milano 1975, 316 ss.; Majello, Filiazione illegittima e legittimazione, in Comm. del c.c., Bologna-Roma 1982, 205 ss.
10 Morozzo della Rocca, Per l’abrogazione dell’art. 274 (dedicato ad un parlamentare di buona
volontà), in Dir. fam. 1981, 949; Padova Un ramo secco: il procedimento di ammissibilità
dell’azione di paternità e maternità naturale, in Giur. it. 1983, I, 2, 1859.
11 A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, vol. II, Milano 1984, 1821.
12 Cass., 2 luglio 1988, n. 4401, in Foro it., 1990, I, 1344 e in Giust. civ., 1988, I, 2569.
13 Vercellone, La filiazione, in Tratt. Vassalli, Torino 1987, 137 s.
155
AIAF QUADERNO 2008/1
di famiglia, dell’espressione «specifiche circostanze» alla parola «indizi»,
ai fini della ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, non ha modificato sostanzialmente la natura “sommaria” della
cognizione preliminare prevista dalla norma stessa, in quanto la valutazione circa l’esistenza di dette specifiche circostanze, sufficienti a rendere
ammissibile l’azione, deve mantenersi sul piano della probabilità e non
su quello della certezza. In sostanza, nella fase di ammissibilità non era
necessaria l’acquisizione processuale di elementi forniti di decisivo o comunque elevato grado di efficacia probatoria, essendo sufficiente che il
risultato della detta inchiesta sommaria fosse tale da convincere il giudice
dell’esistenza di un fumus boni iuris, attraverso presunzioni idonee a far
apparire l’azione verosimilmente non priva di fondamento14.
La necessità di un giudizio pregiudiziale non apparve più sostenibile
anche perché nel frattempo si era stabilito che la dichiarazione giudiziale sulla paternità e maternità naturale poteva essere dichiarata in tutti i
casi in cui il riconoscimento era ammesso, e non più nei soli quattro casi
espressamente previsti dall’art. 269 c.c. perché la tipizzazione delle ipotesi era stata nel frattempo, superata eliminando ogni limite con la nuova
formulazione dovuta all’art. 113 della legge di riforma del diritto di famiglia n. 151/197515.
1.2. IL CONTRASTO TRA LE CORTI E IL DIVERSIVO DELL’INTERESSE
DEL MINORE.
Sintomatico il nuovo corso della giurisprudenza dei giudici di legittimità secondo cui dalla procreazione sorge, per il minore, il diritto a costituire, con la dichiarazione giudiziale, lo stato di figlio naturale che, sostan14 Cass., 3 maggio 1986, n. 3008, in Rep. Foro it. 1986, voce Filiazione, n. 72; Cass., 23 aprile
1983, n. 2805, in Giur. it., 1983, I, 1, 1857, con nota di Padova; in Foro it., 1984, I, 245;
Cass., 16 marzo 1990, n. 2200, in Arch. civ., 1990, 795.
15 L’equiparazione è oggi rimessa in discussione in relazione ai timidi superamenti del vincolo
stabilito per i figli incestuosi; Carbone, Anche il genitore affidatario di figli naturali può trascrivere il titolo di assegnazione della casa familiare, in Corr.giur., 2005, 12, 1677, specie
1683, con riferimento a Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 secondo cui è incostituzionale l’art. 278, co. 1, c.c. nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, co. 1,
dello stesso codice, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato; rimanendo fermo, in tali
ipotesi, il divieto di riconoscimento, l’art. 269, co. 1, c.c., deve essere interpretato (secondo
la sua formulazione letterale) nel senso che la paternità e la maternità naturali possono essere
dichiarate nelle ipotesi in cui il riconoscimento è ammesso, ma non nel senso reciproco:
cioè anche che il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la
dichiarazione giudiziale.
156
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
ziando la fondamentale tutela giuridica dei figli nati fuori dal matrimonio,
è sottoposto ai soli limiti probatori previsti a garanzia della verità della
filiazione dall’art. 30, quarto co., Cost.161
L’attenzione si sposta sulla valutazione dell’interesse del minore17 alla
dichiarazione giudiziale di filiazione, in riferimento ad entrambi i genitori, accertando l’ampliamento della sfera affettiva dello stesso e altresì l’esistenza di benefici di tipo economico connessi alla presenza della nuova
figura genitoriale. Interesse che può venire escluso per la condotta pregiudizievole del genitore, tale da configurare una ipotesi di decadenza dalla
potestà, o per fondati rischi sugli equilibri affettivi, sull’educazione e la
collocazione del minore.
Si era giunti così alla conclusione che non aveva più senso un duplice
giudizio, di cui uno pregiudiziale di ammissibilità, da taluno18 considerato autonomo, da altri una semplice fase preliminare19, rispetto alla fase di
merito, teleologicamente connessa, sull’esistenza o meno del rapporto di
filiazione.
E così i giudici di legittimità hanno più volte, lungo un arco di venti
anni, sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 274 c.c., in relazione
agli artt. 2, 4 e 30 cost. Si pensi alla chiara impostazione della Cassazione
che riteneva non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2 e 30
cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 274 c.c. che disciplina il giudizio preliminare di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale20. Secca la replica della
16 Cass., sez. I, 11 dicembre 1995, n. 12642 in Nuova giur. civ., 1997, I, 266, con nota di
Frasson, L’interesse del minore ad instaurare rapporti affettivi con il preteso genitore come
nuovo criterio nella dichiarazione giudiziale di filiazione naturale.
17 Corte cost., 20 luglio 1990, n. 341, in Foro it., 1992, I, 25, con nota di Formica, ha dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 30 Cost., l’art. 274, co. 1, c.c., nella parte in
cui non subordina l’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o
maternità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia valutata la rispondenza all’interesse del minore.
Sul punto, Carbone, L’interesse del minore alla dichiarazione di paternità naturale, in Fam.
e dir., 1995, 425; Id., È preferibile un padre putativo a quello biologico?, ivi, 1998, 427.
18 Vercellone, La filiazione, cit., 137 e 138 secondo cui la disposizione rappresenta “un serio
limite al libero esercizio del diritto costituzionale di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti”. Negli stessi sensi, Cass. sez. I, 6 agosto 1994, in Fam. e dir., 1994, 618 con nota di
Vullo, Dichiarazione di paternità o maternità naturale: giudizio di ammissibilità e giudicato
sulla competenza.
19 A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, vol. II, cit., 1804; Ferrando, La filiazione naturale
e la legittimazione, in Tratt. Rescigno, vol. 4, Persone e Famiglia, t. III, 2 ed., Torino 1997,
228.
20 Cass., 5 marzo 1986, n. 108, in Giust. civ., 1986, I, 1651. In tal senso si sono già espresse
157
AIAF QUADERNO 2008/1
Corte costituzionale che ha ritenuto inammissibile la questione nella parte in cui prevede la necessità di un giudizio preliminare di ammissibilità
per l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale,
in riferimento agli artt. 2 e 30 cost., in quanto implica scelte discrezionali
riservate al legislatore21.
Con questo escamotage della discrezionalità del legislatore, altre risposte negative arrivano dalla Corte costituzionale, arroccata a difendere una
norma divenuta inutile che lede posizioni soggettive, costituzionalmente
tutelate, e fa perdere tempo ad una sollecita e funzionale risposta alla domanda di giustizia da parte del presunto figlio naturale22. Non sono, infatti, mancate le chiusure della Consulta, secondo la quale si tratta di scelte
discrezionali riservate al legislatore e di questione manifestamente inammissibile in base al rilievo che il giudizio preliminare ha ormai perduto le
sue originarie caratteristiche di segretezza, e la domanda è riproponibile
senza limiti di tempo23.
Anche l’opzione per il rito camerale ex art. 38, co. 3, disp. att. c.c., nella
parte in cui stabilisce che sulla domanda di dichiarazione giudiziale di
paternità e maternità il tribunale per i minorenni «provvede in camera
di consiglio», è giudicata non rilevante ai fini della costituzionalità del
giudizio di ammissibilità, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.. L’ordinamento, infatti, conosce vari provvedimenti decisori adottati in camera di
consiglio, in cui la procedura è disposta anche in presenza di elementi
della giurisdizione contenziosa (procedimento di separazione personale
dei coniugi, interdizione, inabilitazione, assenza e dichiarazione di morte
presunta).
La scelta discrezionale di tale procedimento risponde a criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha compiuto in
relazione alla natura degli interessi regolati ed all’opportunità di adottare
determinate forme processuali e, pertanto, non è sindacabile in sede di
legittimità costituzionale, nei limiti in cui tale scelta non si risolva nella
violazione di specifici precetti costituzionali. Inoltre l’osservanza del dianche Cass., 2 ottobre 1987, n. 623, in Giur. costit., 1987, II, 2, 1215 e Cass., 14 ottobre
1984, in Giur. cost., 1986, II, 2, 800.
21 Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 621, in Foro it., 1988, I, 1744, in Cons. Stato, 1987, II,
1917, in Giur. cost., 1987, I, 3728, in Giust. civ., 1988, I, 311.
22 Per una puntuale formulazione, Naddeo, La filiazione naturale, in Autorino Stanzione, Il
diritto di famiglia, Torino 2006, vol. IV, 174 ss.
23 Corte cost., 14 luglio 1988, n. 814, in Giur. cost., 1988, I, 3856.
158
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
ritto di difesa non preclude la possibilità che la relativa disciplina si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti,
purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione, cioè la garanzia del
contraddittorio. Nel procedimento specificamente previsto dagli artt. 269
ss. c.c. per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, la difesa è
pienamente garantita, non solo per ciò che riguarda l’instaurazione del
contraddittorio (artt. 274 e 276), ma anche con riferimento all’esperibilità
di «ogni mezzo» di prova (art. 269, co. 2 c.c.), il che rende possibile ogni
opportuna «integrazione del materiale probatorio in funzione delle domande hinc et inde spiegate», così da far escludere la temuta riduzione
delle «modalità di esplicazione del diritto di difesa se rapportate a quelle
vigenti nell’ordinario processo di cognizione contenzioso»24.
Tuttavia, nonostante il pensiero interpretativo della Consulta, si diffonde la convinzione che le limitazioni all’ammissibilità dell’azione per la
dichiarazione giudiziale della paternità naturale non sono idonee a soddisfare l’esigenza di sottrarre la parte convenuta ad azioni temerarie o vessatorie (e tutelare la famiglia legittima). Infatti, il preventivo giudizio sulla
ammissibilità dell’azione limita il diritto, costituzionalmente garantito, di
chi vuole ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, senza che tale limite sia giustificato dalla tutela dei fondamentali
diritti della persona dal pericolo di una persecuzione in giudizio temerario e vessatorio.
1.3. LA RIPROPOSIZIONE DELLA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ
NEGLI ANNI 2003 E 2004 FINO ALLA PRONUNCIA N. 50 DEL 2006.
La Corte costituzionale ha inoltre riaffermato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 274 c.c. nella parte in cui non
limita il giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale alla valutazione dell’interesse del
minore, in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 cost.25. Non senza aggiungere che
è stata ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 18 c.p.c., 274 c.c. e 38 disp. att. c.c., nella parte in cui escludono che
nel giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale
di paternità o maternità naturale la competenza per territorio, qualora la
24 Corte cost., 30 giugno 1988, n. 748 in Giur. cost., 1988, I, 3439.
25 Corte cost., 3 luglio 1997, n. 216. in Foro it., 1998, I, 38.
159
AIAF QUADERNO 2008/1
causa riguardi un minore, venga individuata nel tribunale per i minorenni ove risiede il minore, in riferimento agli artt. 3, co. 1, 31, co. 1 e 2, e 24,
co. 1, Cost.26.
La Cassazione non si lascia convincere e rompe nuovamente gli indugi,
ritornando alla carica. Ribadisce che non è manifestamente infondata la
questione di costituzionalità dell’art. 274 c.c., in quanto la fase di ammissibilità del giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, così
come in concreto attualmente disciplinata, viola l’art. 3, co. 1 e 2, Cost., per
la contraddizione intrinseca della norma con gli obiettivi che essa si pone;
ostacola la tutela dei figli naturali nella ricerca del loro status e della loro
identità biologica, e pertanto contrasta con l’art. 30, co. 1 e l’art. 2 Cost., ed
infine con il principio della ragionevole durata del procedimento giudiziario ex art. 111 Cost.27.
La risposta della Consulta è secca, quasi stanca delle continue sollecitazioni28. Infatti dichiara manifestamente inammissibile la questione perchè
il giudice rimettente aveva omesso ogni motivazione relativamente alla
circostanza che nel giudizio avanti allo stesso era intervenuto un giudicato sull’ammissibilità della domanda, mancando altresì d’individuare correttamente la norma denunciata e le ragioni che la ispiravano anche alla
luce della modifica apportata dalla pronunzia additiva di cui alla sentenza
della Corte cost. n. 341/1990.
Questa volta i giudici di legittimità non disarmano e, con ordinanza del
26 novembre 2004 n. 2235129, nel corso dello stesso processo di cassazione,
ripropongono per la seconda volta la questione di costituzionalità dell’art.
274 c.c..
Occorre ricordare però che tra i giudici di legittimità non è mancato
chi ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 274 c.c., per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non consente alle parti di esporre sin dall’inizio le proprie tesi difensive ed indicare possibili fonti di prova; infatti, nonostante la peculiarità della proce26 Corte cost., 19 giugno 1998, n. 228 in Fam. e dir., 1998, 419, con nota di Vullo, La competenza per territorio nel reclamo di stato di figlio naturale.
27 Cass. sez. I, 4 luglio 2003, n. 10625, in Fam. e dir., 2003, 538, con nota di Sesta, La sospetta illegittimità dell’art. 274 c.c.: che fine farà l’interesse del minore?
28 Corte cost. [ord.], 11 giugno 2004, n. 169 in Fam. e dir., 2004, 451, con nota di Sesta, La
Consulta salva il giudizio di ammissibilità dell’azione di dichiarazione della genitorialità.
29 Pubblicata in Fam. e dir., 2005, 251 con nota di Morrone, La Corte di cassazione ripropone
la questione di costituzionalità dell’art. 274 c.c. e postilla di Sesta.
160
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
dura (giustificata dalla materia, consistente in una sommaria delibazione
che l’azione proposta non sia palesemente temeraria), resta pur sempre
assicurato alle parti il diritto di conoscere gli elementi istruttori e svolgere
le opportune difese, deducendo ogni circostanza utile e di esaminare gli
atti dell’inchiesta sommaria, nonché il diritto di impugnare il decreto motivato del tribunale e di ricorrere per cassazione contro il provvedimento
del giudice d’appello30.
La Cassazione ripropone la questione sotto nuove angolazioni richiamando, nella stessa causa, la precedente ordinanza ritenuta in limine inammissibile dalla Corte costituzionale. Secondo la Cassazione si tratta di un
atto istituzionalmente dovuto, altrimenti i giudici di legittimità sarebbero
costretti a decidere la lite sulla base di una norma fortemente sospetta di
incostituzionalità. E verrebbe così meno al dovere del giudice di soggezione alla legge (art. 101 Cost.), che (per il principio di gerarchia delle fonti)
è dovere, in primis, di soggezione alla Costituzione e si specifica, per tal
profilo, nel divieto di assumere a parametro del giudizio disposizioni di
dubbia compatibilità con precetti costituzionali, ed a questi non adeguabili per via di esegesi correttiva (perché il testo, come in questo caso, non
lo consente), senza sottoporre siffatte disposizione al vaglio del Giudice
delle leggi ed avere da questi ottenuto la rimozione del dubbio di illegittimità o, alternativamente, della stessa disposizione (ove effettivamente)
illegittima.
Ai fini della “più compiuta individuazione del contenuto della norma
denunciata”, si precisa che - in ragione del principio di necessaria rilevanza della questione prospettabile, essenziale alla struttura incidentale del
giudizio di costituzionalità e che comporta, come suo corollario, la necessità di contenere la denuncia della noma sospetta di illegittimità entro i
limiti della sua effettiva inerenza al caso concreto - nella fattispecie per cui
è causa, in cui l’azione di riconoscimento è stata proposta “ai sensi dell’art.
269 c.c.”, da soggetto maggiorenne. E l’ordinanza precisa che non prende
in esame le sentenze costituzionali nn. 341/90 e 216/97, per la parte in cui
hanno additivamente rimodellato il procedimento delibatorio relativo a
minori, che non viene qui in rilievo, trattandosi di maggiorenne.
Il filtro, apprestato dalla procedura sub art. 274 c.c (in relazione all’azione ex art. 269 c.c.) non è più idoneo ad assolvere la finalità per cui era
stato a suo tempo introdotto, di tutela del preteso genitore da istanze di
30 Cass., sez. I, 15 gennaio 2000, n. 424, in Rep. Foro it: 2000, v. Filiazione, n. 84.
161
AIAF QUADERNO 2008/1
riconoscimento ricattatorie o vessatorie. Il tutto reso ancor più evidente
ove si consideri che, anche nell’ipotesi (statisticamente assai infrequente) di denegata autorizzazione all’azione, questa (in ragione della sua
imprescrittibilità) può essere riproposta sulla base di nuove allegazioni,
senza alcun limite temporale. Inoltre, per effetto della progressiva accentuazione del carattere contenzioso della procedura, risultano fortemente
attenuati, nella fase di gravame, e comunque azzerati nella fase pubblica
di cassazione, anche quei connotati di segretezza inizialmente garantiti.
Infine, la Cassazione sottolinea come il meccanismo processuale governato dall’art. 274 c.c., «oltre a non evitare (per come dimostrato) si presta anzi ad incentivare, per sua stessa struttura, strumentalizzazioni sia
da parte del convenuto che (utilizzando le varie impugnative esperibili
contro il provvedimento autorizzatorio) è in grado di differire a tempo
indeterminato il giudizio di merito, sia da parte dello stesso istante che,
attraverso una programmata graduazione della produzione probatoria,
è in grado di assicurarsi una reiterabilità, anche in questo caso a tempo
indeterminato, della istanza di riconoscimento (sì che a fronte di iniziative
effettivamente vessatorie, il convenuto potrebbe non esserne mai definitivamente al riparo, proprio per la non conseguibilità di un giudicato di
merito sulla infondatezza della domanda)».
La Cassazione ripropone, dunque, la questione di legittimità dell’art.
274 c.c., quanto agli aspetti, già evidenziati, dell’eccesso di potere legislativo per sopravvenuta irragionevolezza intrinseca della norma, della
ingiustificata disparità di trattamento, che ne deriva, tra figli naturali e
legittimi in tema di riconoscimento della paternità del vulnus alla effettività di tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità
biologica, che la coscienza sociale avverte come essenziali allo sviluppo
della persona, del precetto della “ragionevole durata del processo”, anche
in relazione all’art. 6 paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, cui l’Italia si è impegnata a dare concreta attuazione.
