Carlo Maria Martini ORIZZONTI E LIMITI DELLA SCIENZA Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 (SCIENZA E IDEE - Collana diretta da Giulio Giorello) NOTA DI COPERTINA. La gloria di Dio splende «non in uno, ma in soli innumerabili» e la scienza trascorre «di mondo in mondo, di spazio in spazio» senza che mai possa venir «imprigionata» da qualsiasi «circolo d'orizzonte», che altro non è che «menzogna» dei sensi e «illusione» della fantasia. Così nel 1584 Giordano Bruno, bruciato sul rogo in Campo di Fiori (Roma) il 17 febbraio 1600. A quattro secoli di distanza, mentre auspica che la vicenda dell'«eretico di Nola» possa diventare oggetto di «ripensamento critico» da parte della Chiesa cattolica, Carlo Maria Martini s'interroga sui (presunti) "limiti" della scienza e sui sempre mobili "orizzonti" della ricerca. Lo fa con l'aiuto di un cosmologo (Francesco Bertola) e di un astrofisico (George Coyne), di un astrobiologo (Julian Chela-Flores) e di un biologo dell'evoluzione (Edoardo Boncinelli), di un neurofisiologo (Giuliano Avanzini) e di uno psicobiologo (Alberto Oliverio), di un filosofo (Giulio Giorello) e di un teologo (Bruno Forte).Abbiamo a che fare con un solo Universo o più di uno, forse infiniti? Ci sono negli «immensi spazi» forme di vita diverse o simili alla nostra? E' possibile separare la «mente» dal «cervello», e delineare davvero una intelligenza «artificiale»? Come esplorare il mistero della coscienza? E nell'epoca del trionfo della tecnologia - dalla riproduzione del vivente alla telematica - c'è ancora posto per un «riconoscimento del volto» dell'Altro? Dal 1987 l'iniziativa del Cardinale Arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, battezzata provocatoriamente «Cattedra dei non credenti», si rivolge a tutti coloro che vogliono «pensare», invitandoli a una riflessione sulla condizione umana. INDICE. Preludio (Carlo Maria Martini). 1. L'UNIVERSO E IL TEMPO. La pluralità dei mondi (Francesco Bertola). Riciclati dalle stelle (George V. Coyne). Dialogo (Carlo Maria Martini e Francesco Bertola). Dialogo (Carlo Maria Martini e George V. Coyne) 2. LE ORIGINI DELLA VITA. Gli alberi della vita (Julian Chela-Flores). L'evoluzione del vivente (Edoardo Boncinelli). Dialogo (Carlo Maria Martini e Julian Chela-Flores). Dialogo (Carlo Maria Martini ed Edoardo Boncinelli). 3. INTELLIGENZA E SCIENZE COGNITIVE. Le basi biologiche della conoscenza (Giuliano Avanzini). Mente e cervello (Alberto Oliverio). Dialogo (Carlo Maria Martini e Giuliano Avanzini). Dialogo (Carlo Maria Martini e Alberto Oliverio). 4. FILOSOFIA E TEOLOGIA: ANCELLE DELLA SCIENZA? Nelle pieghe della scienza (Giulio Giorello). Per una eteronomia fondatrice (Bruno Forte). Dialogo (Carlo Marta Martini e Giulio Giorello). Dialogo (Carlo Maria Martini e Bruno Forte). 5. SCRITTURE DELL'UOMO E SCRITTURA DI DIO. Una riflessione (Carlo Maria Martini). PRELUDIO (Carlo Maria Martini). E' con particolare trepidazione che presento il tema della Decima Cattedra dei non credenti: "Orizzonti e limiti della scienza". Si tratta di argomenti affascinanti e invitanti, per me in gran parte nuovi. E' possibile, però, non solo intendere le parole di illustri scienziati, ma anche lasciarsi coinvolgere personalmente - secondo lo stile della Cattedra - e divenire così più pensanti, cogliendo sia le dinamiche operanti nell'Universo sia il loro riflesso sull'intelligenza che le scruta e ne trae certezze e dubbi, sentimenti di potenza e senso del limite. Sono domande queste che porto con me. Il lettore che abbia una qualche conoscenza delle sessioni precedenti della Cattedra sa qual è la caratteristica che la contraddistingue: non si tratta dell'occasione per semplici aggiornamenti culturali o discussioni specialistiche, ma dello stimolo per riflettere su se stessi e sul proprio cammino, con il coraggio di mettere in questione sicurezze troppo superficiali o troppo facili; e di far esperienza di visuali inusitate, lontane dal quotidiano, eppure realissime, che molto fanno pensare e suscitano non pochi interrogativi. L'intento è quello di dar voce al credente e al non credente che sono in noi e che, mossi dalla meraviglia di fronte ai tanti misteri dell'Universo, permettono di emergere alle domande profonde che spesso restano silenziosamente inerti nel fondo della coscienza. Da qui l'importanza dello stupore di fronte alla realtà in cui viviamo, del prenderne atto con timore e trepidazione, e insieme con ammirazione. Il volume si apre con una sezione dedicata all'"Universo e il tempo" che comprende gli interventi di Francesco Bertola e di George V. Coyne. Edoardo Boncinelli e Julian Chela-Flores ci condurranno nella seconda sezione alle "Origini della vita", mentre Giuliano Avanzini e Alberto Oliverio ci inviteranno nella terza a riflettere su "Intelligenza e scienze cognitive". La quarta sezione, grazie ai contributi di Giulio Giorello e di Bruno Forte, dovrà farci compiere un passo verso una riflessione di tipo sintetico, offrendo stimoli di riflessione a partire non più dall'esperienza diretta degli uomini di scienza, ma da una visuale dei problemi «dall'alto». Sotto il titolo "Filosofia e teologia: ancelle della scienza?" viene, infatti, esplorato il rapporto tra i diversi modi di sapere e di conoscere - tra scienza, filosofia e teologia. Mi sono riservato la quinta sezione per un ultimo intervento, in modo da poter ripercorrere l'itinerario compiuto e contribuire a una sintesi riflettendo su "Scritture dell'uomo e Scrittura di Dio", non