È la terza volta che la questione torna alla Consulta, in quanto con una
prima decisione era stato dichiarata la nullità per difetto di contraddittorio tra tutti i possibili eredi del defunto preteso genitore, affermando che
la domanda di dichiarazione di paternità, naturale, implicando questioni
attinenti allo status delle persone, rende indispensabile la partecipazione di tutti i soggetti la cui sfera giuridica, tanto per l’aspetto personale
che patrimoniale, è suscettibile di subire effetti in seguito alla formazione
di uno status diverso da quello originario; consegue che nel procedimen162
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
to per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale la
legittimazione spetta, in mancanza del presunto genitore, ai suoi eredi,
ricompresi tra questi gli eredi degli eredi, che non possono essere considerati semplici interessati ai sensi dell’art. 276 c.c. e che acquistano la veste di litisconsorti necessari31. Una seconda volta, in sede di regolamento
di competenza, utilizzato ex art. 42 c.p.c. per superare la sospensione del
processo disposta in attesa della conclusione di quello di ammissibilità32.
Nel terzo caso la Corte d’appello di Venezia aveva dichiarato improponibile la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità per la carenza del
previo giudizio di ammissibilità dell’azione.
I profili di costituzionalità posti in discussione concernono:
a) la sopravvenuta irragionevolezza intrinseca della norma che vive avulsa dalla originale ratio;
b) la discriminazione nei confronti dei figli naturali, non sussistendo
analogo procedimento per le azioni di accertamento della filiazione
legittima;
c) il carattere ostativo della procedura rispetto alla tutela dei diritti fondamentali dei figli naturali;
d) il contrasto della fase di ammissibilità con l’art. 111 cost. e la ragionevole durata del processo.
La Corte costituzionale supera la precedente questione di inammissibilità, perché nessun giudicato ostativo è intervenuto nel corso di un processo iniziato e lo stesso è stato proposto da un maggiorenne e perviene
finalmente a cancellare l’art. 274 c.c.
Il punto centrale dell’intervenuta incostituzionalità dell’art. 274 c.c. è
che l’attuale disciplina con le modifiche di tipo processuale e il conseguente diritto vivente del giudizio di ammissibilità “ha totalmente vanificato”
la funzione prevista dal codice del 1942 e cioè la protezione del convenuto da iniziative temerarie e vessatorie. La disposizione dell’art. 274 c.c.
si prestava ad una possibile strumentalizzazione da parte di entrambi i
contendenti con una reiterabilità della procedura a tempo indeterminato.
La Corte costituzionale, dopo 41 anni, riconosce finalmente l’irragionevo31 Cass., sez. I, 12 settembre 1997, n. 9033, in Fam. e dir., 1998, 22, con nota di Carbone,
Morte del presunto padre naturale: legittimati passivi i primi eredi o anche gli eredi successivi? Questione oggi risolta da Cass. sez. un. 3 novembre 2005, n. 21287, in Corr. giur.,
2006, 3, 347 con nota di Ferrando.
32 Cass. 2 agosto 1999, n. 8342 su regolamento di competenza non massimata e quindi
inedita.
163
AIAF QUADERNO 2008/1
lezza della norma che costituiva un grave ostacolo all’azione di dichiarazione di paternità naturale garantita dall’art. 24 cost. con un’irragionevole
durata del processo in contrasto con l’art. 111 cost.
La Corte si affretta a precisare che la norma è incostituzionale per tutti i
figli naturali sia se maggiorenni sia se minorenni, poiché l’incostituzionalità coinvolge l’intero procedimento di ammissibilità, sia nella struttura che
nella funzione.
Tanto tuonò che piovve! Ma quanti inutili fiumi di inchiostro in sentenze e commenti in oltre trenta lunghissimi anni?
Non si poteva evitare, nell’interesse del “servizio giustizia” (art. 110
cost.), questo lungo ed estenuante braccio di ferro, dato che sin dall’inizio,
a tutti, era parso ormai chiaro che dopo la “ricarburazione” processuale
del 1971, si trattava di “un ramo secco”, incoerente con il diritto costituzionalmente riconosciuto del figlio naturale all’accertamento della paternità
naturale? O forse, come rileva Santi Romano33, il giurista a volte preferisce
giocare con i problemi piuttosto che risolverli?
II
PATERNITÀ BIOLOGICA: NON OCCORRE L’ADULTERIO BASTA LA
PROVA DEL D.N.A. PER IL DISCONOSCIMENTO.
2.1. CONTESTO NORMATIVO E “DIRITTO VIVENTE”.
Il nuovo diritto di famiglia non può non tener conto di altra dibattuta
controversia sollevata su sollecitazione sia della Corte di cassazione34, che
dei giudici di merito35: la questione di legittimità costituzionale dell’art.
235, co. 1, n. 3, c.c., “nella parte in cui ammette il marito a provare che il
figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre se nel periodo del concepimento la
moglie ha commesso adulterio”.
La formulazione non è quella originaria del codice del 1942, ma quella
33 Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1953, 115 ss. 117 ss.
34 Cass. Sez. I, 5 giugno 2004, n. 10742, in Fam. e dir. 2004, 569 con nota di Bolondi, La
prova dell’adulterio al vaglio della Corte costituzionale.
35 Trib. Rovigo 29 ottobre 2004 in Gazz. Uff. Corte Cost. 20 aprile 2005, n. 16, 102 e App.
Venezia 30 marzo 2005 in Gazz. Uff. Corte Cost. 29 giugno 2005 n. 26, 78.
164
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
dovuta alla novella operata dall’art. 93 della l. 19 maggio 1975 n. 151, nel
contesto della riforma del diritto di famiglia, con ampliamento della legittimazione a proporre il disconoscimento di paternità anche alla madre
e al figlio che ha raggiunto la maggiore età, e ulteriormente estesa – con
l’art. 81 della l. 4 maggio 1983, n. 184 che ha modificato l’ultimo co. dell’art.
244 c.c. – al curatore speciale, nominato dal giudice, su istanza del figlio
minore che abbia raggiunto i sedici anni o del P.M.36 per i minori di età
inferiore, con esclusione del padre naturale37.
La questione si era agitata in dottrina sotto il profilo del rilievo da conferire alla prova dell’adulterio38, un tempo elemento discriminante tra
uomo e donna sotto il profilo penale (punito, dal codice penale del 1931,
solo quello della donna, e non quello dell’uomo tranne che non avesse
raggiunto livelli di concubinato39), ma anche sotto il profilo dell’irriconoscibilità dei figli adulterini, caduto con la riforma del 1975 che ne ammette
il riconoscimento, con il vigente art. 250 c.c., come novellato dall’art. 102
della l. 19 maggio 1975 n. 151.
Il punctus dolens è dovuto all’imperfezione della norma4040, che non
evidenzia la diversa portata strutturale tra i primi due casi (mancanza di
coabitazione e impotenza del marito41) che escludono ogni possibilità di
36 Secondo Corte cost. (sentenza 27 novembre 1991 n. 429, in Giur. it. 1992, I, l., 385, con
nota di D’Amico, Va riconosciuto l’interesse della parte privata (estranea al processo a quo)
ad intervenire nel giudizio costituzionale) è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, co. 4, c.c., nella parte in cui nel procedimento per la nomina di un curatore speciale da parte del tribunale, dietro iniziativa del
p.m., per la promozione dell’azione di disconoscimento di paternità, non viene considerato
l’interesse del minore sia nella fase di iniziativa del p.m., sia in quella del successivo provvedimento del tribunale, in riferimento all’art. 3 Cost.
37 La legittimazione non include il padre naturale: Cass., sez. I, 6 aprile 1995, n. 4035, in
Giust. civ., 1995, I, 2401, ha ritenuto che non esiste alcuna legittimazione del presunto genitore naturale, il quale come non può promuovere il relativo procedimento, né intervenirvi,
così non è legittimato ad impugnare il provvedimento di revoca del decreto di nomina di un
curatore speciale al minore infrasedicenne, adottato ai sensi dell’art. 244, ultimo co., c.c.
38 Ancora sulla distinzione tra adulterio civile e penale, Granelli, L’azione di disconoscimento
della paternità, Milano 1966, 168.
39 Chi non ricorda la sentenza storica di Corte cost. 18 aprile 1974 n. 99, in Foro it. 1974, I,
1574, in Giur. cost., 1974, I, 1396 con nota di Rescigno.
40 Non a torto in sede di lavori preparatori il sen. Carraro insistette per scorporare e rendere autonoma in un apposito punto 4 l’ipotesi dell’incompatibilità genetica: A. e M. Finocchiaro,
Riforma del diritto di famiglia, vol. II, t.1, 50; Sesta, La filiazione, in Tratt. Bessone, vol. IV.
T. III, Torino 1999, n.45 s.s.
41 Sull’impotenza la Corte costituzionale (Corte Cost. 26 settembre 1998, n. 347, in Corr. giur.,
1998, 11, 1294, con nota di Carbone, Riconoscimento di paternità e inseminazione eterologa: la Corte costituzionale non risolve il problema), ha ritenuto inammissibile la questione
165
AIAF QUADERNO 2008/1
confusione sulla genesi della gravidanza e della nascita, - sicchè la loro
prova è, di per sé, anche prova dell’impossibilità della paternità biologica
– e la terza ipotesi (adulterio o celamento della gravidanza) in cui la prova del fatto non è da sola sufficiente ad escludere la paternità biologica,
potendo sussistere rapporti tra i coniugi idonei alla procreazione, nonostante l’adulterio o il celamento della gravidanza42. Inoltre l’art. 235 c.c.,
ora dichiarato incostituzionale, risulta ancora rapportato ai casi tassativi
di epoca napoleonica, ed è stato dal “diritto vivente”43 interpretato restrittivamente, nel senso che l’indagine sul verificarsi dell’adulterio è stata ritenuta preliminare rispetto alla sussistenza o meno del rapporto procreativo, conferendo all’adulterio il ruolo di primo, anche se non sufficiente,
elemento per escludere la paternità44. Solo dopo aver provato l’adulterio,
poteva aver ingresso la prova genetica o ematologia per escludere definitivamente la paternità biologica, con l’inutile precisazione della dignità
probatoria di siffatta prova, come un normale mezzo istruttorio, e non di
sola istanza diretta a sollecitare l’esercizio di un potere proprio del giudice. Peraltro, anche se espletata contemporaneamente alla prova dell’adulterio, la prova genetica poteva essere esaminata solo subordinatamente al
raggiungimento della certezza dell’adulterio, al diverso fine non dell’amdi legittimità costituzionale dell’art. 235, co. 1, n. 2, c.c., nella parte in cui consentirebbe
l’azione di disconoscimento di paternità al marito che, affetto da impotenza nel periodo
che va dal trecentesimo al centottantesimo giorno prima della nascita del figlio concepito
durante il matrimonio, abbi dato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa
della moglie. Inoltre (Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170, in Corr. giur., 1999, 9, 1097, con
nota di Carbone, Anche la madre può disconoscere il figlio da quando sa che il padre non
è il marito), ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 24 Cost.,
l’art. 244, co. 2, c.c., nella parte in cui non prevede che il termine per l’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza a generare, contemplata dal n. 2 dell’art.
235 c.c., decorra per il marito e per la moglie, rispettivamente, dal giorno in cui ciascuno
dei coniugi sia venuto a conoscenza di tale circostanza.
42 De Cupis, Della filiazione legittima, in Comm. al dir. it. della famiglia, vol. IV, Padova
1992, 23 ss.; Finocchiaro, il disconoscimento di paternità, in Fam. e dir. 1994, 317; Sesta,
Diritto di famiglia, Padova 2005, 505 s.s. Sciancalepore, Filiazione legittima, in Autorino
Stanzione, Il diritto di famiglia, cit. vol. IV, 35 s.s.
43 Secondo Cass. 11 maggio 1982, n. 2925, in Giust. civ., 1982, I, 2710, in Foro it., 1983, I,
149, in tema di azione di disconoscimento della paternità, la prova dell’adulterio o del celamento della gravidanza e della nascita non è sufficiente per l’accoglimento della domanda,
ma deve essere integrata da altri fatti o circostanze inconciliabili con la paternità, tra i quali
l’art. 235 c.c. annovera specificamente le caratteristiche genetiche o l’incompatibilità del
gruppo sanguigno del presunto padre.
44 La Corte costituzionale (Corte cost. 14 gennaio 1986, n. 9, in Giur. cost. 1986, I, 64) ha
dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3 e 24, cost., la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 244, co. 2, c.c., nella parte in cui non dispone, per il caso
previsto dal n. 3 dell’art. 235 stesso codice, che il termine per l’azione di disconoscimento
decorra dal giorno in cui il marito è venuto a sconoscenza dell’adulterio della moglie.
166
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
missibilità, ma di stabilire il fondamento, nel merito, della domanda.
La giurisprudenza di legittimità si era quindi attestata, erroneamente,
sul principio di diritto che, ai fini dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità per adulterio della moglie, l’adulterio medesimo
dovesse essere autonomamente dimostrato, senza possibilità di avvalersi
degli elementi forniti dalla prova genetica od ematologia, la quale, ancorché espletata contemporaneamente con la prova sull’adulterio, poteva essere esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di detta
dimostrazione45.
Si è altresì precisato che la prova non è vincolata da eventuali ammissioni rese dalla moglie – le quali, riguardando diritti indisponibili, configurano elementi liberamente apprezzabili dal giudice (art. 2733 co. 2 c.c.,
nonché art. 235 co. 2 c.c.)46 – e che l’azione per il disconoscimento di paternità del figlio, concepito durante il matrimonio, è consentita solo se
la moglie ha commesso adulterio nel periodo compreso tra il trecentesimo e il centottantesimo giorno prima della nascita. Più volte la domanda
di disconoscimento è stata rigettata ove il marito, anziché dare la prova
dell’adulterio commesso dalla moglie nel detto periodo, si era limitato, da
un lato, a dimostrare che quest’ultima aveva ammesso che il marito non
era il genitore di uno dei figli nei cui confronti era stata esperita l’azione
di disconoscimento, e, dall’altro, a produrre i risultati di esami ematologici cui erano stati sottoposti sia l’attore che i figli47. Inoltre, ad una prima,
parziale apertura – in cui si riconosceva che il giudice poteva ammettere le
prove genetiche e/o ematologiche contemporaneamente a quelle inerenti all’adulterio ed, in presenza del rifiuto ingiustificato all’espletamento
della prova ematologia, poteva ritenere tale comportamento sufficiente
ad integrare, con altre risultanze processuali, la prova dell’adulterio ai
fini dell’esclusione della paternità48 – è poi seguita una chiusura interpretativa, ritenendosi che la prova ematologia o genetica non poteva essere
ammessa per integrare quella (insufficiente o mancante) dell’adulterio o
45 Cass. Sez. I, 23 gennaio 1984, n. 541, in Giust. civ. 1985, I, 735 con note di Finocchiaro,
L’azione di disconoscimento di paternità e la prova dell’adulterio della moglie a mezzo di
esami ematologici e/o genetici e di Terranova, Disconoscimento del figlio di genitori separati e disciplina transitoria della legge di riforma.
46 Cass. Sez. I, 20 febbraio 1992, n. 2113, in Rep. Foro it. 1992, v. Filiazione, n. 27.
47 Cass., sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14887, in Giust. civ. 2002, I, 2739.
48 Cass. 12 novembre 1984, n. 5687, in Giust. civ. 1985, I, 734, con le citate note di Finocchiaro e di Terranova (supra nota 45).
167
AIAF QUADERNO 2008/1
del celamento della gravidanza, dal momento che questi fatti dovevano
essere autonomamente provati per dare ingresso alle dette prove tecniche,
con la conseguenza che il rifiuto della parte di sottoporsi al prelievo era
irrilevante, ai fini dell’accoglimento della domanda, ove non fosse stata
raggiunta la prova dell’adulterio o del celamento della gravidanza49.
Nemmeno la dottrina si è dimostrata compatta, perché mentre alcuni50
sostenevano che preliminarmente doveva essere dimostrato l’adulterio,
come condizione di ammissibilità dell’azione, mentre le prove genetiche potevano avere ingresso solo successivamente alla raggiunta prova
dell’adulterio, altri qualificavano “iniqua”51 la giurisprudenza che riteneva “insufficiente” l’incompatibilità genetica tra il padre e figlio52.
2.2. IL FAVOR VERITATIS PREVALE SUL FAVOR LEGITIMITATIS E MODIFICA
STRUTTURA E FINALITÀ DELL’AZIONE DI DISCONOSCIMENTO.
La decisione in commento non prende posizione sulla questione di fondo se debba prevalere la paternità presunta o legale, anche se non corrispondente alla realtà, ovvero quella effettiva o biologica. Non affronta il
dilemma se sia preferibile un padre legittimo, anche se putativo, ovvero
il padre biologico. Nella famiglia d’oggi, le certezze e i valori sono diversi per cui ad un soggetto che è ritenuto e si comporta come padre, als
Vater gilt è preferibile il padre biologico o genetico, cioè il vero padre, als
Vater ist che trasferisce al figlio un patrimonio genetico. Diversa la posizione dei giudici di legittimità53 che non affrontano il vero quesito sulla
49 Cass. 5 gennaio 1984, n. 20, in Giust. civ. 1985, I, 734 con le ricordate note di Finocchiaro
e Terranova.
50 Cattaneo, La filiazione legittima: lo stato di figlio legittimo e le prove della filiazione, Torino
1982, 199; Id. Filiazione legittima, in Comm. Scialoja e Branca, sub art. 235 c.c., BolognaRoma 1988, 113 c.c.
51 L’espressione è di Biscontini, La filiazione legittima in Il diritto di famiglia diretto da Bonilini
e Cattaneo, vol.III, Torino 1987, 113.
52 Vercellone, La filiazione, in Tratt. Vassalli, cit., 72 che sostiene il valore “polivalente” della
prova genetica.
53 Cass., sez. I, 17 agosto 1998, n. 8087, in Fam. e dir. 1998, 427 con la citata nota di Carbone, È preferibile un padre putativo a quello biologico? afferma che la prova genetica e/o
ematologia non può essere ammessa per integrare quella, carente, sull’adulterio della moglie
(ovvero sul celamento della gravidanza), ipotesi tutte previste al n. 3 del co. 1 del citato art.
235 c.c. tra quelle che consentono l’azione di disconoscimento della paternità del figlio
concepito durante il matrimonio; ed infatti, l’adulterio, come il celamento della gravidanza
e della nascita, devono essere preliminarmente ed autonomamente provati, quali condizioni
per dare ingresso alle prove genetiche o del gruppo sanguigno, le quali, pertanto, anche se
espletate contemporaneamente alla prova delle circostanze citate, possono essere esaminate
168
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
scelta di fondo che significa abbandonare la sponda del favor legitimitatis e traghettare il diritto di famiglia sull’altra sponda del favor veritatis, il
prevalere della verità biologica, dimostrata con il d.n.a., rispetto a quella
putativa, ritenuta comunque di maggior interesse per il minore. Anche i
giudici costituzionali evitano un’opzione di fondo e preferiscono inquadrare la significativa scelta nello scenario del mutato costume familiare,
sottolineando i cambiamenti dei modelli di vita della società italiana,
che coin volgono anche i rapporti coniugali, modificati, tra l’altro, per
effetto della diffusione del lavoro femminile, della mobilità richiesta alle donne che lavorano e della lontananza dei luoghi di lavoro
dall’abitazione, senza neppure sottolineare gli enormi progressi della
ricerca scientifica in tema di procreazione artificiale 54
Com’è evidente, il contesto da cui era partita la legge di riforma del
diritto di famiglia nel richiedere una doppia prova, anche se non sullo stesso piano, era dovuto alla considerazione che il mero adulterio
non fa venir meno la presunzione di paternità del coniuge, il cd. favor
legitimitatis, potendo ben essere compatibile un attento e controllato
rapporto adulterino con la paternità biologica del figlio, spettante al
marito. Non a caso l’art. 1.600 del codice civile brasiliano approvato
con l. 10.406 del 10. 1. 2002 afferma “Non è sufficiente l’adulterio della moglie, anche se confessato, per vincere la presunzione legale di
paternità” 55. Inoltre non tutti avevano recepito o erano pervenuti alla
piena e convinta metabolizzazione delle scoperte scientifiche sul d.n.a.
e sull’incompatibilità dei fattori genetici, per cui oggi, tra marcatori genetici e polimorfismi del d.n.a., si ha la certezza scientifica (100%) al
fine dell’esclusione del rapporto biologico tra padre e figlio56.
Il giudice costituzionale si dichiara costretto ad ammettere la piena irrilevanza dell’adulterio, in sé, ai fini del disconoscimento di paternità e a dichiarare incostituzionale l’art. 235 co. 1 n. 3 c.c., perché una diversa interpretazione,
costituzionalmente orientata, dell’art. 235, co.1, n. 3 - che consideri indirettasolo subordinatamente al raggiungimento di questa, ed al diverso fine di stabilire il fondamento nel merito della domanda.
54 Cirillo, La progressiva conoscenza del genoma umano: tutela della persona e problemi giuridici connessi con la protezione dei dati genetici, in Riv. dir. civ., 2002, 11, 399; Lenti, La
procreazione artificiale. Genoma della persona e attribuzione della paternità, Padova 1993, 31
ss.; Santosuosso, La fe condazione artificiale umana, Milano 1984, 41 ss.
55 P. Carbone, Il nuovo codice brasiliano, Milano 2002, 178.
56 Ranalletta, La prova della paternità mediante il calcolo biostatico, Milano 1989, 37 ss.
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AIAF QUADERNO 2008/1
mente raggiunta la prova dell’adulterio attraverso la esclusione della paternità
a seguito dei risultati della prova genetica o ematologica - risulta preclusa, non
tanto dalla volontà della legge, desumibile anche dai lavori parlamentari per
la riforma del diritto di famiglia, di non consentire il disconoscimento della
paternità sulla base dei risultati degli accertamento tecnici genetici e/o ematologici, quanto, soprattutto, dalla voluntas legis, così come interpretata dal “diritto vivente” applicato dai giudici di legittimità.
La decisione riporta l’indirizzo interpretativo preclusivo della Corte di
cassazione, ricordando anche qualche timido tentativo subito rientrato.
Era stato affermato che l’art. 235, co. 1, c.c., non impediva al giudice
del merito, che ne ravvisasse l’opportunità, di ammettere ed espletare
le prove tecniche contemporaneamente a quelle inerenti all’adulterio.
Nella fattispecie, il giudice aveva integrato il proprio convincimento
sull’esistenza dell’adulterio con la valutazione dell’ingiustificato rifiuto opposto dai controinteressati all’espletamento della prova ematologica, ritenendo tale rifiuto come prova della non paternità, e ciò
soprattutto perché, a causa del progresso scientifico verificatosi negli
ultimi tempi, detta prova aveva assunto il valore di piena prova della esistenza o non esistenza del rapporto di filiazione57. Tuttavia, un
siffatto, approccio inter pretativo - già all’epoca contrastato58 - è stato,
successivamente, abbandonato, per un diverso “diritto vivente” per il
quale l’indagine sull’avvenuto adulterio della moglie ha carattere preliminare rispetto a quella sulla sussistenza o meno del rapporto procreativo, con la conseguenza che la prova genetica o ematologica, anche
se espletata contemporaneamente alla prova dell’adulterio, può essere
esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di quest’ultima, e
al diverso fine di stabilire il fondamento nel merito della domanda. Con
l’ulteriore corollario che, in difetto di prova dell’adulterio, anche in presenza della dimostrazione che il figlio presenta caratteristiche genetiche
o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre,
l’azione di disconoscimento della paternità deve essere respinta59.
In presenza di tale “diritto vivente”, ascrivibile all’interpretazione dei
giudici di legittimità, non sono proponibili differenti soluzioni inter57 Cfr. la ricordata sentenza n. 5687 del 1984, citata supra n. 48.
58 Cfr. le richiamate sentenze 541 e 20 del 1984 citate supra, note 45 e 49.
59 Tra le altre, cfr. le citate decisioni (Cass. n. 2113 del 1992, n. 8087 del 1998, n. 14887 del
2002), rispettivamente nelle note 46, 53 e 47.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
pretative, ma va accertato se lo stesso sia o meno conforme ai principi costituzionali. La decisione della Corte costituzionale non segue un’ispirazione univoca e non privilegia l’uno o l’altro degli indirizzi in contrasto,
ma riunisce ed assembla, shakerandole in un’unica motivazione, tutte le
esigenze presenti nello scenario del diritto. Da un lato, ammette i progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche
od ematologiche, consentono, con la massima certezza, di accertare la
esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione. Dall’altro, riconosce come i mutati costumi e l’evoluzione dei rapporti uomo-donna hanno determinato una notevole difficoltà pratica di fornire, per chi agisce
in disconoscimento, una piena prova dell’adulterio. Sottolinea inoltre
l’ontologica insufficienza di tale prova ad escludere la paternità (si pensi
alla inseminazione artificiale o alla vecchia ipotesi del diritto canonico
della mera depositio serminis ad os vaginae che evi tava il rapporto fisico). Non senza aggiungere, come elemento di contorno, una più vasta
legittimazione estesa ora anche alla madre e al figlio maggiorenne o
anche minorenne, con l’esclusione del solo genitore naturale60.
Senza volerlo dichiarare, la Corte costituzionale finisce, inesorabilmente, con l’emettere un forte segnale in favore della paternità biologica, che prevale su quella putativa, con il conseguente abbandono, in
definitiva, del favor legitimitatis ove non sia sorretto dalla paternità effettiva, essendo “l’identità biologica”61 un diritto fondamentale attinente allo status della persona, da tutelare.
2.3. L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO DI FAMIGLIA DOPO IL TERZO
INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULL’AZIONE DI
DISCONOSCIMENTO.
Il meccanismo si era già messo il moto con l’altro revirement operato
dalla Corte con la sentenza che ritenne necessaria l’introduzione di un
diverso dies a quo del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di
disconoscimento62 - originariamente di tre mesi nel 1942 e poi portato ad
60 Cfr. la ricordata decisione di Cass., sez., 6 aprile 1955, n. 4035 citata retro, alla nota
37.
61 Cfr. Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 in Corr. giur., 2006, 4, 497 con nota di Carbone,
Paternità naturale: incostituzionale la fase preliminare del giudizio.
62 In origine Corte cost., 1 aprile 1983, n. 64, in Foro it., 1982,1, 2127, con nota di Jannarelli, in Giust, civ., 1982, 1, 1143, in Giur. it., 1982, 949 ritenne infondata la questione
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AIAF QUADERNO 2008/1
un anno con la riforma del 1975 - con la precisazione sistematica che divenuta
irrilevante la prova dell’adulterio della moglie, il termine per l’azione di
disconoscimento decorreva non più dalla conoscenza dell’adulterio, ma dalla
notizia certa del diverso d.n.a. del figlio, e cioè dalla consapevolezza di
una paternità non biologica, ma meramente putativa e, quindi, non effettiva. Infine non va sottaciuto l’allargamento della legittimazione all’esercizio
dell’azione di disconoscimento, estesa anche alla madre con un diverso
termine (sei mesi) e un diverso dies a quo (la nascita del figlio, tranne il
caso di non conosciuta impotenza del marito)63, nonché ai figli maggiorenni e minorenni, con la perdurante esclusione del solo padre naturale64.
In tal modo, si viene a stabilire un collegamento tra la filiazione legittima e quella naturale, pur con tutte le innegabili differenze strutturali e
di tutela65, perché lo stesso ordinamento italiano non conosce limitazioni
probatorie66 in tema di impugnazione sia del riconoscimento del figlio
di costituzionalità dell’art. 244 c.c. nella parte in cui dispone che il termine per l’azione
di disconoscimento della paternità promossa dal marito decorra dalla nascita del figlio o
dalla notizia che egli ne ha e non dalla conoscenza dei fatti che rendono ammissibile
il disconoscimento. Con un vero e proprio revirement la Corte cost. richiamando ancora
una volta l’art 24, co. primo Cost., dichiara incostituzionale l’art. 244, co. 2, cc. nella
parte in cui non dispone, per il caso previsto dal n. 3 dell’art. 235 c.c., che il termine per
proporre l’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie. La sentenza 6 maggio 1985, n. 134, in Corr. giur., 1985,
7, 738, con nota di Carbone, Il padre può disconoscere il figlio da quando sa che non è suo,
in Foro it., 1985, 1, 2532 con nota di Amatucci, Disconoscimento per adulterio: effetti della
sentenza additiva della corte costituzionale, in Giust. civ., 1985,1, 2142, con nota di Finocchiaro, “Adelante, Pedro, con judicio”, ovvero: l’evoluzione della coscienza collettiva e
l’incostituzionalità dell’art. 244 c.c., in Giur, i t , 1985, 1, 1, 1153, con nota di De Cupis,
Adulterio e decor renza all’azione di disconoscimento della paternità.
63 La Corte cost. (con sentenza, 14 maggio 1999, n. 170, in Corr. giur., 1999, 9, 1097,
con nota di Carbone, Anche la madre può disconoscere il figlio da quando sa che il padre non
è il marito), ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 24 cost.,
l’art. 244, co. 2, c.c., nella parte in cui non prevede che il termine per l’azione di
disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza a generare, contemplata dal n. 2
dell’art. 235 cc., decorra per il marito e per la moglie, rispettivamente, dal giorno in cui
ciascuno dei coniugi sia venuto a conoscenza di tale circostanza.
64 Sull’interesse ad agire del padre biologico, anche se naturale, Cossu, Filiazione legittima e
naturale, in La famiglia, vol. III, Torino 2000, 218.
65 La situazione del figlio legittimo, il cui status può essere contestato dal padre entro termini di decadenza stante la presunzione di paternità, e la situazione del figlio riconosciuto, il cui status
è tutelato solo in considerazione della veridicità della filiazione, non sono tra loro comparabili;
pertanto, è infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., per violazione dell’ars. 3 cost. sollevata sotto il profilo che, mentre l’azione per l’impugnazione
della veridicità del riconoscimento del figlio naturale è imprescrittibile, invece l’azione di
disconoscimento del figlio legittimo deve essere proposta entro termini di decadenza”: cosi nel
1991, Corte cost., 18.4.1991, n. 158, in Giur. cost., 1991, 2422, con nota di Caterini,
Filiazione naturale e adozione nello “statuto dei diritti del minore”.
66 Anche il rifiuto di sottoporsi ad esami genetici può costituire elemento probatorio, Car-
172
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
naturale per difetto di veridicità, a norma dell’ars. 26367, sia della dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, a norma dell’art. 269, co. 2,
c.c., resa possibile anche per i figli incestuosi68.
Sia pure in ritardo e con l’opera faticosa della giurisprudenza, l’Italia si
avvicina agli altri paesi europei, quali Francia69, Germania70 e Svizzera71, dove l’azione di disconoscimento risulta incentrata sulla mancanza di legame
biologico tra il presunto padre ed il figlio che si intende disconoscere. Si è
anticipato il legislatore, cogliendo quella evoluzione del costume sociale e
armonizzando con i principi costituzionali l’istituto del disconoscimento di
paternità, intervenendo in modo significativo oltre che sulla disciplina della
decorrenza dei termini per proporre l’azione (art. 244 c.c.), anche sull’inutilità
della prova preventiva dell’adulterio “nascosto”72 o inutilmente ammesso.
bone, Rifiuto equivale ad ammissione? nota a Cass. 24 febbraio 1997 n. 1661, in Fam. e
dir. 1997, 105 ss.; Cass. 7 novembre 2001 n. 13766, ivi 2002, 127 con nota di Frassinetti,
Prova ematologia e tutela della riservatezza; Cass. 19 settembre 1997 n. 9307, ivi 1997,
505 ss. con nota di Gioia, La prova biologica della paternità naturale: la parola torna alla
Cassazione.
67 È stata, infatti ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, co.
2, cc., nella parte in cui ammette l’impugnativa del riconoscimento, anche dopo la legittimazione del figlio naturale, da parte di chiunque vi abbia interesse: Corte cost., 30 dicembre
1987, n. 625, in Giur. cost., 1987, 1, 3752; Quadri, Accertamento della filiazione interesse
del minore, in Fam. e dir. 2003, 97 ss.
68 Infatti, Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494, in Giur. it., 2004, 15, con nota di De Grazia,
I diritti dei « figli incestuosi» al vaglio della corte costituzionale - Osservazioni a margine della
sentenza n. 494/2002, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 278, co. I, c.c. nella
parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali
e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, co. 1, il riconoscimento dei figli
incestuosi è vietato. Rimanendo fermo il divieto di riconoscimento, l’art. 269, cc., deve
essere interpretato nel senso che la paternità e la maternità naturali possono essere dichiarate nelle ipotesi in cui il riconoscimento è ammesso, ma non nel senso reciproco: cioè anche
che il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la dichiarazione
giudiziale.
69 Il vigente art. 312 co. 2 c.c., Cod. Nap., legittima il padre che agisce in disconoscimento ad
addurre fatti idonei a dimostrare che egli non può essere il padre: “faits propres à démontrer
qu’il ne peut pas en être le père». E la giurisprudenza precisa che “la preuve de la non-paternité du
mari peut se faire par touts moyen: Cass. civ. 1re, 18 maggio 1989, in Gaz. Pal. 1990, 1,
91 con nota di Massip. Si tratta di «vérité biologique»: Hauser e Huet-Weiller, La famille,
in Ghestin, Traité de droit civil, 2 ed., cit., 329.
70 L’inesistenza della paternità o Nichtbestehen des Vaterschaft di cui al § 1599 des B.G.B. può
essere fatta valere nel termine di due anni che decorre dal momento in cui il padre “ha conoscenza delle circostanze che depongono contro la paternità”: Umstanden die gegen die
Vaterschaft sprechen”, § 1600-b, in Patti, Codice civile tedesco, Milano 2005, 989.
71 Dopo la modifica avvenuta nel 1976, l’art. 256 del cod. svizzero stabilisce che l’azione deve
essere accolta se si dimostra che il marito non è il padre. Per altri profili di diritto comparato,
Uccella, La filiazione nel diritto italiano e internazionale, Padova 2001, 57 ss.
72 L’espressione è di Vercellone, La filiazione cit., 72, e va condivisa poiché “l’adulterio è
fatto la cui conoscenza può essere preclusa per molto tempo”. Si pensi alla giurisprudenza
173
AIAF QUADERNO 2008/1
Con questa decisione si è rimossa quella ambiguità di fondo, quella
sorta di inerzia culturale di fronte al fatto nuovo di tecniche e risultati
scientifici di assoluto rilievo, relativi alle prove sull’incompatibilità genetica che danno indiscussa certezza di poter escludere la paternità al dì là
di presunzioni, ricostruzioni o indizi di vario genere: le più sofisticate ricerche scientifiche tra prove ematologiche e prove genetiche (doppia elica
del d.n.a.) che hanno stravolto il precedente sistema probatorio, - tanto
da trovare accoglimento nel testo dell’art. 235 c.c. - facendo della ricerca
della paternità biologica il punto d’arrivo di un ordinamento civile che
non deve far più ricorso a padri putativi73. Tirando le fila del discorso si
deve riconoscere l’evoluzione dell’azione di disconoscimento di paternità,
nata come azione di accertamento negativo dello status di figlio legittimo,
e oggi costruita come azione avente natura costitutiva, diretta a rendere
inoperante la presunzione di paternità ex art. 231 c.c. nei confronti di un
figlio nato vivo74, in base ad un rapporto della moglie con un terzo. In tal
modo si viene a produrre una nuova situazione giuridica familiare sulla
base dell’effettiva paternità biologica, diversa da quella precedente a seguito della retroattiva eliminazione dello status di figlio legittimo. Cade
la necessità della prova preliminare dell’adulterio della donna rispetto
all’accertata incompatibilità genetica, cade l’indirizzo giurisprudenziale
minoritario che, in una prospettiva del tutto antistorica, continuava a privilegiare l’apparenza di “famiglia legittima”, ritenendo che per un figlio,
concepito da una donna coniugata con un uomo diverso dal padre, sia
preferibile “apparire” figlio legittimo, ma putativo del marito, anziché acquisire il vero status di figlio nato al di fuori del matrimonio. Si prende
atto delle incisive modifiche apportate dai mutamenti del costume alla
vita familiare, recepite in parte dal modificato sistema normativo, ed in
parte anticipate dall’interpretazione del giudice di legittimità75 o dagli interventi della stessa Corte costituzionale.
americana sul caso Baby J, Carbone, Il caso Baby J, in Fam. e dir. 1997, 405 ss.
73 Tutto comincia nel 1900 quando Landsteiner scoprì che le proprietà agglutinanti del sangue non sono uguali per tutti gli individui. Si aprì la strada alla compatibilità dei gruppi
sanguigni tra padre figlio (A, B, O), fino alla scoperta del fattore Rh (dalla scimmia Rhesus)
raggiungendo un approfondita e sicura conoscenza dei gruppi sanguigni.
74 Sesta, Sul disconoscimento di paternità del figlio nato morto, in Giur. it. 1975,1,2, 283.
75 Si richiamano le decisioni delle sezioni unite che hanno distinto tra rapporti patrimoniali e
personali: Cass. sez. un. 3 dicembre 2001 n. 15248 e 4 dicembre 2001 n. 15279, in Corr.
giur. 2002, 1, 25 con nota di Carbone, Separazioni e divorzi più rapidi: i rapporti personali non
sono più condizionabili da quelli patrimoniali.
174
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Il test del d.n.a. prova non soltanto le conseguenze “fattuali”, ma anche
l’adulterio. Di fronte ad un tessuto normativo in forte evoluzione, connotato da successivi e ripetuti interventi nonché da continui rattoppi da
parte del giudice di legittimità costituzionale delle leggi, non vi dovrebbero essere più dubbi sull’opzione interpretativa da adottare. La norma
dichiarata incostituzionale (art. 235, co. 1 n. 3) non distingueva tra due
distinte aree fenomeniche: da un lato l’adulterio della moglie e, dall’altro, il difetto di paternità del figlio, “eventuale conseguenza fattuale del rapporto adulterino”. A differenza dell’impossibilità di coabitazione
fisica e dell’impotenza - che danno certezza del fatto e inequivocità delle
conseguenze - l’adulterio si muoveva su un terreno più incerto e insicuro, potendo ben coesistere un rapporto adulterino - del tutto platonico, o
così ben gestito, da evitare concepimenti indesiderati o, come diceva la
Cassazione, che non dava luogo ad ulteriori conseguenze “fattuali” - con
la nascita di un figlio legittimo, frutto di un sicuro rapporto con il marito.