certo per imporre risposte preconfezionate - non sarebbero nello stile della Cattedra - bensì per indicare vie lungo cui proseguire il cammino dell'approfondimento. Nelle sezioni precedenti il mio ruolo è solo quello di chi «si pone in ascolto» per poi proporre ai vari autori, in forma di domande, le suggestioni e le risonanze che il fascino della materia trattata possono suscitare in ognuno di noi. Desidero rivolgere, infine, un vivo ringraziamento a Giulio Giorello perché è stato il primo a cui, quasi due anni fa, ho comunicato l'ipotesi di una Cattedra sulla scienza, trovando comprensione, sostegno e ricevendo utili suggerimenti. Un grazie vivissimo anche a Elio Sindoni che insieme con Giorello ha curato l'organizzazione, la struttura e l'inserimento dei temi. A entrambi si deve pure la designazione dei relatori. AVVERTENZA DEI CURATORI. Il presente volume contiene gli interventi della Decima Cattedra dei non credenti promossa dal Cardinale Arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini sul tema «Orizzonti e limiti della scienza». Gli incontri si sono svolti nell'Aula Magna dell'Università degli Studi di Milano nei giorni 29 ottobre, 5, 12, 19 e 26 novembre 1998. Si è mantenuta la scansione degli argomenti e degli interventi. I curatori desiderano ringraziare per la fattiva collaborazione il Magnifico Rettore, il personale docente e non docente dell'Università degli Studi, nonché tutti coloro che hanno assistito agli incontri, alcuni dei quali hanno contribuito con lettere indirizzate a sua Eminenza a offrire spunti di riflessione di cui si è tenuto conto nella stesura finale. Un grazie particolare per la collaborazione e l'aiuto viene, infine, rivolto a Marcello D'Agostino, Michele Di Francesco, Marco Motto, Fabrizio Palombi, Roberto Spreafico. E.S. C.S. 1. L'UNIVERSO E IL TEMPO. LA PLURALITA' DEI MONDI (Francesco Bertola). L'immagine del mondo secondo la Bibbia riprende la concezione babilonese della Terra piatta. Questa non solo è di dimensioni finite perché «il Signore ti disperderà fra tutti i popoli, da un'estremità fino all'altra» della Terra (Dt 28, 64), ma anche di forma quadrangolare visto che: "Egli alzerà un vessillo per le nazioni e raccoglierà i cacciati di Israele, radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della Terra". (Is 11,12) Si potrebbero ricordare qui le varie tesi dei Padri della Chiesa, da chi cercava con grande sforzo di riconciliare le Scritture con la filosofia greca, come per esempio Ambrogio (354-430), vescovo di Milano, che affermava che una casa può essere sferica all'interno e quadrata vista dall'esterno, a chi considerava il modello biblico come un'allegoria, e infine a chi accettava questo modello come vero. Uno dei punti più discussi era, senza dubbio, quello della presenza degli «antipodi» nel caso di una Terra sferica. Come potevano esserci luoghi abitati da uomini con i piedi sopra la testa? Come potevano esserci regioni in cui la pioggia e la grandine, anziché cadere, «salgono» verso l'alto? Interrogativi del genere sono sollevati, per esempio, da Lattanzio (ca 250-310) che nei suoi scritti certo non cela la sua ostilità per la cultura greca ed ellenistica. Invece di limitarsi a criticare i sostenitori della sfericità della Terra, chi tenta addirittura di proporre una nuova cosmologia, basata su un'interpretazione fin troppo letterale dei testi Sacri, è Cosma Indicopleuste, un monaco vissuto nel sesto secolo d.C. Nella sua imponente "Topographia Christiana", ispirata alle idee dei Padri della Chiesa che lo avevano preceduto, ci offre una descrizione fantastica dell'Universo concepito come un tabernacolo, analogo a quello costruito da Mosè nel deserto. Verso la fine del primo millennio dell'era cristiana sale al soglio di Pietro Gerberto di Aurillac (930-1003), con il nome di Silvestro Secondo: eminente studioso, autore di un trattato di geometria e di uno sull'uso dell'astrolabio, pone simbolicamente fine all'era dell'Universo tabernacolare e segna l'inizio di una pressoché generale accettazione, tra le persone colte almeno, del sistema codificato circa ottocento anni prima da Claudio Tolomeo (ca 100-170 d.C.), con le "sfere" del Sole, della Luna, dei pianeti e delle stelle fisse. Si compie così sul finire del primo millennio dell'era cristiana una profonda rivoluzione in campo cosmologico: dall'Universo di ispirazione biblica si torna a quello di ispirazione greca, ovvero dall'Universo a tabernacolo si passa a quello delle sfere cristalline. E tutto ciò avviene senza particolare turbamento da parte della Chiesa, anzi questa rivoluzione ha luogo all'"interno" della Chiesa stessa, che era l'interprete della cultura del tempo. Una volta ripreso il geostaticismo tolemaico, si trattava di adattare il sistema alla visione religiosa propria del cristianesimo. La distinzione aristotelica tra l'incorruttibile mondo celeste "sopralunare" e il caduco mondo "sublunare" ben si confaceva, in quanto nel primo era ragionevole collocare la divinità mentre il secondo appariva appropriato all'uomo, soggetto al peccato. Di contro, è l'idea dell'eternità del mondo - cara ad Aristotele (384-322 a.C.) - che viene lasciata cadere per far posto a un Universo con un'età finita, come appunto richiede la Bibbia, secondo cui la creazione da parte di Dio avrebbe dato inizio a tutto. Infine, proprio per enfatizzare maggiormente la trascendenza del Creatore e il suo controllo sull'intera «fabbrica dei cieli», il sistema tolemaico viene ritoccato in modo