Partendo dalla premessa che non tutti i rapporti adulterini danno luogo
a nascite indesiderate, il legislatore del 1975 si era dato carico, per questa
fattispecie, di richiedere, prima, una prova dell’adulterio, come causa possibile
ma non decisiva, e poi, nel solo caso di esito positivo, di procedere alla prova
decisiva sull’effetto: “in tali casi il marito è ammesso a provare che il figlio
presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili
con quelle del presunto padre”.
Quest’ulteriore prova ha finito con lo stravolgere il precedente sistema,
in tema di disconoscimento di paternità, ove l’adulterio non rilevava quale
violazione del dovere di fedeltà, così come avviene nell’ambito dei rapporti
orizzontali marito-moglie, la cui prova potrebbe dar luogo alla separazione giudiziale per intollerabile prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.),
ma interferiva nei rapporti verticali genitore-figlio quale possibile causa del
concepimento e della nascita di un figlio che presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre.
Il testo normativo, dopo la correzione di rotta ad opera dei giudici costituzionali, focalizza tutto il suo interesse, trattandosi di disconoscimento di paternità e non di separazione dei coniugi, sulla nascita di un figlio dalle
caratteristiche genetiche incompatibili, come conseguenza dell’adulterio. Di qui l’immediata rilevanza e la doverosa ammissibilità della prova genetica, ma anche l’aggancio solo a tale conoscenza del dies a quo della decadenza. Infatti, solo di fronte a tale prova il marito o gli altri legittimati sanno,
con assoluta certezza, che il figlio nato durante il matrimonio non è
175
AIAF QUADERNO 2008/1
frutto della coppia coniugale, in quanto anche il più vissuto degli adulteri
potrebbe non avere avuto effetti indesiderati, con la conseguenza che la sua
prova non è funzionale al disconoscimento, ma ad altri rimedi per una
coppia in crisi evidente.
L’errore del precedente indirizzo metodologico era di porre sullo stesso piano “causa” (adulterio) ed “effetti” (nascita di un figlio geneticamente
incompatibile). Infatti, la giurisprudenza correttamente escludeva che “la
prova dell’adulterio della moglie implichi perciò stesso anche quella del difetto di paternità del coniuge” in quanto il rapporto adulterino può dare,
ma può anche non dare luogo ad un eventuale concepimento. Tuttavia
confondeva, sul piano metodologico, causa con effetti, bloccando ogni prova sull’eventuale “causa” senza considerare che la prova dell’effetto è anche
prova della “causa”, perché - ripetesi - a differenza delle altre fattispecie
di disconoscimento, l’adulterio non ha sempre gli stessi effetti, potendo, come per lo più accade, non dar luogo al concepimento di un figlio. Siffatte considerazioni si possono così sintetizzare: posto che un figlio non si fa
per partenogenesi o senza fecondazione, va rilevato che se è vero che non
sempre la presenza della causa (adulterio) dà certezza della produzione
dell’effetto (concepimento), non è meno vero che la prova inequivocabile dell’effetto contiene irrefutabilmente anche quella della causa. In altri
termini, se dimostro “l’effetto” che il figlio è incompatibile geneticamente
con il marito della donna che l’ha partorito - in assenza di ipotesi di inseminazione artificiale - ho inequivocabilmente dimostrato che il figlio non
è stato concepito dalla madre con il marito e quindi anche la possibile
“causa”, cioè l’adulterio della donna.
La certezza della paternità biologica e l’evoluzione non sempre sistematica76 del diritto di famiglia, rende inutile un padre putativo, quando è
ormai scientificamente provato che il genitore che ha conferito il 50%
dei cromosomi, cioè l’identità biologica, il patrimonio genetico77, è un altro! Sembra di essere ritornati nella favola de “I vestiti dell’imperatore”
e di poter, nella meraviglia generale, ancora una volta affermare che “il re è
nudo” e che la prova genetica e/o ematologia è da sola sufficiente a fondare il
disconoscimento della paternità, senza doversi addentrare nell’atmosfera
kafkiana di un eventuale, ma inutile, adulterio.
76 Cfr. Carbone, Relazione introduttiva, in Fam. e dir. 2006, 353 ss.
77 Sulla tutela del patrimonio genetico, Cortesi, Il diritto del minore a conoscere il proprio patrimonio genetico, in Fam e dir. 2003, 507 ss.
176
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
III
CONFLITTI TRA GENITORI SUL COGNOME DA ATTRIBUIRE SIA AL
FIGLIO LEGITTIMO CHE A QUELLO NATURALE.
3.1. LA DISTINZIONE SULLE REGOLE RELATIVE ALL’ATTRIBUZIONE DEL
COGNOME DEL FIGLIO, SIA NELLA FILIAZIONE LEGITTIMA CHE IN
QUELLA NATURALE.
Non cessano, anzi si accrescono i contrasti e le controversie giudiziarie tra genitori legittimi o naturali e tra questi e le numerose, ma
incomplete, regole sul cognome del minore legittimo o naturale, in un contesto sociale, economico e di costume profondamente diverso da quello in cui
era maturata, alla fine degli anni trenta del secolo scorso, la disciplina della
famiglia nel macrosistema civilistico, perché i mutati costumi e le nuove
esigenze dei componenti la famiglia, ormai da tempo, non si ispirano
più al modello patriarcale, dando spazio all’emergere di individualismi
prima sconosciuti, con l’inevitabile insorgere di dolorosi conflitti, sia dal
lato materno, che da quello paterno sul cognome del minore. Per anni
si era pensato che la famiglia fosse come una rocca che si erge sul mare del
diritto che si limita a lambirla, ma così non è più, perché la rocca, cioè la
famiglia, con i suoi componenti, si è in parte disgregata, e i suoi membri
perseguono interessi più personalistici che di gruppo. Sono, infatti, mutate le regole della consuetudine e dei comportamenti interindividuali,
mentre l’ordinamento è in notevole ritardo nell’aggiornarsi78, che, spesso,
fa in modo asistematico e incompleto79. Da anni, e già prima dell’introduzione del divorzio nel 1970, si sosteneva80 la necessità di riformare il primo
libro del codice, ispirato a principi regolatori diversi rispetto a quelli contenuti
negli artt. 29 e 30 cost., ma la riforma del 1975 intervenne in ritardo e in
modo inadeguato, quando la donna si era già inserita autonomamente
nel mondo del lavoro, e i coniugi avevano seguito la consuetudine della comunione volontaria degli utili e degli acquisti (Zugewinngemeinsha ), recepita dalla riforma del 1975, come comunione legale dei soli acquisti, imposta
78 Pocar, Ronfani, La famiglia e il diritto, Roma-Bari 200, 31.
79 Sull’asistematicità delle recenti riforme in tema di diritto di famiglia, cfr. Carbone, Relazione
introduttiva, cit.
80 Giorgianni, Relazione sulla Riforma del codice civile (d.d.l. 10 ottobre 1963 n. 557), in La
riforma del codice civile, Roma 1966, 18 ss.
177
AIAF QUADERNO 2008/1
retroattivamente alle coppie già sposate e mantenuta in vita dall’ordinamento, anche quando il rapporto di coppia è in crisi o è in corso di
dissoluzione, sicché non esistono più obblighi di fedeltà o di aiuto reciproco tra gli ex coniugi, ma solo i problemi economici della permanenza
della comunione legale.
In verità, il pendolo oscilla tra la previsione normativa che vorrebbe privilegiare il gruppo, cioè la famiglia, nella quale si dovrebbero stemperare
le posizioni dei singoli nel perseguimento e nell’attuazione di un interesse
superiore - anche se non pubblico come riteneva Cicu nei primi anni del
secolo, che fanno parte dello status familiare (gens, tribù, Grossfamilie,
e ora famiglia mononucleare, famiglia di fatto etc.) - e l’interesse sempre più rilevante dell’individuo, riconoscendogli uno status soggettivo da tutelare, sotto il profilo dell’intollerabilità, anche se in contrasto con
quello familiare, mettendo in soffitta i vecchi concetti di rinuncia, di sacrificio,
di sopportazione, privilegiando, invece, le posizioni e le intolleranze del
“single” (uomo o donna) rispetto alla coppia o alla famiglia.
In questo contesto, non sono mancati dubbi sulla correttezza costituzionale di un principio regolatore - la rilevanza esclusiva del cognome paterno - che innerva la normativa italiana, non tanto in base a specifiche
disposizioni, ma alla stregua di una consuetudine radicata da secoli nel
nostro Paese, che mostra i segni d’insofferenza per un costume rimasto ormai solo italiano e già oggetto di proposte di legge, tese a dare spazio e
rilievo, anche anagrafico, alla maternità. Recenti sentenze dei giudici di
legittimità costituiscono una indiscutibile testimonianza del clima di nuove
esigenze, di tensioni, di attese, di richieste di cambiamenti, di tentativi
di riforme normative, presentate sia nella XIII81 che nella XIV82 legisla81 Nella XIII legislatura si ritrovano le stesse linee guida dei progetti ripresentati nella legislazione successiva. Tra i tanti si ricorda il d.d.l./Se nato (Manieri) del 9 maggio 1996 e (Salvato)
del 25 febbraio 1997 favorevoli ad attribuire ai coniugi la scelta del cognome del figlio; la
p.d.l./Camera (Scalia) del 9 maggio 1996 che prevede, per il figlio legittimo, il cognome del
padre o della madre o di entrambi nell’ordine determinato di accordo o, in mancanza, in ordine
alfabetico compiuti i diciotto anni, il figlio con doppio cognome, comunica quale intende
adottare; la p.d.l./Camera (Pisapia) che anticipa quella n. 410 del 1 giugno 2001, optando
decisamente per il solo cognome materno; il p.d.l./Camera (Scoca) e il d.d.l./Senato (Siliquini) del 16 gennaio 1997 analoghi a d.d.l. n. 415/Senato (Consolo) del 9 luglio 2001; il d.d.l.,
(Matranga) del 24 marzo 2000 favorevole alla scelta del cognome del padre o della madre o di
entrambi determinato di accordo, al momento del matrimonio.
82 Nella XIV legislatura vanno ricordati il d.d.l., n 1739/Senato (Semeraro e altri) del 26 settembre 2002; il d.d.l. n. 1454/Senato (Franco e altri) del 30 maggio 2002; il d.d.l. n. 415/Senato
(Consolo) del 9 luglio 2001.
Alla Camera la p.d.l. n. 794/Camera (Bellilo e altri) del 13 giugno 2001; la p.d.l. n. 410/
Camera (Pisapia) del 1 giugno 201; la p.d l. n. 309 Camera (Mazzucca) del 30 maggio 2001;
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
tura, con il richiamo a modelli stranieri, rimasti finora senz’esito, ma costituiscono, altresì, prese di posizioni giurisprudenziali dirette a superare le
richieste, sia della madre - che vorrebbe, d’accordo con il marito, attribuire al
figlio legittimo il cognome materno al posto di quello paterno, sia del padre
- che, riconoscendo tardivamente il figlio naturale, vuole sostituire il cognome
paterno a quello materno, già attribuito - al fine di salvaguardare anche le
posi zioni relazionali del minore e soprattutto la sua identità personale.
In realtà, non esiste nel nostro ordinamento civilistico una specifica disposizione diretta ad attribuire ai figli il cognome paterno. Il diritto al nome,
indicato nell’art. 22 cost. come un bene da proteggere, è oggetto di autonomo
e insopprimibile diritto della persona con la specifica funzione di delineare
l’identità del soggetto nella sua dimensione individuale e nella sua proiezione esterna. Trattasi di un dato, da tempo acquisito nella giurisprudenza
e nella dottrina e corroborato dalle decisioni della Corte costituzionale83,
che ha affermato il diritto di ogni persona a conservare il cognome che sia
divenuto autonomo segno distintivo della sua identità, così mantenendo attraverso il cognome l’identità fino ad allora posseduta, anche quando siano sopravvenuti eventi tali da comportare il cambiamento di quel
cognome.
Inoltre va ricordato che la Convenzione sull’eliminazione di tutte
le forme di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New
York il 18 dicembre 1979 e ratificata in Italia con l. 14 marzo 1985, n.
132, all’art. 16, lett. g) ha impegnato gli Stati aderenti ad adottare tutte
la p.d.l. n. 202/Camera (Cima e altri) del 30 maggio 2001 tutte relative al cognome del figlio legittimo mutuato dal padre o dalla madre o da entrambi secondo i più svariati criteri.
83 Secondo Corte cost., 11 maggio 2001, n 120, in Foro it., 2002, I, 646, can nota di Raparelli è incostituzionale l’art 299, co. 2, c c., nella parte in cui non prevede, che qualora sia figlio naturale
non riconosciuto da entrambi i genitori, l’adottato possa aggiungere al cognome dell’adottante
anche quello attribuitogli originariamente. Per Corte cost. 23 luglio 1996, n 297, in Fam. e dir.
1996, 412, con nota di Carbone, La conservazione del vecchio cognome come diritto all’identità
personale, è incostituzionale l’art 262 c.c., nella parte in cui non prevede che il figlio naturale,
nell’assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il
riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo,
il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome
sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale. Infine Corte cost. 3
febbraio 1994, n. 13 in Giust.civ., 1994 I, 2435, con nota di Bonamore, il diritto al nome,
patrimonio irretrattabile della persona umana e segno distintivo della personalità ha dichiarato illegittimo, per violazione dell’art. 2 cost., l’art. 165 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella
parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per
ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il
soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo sia ormai da ritenersi autonomo segno distintivo
dell’identità personale.
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AIAF QUADERNO 2008/1
le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della
donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta
del cognome. Inoltre, con le raccomandazioni n. 1271/1995 e n. 1362/1998 il
Consiglio d’Europa ha affermato che il mantenimento di previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di famiglia non è compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, per cui ha raccomandato agli Stati inadempienti di realizzare la
piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei
loro figli, di assicurare la piena eguaglianza in occasione del matrimonio
in relazione alla scelta del cognome comune ai due partner, di eliminare
ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del cognome tra figli nati nel e fuori dal matrimonio.
Esaminando congiuntamente entrambe le decisioni si evince con
chiarezza il diverso modus operandi del cognome da attribuire al minore
nella filiazione legittima e in quella naturale. Nel primo caso si discute
di fonti legali, o ritenute tali (consuetudine, norma di sistema), mentre in
tema di figlio naturale si tratta non di fonti legali, ma di fonti volontarie,
in quanto l’acquisto del cognome paterno avviene mediante il riconoscimento di entrambi i genitori naturali, o di uno solo, per lo più la madre, o con
un susseguente matrimonio e legittimazione dei figli già nati. Costituisce
altresì fonte giudiziale la sentenza che contiene la dichiarazione giudiziale
di paternità o di maternità naturale. Tenuto conto della innegabile diversità della fonte, nasce e si sviluppa l’attuale doppio sistema; immutabilità
del cognome paterno per i figli legittimi; possibilità, per i figli nati fuori dal
matrimonio, di conservare o di riutilizzare il cognome precedente al riconoscimento o alla legittimazione, come segno distintivo della propria
identità personale.
Nella prima decisione (Cass. civ., 14 luglio 2006 n. 16093), si dà atto
dell’inutile ricorso, da parte dei giudici di legittimità, alla questione di
costituzionalità per superare l’attuale impossibilità di acquistare, da parte
del figlio legittimo, anche o solo il cognome materno, nonostante il consenso di entrambi i genitori, e si constata il rifiuto della Corte costituzionale di intervenire sul problema, motivato con l’impossibilità di effettuare un’operazione manipolativa, stante la rilevata effettiva sussistenza di
una “norma di sistema”, anche se non esplicita, ma con una pluralità di
sfaccettature, attributiva del cognome paterno al figlio legittimo, retag180
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
gio di una concezione patriarcale della famiglia, e non in sintonia con le
fonti sopranazionali. Il codice civile, nell’art. 6, afferma che ogni persona
ha diritto al nome - nelle sue componenti del prenome e del cognome - “attribuito per legge”. Il nome è il segno legale distintivo della persona 84
ed a tale funzione adempiono i predetti componenti: il cognome (c.d.
nomen familiae) che designa l’appartenenza ad una determinata famiglia, ed
il prenome (cd. praenomen) che completa tale designazione nell’ambito familiare85. Il terzo comma dell’art. 6 c.c. sancisce il divieto di cambiare,
aggiungere o rettificare il nome al di fuori dei casi previsti espressamente
dall’ordinamento. Al contrario, nel periodo romano era possibile modificare86 la propria denominazione personale, anche se il fatto era abbastanza inusuale; inoltre, veniva punito chi si fosse attribuito un falso nomen o
cognomen allo scopo di realizzare illeciti guadagni87 e si rilevava che mentre i nomi delle cose non sono mutabili (rerum enim vocabula immutabilia
sunt), al contrario quelli degli uomini lo sono (hominum mutabilia)88. La libertà
di mutamento del nome continuò in diritto comune fino alla formazione
dello Stato moderno ed ebbe termine con l’instaurarsi dei rapporti tra
Stato e cittadini, o meglio tra Stato e sudditi. L’interesse pubblico connesso all’immodificabilità del cognome89 non mancò di rivelarsi come un
aspetto imprescindibile del potere della sovranità territoriale (leva militare, tasse, controllo penale). Sintomatico il decreto emesso dalla Convenzione nazionale francese del 23 agosto 1794 con il quale la Francia
84 Cinti, Segni distintivi della persona e segni distintivi della personalità, Milano 1994, 27.
85 La distinzione tra prenome e cognome è ben radicata nella giurisprudenza di legittimità: Cass.
1° febbraio 1962 n. 201, in Giust. civ. 1962, 1, 659.
86 La dottrina è vasta cfr: Lenti, Nome e cognome, in Dig. Disc. Priv., Sez, civ, vol. XII.
Torino. 1995, 136 ss.; De Cupis, Nome e cognome, in Novis Dig. lt., Torino, 1965,
vol. XI, 299. Tamburrino, Le persone fisiche, Torino, 1990, 99 ss. Gli aspetti pubblicistici del
diritto al nome sono sottolineati da Azzariti, Martinez, Azzariti, Diritto c i v i l e i t a l i a n o ,
v o l , I , P a dova, 1943, 229 ss. e ripresi da Nuzzo, Nome (dir. vig.), in Enc. Dir, vol. XXVIII,
Milano, 1978, 304. Sul punto già Scialoja, Studi giuridici vol. III, Roma,1932, 56, che ricorda
il seguente passo del Codex lustinianus (9, 25): mutare itaque nomen, vel praenomen, sive
cognomen, sine aliqua frode, licito iure...
87 Si ritiene applicabile alle false attribuzioni di nome, ai fini dl un acquisto patrimoniale a
titolo successorio, la lex Cornelia de falsis: dell’81 A.C.: Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 1992, 306.
88 Cicerone, De invenzione, I, 24, nonché D. 30. 4. Cfr. Spagnesi, Nome (storia), in
Enc. Dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, 290 ss.
89 Sulla base della concezione pubblicistica del nome quale mezzo di identificazione di
una persona fisica nell’interesse generale, non è mancato chi ha negato l’esistenza di un
diritto al nome, Macioce, Profili del diritto al nome, Padova, 1984, 78; Schwarzemberg,
Il nome della famiglia ed il principio di certezza, in Dir. fam. 1988, 674 ss.
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AIAF QUADERNO 2008/1
rivoluzionaria90, al fine di prevenire mimetizzazioni da parte dei nobili,
con la possibilità di sfuggire alle conseguenze del nuovo corso, vietò di
portare nomi diversi da quelli d’origine91.