che, oltre al Primo Mobile, venga introdotto un decimo cielo, l'Empireo, un cielo di fuoco celeste, dove trova posto il trono di Dio. Le sfere planetarie si popolano di angeli, e ciascuna è abitata da esseri con grado di beatitudine sempre più elevato man Ma mentre Dante celebra nella sua alta poesia il sistema che potremmo chiamare "tolemaico-cristiano", cominciano a sorgere i primi dubbi sulla validità di una simile costruzione che ospita oltre alla Terra, alle stelle e ai pianeti la stessa divinità. Le prime perplessità vengono dai teologi, che trovano non del tutto proprio che a Dio venga assegnato il decimo cielo: Dio non "può" essere ovunque, cioè in "ogni" luogo? L'assegnazione dell'Empireo non finisce per essere troppo limitativa? Ma quel sistema così magistralmente cantato nei versi danteschi vacilla non solo per le considerazioni teologiche circa onnipresenza e onnipotenza divine: sono gli astronomi a rendersi conto che per «salvare i fenomeni» il sistema solo apparentemente geocentrico ricorre ad artifici come epicicli, eccentrici ed equanti (vedi figure 2, 3, 4). Comincia quella lenta erosione della concezione «aristotelicotolemaica» che due secoli più tardi porterà al cambiamento del sistema del mondo operato da Copernico, la celebre «rivoluzione copernicana». In realtà, nonostante la sua grande idea che il Sole occupi (più o meno) il centro del mondo e la Terra sia solo uno dei pianeti, Niccolò Copernico (1473-1543) resta uomo legato alla concezione medioevale dell'Universo. Crede ancora all'esistenza delle sfere cristalline ("orbes"), come è indicato dal titolo stesso della sua opera maggiore ("De Revolutionibus Orbium Coelestium", 1543), e nella sfericità dell'Universo «perché questa forma è la più perfetta di tutte». E' convinto che i moti dell'Universo siano circolari uniformi come si conviene alla sua natura eterna. Ritiene l'Universo finito, racchiuso entro la volta delle stelle fisse. Quando parliamo di «rivoluzione copernicana» dovremmo distinguere sempre due aspetti, uno scientifico e uno ideologico. "Scientificamente" l'opera di Copernico è ricca di novità, ma al tempo stesso ha profondi legami con il passato. Da un punto di vista strettamente astronomico, lo scambio di due corpi celesti (Terra e Sole) al fine di render meglio conto dei fenomeni osservati non è poi così traumatico. Lo diventa, però, sul piano "ideologico", poiché uno di questi due corpi celesti, la Terra, è quello abitato da noi. L'operazione compiuta da Copernico toglie all'uomo la sua centralità nell'Universo, e mette in discussione le Sacre Scritture sulla rilevanza cosmica degli esseri umani. E mentre per la Chiesa, depositaria delle Scritture, era stato abbastanza facile accettare il passaggio dall'Universo babilonese, con la Terra piatta, all'Universo tolemaico, in quanto la centralità umana non veniva toccata, la reazione al sistema copernicano non poteva che essere drammatica. Figura emblematica di questo travaglio è Galileo Galilei (1564-1642), tenace assertore della «opinione di Copernico». Con le sue scoperte astronomiche, dovute all'utilizzo del cannocchiale da lui messo a punto a Padova nel 1609, Galileo ritiene di poter inferire un duro colpo alla concezione aristotelica del mondo e al contempo di portare argomenti in favore di Copernico. La scoperta della rugosità della superficie lunare rivela che il satellite della Terra non è una perfetta, liscia sfera di etere. I satelliti di Giove mostrano che nell'Universo c'è un altro centro del moto oltre a quello tolemaico costituito dalla Terra. Le fasi di Venere ben si spiegano se il pianeta ruota attorno al Sole (vedi figura 5). La perorazione di Galileo in favore del sistema copernicano troverà piena espressione nel "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", apparso nel febbraio del 1632 e già sequestrato dalle autorità nel luglio dello stesso anno. Per quest'opera Galileo verrà processato, condannato e costretto all'abiura nel 1633. La vicenda è ben nota. Meno conosciuta è, forse, la storia di chi, tra i protagonisti della rivoluzione copernicana, per primo infranse la barriera delle stelle fisse, considerandole come oggetti non tutti alla medesima distanza, ma uniformemente distribuiti nello spazio: Thomas Digges (ca 1546-1595), matematico e astronomo inglese che aveva appreso i rudimenti di queste discipline dal padre Leonard Digges of Wotten (ca 1520-1559), nonché dal matematico-mago John Dee (1527-1608), ammiratore anch'egli del sistema copernicano. Leonard Digges era stato coinvolto nella ribellione di Sir Thomas Wyatt (1554); catturato e condannato a morte, era stato graziato per intercessione del suo protettore lord Clinton, poi conte di Lincoln - e a lui aveva dedicato la prima versione del suo almanacco di matematica pratica, dal titolo "A Prognostication Everlasting" (1555). Se il padre dava prova di notevoli capacità nelle tecniche matematiche utili a naviganti e artiglieri, il figlio, pur attento ai problemi suggeriti da nautica, tecnica delle fortificazioni e balistica, non disdegnava la frequentazione della geometria platonica dei cinque poliedri regolari; nel 1573 aveva pubblicato un "Alae seu Scalae Mathematicae" che conteneva osservazioni della «nuova stella» del 1572 giudicate all'epoca inferiori in precisione solo a quelle di Tyge (Tycho) Brahe (1546-1601) in persona. Già in quell'occasione Thomas aveva proposto di sfruttare le «novità celesti», ossia le più recenti osservazioni, per rivedere e aggiornare la cosmologia copernicana. Nel 1576 doveva aggiungere a una nuova edizione della "Prognostication" del padre un supplemento intitolato "A Perfit Description of the Caelestiall Orbes", che conteneva peraltro una parafrasi, per molti versi fedele, del libro primo del "De Revolutionibus" di Copernico e che divenne una delle opere scientifiche più popolari nell'Inghilterra dell'epoca, tanto che se ne conoscono almeno sette edizioni dal 1576 al 1605. Più di ogni sua affermazione, è un'immagine (vedi figura 6) a evidenziare la visione dell'Universo di Thomas Digges: si tratta dell'illustrazione del sistema copernicano, con il Sole al centro e i pianeti che gli ruotano intorno, in cui però viene rimossa la sfera delle fisse e le stelle risultano distribuite fino agli angoli della pagina, a indicare che non sono tutte alla stessa distanza dal Sole, ma sparse nello spazio infinito. Una concezione rivoluzionaria che ci porta dall'Universo medioevale e copernicano finito a un Universo infinito e uniformemente popolato di stelle! Riemerge così l'idea di un Universo infinito, assai apprezzata da quei filosofi dell'Islam che non accettavano la dimostrazione aristotelica dell'impossibilità del vuoto. Costoro solevano incorporare «come un seme» la fabbrica dei cieli aristotelicotolemaica entro uno spazio infinito ma privo di materia, eventuale dimora di Dio e dei suoi angeli. Una raffigurazione, questa, destinata a diffondersi anche nell'Europa cristiana, dalla fine del tredicesimo secolo in poi, in quanto sembrava aggirare il conflitto tra il Mondo chiuso di Aristotele e l'infinita potenza del Creatore che meglio si sarebbe manifestata in una creazione "infinita" (vedi del resto quanto osservato in T. Kuhn, "La rivoluzione copernicana", trad. it. Einaudi, Torino 1972, p.p. 297-298). A distanza di appena trent'anni dalla pubblicazione del "De Revolutionibus" si compie dunque un'altra rivoluzione, che apre la strada alle moderne concezioni dell'Universo. Il pensiero di Thomas Digges è tuttavia ancora impregnato di teologismo: egli non riesce a delineare una rappresentazione puramente astronomica del sistema del mondo, preoccupato com'è di trovare un posto in cui collocare la divinità. E così, mentre nei sistemi precedenti tutto quello che è teologico è posto nell'Empireo, oltre la sfera delle fisse, per Digges è «l'orbe delle stelle fisse infinitamente eccelso [che] si estende sfericamente in altezza» a costituire lo spazio teologico, «la vera corte degli angeli celesti; priva di dolore; colma di assoluta ed eterna gioia; dimora degli eletti». Ma le ambiguità della rappresentazione di Digges sono oltrepassate nella grandiosa visione dell'Universo di Giordano Bruno (1548-1600). Durante il suo continuo peregrinare da una città all'altra dell'Europa, Bruno soggiornò a Londra dal 1583 al 1585 e certamente ebbe modo di conoscere l'opera di Digges. Tuttavia, la vastità e l'audacia del suo pensiero sono tali che egli può a buon diritto essere considerato uno dei «padri fondatori» della cosmologia moderna. Entusiasta del sistema copernicano (vedi figura 7), profondamente influenzato dalla lettura del "De Rerum Natura" di Lucrezio (ca 98-54 a.C.) dove si sostiene tra l'altro la pluralità dei mondi abitati (in particolare, nel libro primo si dichiara come l'Universo non abbia centro, v.v. 1052-1113; e nel libro secondo si argomenta a favore della infinità dei mondi, v.v. 1023-1047, ipotizzando che nello spazio si trovino anche pianeti abitati da varie stirpi di «uomini» e specie animali), Bruno fece propria anche la lezione di Nicola Cusano (1401-1464), autore del "De Docta Ignorantia" (1440), cui si deve la celebre tesi per cui l'Universo «ha il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo» ("De Docta Ignorantia", II, 12). Ecco un esempio di come l'intuizione cusaniana viene sottoposta a tensione nell'argomentazione bruniana: «ditemi: che cosa è più dissimile alla linea retta, che il circolo? che cosa è più contrario al retto che il curvo? Pure nel principio e minimo concordano, atteso che (come divinamente notò il Cusano [nel "De Mathematica Perfectione"], inventor di più bei secreti di geometria) qual differenza trovarai tra il minimo arco e la minima corda? Oltre, nel massimo, che differenza trovarai tra il circolo infinito e la linea retta? Non vedete come il circolo, quanto è più grande, tanto più con il suo arco si va approssimando alla rettitudine? Chi è sí cieco, che non veda qualmente l'arco BB, per esser più grande che l'arco AA, e l'arco CC più grande che l'arco BB, e l'arco DD più che gli altri tre, riguardano ad esser parte di maggior circolo; e con questo più e più avicinarsi alla rettitudine della linea infinita del circolo infinito, significata per IK? Quivi certamente bisogna dire e credere che, sí come quella linea che è più grande, secondo la raggione di maggior grandezza, è anco più retta; similmente la massima di tutte deve essere in superlativo più di tutte retta; tanto che al fine la linea retta infinita venga ad esser circolo infinito. Ecco dunque come non solamente il massimo e il minimo convengono in uno essere, come altre volte abbiamo dimostrato, ma ancora nel massimo e nel minimo vegnono ad essere uno e indifferente gli contrari» (G. Bruno, "De la causa, principio e uno", in "Dialoghi italiani", nuovamente ristampati con note di G. Gentile, terza edizione a cura di G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1958, p.p. 335-336) (vedi figura 8). Un passo come questo mostra bene come in Bruno