Nella filiazione legittima l’acquisto, a titolo originario92, del cognome paterno (c.d. nomen familiae)93 oltre ad essere un sicuro elemento di
riconoscimento dell’appartenenza del figlio ad un determinato gruppo
familiare, dopo che il padre lo aveva sollevato da terra (“tollere liberos”),
costituisce una conseguenza legale del rapporto di filiazione legittima94,
in base ad una regola non scritta, ma insita nel sistema95, di certezza “nella ricerca del padre”96. Ne consegue che, in tema di filiazione legittima, si
trovano risposte non tanto sul piano della tecnica codicistica, quanto su
quello dei valori alla base della cultura del popolo su cui si è innervato
l’ordinamento giuridico97. L’attuale nostro ordinamento, in tema di cognome del figlio legittimo, costituisce il retaggio di un’antica tradizione
giuridica che affonda le radici nel diritto di famiglia romanistico, basato
sull’agnatio, vale a dire su un sistema di rapporti personali, familiari e successori al centro dei quali stava il pater familias, principale soggetto di diritti, frutto di una secolare consuetudine, improntata su un ordine patriarcale
discriminante nei confronti delle donne. Al figlio legittimo il cognome paterno è attribuito jure sanguinis, al momento della nascita, onde “rendere,
anche formalmente, palese l’unità della famiglia legittima”98 sia pure in
90 Il decreto è citato come 6 fruttidoro, in Caruso, Il “nom d’usage”: una riforma a metà?, in
Riv.dir. civ., 1988, 59.
91 Salveton, Le nom en droit roman et en droit roman et en droit français, Lyon, 1887, 6.
92 Alpa e Ansaldo, Le persone fisiche, in Comm. Schlesinger, Milano 1996, 279.
93 Spagnesi, Nome (storia), cit. 290; De Sanctis Ricciardone, Nome civile, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1990, vol. XXI.
94 L’impostazione tradizionale è in De Cupis, I diritti della personalità, in Tratt. Cicu Messineo, Vol.
IV Milano, 1982, 3, 37; Macioce, Profili del diritto al nome civile e commerciale, cit., 78 ss.
95 In senso critico, De Cicco, La normativa sul cognome e l’eguaglianza tra i genitori, in Rass.
dir.civ. 1985, 960 ss. Prosperi, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e la trasmissione del cognome ai figli, ivi 1986, 841 ss.; Paradiso, I rapporti personali tra coniugi (artt.
143-148 c.c.), in Comm. Schlesinger, Milano 1990, 116. Per l’impostazione tradizionale De
Scrilli, Il cognome del figlio, in Trattato di diritto di famiglia, a cura di Zatti, vol. II, Filiazione, Milano, 2002, 471 ss.
96 Lenzen, Alla ricerca del padre. Dal patriarcato agli alimenti Roma-Bari 1994, 45 ss.
97 Il riferimento non concerne solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, Heinrich, Il diritto di
famiglia nel quarto libro del B.G.B. e nelle riforme del XX secolo, in I cento anni del codice
civile tedesco, Padova 2002, 541 ss.; Jayme, Cognome e diritto di famiglia nella recente
riforma tedesca (con spunti di diritto comparato), in Riv. dir. civ. 1995, 1, 73 ss.
98 È la tesi di Carrara, Comm. alla riforma del diritto di famiglia, Padova 1987, 686 s. Per
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
mancanza di una disposizione espressa come quella contenuta nel § 1616
del B.G.B., che prima della riforma del 1994 affermava che il figlio “riceve
il nome di famiglia del padre”.
In un contesto del tutto diverso, relativo alle regole sul cognome dei figli
nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre immediatamente
o comunque contemporaneamente alla madre, va inserita la seconda decisione, in tema di riconoscimento di figlio naturale (Cass. 26 maggio 2006
n. 12641). Qui non vale più la regola inespressa, sancita per il figlio legittimo, ma un sistema diverso regolato dall’art. 262, co. 1 c.c. che stabilisce, in
caso di riconoscimento unilaterale, che il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. La disposizione regola
anche l’ipotesi di doppio riconoscimento, precisando che, se questo è congiunto, il figlio assume il cognome del padre, se invece il riconoscimento
o la dichiarazione giudiziale di paternità sono avvenuti in tempi diversi,
il figlio naturale può assumere il cognome del padre, aggiungendolo o
sostituendolo a quello materno. Con la precisazione che è esclusa l’automatica imposizione del cognome paterno, riconoscendosi al cognome già
acquisito dal figlio, anche se non conforme al rapporto di filiazione, una
propria autonoma tutela, quale segno distintivo dell’identità personale
fino ad allora da lui posseduta nell’ambiente in cui vive99. In consonanza con questo indirizzo va ricordata la dichiarazione d’incostituzionalità
dell’art. 262 c.c., nella parte in cui non prevedeva che il figlio naturale,
nell’assumere il cognome del genitore che lo aveva riconosciuto, potesse
ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente
attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome fosse divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale100.
una più moderna valutazione, Sesta, Diritto di famiglia cit., 440 ss. Sul nuovo ordinamento
dello stato civile, Musio e Naddeo, Commento al d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396 (a cura di
Stanzione), Milano 2001, 163 ss. Sui rapporti tra fatto biologico e atto di nascita, Uccella,
La filiazione nel diritto italiano e internazionale, cit., 32 ss.
99 È questo Il principio di diritto sancito da Cass. 27 aprile 2001 n. 6098, in Fam. e dir. 2001,
266 con nota di Carbone, Figlio naturale tra cognome materno (riconoscimento) e paterno
(legittimazione giudiziale), in Famiglia 2003, 889, con nota di Cassano, Automaticità della
trasmissione del cognome versus identità personale.
100 In questi sensi la ricordata decisione della Corte Cost. 23 luglio 1996 n. 297, in Fam. e
dir. 2001, 266 con nota di Carbone, La conservazione del vecchio cognome come diritto
all’identità personale. Cfr pure De Filippis, Trattato breve di diritto di famiglia Padova,
2002, 949.
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3.2. OCCORRE UNA LEGGE PER ATTRIBUIRE AL FIGLIO LEGITTIMO IL
COGNOME DELLA MADRE.
La prima decisione (Cass., civ, 14 luglio 2006 n. 16093) rappresenta il
punto di arrivo di un tortuoso percorso giudiziario, iniziato da due coniugi che, al momento della dichiarazione di nascita, esprimono all’Ufficiale
di stato civile la concorde volontà, non raccolta nell’atto di nascita, di imporre il cognome materno in luogo di quello paterno alla figlia minore,
appena nata. Impugnano il rifiuto dell’Ufficiale di stato civile, chiedendo al Tribunale di Milano la rettificazione dell’atto di nascita del minore.
Di fronte al rigetto della domanda diretta ad ottenere il cambiamento del
cognome paterno in quello materno impugnano la sentenza, ma la Corte
di Milano respinge l’appello, ritenendo irrilevante l’accordo dei coniugi.
Ricorrono per cassazione i coniugi, sostenendo che la Corte di merito - nel
ritenere l’esistenza di una consuetudine circa l’attribuzione al figlio legittimo del cognome paterno - avrebbe disatteso numerosi precetti costituzionali e norme convenzionali sovranazionali. Con ordinanza interlocutoria
del 17 luglio 2004, n. 13298101 i giudici di legittimità, ritenuto che l’attribuzione al figlio del cognome paterno sia espressione di una norma desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una serie dì disposizioni
regolatrici di fattispecie diverse, condividono i rilievi di incostituzionalità,
non preclusi dalle precedenti pronunzie in materia del giudice delle leggi
(11 febbraio 1988 n. 176 e 5 maggio 1988, n. 516102) e dichiarano rilevante
e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 143 bis, 236, 237, co. 2, 262, 299, co. 3, c.c., artt. 33 e 34 d.p.r. 3
novembre 2000 n. 396, nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo
acquisti automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito una diversa comune volontà dei coniugi, legittimamente manifestata,
per contrasto con gli arti. 2, 3 e 29, co. 2, cost.
Com’era prevedibile la Corte costituzionale, in relazione al circoscrit101 L’ordinanza è pubblicata in Corr.giur., 2004, 457 con nota di Carbone, Quale futuro per il
cognome?
102 Secondo Corte cost, 11 febbraio 1988, n. 176, in Foro it., 1988, 1, 1811, con nota di Caruso, posto che oggetto del diritto dell’individuo all’identità personale non è la scelta del
nome, bensì il nome acquisito per estensione legale che meglio tutela l’interesse alla conservazione dell’unità familiare, è manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 73 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedono
la facoltà dei genitori di determinare anche il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo
mediante l’imposizione di entrambi i loro cognomi, né il diritto di quest’ultimo di assumere
anche il cognome materno, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 cost.
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
to petitum dell’ordinanza di rinvio, limitato alla richiesta di esclusione
dell’automatismo della attribuzione al figlio del cognome paterno, nella
sola ipotesi di manifesta concorde volontà dei coniugi, consapevole delle
enormi ripercussioni del problema, ha escluso ogni interpretazione additiva o manipolativa, affermando con sentenza 16 febbraio 2006 n. 61103
l’inammissibilità della sollevata questione di costituzionalità sul rilievo,
determinante, che “l’intervento che si invoca richiede un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”.
Il rispetto dell’autonomia dei coniugi e la conciliazione dei due principi sanciti dall’art. 29 cost. richiede un intervento normativo, anche per la
pluralità delle soluzioni adottabili, che appartiene alla esclusiva competenza del conditor iuris. Infatti, il sollevato problema coinvolge tutta una
serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome
esclusivamente alla concorde volontà dei coniugi - con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello Stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo - all’altra di stabilire se il raggiunto consenso
dei coniugi di derogare alla regola, pur sempre valida, debba avvenire
una sola volta con effetti, come nel modello spagnolo, per tutti i figli della coppia, ovvero debba essere espressa all’atto di nascita di ciascuno di
essi. Non si tratta, quindi, di un’unica ipotesi di reductio ad legitimitatem,
in presenza della quale si possono effettuare interventi di tipo additivo o
manipolativo. Ciò comporta la rilevata effettiva sussistenza di una norma di sistema, anche se non esplicita, attributiva del cognome paterno
al figlio legittimo, retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e
non in sintonia con le fonti sovranazionali che impongono agli Stati membri l’adozione di misure adeguate onde eliminare le discriminazioni di
trattamento, anche anagrafico, nei confronti della donna, norma che può
essere ridisegnata, solo dal legislatore. Ancora una volta il diritto segue
con affanno il mutato costume, come la tartaruga il piè veloce Achille. Da
un insieme di pur eterogenee previsioni si desume l’immanenza di una
norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è
pur sempre presente nel sistema e lo completa, della cui vigenza e forza
imperativa i giudici costituzionali non hanno ritenuto di poter dubitare.
Sulla base di tale usanza consolidata nel tempo, il cognome del figlio legittimo non si trasmette dal padre al figlio, ma si estende ipso iure da quel-
103 La sentenza è in Foro it. 2006,1,1673, con osservazioni di Casaburi.
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lo a questo. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità104 ha anche precisato
che il cognome, acquistato ex lege con la nascita, non può accrescersi o
modificarsi in base agli istituti dell’usucapione o dell’immemorabile, in
quanto esclusivi dei diritti reali. Infatti, oggetto del diritto dell’individuo
all’identità personale non è la scelta del nome, bensì il nome acquisito per
estensione legale che meglio tutela l’interesse alla conservazione dell’unità
familiare, per cui non è prevista la facoltà dei genitori di determinare il
cognome da attribuire al proprio figlio legittimo, mediante l’imposizione
di entrambi i loro cognomi, né il diritto di quest’ultimo di assumere anche il
cognome materno e per la madre la facoltà di trasmettere ai figli legittimi
il proprio cognome. La via più seguita, nei casi di cognomi divenuti noti
per la presenza di personaggi di rilievo storico, culturale, imprenditoriale legati alla linea di ascendenza materna, che concorre ad attribuire un
profilo più autentico dell’identità personale e familiare, è quella di utilizzare lo strumento sempre più diffuso del ricorso al Capo dello Stato.
Come appare evidente si tratta di un’aspettativa che si può configurare
come mero interesse legittimo, e non come diritto soggettivo dell’interessato a ricorrere al giudice ordinario per ottenere l’agognata assunzione
anche del cognome di ascendenza materna. La giurisprudenza amministrativa105 ha avuto modo di precisare che il procedimento amministrativo
per la modifica del cognome è unitario e dà luogo ad un unico provvedimento finale a carattere discrezionale. L’atto ministeriale che consente
l’attivazione del procedimento ha mera natura endoprocedimentale e non
provvedimentale, per cui è del tutto legittimo il successivo provvedimento ministeriale che, previo parere del Consiglio di Stato, rigetti l’istanza di
modifica dell’ordine dei cognomi, di cui il primo presente dalla nascita ed
il secondo aggiunto con decreto presidenziale, in quanto la sequenza dei
cognomi è tassativamente disposta dalla legge.
Uno sguardo di diritto comparato nei paesi mitteleuropei più vicini
104 Cass. 19 agosto 1996 n. 7618, in Giust. civ. 1997, 1, 3175 con nota di Cimenti, L’intervento
della Suprema Corte in ordine al cognome del figlio naturale riconosciuto dai propri genitori
naturali e successivamente adottato ex art. 44, lett. b), l. 4 maggio 1983 n. 184. Sul punto
Manera, ancora sul cognome dei minori riconosciuti da un solo genitore naturale e poi
adottato con adozione in casi particolari in Giur. merito 1993, 46.
105 Tar Lazio 16 dicembre 1988 n. 1801 e Cons. Stato 9 dicembre 1989 n. 906, in Giur.it.
1991. III, 1, con nota di Rescigno, Nome “aggiunto” dell’affigliante e “dismissione” da parte
dell’affiliato. Cons. Stato 6 marzo 1995 n. 146 in Foro it. 1995, III, 363 con nota di Cerri,
L’anticipazione del cognome aggiunto: si tratta veramente del “terzo escluso” tra mutamento e aggiunzione?
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
all’Italia dimostra come l’ex Germania dell’Est (Deutsche democratische Republik), prima della riunificazione, introdusse l’istituto del cognome familiare con il § 7 del codice di famiglia del 20 dicembre 1965. Anche la
Germania federale si adeguò a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del § 1355 co. 2 B.G.B.106, che sanciva il principio secondo cui con il
matrimonio, tutta la famiglia assumeva il cognome del marito, addivenendosi alla legge 16 dicembre 1993, entrata in vigore l’anno successivo
(il 1° aprile 1994), secondo la quale i coniugi possono optare per un nome
comune, oppure decidere di conservare i rispettivi cognomi. E così il § 1616
del B.G.B. è passato dal testo originario „Das Kind erhälth den Familien names
des Vaters“ a quello attuale “Das Kind erhälth den Ehenamen seiner Eltern als
Geburtsnamen“107. In questa seconda ipotesi, il figlio legittimo assumerà
un unico cognome quello del padre o della madre, secondo la scelta concorde dei genitori. Nei casi di contrasto il giudice sceglie il genitore e quindi
la determinazione del cognome del figlio legittimo. Per garantire l’unità della
famiglia, la scelta non è revocabile e i figli successivi porteranno lo stesso
cognome del primogenito.
A sua volta, il diritto di famiglia spagnolo, con l’art. 109 del codigo civil,
prevede che il figlio acquista nell’ordine il cognome del padre e poi quello
della madre, potendo trasmettere ai figli sia entrambi, sia il solo cognome paterno. La libertà di scelta, assai diffusa, nei paesi dell’America latina, ha ispirato l’art. 1565, par. 1, del nuovo codice civile brasiliano, approvato con l.
n. 10.406, 10 gennaio 2002, secondo cui «uno qualsiasi dei nubendi potrà
aggiungere al suo cognome quello dell’altro»108.
La Francia, con la l. 8 gennaio 1993, n. 22, ha novellato gli artt. 57, 60 e
61 del Code civil, aggiungendo una nuova rubrica: “Des changements de prènoms et de nom». Si riconosce il principio che “Toute personne qui justifie
d’un interét légitirne peut demander à changer de nom”, prevedendo che tale domanda voglia evitare l’estinzione di un cognome materno o di un ascendente
fino al quarto grado. Senza poi interferire sull’acquisizione del nome legale
106 Bundesverfassungsgericht 5 marzo 1991, in Quadrimestre 1991. II, 887 con nota di Pozz o , A l c une n o v i t à in tema di cognome della famiglia nel diritto tedesco. ]ayme, Cognome
e diritto di famiglia nella recente riforma tedesca, cit., 71 ss.
107 “Il figlio riceve quale cognome di nascita il cognome coniugale dei suoi genitori”: Patti,
Codice civile tedesco, cit., 1011.
108 Calderale, Il nuovo codice civile brasiliano, Milano 2003, Introduzione, XLVII; P. Carbone,
Il nuovo codice civile brasiliano cit., 174.
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si puó aggiungere “à titre d’usage” il cognome dell’altro genitore109.
Non sarà facile il compito del legislatore che non può non coniugare il principio dell’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi “con la
garanzia dell’unità familiare” (art. 29 co. 2) 110, tenendo conto che un
even tuale intervento legislativo, anche simile alla novella del § 1616
del B.G.B., deve comportare l’accoglimento delle nuove esigenze, bilanciandole con la tutela dell’unità familiare. Già in altri paesi la normativa introdotta impedisce di stabilire per ciascuno dei figli legittimi un cognome diverso, lasciato alla piena e mutevole discrezione
dei genitori. E ove si accoglie l’opzione del doppio cognome, come
segnale della parità dei coniugi, biso gna escogitare un filtro per evitare che i figli con doppio cognome facciano lievitare il numero dei
cognomi stessi in proporzione geometrica, generazione dopo generazione, stabilendo una selezione che non si basi però, come in alcune
dei disegni di legge decaduti, sull’ordine alfabetico del cognome.
In conclusione, si prende atto di una prospettiva differente, a seconda che i figli siano nati nel matrimonio o al di fuori di esso, essendo diversa la fonte del cognome del figlio. Anche “En France l’enfant
légitime porte obliga toiremente le nom de son père. Le nome de la mère peut
seule ment étre ajouté, à titre d’usage, mais n’est par transmissi ble. L’enfant
naturel porte également le nom de son père, dans la mesure ou il y a été
reconnu simultanément par ses deux parents. Dans le casse contraire, il y
a le nom de sa mère».
Per i figli legittimi la fonte è la legge stessa trattandosi di un acquisto a titolo originario in una prospettiva mo derna del «tollere liberos”, a meno di un intervento legi slativo che attribuisca ai coniugi
una diversa, articolata, facoltà di scelta. Per i figli naturali, invece,
si richiede una fonte negoziale, come un atto di riconoscimento o
una successiva legittimazione per conseguente matri monio, ovvero
una fonte giudiziale come una sentenza contenente una dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità. In questi casi, a differenza
dei primi si presenta evidente la possibilità di cambiare il cognome
109 Sulla “filiation par le sang, legitimime e naturelle” con le diverse conseguenze, Hauser e
Huer-Weiller, La famiglie, in Traitè de droit civil (Ghestin), cit., 205 ss.