si intreccino intuizioni matematiche di larga portata, metafore geometriche, temi tratti dall'atomismo antico e l'immagine cusaniana della "coincidentia oppositorum". Col fanatismo di un rivoluzionario, pieno di «eroico furore», Bruno si spinge a sostenere che il Sistema solare non è l'unico sistema planetario, ma che l'Universo è costituito da «innumerevoli» sistemi solari uniformemente distribuiti nello spazio infinito - negando così non solo ogni geocentrismo, ma anche l'eliocentrismo. E, come se ciò non bastasse, spazza via anche ogni concetto antropocentrico, supponendo che gli infiniti mondi siano popolati da esseri viventi. Ho delineato fin qui, naturalmente per sommi capi, due svolte cruciali in quella che potremmo chiamare, almeno in senso lato, cosmologia. L'abbandono della Terra piatta e lo sfondamento di ogni barriera celeste, così evidente nell'enfasi di Bruno, hanno avuto incidenza diversa nei rapporti tra scienza e religione. Vi è, però, almeno una terza svolta di cui vorrei trattare, dando naturalmente per scontato il cammino che la scienza ha compiuto dai tempi di Galileo a quelli di Einstein passando attraverso la mirabile sintesi di fisica terrestre e celeste operata nei "Philosophiae Naturalis Principia Mathematica" (1687) di Isaac Newton (1642-1727). Alludo alla transizione da un Universo "statico" a uno "dinamico", in evoluzione. La figura chiave è quella dell'astronomo statunitense Edwin Powell Hubble (1889-1953). All'epoca del suo dottorato si era interessato delle chiazze luminescenti nel cielo notturno, che abitualmente chiamiamo «nebulose», giungendo alla conclusione che mentre alcune di esse non erano che nubi di gas all'interno della nostra Galassia, altre erano oggetti più lontani, esterni al nostro "sistema stellare". Nel 1610 Galileo, invocando la «virtù del cannocchiale», aveva «dichiarato» che la Via Lattea (cioè la nostra Galassia), quel «candore latteo come di nube albeggiante», era «nient'altro che una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi ("Opere", III/l, p. 78) - e aveva sostenuto che ciò vale per altre nebulose. All'inizio degli anni Venti del Novecento, servendosi del nuovo telescopio che aveva a disposizione a Mount Wilson (California), Hubble giunse alla conclusione che anche la «nebulosa» di Andromeda era un sistema stellare analogo alla Via Lattea. Inoltre, riuscì a identificare varie stelle della "galassia di Andromeda" come "variabili cefeidi" (stelle la cui luce varia in modo regolare, con un rapporto preciso tra periodo e luminosità media, sicché la misurazione del periodo ne rivela lo splendore "intrinseco", in modo che la misurazione della loro magnitudine "apparente" consente di calcolarne la "distanza"). Fra il 1925 e il 1929 Hubble scoprì che le cosiddette «nebulose spirali» sono altrettante galassie (dunque, la nostra Via Lattea è solo una delle molte galassie spirali nell'Universo). E nel 1929 fu proprio Hubble a formulare la legge che reca il suo nome secondo cui la velocità di recessione (indicata dallo spostamento delle righe spettrali verso il rosso) di una galassia lontana è direttamente proporzionale alla sua "distanza" da noi. Tale legge, dunque, indicava che l'Universo stava attraversando la fase di espansione predetta dai modelli relativistici dinamici. L'idea era già implicita nelle equazioni della relatività generale (1915), ma lo stesso Albert Einstein (1879-1955) si era mostrato reticente ad accettarla, preferendole un modello di universo ancora «statico». Nel 1922 il sovietico Aleksandr Fridman (1888-1925), che pare alternasse alla militanza in campo bolscevico lo studio delle concezioni einsteiniane, aveva trovato delle soluzioni alle equazioni di Einstein, cioè dei modelli cosmologici, in cui l'Universo si espandeva. Più precisamente, se si concepiva al modo della relatività generale lo spazio-tempo dell'Universo come curvo (così come è una bolla di sapone), i calcoli di Fridman mostravano che la curvatura poteva cambiare nel corso del tempo. In alcuni dei suoi modelli la «bolla» si espande indefinitamente, in altri fino a una certa soglia dopo la quale, per così dire, «ricade» su se stessa, quando la gravità ha la meglio sull'espansione. Insomma, tutti questi modelli di Fridman contemplano comunque una fase in cui il nostro Universo si espande in modo tale da produrre una velocità di recessione proporzionale alla distanza - il che è appunto la legge trovata da Hubble e dai suoi colleghi (probabilmente non al corrente dei risultati di Fridman) studiando gli spostamenti verso il rosso della luce delle galassie "qualche anno dopo". (Per il complesso rapporto tra Einstein e Fridman vedi A. Pais, "«Sottile è il Signore...». La scienza e la vita di Albert Einstein", trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1991, in particolare p.p. 287-289 e p.p. 310311). Ancora oggi sono in discussione, con sorti alterne, le due possibilità che Fridman aveva intravisto per l'Universo espandersi indefinitamente o collassare su se stesso dopo l'arresto dell'espansione. Resta aperta, inoltre, la questione dell'"origine". Da un punto di vista strettamente matematico l'Universo sarebbe nato in un preciso momento, il "tempo zero" ossia il tempo del Big Bang, e non avrebbe senso chiedersi cosa c'era prima, poiché spazio e tempo cominciano a «esistere» da quell'«istante». Negli anni Cinquanta tutto ciò fu letto come una conferma della dottrina biblica della creazione e della possibilità di trarre dai risultati scientifici argomenti a favore dell'esistenza di un Dio creatore. Ma la descrizione matematica non basta, in quanto non possiamo estrapolare da essa alla conoscenza della «realtà» fisica. Considerando infatti i fenomeni fisici che avvengono durante l'evoluzione dell'Universo, quando si cerca di dare una descrizione a ritroso nel tempo, ci si trova di fronte a una barriera, situata a una distanza incredibilmente piccola dall'inizio matematico, 10-43 secondi. Oggi ci mancano le leggi fisiche per descrivere ciò che è avvenuto oltre quel tempo (detto "tempo di Planck"). Nella cosmologia quantistica, cioè in quella cosmologia che studia la fase iniziale dell'Universo, quando meccanica quantistica e relatività generale dovevano essere unificate, lo stato originale dell'Universo non è necessariamente un punto, non è la "singolarità" iniziale «classica» ove la densità della materia è infinita, come si pensava qualche decennio fa. L'origine potrebbe essere dislocata addirittura a un tempo infinito nel passato, o ci potrebbe persino essere una mancanza di origine, come nell'Universo autocontenuto di Stephen Hawking (vedi, per esempio, il suo "Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo", trad. it. Rizzoli, Milano 1988, in particolare p.p. 156-165). La caratteristica più saliente del nostro Universo è, dunque, quella di essere in continua evoluzione, evoluzione che la cosmologia contemporanea è in grado di descrivere dagli istanti «prossimi» al Big Bang fin quasi agli scenari terminali. Questo è dovuto al fatto che all'origine le condizioni del nostro Universo erano semplici e non caotiche, come ci è rivelato dalla uniformità della radiazione di fondo che oggi osserviamo (si tratta della radiazione residua dello splendore del caldissimo Universo primordiale, oggi talmente spostata verso il rosso che non ci appare più sotto forma di luce, ma di microonde, cioè di onde radio della lunghezza di alcuni centimetri. La scoperta di tale radiazione «fossile» risale al 1965 ed è dovuta ad Arno Allan Penzias e Robert Wilson che ricevettero per questo il Nobel nel 1978. Le loro ricerche non erano minimamente indirizzate a cercare «conferme» del modello del Big Bang - e furono Robert Dicke e i suoi colleghi della Princeton University a interpretare quella radiazione come l'eco del «grande scoppio»). Il modo in cui evolve l'Universo è così determinato da una serie di dipendenze e parametri come le condizioni presenti all'inizio, la forma delle leggi fisiche e il valore delle costanti fondamentali della natura. Ebbene, studiando le trasformazioni dell'Universo è emersa l'idea della «perfetta sintonia». Ci si è resi conto, cioè, che per poter avere proprio l'Universo in cui viviamo le condizioni iniziali la forma delle leggi fisiche e il valore delle costanti fondamentali devono essere in una perfetta sintonia tra loro, nel senso che anche un sia pur minimo scostamento dalla loro forma e dai loro valori avrebbe portato a un universo completamente diverso dal nostro. Esempi di perfetta sintonia ("fine tuning") se ne possono dare a decine, per cui alla fine si arriva alla conclusione che il nostro Universo è dovuto a un'unica, precisa, ben determinata combinazione. Ma esso ha una particolarità che non è per nulla da sottovalutare. Nel nostro Universo, in particolare sulla Terra, è presente la vita, anche vita intelligente, anche un tipo di vivente capace di osservare il cosmo e interrogarsi su di esso. Un universo minimamente differente dal nostro, senza stelle e pianeti, non contemplerebbe la nostra presenza. Perché la vita, così come noi la conosciamo, apparisse, c'era bisogno di un universo grande, esteso e in espansione proprio come il nostro. Da tale punto di vista, quell'angoscia che secondo molti ci assalirebbe quando constatiamo di essere piccoli grani di sabbia nell'immensità dello spazio, non ha ragione d'essere, perché la nostra esistenza esige questa immensità. Un universo di dimensioni diverse sarebbe incompatibile con la nostra esistenza. L'insieme di queste considerazioni, che altro non sono che una constatazione che le cose sono in questo modo e non altrimenti, prende il nome di «principio antropico» nella formulazione «debole». In quella detta «forte» si va oltre, in quanto si sostiene un condizionamento nei parametri dell'Universo al fine di rendere possibile la presenza dell'uomo: un Universo "sintonizzato" per l'apparizione dell'"Homo sapiens"! Ora, l'affermazione del sistema copernicano ci ha condotto alla formulazione di un «principio copernicano» che nega in generale qualsiasi centralità. Ma, con il modo di ragionare «antropico», non si assiste a un ritorno della centralità perduta, basata non più su una semplice proprietà geometrica, bensì su un processo evolutivo che sembra essere l'unico in grado di produrre la nostra presenza? Il principio antropico non potrebbe indurre a domande che esulano dall'ambito strettamente scientifico? Anche per evitare tali sconfinamenti, è stata recentemente proposta la concezione degli infiniti universi per cui il "nostro Universo" sarebbe meramente accidentale. L'idea che possano esistere molti o addirittura infiniti universi allarga enormemente la nostra prospettiva cosmica, e se un giorno quella che è attualmente solo una pura speculazione troverà qualche riscontro, saremo di fronte a un ampliamento di orizzonti paragonabile appunto a quello che alla fine del Cinquecento portò dalla concezione aristotelica del Mondo "chiuso" entro la sfera delle stelle fisse a quella di