110 Sul carattere precettivo e non programmatico della disposizione, Bessone, Comm. all’art.
29 Cost., in Comm. cost. diretto da Branca, Bologna-Roma 1976, 60 ss. Sulle conseguenze,
Pazè, Verso un diritto all’attribuzione del cognome materno, in Dir. fam. e persone 1998,
324 ss.
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e gli interventi della Corte sono nel senso non del cam biamento, ma
del diritto a mantenere il cognome originario, come simbolo dell’identità
personale, anche se al di fuori dei cognomi sia paterni che materni.
Il principio è quello di non disorientare il figlio con continui mutamenti, riconoscendo il diritto non a cambiare, ma a conservare il precedente cognome in uso, segno dell’identità personale anche se attribuito
dall’ufficiale di stato civile. È il caso di una neonata, frutto di una relazione adulterina, nata prima della legge riforma del 1975. L’ufficiale di stato
civile le attribuisce il cognome di “Libero”. Dopo oltre quarant’anni la
madre, divenuta vedova, la riconosce, ma la donna chiede e ottiene di
conservare il cognome con il quale aveva vissuto ed era divenuto il segno
della propria identità personale111.
3.3. IL DIRITTO ALL’IDENTITÀ PERSONALE NON CONSENTE DI
MODIFICARE IL COGNOME DEL FIGLIO NATURALE, ANCHE IN CASO DI
RICONOSCIMENTO DI PATERNITÀ TARDIVO.
Regole diverse vigono per il cognome del figlio naturale, in quanto manca l’interesse alla conservazione dell’unità familiare, trattandosi di figli
nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre immediatamente o,
comunque, contemporaneamente alla madre. Secondo i giudici di legittimità, in tale caso non solo è esclusa per legge l’automatica imposizione del
cognome paterno (ex art. 262 co. 2 c.c.), ma deve essere riconosciuta al
cognome già acquisito dal figlio, anche se non conforme al rapporto di filiazione, una propria autonoma tutela, quale segno distintivo dell’identità
personale fino ad allora da lui posseduta nell’ambiente in cui vive.
Per il figlio naturale il cognome viene regolato da una diversa disposizione. Il non contemporaneo riconoscimento da parte del padre legittima
l’applicazione del cognome materno che l’ha riconosciuto tempestivamente. L’uso del cognome materno e l’inserimento del minore nel contesto sociale con il cognome non paterno che ne consente l’identificazione, rende
impossibile applicare ipso iure la stessa regola adottata per il figlio legittimo. In questo caso, l’acquisto crea uno spazio di tempo in cui il minore
vive e ha rapporti con un cognome che lo identifica e non è quello paterno.
Emerge la funzione che assolve il cognome nel nostro ordinamento, non
111 È il ricordato caso risolto da Corte cost. 23 luglio 1996 n. 297, in Fam. e dir. 1996, 412 con
nota di Carbone, La conservazione dei vecchi cognomi.
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solo pubblicistica, tesa a offrire una tutela della famiglia, consentendo ai
suoi membri di essere identificati come appartenenti a un determinato
nucleo familiare, ma anche privatistica, quale strumento identificativo
della persona. La protezione dell’identità personale, immancabilmente
contraddistinta da peculiari connotati morali, culturali, ideologici trova,
infatti, il suo nucleo centrale nella tutela del nome, che viene considerato
non tanto come mezzo necessario di individuazione del singolo nell’ambito dei soggetti di un ordinamento giuridico, secondo principi normativi di interesse generale, quanto piuttosto nella sua corrente qualità di
simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi
come aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana. Anche
la seconda delle decisioni (Cass,. 26 maggio 2006 n. 12641) ritiene, in sede
di applicazione dell’art. 262, co. 2 c.c. che, ove il riconoscimento del figlio
naturale da parte del padre non sia contestuale, si debba prescindere da
qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome paterno,
perché si deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore
nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da
parte del padre. L’assunzione del patronimico va evitata non soltanto ove
ne possa derivare danno per il minore, ma anche se il cognome materno
si sia radicato nel contesto sociale in cui il minore si trova a vivere, ad
estrinsecare la sua personalità, “ad essere se stesso”.
La tutela dei nome assume quindi la funzione di simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi come aspetto, meritevole
di protezione, della personalità umana. Costituisce il passaggio da una concezione del cognome quale mero segno di identificazione della discendenza familiare a una visione che lo inquadra tra gli elementi costitutivi
del diritto soggettivo all’identità personale, intesa come un bene a sé,
indipendente dallo status familiare, e che ha progressivamente sganciato
le sorti del cognome dalla titolarità di una determinata posizione all’interno
della famiglia.
I giudici devono operare nell’interesse del minore e non seguire “paturnie”,
“ubbie” o “lumìe” di genitori naturali che invece di ottemperare al dovere fondamentale di mantenere il figlio, procreato e riconosciuto, preferiscono
confliggere tra loro, ricorrendo a tutti gli escamotage che l’ordinamento
può offrire pur di sottrarre il minore alla sfera di influenza dell’altro coniuge, imponendo quanto meno il loro cognome, come una bandierina.
Senza rendersi conto che i continui cambiamenti di cognome finiscono
con il minare la stabilità, anche psichica di un soggetto, costretto a mutare la
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
propria identità, mediante la quale è conosciuto ed ha rapporti, sia con altri individui (quale componente del nucleo familiare), sia con strutture pubbliche, come la scuola, il comune, il servizio sanitario, le votazioni elettorali, ecc..
L’interesse del minore a rifiutare una paternità inutile e ingombrante, attenta
al titolo, ma non alla funzione, ricorda il protagonista di Easy rider che al
termine di un lungo viaggio, con malinconia, potrebbe dire.. “una volta la paternità era una cosa meravigliosa, non so proprio che cosa ne abbiano fatto”112. I
giudici di legittimità ritengono al possibile “non interesse del minore” una
legittimazione per provvedimento del giudice, consapevoli che non è
interesse di un minore avere un padre che sia soltanto un cognome, distratto, non responsabile delle funzioni genitoriali, inidoneo ad instaurare
un rapporto valido e affettuoso con il figlio. A tal fine, l’idoneità concreta
ed attuale del padre deve essere valutata tenendo presente che il padre,
a differenza della madre - nei limiti consentiti alla sola donna dalla L. 22
maggio 1978 n. 194113 - non può interrompere la gravidanza e a differenza
della donna non può evitare di essere identificato, utilizzando una facoltà analoga a quella prevista dal r.d.l. 8 maggio 1927 n 798, oggi regolata
dall’art. 30 co. 1 del d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396, che riconosce il diritto della
donna “a non essere nominata”, diritto esercitabile solo ove si tratti di
figlio naturale, in quanto nel caso di figlio legittimo la dichiarazione del
padre e lo status di figlio legittimo non consente alla donna di restare
sconosciuta114.
L’interesse del minore va valutato partendo dall’art. 30 cost., che pone
a carico di chi ha procreato un figlio, anche se nato fuori del matrimonio,
il dovere-diritto di mantenerlo istruirlo, educarlo. Sussiste quindi un principio di responsabilità per il fatto della procreazione, indipendentemente
dalla situazione giuridica nell’ambito della quale la procreazione stessa si
sia verificata115. In conclusione, al di là delle oscillazioni giurisprudenzia112 Così Lenzen, Alla ricerca del padre. Dal patriarcato agli alimenti, cit., 324.
113 Sui profili costituzionali della disciplina legislativa, Moscarini, Aborto, in Enc. Giur. Italiana, Roma 1991, vol. 1, 4 ss; Cian, Osservazioni e commento alla L. 194 del 1978, in
Nuove leggi civ. comm. 1978, 907 ss.
114 Musio e Naddeo, Commento al d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396 (a cura di Stanzione), cit., 150.
Cfr. inoltre, Corte cost. 15 luglio 1975 n. 207 in Giur. Cost. 1975,1606; Carraro, Cognome
del figlio, in Comm. Dir., it. Fam., vol. VI, Padova 1992, 144 ss.; Macello, Della filiazione illegittima, cit., 197.
115 Bessone, Rapporti etico-sociali, in Comm, della Cost. a cura di Branca, Bologna-Roma
1976, 74, Sandulli, Rapporti etico-sociali, in Comm. Dir. it. Fam., vol. I, Padova 1992, 68
ss. Anche qui il sistema giuridico si limita a recepire una legge di natura secondo cui “qui fait
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li sulla valutazione dell’interesse del minore, ancorate tuttavia all’accertamento di specifici fatti concreti ostativi, sotto il profilo materiale o morale, all’idoneità del presunto padre ad assumere il ruolo genitoriale, non merita di
essere condivisa la posizione dei giudici di merito che ritengono automatica
l’attribuzione del cognome paterno per effetto del provvedimento giudiziale
di legittimazione. Correttamente la Cassazione ha fissato il principio di diritto
di dover valutare l’interesse esclusivo del minore “avuto riguardo al diritto del medesimo alla propria identità personale fino a quel momento
posseduta nell’ambiente in cui è vissuto, anche con riferimento alla famiglia in cui è cresciuto, escludendo ogni automaticità”, senza dover perdere il
precedente cognome materno che per molti anni è stato la stella polare della
sua identità, l’elemento di sicuro riconoscimento nel contesto familiare in
cui è vissuto116.
I contrasti tra vecchio e nuovo cognome sono sorti anche in tema di
adozione tra maggiorenni ove il cognome originario si conservava con
l’aggiunta del cognome dell’adottando con la differenza che prima dell’art.
61 della 1. 4 maggio 1983, n. 184, oggi modificato dalla l. 28 marzo 2001,
n.149, l’adottato aggiungeva al proprio il cognome dell’adottante, mentre
oggi l’adottato lo antepone al proprio117. Nell’adozione di minori, a norma
dell’art. 27 della l. n. 184/1983 l’adottato perde ogni legame con la famiglia
d’origine ed acquista lo status di figlio legittimo degli adottanti, “dei quali assume e trasmette il cognome”, ma al di là dell’espressione letterale,
l’adottato assume il cognome del solo padre adottivo e non anche della
madre118. Nel caso di adozioni particolari, il minore riconosciuto dalla madre, e poi adottato dal coniuge della donna, ai sensi dell’art. 44, lett. b), l.
n. 184/1983, assume il doppio cognome, a norma dell’art. 299 c.c., anteponendo al suo quello dell’adottante: la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, trattandosi di adozione particolare, debbano rimanere entrambi
l’enfant doit la nourrir”, Trabucchi, Note introduttive agli artt. 147 e 148 c.c., in Comm. Dir.
it. Fam., vol. II, Padova 1992, 551.
116 Sulle stesse posizioni, Sesta, La filiazione, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, vol. IV, tomo,
III, Torino 1999,170 (dell’estratto).
117 Critica la soluzione legislativa adottata, Scalisi, Della dichiarazione di adozione, in Commentario al diritto italiano della famiglia. vol IV Padova 1992,356.
118 Sbisà e Ferrando, Dell’adozione di persone maggiori di età, in Commentario al diritto italiano della
famiglia, voL IV, Padova 1992, 269 cc.; A. e M. Finocchiaro, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, Milano 1983, 523; Dogliotti, Affidamento e adozione, in Tratt. Cicu, Messineo,
Mengoni, Milano 1990, 362; Procida Mirabelli Di Lauro, Adozione di persone maggiori di età, in
Commentario del codice civile Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1995, 496.
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
i cognomi. In questo quadro occorre tener conto anche dell’adozione unilaterale, oggi consentita solo nei casi particolari119.
Un significativo apporto a questa evoluzione è dato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha riconosciuto come il cognome
goda di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale
e irrinunciabile della personalità. Si tratta, poi, di tutela di rilievo costituzionale perché il nome, che costituisce il primo e più immediato elemento
che caratterizza l’identità personale, è riconosciuto come bene oggetto di
autonomo diritto, riconducibile nell’ambito dell’art. 2 cost. In proposito, la
ricordata sentenza 23 luglio 1996 n. 297120, intervenendo proprio sull’art.
262 c.c., ha dichiarato incostituzionale tale norma laddove non prevede
che il soggetto dichiarato alla nascita figlio di ignoti e successivamente riconosciuto da uno dei genitori possa conservare, anteponendolo o aggiungendolo al nuovo cognome, quello originariamente attribuitogli dall’ufficiale dello stato civile, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno
distintivo della sua identità personale. Questa decisione ha portato a completamento il disegno del legislatore del 1975, che aveva già modificato
l’art. 262, co. 2 c.c., stabilendo - evidentemente nell’intento di garantire,
nella conservazione del cognome, il profilo identificativo della persona e
non quello della discendenza familiare - che il figlio naturale, riconosciuto
dal padre solo successivamente al riconoscimento da parte della madre,
non assume più automaticamente il cognome paterno, ma può scegliere
se aggiungerlo o sostituirlo a quello materno.
La ratio dell’art. 262 c.c. non è costituita dall’esigenza di rendere la posizione del figlio naturale simile a quella del figlio legittimo e quindi di parificare la filiazione naturale a quella legittima, privilegiando per tale via
l’assunzione del cognome paterno, in quanto intende piuttosto garantire
l’interesse del figlio a conservare o a non cambiare il cognome con cui è ormai conosciuto nell’ambito delle proprie relazioni sociali. Nell’applicazione dell’art. 262 c.c., quindi, l’organo giurisdizionale è chiamato a emettere
un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità,
frutto di libero (e prudente) apprezzamento, nell’ambito del quale rileva
non tanto l’interesse dei genitori quanto il modo più conveniente di in119 Cfr. Corte Cost 19 luglio 2005 a 347, in Corr.giur. 2005, 461, con nota di Carbone, Adozione internazionale di minore straniero da parte di non coniugato, solo nei casi particolari.
120 La sentenza è riportata retro, nota 84.
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AIAF QUADERNO 2008/1
dividuazione dell’interesse del minore, con riguardo allo sviluppo della
sua personalità, nel contesto delle relazioni sociali in cui si trovi a essere inserito. Pertanto, il giudice chiamato a valutare l’interesse del minore
preventivamente riconosciuto dalla madre, a vedersi attribuito il patronimico a seguito del successivo riconoscimento paterno, dovrà impedire il
mutamento di cognome non solo nei casi in cui la cattiva reputazione del
genitore possa comportare un pregiudizio al minore, ma anche nel caso
in cui il patronimico sia assurto ad autonomo segno distintivo della di lui
identità personale.
La Consulta, dopo aver ripreso i propri precedenti in cui aveva giustificato la soluzione legislativa contestata poiché essa rappresentava comunque una “regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela
dell’unità della famiglia fondata sul matrimonio”121, finisce tuttavia per
riconoscere significativamente che, “a distanza di diciotto anni dalle decisioni in precedenza richiamate, non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale
della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia
romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i
principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza
tra uomo e donna”.
Quanto precede induce, in definitiva, a considerare ormai non più attuale, in tema di filiazione naturale, un criterio di trasmissione del cognome assolutamente affidato a rigidi meccanismi automatici, che se da
un lato possono soddisfacentemente proteggere interessi di ordine pubblico, dall’altro non riescono né a impedire forme di discriminazione basate sulla differenza di sesso tra uomo e donna, né a tutelare adeguatamente
situazioni esistenziali connesse all’uso del cognome. Pertanto appare ormai indifferibile un intervento legislativo capace, da un lato, di adeguare la disciplina sul cognome alle mutate esigenze di una famiglia che da
tempo non si ispira più al modello patriarcale e, dall’altro, di conciliare
il diritto all’identità personale della famiglia legittima con il medesimo
diritto di quella naturale.
121 Così Corte Cost., 19 maggio 1988 n. 586, in Giust. civ. 1988, I, 1649 secondo cui è manifestamente inammissibile - in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 cost. - la questione di legittimità
costituzionale degli art. 6, 143-bis, 236, 237, co. 2, e 262, co. 2, c.c. e dell’art. 73, r.d. 9
luglio 1939 n. 1238, sull’ordinamento dello stato civile, nella parte in cui non prevedono
la facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di
assumere anche il cognome materno.
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SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Tirando le fila del discorso, va ribadito che in sede di applicazione
dell’art. 262, co. 2, c.c., si deve partire dal presupposto, evidente nella ratio
della norma, che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali
di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta. Nell’operare la valutazione richiestagli dall’enunciato normativo, il giudice deve
prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome, ma deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del tardivo riconoscimento da parte del padre.
A tutela dell’eguaglianza fra i genitori, il giudice non dovrà autorizzare
l’assunzione del patronimico, non soltanto ove ne possa derivare danno
per il figlio naturale, ma anche allorquando il cognome materno si sia
radicato nel contesto sociale in cui il figlio si trova a vivere, giacché precludergli il diritto di mantenerlo si risolverebbe in un’ingiusta privazione
di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il
diritto “a essere se stessi”. Il provvedimento deve, quindi, tutelare l’interesse del minore - non necessariamente coincidente con quello dell’uno o
dell’altro genitore - alla propria identità. Il giudice può e deve ricercare di
ufficio i dati informativi per conoscere l’interesse del minore; la relativa
valutazione ha connotati di ampia discrezionalità, non trovando limitazione neppure nella volontà favorevole o contraria del minore medesimo.
La corte territoriale ha tenuto ben presenti detti principi, rilevando in premessa che la contrarietà all’interesse del figlio può sussistere solo in caso
di concreto accertamento di una cattiva reputazione del padre, di per sé
pregiudizievole, ovvero di prova, ritenuta ampiamente raggiunta nella
fattispecie esaminata, che, nell’intervallo tra i due riconoscimenti, il figlio
abbia maturato una precisa, infungibile identità individuale e sociale per
il fatto di essere riconosciuto con il cognome della madre nella cerchia
sociale in seno alla quale è vissuto.
In conclusione, la diversa tutela del cognome, in tema di minori nati dal
matrimonio o al di fuori dello stesso, merita una necessaria distinzione.
Infatti, diverso è il ruolo del cognome nella filiazione al di fuori del matrimonio, specie nell’ipotesi abbastanza diffusa di riconoscimento della sola
madre, in mancanza di una scelta comune ad entrambi i genitori, ipotesi paragonabile all’accordo dei genitori nella filiazione legittima. Ove ciò
non sia accaduto, e il minore non abbia avuto il nome del padre, ma quello
della madre o - nel caso che si sia avvalsa della facoltà di non essere identificata ai sensi dell’art. 30 co. I dei d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396 - quello
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AIAF QUADERNO 2008/1
indicato dallo stato civile, la scelta giurisprudenziale di favorire la tutela
dell’identità, evitando di modificare il cognome se non nell’esclusivo interesse del minore, merita di essere condivisa. Per la filiazione legittima, i
contrasti sul nome paterno richiedano il sollecitato intervento legislativo
che dia attuazione, anche sotto il profilo del cognome, alla pari dignità
giuridica e morale dei coniugi. Con la speranza che la scelta rimessa all’accordo dei genitori al momento delle nozze o del primo figlio, non si possa
successivamente modificare, dando luogo a figli con diversi cognomi.
L’Italia non vive isolata in Europa e dal 2001, con la modifica dell’art.
117 cost., ha adottato altri circuiti di legalità oltre quello costituzionale,
imponendo al legislatore nazionale e anche al giudice delle leggi, il rispetto sia del diritto comunitario e delle decisioni della CE di Lussemburgo,
sia dei trattati internazionali e delle decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Come già ricordato, l’Italia ha sottoscritto la Convenzione
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nel confronti della
donna, stipulata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata con legge 14
marzo 1985, n. 132, e l’impegno ad eliminare ogni discriminazione nei confronti della donna, compresa la scelta del cognome. Inoltre, a differenza degli
altri stati mitteleuropei, dove il problema è diversamente regolato, l’Italia corre il rischio di condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo che
già è intervenuta sul problema, sia sotto l’aspetto del cognome della donna
sposata122, sia sotto quello, che qui interessa, del cognome del figlio123. Infine sono intervenuti sia il Consiglio d’Europa con le raccomandazioni
n. 1271/1995 e n. 1362/1998, dirette a realizzare la piena eguaglianza tra
madre e padre nell’attribuzione del cognome dei loro figli, sia la Corte
europea con sentenza del 2 ottobre 2003 n 148/02124. La controversia concerneva il cognome di figli, nati in Belgio, da coniugi ivi residenti di cui il
padre spagnolo (Garcia Avello) e la madre belga (Weber), figli cui è stato
attribuito il doppio cognome paterno, secondo il modello spagnolo. I
coniugi chiedono che ai figli, con doppia cittadinanza sia riconosciuto il doppio
122 C.e.d.u. 16 novembre 2004 nella controversia sul cognome della donna sposata e il governo della Turchia (affaire Unal Tekeli c. Turquie); Ce.d.u. 24 ottobre 1994 sulla possibilità
di modificare il proprio cognome (affare Stjerna c. Finlande).
123 C.e.d.u. 24 gennaio 1994 (affaire Burghartz c. Suisse) relativa e due cittadini svizzeri, sposati in Germania, che scelgono come nome familiare, da applicare ai figli, quello della donna
(Burghartz), mentre il cognome registrato in Svizzera è quello del marito (Schnyder).
124 La sentenza è pubblicata in Fam. e dir., 2004, 437 ss con nota di Bugetti, L’attribuzione
del cognome tra normativa interna e principi comunitari.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
cognome, sia paterno che materno (Garcia Weber), ma la domanda è respinta in quanto contraria all’art. 335 c.c. belga, secondo cui il figlio porta il
cognome del padre, sia in caso di filiazione legittima che naturale, con doppio contestuale riconoscimento. Su ricorso dei coniugi, il Con siglio di
Stato belga chiede alla Corte Europea di pronunciarsi. La risposta della
CE, a norma degli artt. 12 e 17 CE è inequivoca: costituisce discriminazione il fatto che l’autorità amministrativa di uno Stato membro respinga una
domanda di cambiamento del cognome per figli minorenni, residenti in
questo Stato e in possesso della doppia cittadinanza, dello Stato belga e di
un altro stato membro, allorché la domanda è volta a far si che i detti figli
possano portare il cognome di cui sarebbero titolari in forza del diritto e
della tradizione del secondo Stato membro.
Il pendolo dello storia si sta spostando sul riconoscimento dell’eguaglianza morale e giuridica della donna anche in campo anagrafico, attribuendo
rilievo alle scelte, non reversibili, fatte dai coniugi all’atto del matrimonio o alla nascita del primo figlio, ma valide anche per gli altri. Il legislatore italiano, dovrà introdurre nuove regole, o ancora una volta
saranno le spinte e le esigenze dei cittadini a richiedere, a Bruxelles o a
Lussemburgo, nuovi interventi o, in alternativa, opportuni ripensamenti
agli stessi giudici italiani com’è già avvenuto, di recente e al termine di
lunghi dibattiti, con l’abrogazione dell’art. 278, co. 1 c.c., nella parte in cui
escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali nei casi in cui è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi125, o con
l’abrogazione dell’art. 274 c.c., che prescriveva un giudizio autonomo di
ammissibilità dell’azione di dichiarazione di paternità naturale126, o con
l’abrogazione dell’art. 235 co.1 n. 3 cc. che subordinava l’azione di disconoscimento di paternità non al diverso d.n.a., ma alla prova dell’adulterio
della moglie127.
Il richiamo agli scritti di Vittorio Sgroi e alle sue intuizione critiche in
relazione alla disciplina codicistica prima della riforma del 1975, coglien-
125 Il richiamo è sollecitato Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494, in Familia, 2002, 1130,
con nota di Sesta, La condizione dei figli incestuosi tra principi costituzionali e discrezionalità del legislatore, in Giur. It. 2004,15, con nota dl De Grazia, I diritti dei “figli
incestuosi” al vaglio della corte costituzionale. L’ordinanza di rimessione, Cass., sez. I, 4
luglio 2002, n. 9724 è in Fam. e dir., 2002, 473, con nota di Carbone, È costituzionalmente
legittimo il divieto di riconoscere il figlio incestuoso?
126 Cfr. Corte cost. 10 febbraio 2006 n. 50, in Corr. giur. 2006, 497 ss.
127 Corte Cost. 6 luglio 2006 n. 266, in Corr. giur. 2006, 1368 ss.
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AIAF QUADERNO 2008/1
do le discrepanze tra disciplina all’epoca vigente e il mutato costume sociale, vuole indicare il punto di partenza del nuovo diritto di famiglia con
i suoi problemi critici, i dubbi e le incertezze che costellano il percorso
irreversibile evolutivo/modificativo che coinvolge interpreti e operatori
del diritto.
Occorre cambiare rotta, come l’Ulisse dantesco rispetto a quello omerico, e prendere atto che il diritto di famiglia recepito nel codice del 1942
e studiato all’Università è del tutto diverso da quello attuale perché nel
frattempo “la vita familiare e il diritto di famiglia hanno conosciuto un
cambiamento talmente significativo, durante gli ultimi trenta anni” sicché
si può, senza tema di sentita, affermare che “il diritto di famiglia vigente
nel suo complesso in Italia fino agli anni Settanta era più vicino a quello
degli inizi del secolo XIX che all’attuale”128.
128 Così testualmente, Sesta Diritto di famiglia, cit., 29. Eekelaar, The end of an Era?, in Cross,
Currents, Family law and Policy in the U.s. and England, Oxford 2002, 637 ss. da nota 76.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
DOCUMENTI
PROTOCOLLO SULL’INTERPRETAZIONE E APPLICAZIONE
LEGGE 8 FEBBRAIO 2006, N. 54 IN TEMA DI ASCOLTO DEL MINORE
TRIBUNALE DI VERONA – SEZ. FAMIGLIA
AZIENDA ULSS 20
COMUNE DI VERONA
AIAF – SEZ. VERONA
OSSERVARTORIO SUL DIRITTO DI FAMIGLIA – SEZ. VERONA
Articolo 155 sexies
“Il giudice dispone l’audizione del minore che abbia compiuto 12 anni e anche di età inferiore ove
capace di discernimento”
considerato
- che la norma in esame ha elevato a regola l’audizione del minore nei procedimenti di separazione
e divorzio, peraltro già prevista dalle precedenti convenzioni internazionali; (art. 12 e 3 Convenzione
di New York e Strasburgo)
- che in virtù dell’art. 4, comma 2 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, detta previsione deve trovare
applicazione anche nei procedimenti di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del
matrimonio, nonché nei procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati;
- che, peraltro affinché l’audizione nel processo costituisca per il minore un’effettiva opportunità di
esprimere propri bisogni e desideri, è necessario che si proceda all’ascolto con modalità adeguate e
rispettose della sua sensibilità, nel rispetto del principio della minima offensività;
- che, specie nel caso di procedimenti con alta conflittualità fra le parti, occorre prestare la massima
cautela onde evitare che l’audizione del minore diventi occasione di pericolose strumentalizzazioni e
suggestioni ad opera dei genitori o di terzi;
- che, peraltro, al fine di garantire una corretta applicazione nel disposto ex art. 155 sexies si auspica
che vengano fissati alcuni criteri interpretativi di base;
- che si auspica che detti criteri ed indicazioni vengano rispettati per l’ascolto del minore in tutte le
procedure civili che lo riguardano;
Limiti dell’ascolto
Fermo restando che l’ascolto:
a) rappresenta per il minore un’occasione per esprimere le proprie opinioni, i propri dubbi, le proprie
incertezze, le proprie paure;
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AIAF QUADERNO 2008/1
b) è uno strumento per consentire al Giudice di formarsi un opinione più completa del caso sottoposto
alla sua valutazione;
c) non è un mezzo di prova, l’ascolto stesso dovrà essere disposto unicamente nei procedimenti contenziosi di diritto di famiglia; nel caso di procedimenti consensuali, l’ascolto potrà essere disposto
soltanto laddove particolari circostanze del caso lo rendano opportuno.
In ogni caso, l’ascolto del minore potrà essere disposto solo nei casi in cui debbano essere presi
provvedimenti che riguardino l’affidamento, le modalità di esercizio della genitorialità e tutte le decisioni relative ai figli, eccettuate le ipotesi in cui la controversia riguardi esclusivamente gli aspetti
economici.
L’ascolto del minore potrà non essere disposto dal Giudice sia quando le parti gliene manifestino
l’inopportunità, sia quando il Giudice ritenga, richiesto da taluna delle parti o dal minore ultra dodicenne, che per le particolari circostanze del caso, non sia rispondente all’interesse del minore
stesso.
Al fine di decidere se procedere o meno all’audizione del minore infradodicenne, il Giudice potrà
avvalersi della competenza di un esperto, ausiliario ex art. 68 c.p.c.
Tempi dell’ascolto giudiziario
L’ascolto del minore dovrà essere disposto ad udienza fissa da stabilirsi di preferenza fuori dall’orario
scolastico, in ambiente adeguato e a porte chiuse in modo tale da garantire la massima riservatezza
e tranquillità al minore.
Ascolto diretto e “competenze integrate”
È auspicabile che il Giudice titolare della procedura proceda all’ascolto, previa adeguata conoscenza
della situazione della famiglia e delle condizioni del minore, avvalendosi se del caso di un ausiliario
ex art. 68 c.p.c. esperto in scienze psicologiche o pedagogiche.
Luogo dell’audizione e verbalizzazione
È auspicabile che l’audizione si svolga presso l’Ufficio Giudiziario competente in una apposita stanza
idonea ad accogliere un minore.
L’incontro sarà verbalizzato anche in forma sommaria ed il minore avrà il diritto di leggere e di sottoscrivere il verbale, che sarà messo con immediatezza a disposizione delle parti.
Presenza delle parti o dei difensori
L’audizione si svolgerà da parte del Giudice titolare della procedura, assistito dal Cancelliere, in
presenza dell’eventuale ausiliario e, in caso di nomina, del difensore del minore o del curatore dello
stesso.
Nel caso in cui uno o entrambi i difensori chiedono di essere presenti all’audizione, il Giudice provvederà motivando in merito.
In ogni caso, prima dell’audizione, i legali delle parti potranno sottoporre al Giudice i temi e gli argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il minore.
Se il minore richiederà espressamente la presenza di un genitore o di entrambi o di una persona
esterna al nucleo famigliare in ossequio ha il diritto ad un’assistenza affettiva e psicologica, questa
richiesta, anche in considerazione dell’età del minore, dovrà comunque essere valutata dal Giudice.
Qualora venga disposta l’audizione di più fratelli, il Giudice valuterà se ascoltarli separatamente o
assieme.
200
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Informazione
Prima dell’audizione il minore dovrà essere adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad
essere ascoltato nel processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dei possibili
esiti del procedimento, precisando che tali esiti non necessariamente saranno conformi a quanto da
lui eventualmente espresso o richiesto.
Prima dell’audizione del minore il Giudice fornirà ai genitori ed agli avvocati indicazioni al fine di
comunicare in modo corretto al minore tempi e modalità di ascolto.
Doveri di astensione dell’avvocato e di informazioni delle parti
In ogni caso, l’avvocato dei genitori del minore che deve essere ascoltato od eventuali loro consulenti
non devono strumentalizzare la propria funzione per incidere sulla spontaneità del minore.
L’avvocato dovrà invitare i suoi assistiti ad un atteggiamento responsabile nei confronti del minore evitando ogni forma di suggestione e di induzione della volontà, invitandoli espressamente ad astenersi
dal rammostrare al minore qualsiasi atto processuale.
L’avvocato dei genitori ed i consulenti nominati dalle parti si faranno lealmente carico di evitare ogni
attività che incida sulla spontaneità del minore.
Per il Tribunale Civile: .......................................................
Per L’Azienda ULSS n. 20: .......................................................
Per il Comune di Verona: .......................................................
Per l’AIAF: .......................................................
Per L’Osservatorio sul Diritto di Famiglia: .......................................................
Verona, 25 gennaio 2008
201
AIAF QUADERNO 2008/1
202
SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
GLOSSARIO
A
CURA DI
CRISTINA CURTOLO
ATTACCAMENTO
Bowlby (1982) ha definito l’attaccamento nei termini di quattro classi di comportamento distinte ma
collegate: mantenimento della vicinanza, porto di salvezza, angoscia di separazione e base sicura.
Questi comportamenti sono facilmente osservabili nei bambini normali, di un anno di età, in relazione al loro caregiver primario (solitamente la madre). Il bambino tiene continuamente sotto controllo la
posizione del caregiver e compie tutti gli adattamenti necessari a mantenere il grado desiderato di vicinanza, si ritira verso di lei come verso un porto di salvezza in caso di pericolo percepito, si oppone
attivamente ai tentativi di separarlo dalla madre ed è addolorato dalla separazione, e utilizza la madre
come una base sicura dalla quale esplorare l’ambiente. I bambini spesso dirigono uno o più di questi
comportamenti verso individui nei confronti dei quali non hanno sviluppato un attaccamento.
Rholes e Simpson, Teoria e ricerca nell’attaccamento adulto, Raffaello Cortina Editore, Milano
2007.
BISOGNI EMOTIVI
La disponibilità, le cure e il calore emotivo, la protezione rappresentano i comportamenti più significativi del caregiver (chi si prende cura del bambino) per lo sviluppo della relazione di attaccamento.
Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera, Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia, Il Mulino,
Bologna 2002.
CONFLITTO
Molti studi sul conflitto confermano la sua universalità in ogni epoca storica e in tutti i raggruppamenti
umani. La storia e l’esperienza quotidiana testimoniano ampiamente che le società non si compongono di insiemi armoniosi, ma si sviluppano e cambiano in forza di scontri tra ideologie, valori, progetti
politici, economici e sociali. Il conflitto si presenta come un dato ineluttabile della vita individuale
e collettiva: compone la trama strutturante della dinamica sociale; entra in tutti gli interstizi dell’avventura umana.
Barus-Michel J. et al. (a cura di), Dizionario di psicosociologia, Raffaello Cortina Editore, Milano
2005.
CONFLITTO RELAZIONALE
I ricercatori che si occupano dello studio delle relazioni si sono focalizzati sulla frequenza del conflitto all’interno delle relazioni di coppia e sul modo in cui le coppie partecipano ai conflitti e provano
a risolverli. Da questo lavoro derivano tre generalizzazioni. Innanzitutto, il conflitto si verifica regolarmente in molte relazioni intime. In secondo luogo, affrontare il conflitto può facilitare, in alcune
condizioni, lo sviluppo e il mantenimento dell’intimità e della soddisfazione in una relazione. In terzo
luogo, nei matrimoni infelici il conflitto è associato a pattern di comportamento e di pensiero che
intensificano il conflitto e che rendono più difficile negoziare una soluzione. Il fatto che il conflitto
faciliti l’intimità o accentui il disagio può dipendere dalle differenze individuali nel modo in cui le
203
AIAF QUADERNO 2008/1
persone interpretano e rispondono al conflitto.
Rholes e Simpson, op. cit.
CONSCIO-INCONSCIO
Sembra un’ottima cosa che ciascuno abbia il proprio inconscio e la propria coscienza ben divisi,
disposti certamente a collaborare, a coniugarsi e a generare pensieri, purché resti tuttavia funzionante
una delle dogane psichiche di freudiana memoria, la cesura. Se le cose non vanno troppo bene può
invece capitare che un soggetto alberghi tutta la coscienza (e solo essa) e un altro tutto l’inconscio (e
solo esso), con il risultato che nessuno dei sue riesce a funzionare.
Francescani M., Il ventre della pecora. Ovvero: chi ha paura dell’inconscio, in Psiche. Rivista di
cultura psicoanalitica, 1, Il Saggiatore, Milano 2007.
CONSULENZA
È un rapporto interpersonale, nell’ambito del quale una persona cerca di aiutare un’altra a capire e a
risolvere i suoi problemi. La consulenza comprende i procedimenti più svariati, dall’incoraggiamento
ai consigli, dall’informazione all’interpretazione di risultati di test.
Arnold et al., Dizionario di psicologia, Edizioni Paoline, Roma 1982.
CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO
Nelle separazioni giudiziarie il conflitto è agito e la componente emotiva e affettiva è tale che il giudice può ricorrere a un esperto in campo psicologico per una CTU. L’obiettivo diagnostico è soprattutto
focalizzato allo studio dei rapporti interpersonali tra i componenti della famiglia. Ciò non solo per
l’orientamento culturale emergente che pone come oggetto di studio la relazione interpersonale, ma
per l’orientamento stesso della giurisprudenza. Il giudice attraverso i quesiti chiede all’esperto di valutare le relazioni tra il minore e ciascuno dei due genitori, le caratteristiche di personalità di costoro e
di individuare le modalità di affidamento del minore onde tutelarne l’interesse, salvaguardando il principio dell’accesso dei figli a entrambi i genitori, come ribadito anche dalle convenzioni internazionali
cui l’Italia ha aderito. Per rispondere a queste richieste lo psicologo clinico deve fare un’analisi molto
particolare e circostanziata che include un lavoro diagnostico-valutativo e clinico per individuare
spazi di cooperazione tra i genitori nell’assolvere le loro funzioni educative e affettive rispettando il
principio della bigenitorialità. Diventa essenziale l’osservazione delle dinamiche relazionali familiari
con l’adozione di sistemi di valutazione capaci di andare oltre l’analisi delle singole relazioni diadiche genitore-figlio, insufficienti a dare indicazioni sul processo di riorganizzazione delle relazioni
familiari relative alla persistenza di un “noi” familiare anche dopo la separazione.
La procedura del Lausanne Trilogie Paly sembra rispondere all’esigenza di tracciare lo sviluppo delle
interazioni diadiche e triadiche contemporaneamente, laddove ciascuna di queste unità può mostrare
una traiettoria di sviluppo parzialmente indipendente.
Malagoli Togliatti e Mazzoni, Osservare, valutare e sostenere la relazione genitori-figli. Il Lausanne
Trilogue Play clinico,Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
COPING (ABILITÀ DI)
Capacità dell’individuo di far fronte agli eventi difficili e/o negativi ricorrendo alle proprie risorse e
abilità.
Fava Vizziello G.,Psicopatologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna 2003
CRITERIO DI ACCESSO
È un indicatore cruciale nel lavoro di consulenza tecnica. Esso riguarda proprio la disponibilità ac-
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
certata in almeno uno dei due partner di assicurare al figlio l’accesso all’altro genitore e, con lui, alla
sua stirpe e alla sua storia relazionale.
Cigoli V., Psicologia della separazione e del divorzio, Il Mulino, Bologna 1998.