un Universo "infinito" propugnata da Giordano Bruno. L'insieme dei molteplici universi viene indicato con il termine di «Multiverso», usato in contrapposizione a «Universo», che indicherebbe così una particolare sottocomponente, come è, per esempio, quella in cui noi viviamo. L'idea di innumerevoli universi non è nuova; ma il tratto caratteristico della concezione attuale è la sua natura scientifica, basata sulle fluttuazioni quantistiche del vuoto. Con i molti, anzi infiniti universi si ritorna a un modello di tipo stazionario di durata eterna, entro cui nascono, si sviluppano e muoiono gli universi (un po' su larga scala come capita in piccola scala per noi «nei più comuni Accidenti della Vita», come già diceva Thomas Wright of Durham (1711-1786) vedi M. Rees, "Prima dell'inizio. Il nostro universo e gli altri", trad. it. Cortina, Milano 1998, p. 261). Un'ultima considerazione viene suggerita dalla storia delle idee. La concezione dei molti universi è rintracciabile già negli atomisti antichi, Leucippo (seconda metà del quinto secolo a.C.) e Democrito (ca 460370 a.C.). Diogene Laerzio nelle "Vite dei filosofi" attesta che «Leucippo sostiene che il tutto è infinito ed è in parte "pieno" in parte "vuoto" [...]. Da questi si formano mondi infiniti e in essi si risolvono» (Libro nono, 30, trad. it. di M. Gigante, Laterza, Bari 1962, p. 437). Quanto a Democrito, come riporta Ippolito nella "Confutazione di tutte le eresie", «si esprime come Leucippo riguardo agli elementi, che sono il pieno e il vuoto, ritenendo come essere il pieno, non essere il vuoto; per lui, le sostanze sono in eterno movimento nel vuoto. I mondi sono infiniti e sono differenti per grandezza: in taluni non vi è né Sole né Luna, in altri invece sono più grandi che nel nostro mondo, in altri ancora ci sono più soli e più lune. Le distanze tra i mondi sono disuguali, sicché in una parte ci sono più mondi, in un'altra meno, alcuni sono in via di accrescimento, altri al culmine del loro sviluppo, altri ancora in via di disfacimento, e in una parte nascono mondi, in un'altra ne scompaiono. La distruzione di un mondo avviene per opera di un altro che si abbatte su di esso. Alcuni mondi sono privi di esseri viventi e di piante e di ogni umidità» ("I Presocratici", Laterza, Bari 1969, vol. 2, p. 685). Peraltro Epicuro (ca 341-271 a.C.) nell'"Epistola a Erodoto" scrive: «E ancora, i mondi sono infiniti, sia quelli simili al nostro, sia quelli dal nostro dissimili. Perché gli atomi, che abbiamo testé dimostrato essere infiniti, percorrono anche i più lontani spazi. E in verità quelli opportuni a dare origine a un mondo o a costituirlo, non possono essere esauriti né da un solo mondo, né da un numero finito di mondi, né da quanti mondi sono simili, né da quanti sono a essi diversi. Nulla dunque s'opporrà a che i mondi siano infiniti» (trad. it. di E. Bignone in "Opere, frammenti e testimonianze", Laterza, Roma-Bari 1986, p. 46). E comunque in pieno Medioevo cristiano non si opposero le grandi autorità della teologia. Mentre la tendenza prevalente dei filosofi era quella di considerare l'Universo come unico, sotto l'influenza di Aristotele nel cui sistema non c'era spazio per altri mondi, nel 1277 il vescovo di Parigi Etienne Tempier condannava 219 proposizioni filosofiche che non dovevano essere insegnate sotto pena di scomunica, tra cui la numero 34 «Quod prima causa non posset plures mundos facere». Sebbene con la condanna di Tempier si volesse soprattutto sostenere che non c'è limitazione alla potenza di Dio, essa finì forse con l'aprire le menti all'idea che l'esistenza di innumerevoli mondi sia "in principio" possibile. Anzi, per il celebre fisico, epistemologo e storico della scienza Pierre Duhem (1861-1916) risalirebbe paradossalmente a questa condanna l'origine della scienza moderna (P. Duhem, "Le Système du Monde", 10 voll., Hermann, Paris 1914, 1958, in particolare vol. 6, p. 66; vedi anche S. J. Dick, "Plurality of Worlds", Cambridge University Press, Cambridge 1982, p. 28 e p.p. 195- 196; ma per una valutazione critica di questa tesi di Duhem si veda la ricostruzione di L. Bianchi, "Il Vescovo e i filosofi", Lubrina, Bergamo 1990). Pertanto, anche quella che è (finora) l'ultima proposta della cosmologia contemporanea non va scartata "a priori", ma vagliata con la dovuta attenzione. In conclusione mi auguro che, alla luce dei punti di contatto tra ricerca scientifica e speculazione teologica, si possa evitare quello che chiamerei l'«abuso della cosmologia». Abuso da parte degli uomini di scienza, che troppo spesso e a sproposito, soprattutto nei loro scritti divulgativi, ricorrono a parole come «Dio» e «creazione»; ma anche abuso da parte di chi pensa di trovare nella cosmologia una risposta a problemi che non le sono propri. Un percorso parallelo tra scienza e teologia, con una costante attenzione di quest'ultima agli aspetti mutevoli della prima, è quello che produrrà i frutti migliori. RICICLATI DALLE STELLE (George V. Coyne). Anche per l'Universo si può parlare di evoluzione. Cosa sappiamo dell'origine e della storia dell'universo fisico, inteso come la matrice da cui è nata e si è sviluppata la vita? La cosmologia contemporanea ci insegna che nella prima generazione di stelle ebbe luogo la sintesi degli elementi che compongono la Terra e i pianeti a essa simili: questi, infatti, data la loro composizione chimica, non si sarebbero potuti formare nei primi stadi dell'evoluzione dell'Universo, quando vi erano solo idrogeno ed