DIVORZIO PSICHICO
È uno dei compiti di sviluppo che la coppia che si separa è chiamata ad assolvere dal punto di vista
coniugale. Essa è chiamata ad attuare il divorzio psichico elaborando il fallimento coniugale, a impegnarsi in una gestione cooperativa del conflitto coniugale e a ridefinire i confini coniugali e familiari.
Così il legame tra ex coniugi dovrebbe risultare non ambiguo.
Scabini E., Psicologia sociale della famiglia, Boringhieri, Torino 1995.
DISTURBI RELAZIONALI
Non si accompagnano necessariamente alle più gravi manifestazioni psichiatriche, che pure hanno
evidentemente anche delle ricadute in termini di disfunzionalità relazionale. Quello che si intende
proporre è infatti una visione dell’ “ammalarsi della mente” da intendersi soprattutto come rigidità di
una grande parte del funzionamento mentale quotidiano che allontana una persona da se stessa e dal
suo esserci autenticamente nelle relazioni interpersonali.
Amadei G., Come si ammala la mente, Il Mulino, Bologna 2005.
DOLORE PSICHICO
Questo dolore è spesso sperimentato come se fosse fisicamente localizzato nel corpo, e tuttavia è
chiaramente avvertito come una sofferenza psichica. Esso possiede alcune qualità specifiche: a) è
incomprensibile; b) si situa sulla linea di confine tra il fisico e il mentale; c) deriva dall’uscita da uno
stato di fragile equilibrio mentale. Il dolore psichico ha una speciale in-conoscibilità.
Hinshelwood R.D., Dizionario di psicoanalisi kleiniana, Raffaello Cortina Editore, Milano 1990.
EMPATIA
La comprensione immediata, in prima persona, delle emozioni degli altri che il meccanismo dei neuroni specchio rende possibile rappresenta, inoltre, il prerequisito necessario per quel comportamento
empatico che sottende larga parte delle nostre relazioni interindividuali. Condividere a livello visceromotorio lo stato emotivo di un altro è cosa, però, diversa dal provare un coinvolgimento empatico nei
suoi confronti. Per esempio, se vediamo una smorfia di dolore non per questo siamo automaticamente
indotti a provare compassione. Ciò spesso accade, ma i due processi sono distinti, nel senso che il
secondo implica il primo, non viceversa. Inoltre, la compassione dipende da altri fattori oltre al riconoscimento del dolore: per esempio, da chi è l’altro, da quali rapporti abbiamo con lui, dal fatto che
siamo più o meno in grado di metterci nei suoi panni, che abbiamo più o meno intenzione di farci
carico della sua situazione emotiva, dei suoi desideri, delle sue aspettative, ecc. Se è qualcuno che
conosciamo o contro cui non abbiamo nulla, la risonanza emotiva causata dalla vista del suo dolore
può spingerci a compassione o a pietà, le cose possono andare diversamente se l’altro è un nemico o
sta facendo qualcosa che in quella data situazione rappresenta per noi un potenziale pericolo; oppure
se siamo dei sadici inguaribili, se non perdiamo occasione per godere della sofferenza altrui, ecc.
In tutti questi casi percepiamo immediatamente il dolore dell’altro; ma non in tutti tale percezione
determina il medesimo tipo di compartecipazione empatica.
Rizzolati e Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2006.
205
AIAF QUADERNO 2008/1
GASLIGHTING
Termine che indica comportamenti messi in atto allo scopo di far si che una persona dubiti di se stessa
e dei suoi giudizi di realtà, che cominci a sentirsi confusa o a temere di stare impazzendo. Esso va
distinto dal dubbio e dalla ruminazione ossessivi, che non sono dovuti alla presenza di un gaslighter
(l’agente di questo particolare tipo di maltrattamento). Il perpetratore “scarica” sulla vittima i propri
conflitti per liberarsi di essi e dell’ansia che ne deriva.
Filippini S., Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia, Franco Angeli, Milano 2005.
GENITORIALITÀ
L’assunzione del ruolo genitoriale non coincide puntualmente con l’evento della nascita di un bambino. La genitorialità, infatti, è connessa a un lungo processo di elaborazione delle proprie relazioni
affettive primarie: l’arrivo di un figlio, suscitando nuove potenti emozioni, può aiutare a visualizzare
e a riorganizzare meglio le passate esperienze, ma la nuova condizione può anche determinare un
crollo psicologico proprio per il riattivarsi di sottostanti conflitti non elaborati. Le situazioni a rischio
nell’ambito della genitorialità fanno riferimento a tutte quelle condizioni in cui la funzione genitoriale,
nelle sue componenti fondamentali di cura e protezione dei figli, è fortemente disturbata e influisce
profondamente sulla qualità della relazione genitore-bambino.
Ammaniti M. (a cura di), Manuale di psicopatologia dell’infanzia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.
INDIVIDUAL ADJUSTMENT
Ovvero la capacità dell’individuo divorziato (uomo o donna che sia) di riorganizzarsi emotivamente
dopo una separazione coniugale. Dai risultati di ricerche pare che la maggiore o minore difficoltà a
superare il trauma della separazione sia connessa solo indirettamente al gender. Reazioni depressive,
problemi di salute, problemi psicologici di vario genere sembrano infatti essere comuni a uomini e
donne dopo la separazione. Tuttavia negli uomini sono più frequenti quando essi non hanno stabilito
una nuova relazione con un’altra donna, mentre nelle donne sono più frequenti quando non hanno
mai avuto un’attività lavorativa e avevano organizzato la propria identità intorno al ruolo di moglie e
madre. Va detto infatti che, mentre non poche donne scoprono nella situazione di separazione nuove
forze e risorse e raggiungono livelli di individuazione che non avrebbero potuto emergere se fossero
rimaste imprigionate in un matrimonio disfunzionale, gli uomini divorziati che restano single difficilmente sanno trarre dalla separazione un’opportunità di crescita e di individuazione.
Cigoli, V., op. cit.
INSTABILITA EMOTIVA
Tratto della personalità contraddistinto da frequenti cambiamenti di tono e di intensità delle emozioni,
con manifestazioni eccessive che risultano inadeguate alle situazioni in cui si producono. Emerge sia
sul piano motorio con reazioni eccessive e incapacità a restare fermi, sia a livello del funzionamento
mentale con labilità dell’attenzione, contrasto tra tipi diversi di reazioni emotive, interessi passeggeri,
salti improvvisi nel processo di ideazione. Nel bambino e nel ragazzo è normale un notevole grado
di instabilità emotiva che dovrebbe poi ridursi nel corso dello sviluppo.
Fava Vizziello G., op. cit.
INTERSOGGETTIVITÀ NELLA FAMIGLIA
Viene intesa come capacità dei componenti del gruppo familiare di comunicare e comprendere le intenzioni, le motivazioni e i significati dell’altro. Tale capacità è alla base del raggiungimento di quella
coordinazione a livello dei comportamenti che caratterizza le alleanze familiare collaborative che favoriscono il contattato affettivo tra i membri della famiglia e il raggiungimento di obiettivi evolutivi.
Fivaz-Depeursing e Corboz-Warnery, Il triangolo primario, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
LIFETRAPS
Sono degli “schemi patologici” che veicolano specifiche memorie di esperienze relazionali disfunzionali e che ingabbiano la vitalità delle persone: i temi delle varie trappole (la convinzione dell’inaffidabilità/instabilità delle persone che dovrebbero dar sostegno, con la conseguente paura dell’abbandono; il senso di essere costantemente in difetto; la credenza di dover fornire in ogni occasione elevati
livelli di prestazione; l’aspettativa che le cose andranno per forza male; l’inibizione alla spontaneità
ecc.) vengono ripetutamente rielaborati e rinforzati attraverso tutto il corso della vita.
Amadei G.,op. cit.
MOBBING FAMILIARE
Una sentenza della Corte di Appello di Torino lo ha ritenuto, in motivazione, causa giustificante
della addebitabilità, comportamenti assimilabili al “mobbing”: i comportamenti del marito erano
irriguardosi e di non riconoscimento della partner; “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere,
trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati
per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la moglie nell’autostima, nell’identità personale e nel
significato che lei aveva della propria vita.
Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000.
MONOGAMIA
Partner, sposo, marito, moglie, convivente. Il problema della monogamia è che non abbiamo mai
trovato le parole per dirla.
Philips A., Monogamia, Adelphi, Milano 1997.
MONOGAMIA SERIALE
Non è un fatto di quantità, ma di qualità: non di numeri, ma di ordine, di come si regge l’intreccio.
Di come si presenta chi racconta la storia.
Philips A., op. cit.
PAROLA GIUDIZIARIA
La capacità di sostenere la prova del dialogo è stata considerata, a partire da Platone, come criterio
di rispettabilità intellettuale, se non addirittura come criterio della verità stessa. Il ruolo dell’avvocato
diviene altrettanto decisivo poiché a lui compete far sorgere il dubbio e non solo riguardo ai fatti, ma
circa il senso stesso della giustizia.
Garapon A., Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
PERVERSIONE
Non c’è attività umana che non possa venire pervertita, dato che l’essenza dell’impulso perverso consiste nel trasformare la parte buona in cattiva, conservando l’apparenza della bontà.
Meltzer D., Stati sessuali della mente, Armando, Roma 1975.
PERVERSIONE RELAZIONALE
Consiste soprattutto nell’indifferenza alla verità, anzi nel disprezzo di quest’ultima. La vittima deve
uniformarsi alla rappresentazione che, di essa, il cinico le impone, deve piegarsi ad essa. La comunicazione non comunica, non realizza uno scambio, non produce nulla: salvo la svalutazione, la
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manipolazione, il controllo.
Filippini S., op. cit.
PERVERSITÀ
Il termine si avvicina al concetto di distorsione, rovesciamento, pervertimento di ciò che è reale, vero
o giusto. È sinonimo di perversione morale.
Filippini S., op. cit.
PSICOANALISI (METODO)
Psicoanalisi è il nome di un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe
pressoché impossibile accedere. Freud ha dato il nome di psicoanalisi al lavoro clinico con cui si porta la persona a prendere coscienza dei suoi contenuti psichici rimossi. Uno dei risultati del processo
analitico è l’esperienza trasformativa della consapevolezza.
Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol.II, Laterza, Bari 1995.
PSICOANALISI (SCIENZA)
La psicoanalisi e l’etnologia occupano nel nostro sapere un posto privilegiato perché esse costituiscono senz’altro, ai confini di tutte le conoscenze sull’uomo, un tesoro inesauribile d’esperienze e
di concetti, e soprattutto un perpetuo principio d’inquietudine, di problematizzazione, di critica e di
contestazione di ciò che altrove poteva sembrare acquisito.
Foucault M., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967.
PSICODIAGNOSTICA
Conforme alla sua origine caratterologica, la psicodiagnostica fu intesa fino ai giorni nostri, quale
comprensione della personalità in tutti i suoi aspetti. I mezzi di cui si serve la psicodiagnostica sono
ormai basati quasi esclusivamente sui test in tutte le loro forme, scelti a seconda del quesito da risolvere. Risultati, niente è più difficile che giudicare la giustezza delle affermazioni psicodiagnostiche
fatte su una persona. In questo caso si tratta del cosiddetto problema di validazione (controllo di prova
della diagnosi fatta). La sicurezza d’una decisione psicodiagnostica dipende da una parte dalla validità
dei procedimenti usati, dall’altra dalla qualità dell’elaborazione dei dati acquisiti.
Arnold et al.,op. cit.
PSICOPATOLOGIA GENITORIALE
Negli ultimi decenni, l’impatto della psicopatologia genitoriale sullo sviluppo del bambino è stata al
centro dell’attenzione da parte di ricercatori di discipline diverse. Le ricerche hanno evidenziato che
la sintomatologia psichiatrica e i disturbi psichici nei genitori sono associati a effetti specifici e non
specifici sul bambino e sul suo sviluppo. In generale, si è riscontrato che i bambini che vivono accanto a genitori che presentano quadri psicopatologici lievi o severi, presentano numerosi problemi. Ad
esempio, i bambini di genitori con marcati disturbi affettivi presentano disregolazione emotiva, disturbi somatici, difficoltà di apprendimento e sintomi depressivi in misura significativamente maggiore
rispetto a bambini cresciuti in famiglie dove non sono presenti disturbi mentali.
Ammaniti M., op. cit.
PSICOTERAPIA
Col termine psicoterapia analitica si intende una forma di psicoterapia che si basa su principi teorici e
tecnici della psicoanalisi, senza tuttavia realizzare le condizioni di una cura psicoanalitica rigorosa.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
Enciclopedia della psicoanalisi, op. cit.
PSICOTERAPIA DI COPPIA
Trattamento elettivo per affrontare la crisi coniugale che si manifesta con conflitti gravi e pensieriazioni di separazione. Sulla base dei risultati delle ricerche vi è una buona probabilità di recupero
del legame matrimoniale dopo una terapia congiunta di coppia. Ciò non nega affatto la possibilità del
divorzio che rientra nell’area decisionale della coppia.
Cigoli V., op. cit.
RISCHIO (FATTORI DI)
Condizioni sfavorevoli della persona e del suo ambiente prossimale e o distale che caratterizzano le
sue esperienze a partire dalle prime fasi della vita. Questi possono essere continuativi, cioè elementi
e attributi che caratterizzano stabilmente le condizioni di vita della persona e, in quanto tali, possono
avere una influenza durevole nel tempo sul singolo o sul suo contesto. I fattori di rischio continuativi
possono essere: biologici (come anomalie fisiche o comportamentali del soggetto o di qualcuna delle
persone deputate alla sua cura nel corso dello sviluppo); psicologici (come difficoltà o disturbi dell’individuo o degli adulti significativi per lui); ecologici (che comprendono disagi o difficoltà relativi al
contesto di vita della famiglia ristretta o allargata del soggetto). Altri fattori di rischio a cui la persona
può essere esposta nel corso della vita sono di natura transitoria e comprendono condizioni di stress
o di difficoltà a breve termine a cui possono essere sottoposte le famiglie in un momento particolare
della propria storia (come periodi di disoccupazione di un genitore, problemi di coppia, problemi di
salute, ecc.)
Fava Vizziello G., op. cit.
SINDROME DI ALIENAZIONE GENITORIALE O PAS
Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli.
In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore
(genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione” poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione.
È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi
o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile. La PAS è caratterizzata da otto sintomi primari
espressi dai figli come prodotto di una programmazione (o lavaggio del cervello) da parte del genitore
affidatario. La programmazione tende a limitare, o impedire, una relazione piena e soddisfacente tra
figli e genitore non affidatario, spingendo i bambini a rifiutare quest’ultimo.
In sintesi i sintomi sono: la CAMPAGNA DI DENIGRAZIONE; la RAZIONALIZZAZIONE DEBOLE; la
MANCANZA DI AMBIVALENZA; il FENOMENO DEL PENSATORE INDIPENDENTE; l’APPOGGIO
AUTOMATICO AL GENITORE ALIENANTE; l’ASSENZA DI SENSO DI COLPA; SCENARI PRESI A
PRESTITO; l’ESTENSIONE DELLE OSTILITA ALLA FAMIGLIA ALLARGATA DEL GENITORE RIFIUTATO.
Gardner R. in www.CENTRO DOCUMENTAZIONE SINDROME DI ALIENAZIONE GENITORIALE, 2006.
STRESS PER GLI ADULTI
Situazioni in cui si è sopraffatti, si è carenti di risorse sufficienti per adeguarsi alle richieste che la vita
ci pone o si cerca di sopravvivere in ambienti particolari, privati del supporto di altre persone. Stress
di breve periodo, che si superano quando la crisi passa, ci permettono di riportare i nostri sistemi
interni allo stato di normalità e fanno poco danno. Non è necessariamente la natura dello stress che
conta, ma la disponibilità di aiuto o di risorse interne che le persone sotto stress hanno a disposizione
per affrontarlo.
Gerhardt S., Perché si devono amare i bambini, Raffaello Cortina Editore, 2006
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AIAF QUADERNO 2008/1
STRESS PER I BAMBINI
Lo stress per il bambino può persino assumere caratteristiche di un trauma poiché ha assai più a che
vedere con la pura sopravvivenza fisica oppure per minacce psicologiche. Genitori stressati più facilmente inducono stress nei loro figli, soprattutto se molto piccoli. Per arrestare lo stress è necessario
che i genitori siano emotivamente competenti cioè con la capacità di accettare e tollerare qualsiasi
sentimento sorga con la coscienza.
Gerhardt S., op. cit.
TRAUMA
Sensazione di impotenza dell’Io di fronte a forti eccitamenti di origine esterna o interna. L’Io è la
vittima del trauma perché l’evento intrude nelle sue capacità difensive e in qualche modo lacera lo
scherma protettivo tessuto dai meccanismi difensivi dell’Io stesso.
Axia V., Emergenza e psicologia, Il Mulino, Bologna 2006.
TRAUMA RELAZIONALE
Le caratteristiche comunicativo-relazionali attribuite al trauma infantile (precoce) consentono di affermare che ogni trauma rappresenta l’infelice esito di carenze. Il trauma sarebbe quasi sempre la
conseguenza di un modo effettivamente sbagliato, privo di comprensione e di tatto, lunatico e addirittura crudele di trattare i bambini da parte degli adulti, e la presenza di tali incapacità funzionali
comporta la sottrazione dell’ambiente idoneo alla crescita. Pertanto, il trauma precoce modifica lo
sviluppo funzionale, la formazione dell’identità e il senso del Sé. L’individuo ancora incompleto – il
bambino – può crescere bene soltanto in un ambiente ottimale. In un’atmosfera di odio non può
respirare e perisce. Se questo individuo ancora semiliquido non è sostenuto sotto tutti gli aspetti da
quell’optimum, tende ad esplodere.
Sarno L., La relazionalità traumatica: dal trauma infantile alla teoria traumatica della conoscenza, in
Borgogno F. (a cura di), Ferenczi oggi, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
VERITÀ
La verità è un’affermazione su come stanno davvero le cose. È il modo in cui il mondo è, ciò che conta per la verità; non quello che crediamo del mondo. Noi distinguiamo la verità dalla falsità perché
abbiamo bisogno di un modo per separare credenze corrette e scorrette. Le credenze vere sono quelle
che rappresentano il mondo come è, e non come potremmo sperare, temere o desiderare che sia.
Lynch M., La verità e i suoi nemici, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
VULNERABILITÀ
Condizione in cui l’individuo sperimenta la presenza di numerosi fattori di rischio e la scarsità di
fattori protettivi in grado di contrastare il rischio. La forte incidenza dei fattori di rischio personali,
relazionali e/o ambientali, se non contrastata dalle risorse protettive del singolo o del contesto, rende
la persona scarsamente resistente e non in grado di contrastare le difficoltà che si trova ad affrontare.
In altre parole, la condizione descritta innalza la vulnerabilità dell’individuo, cioè il fatto che possa
essere facile vittima degli eventi e soccombere di fronte alla problematicità di una situazione altamente negativa che non riesce a contrastare.
Fava Vizziello G., op. cit.
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SGUARDI
SULLA SCENA DELLA SEPARAZIONE
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Finito di stampare nel mese di giugno 2008
presso la Tipolitografia Quatrini Archimede e figli snc - Viterbo
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