elio. Il Sole, che esiste già da quasi cinque miliardi di anni, continuerà a brillare per altri cinque miliardi, durante i quali fornirà costantemente l'energia che si libera nella fusione dell'idrogeno in elio. Alla fine, quando l'idrogeno sarà esaurito, il Sole si trasformerà in una stella gigante rossa che invaderà gran parte del Sistema solare. Ma l'Universo continuerà a espandersi e raffreddarsi indefinitamente o cesserà di espandersi per dare inizio al processo inverso di contrazione e di riscaldamento (vedi "questo volume", p.p. 20-21)? Per quanto oggi ne sappiamo, possiamo solo dire che le condizioni dell'Universo sembrano abbastanza vicine a entrambe le alternative, ma non siamo ancora in grado di dire quale si realizzerà. Tale quadro costituisce oggi un'acquisizione conoscitiva ben consolidata, grazie alla convergenza delle conquiste della cosmologia, sia teorica sia osservativa, con quelle della fisica delle particelle e delle alte energie. L'evoluzione è un tratto caratteristico dell'Universo da cui non possiamo prescindere se miriamo a una spiegazione sia del suo insieme, sia delle sue parti. Ora, di fronte all'età dell'Universo, la comparsa della vita sulla Terra appare evento relativamente recente. In questi ultimi anni è enormemente cresciuto l'interesse per questa domanda: c'è vita «altrove»? In modo particolare, dopo l'annuncio di una probabile scoperta di materiale organico su una meteorite appartenuta una volta al pianeta Marte. Tuttavia, quel che veramente deve sorprenderci non è tanto scoprire che la vita si trovi nell'Universo anche fuori della Terra, quanto che "nell'Universo vi sia vita". Ci sono voluti dodici miliardi di anni perché nell'evoluzione dell'Universo in espansione si realizzassero le condizioni necessarie a che la vita potesse cominciare a essere. Tali condizioni, in questa lunga evoluzione, non avrebbero potuto attuarsi senza l'incessante concorso di circostanze fisiche particolari ritenute indispensabili per l'esistenza stessa della vita. Davanti a ciò possiamo ragionare in due modi: la vita non ha altro significato che di essere lo stadio finale del lungo processo di evoluzione dell'Universo, oppure, è il culmine dello svolgersi estremamente lungo e delicato di un programma rappresentato dalle leggi fisiche insite nell'Universo. In ambedue i casi la meraviglia è più che giustificata, ed è legata non tanto alla spazio quanto al "tempo". Cerchiamo ora di localizzare in questo scenario l'emergenza della vita e di discutere qualche punto essenziale. Oggi si ritiene che la vita sia comparsa, nelle sue prime forme microscopiche, intorno a tre miliardi di anni fa, ovvero circa dodici miliardi di anni dopo il Big Bang e sette miliardi di anni dopo la formazione delle prime stelle. Perché ci ha messo così tanto? Si ritiene che per produrre le quantità di elementi chimici indispensabili alla vita siano state necessarie tre generazioni di stelle. Infatti, gli elementi pesanti si creano per nucleosintesi solo all'interno delle stelle e solo quando queste muoiono essi vengono diffusi nello spazio per dare origine a una nuova generazione di stelle. La durata della vita di una stella dipende dalla sua massa e può variare da parecchi milioni di anni per stelle di grande massa, a diversi miliardi di anni per stelle di piccola massa. Sono stati, comunque, necessari circa dieci miliardi di anni di evoluzione stellare per produrre carbonio, azoto, ossigeno, eccetera. Lo ripeto: l'Universo è per natura evolutivo ed è per così dire diventato grande e vecchio "prima" che "noi" potessimo esistere. Sarei tentato di dire: "perché noi potessimo esistere". Ma, così facendo, introdurrei la categoria filosofica di "finalità" che, come tale, esula dal campo della scienza. La comparsa della vita nell'Universo pone, ovviamente, una serie di problemi scientifici ai quali, a mio parere, non è stata ancora data soluzione adeguata. Tenendo conto che per l'emergenza della vita occorreva una particolarissima sintonia ("fine tuning", vedi p. 22) delle costanti e delle leggi fisiche della natura, potremmo chiederci come essa sia potuta apparire. La vita sarebbe stata impossibile, se anche una sola di queste costanti avesse avuto valore (anche di poco) differente. Facciamo un esempio. Nel processo della nucleosintesi che si attua nelle stelle, uno dei passi essenziali è la formazione del carbonio 12 a partire dall'elio. Due atomi di elio formano un atomo instabile di berillio 8. Tuttavia, alcuni atomi di berillio 8, prima di decadere, catturano un altro atomo di elio per formare atomi di carbonio 12 in uno stato eccitato: questi ultimi passano allo stato fondamentale emettendo ciascuno un fotone. Ma la cattura di un atomo di elio da parte del berillio 8 è un processo di "risonanza", nel senso che se il livello di energia del carbonio 12 eccitato fosse anche di poco differente, la quantità di carbonio 12 prodotta in tale processo sarebbe molto minore. Ciò avrebbe come conseguenza non solo la riduzione del carbonio 12, ma anche quella degli elementi più pesanti indispensabili alla vita, come ossigeno, azoto, eccetera che si formano negli stadi successivi del processo di nucleosintesi stellare. A quanto mi risulta non esiste una teoria che spieghi perché il livello eccitato del carbonio 12 debba avere quel determinato valore. E' certo, però, che se non avesse quel preciso valore, noi non esisteremmo. Ma "noi ci siamo", e la nostra esistenza è intimamente legata alla materia e all'energia dell'Universo di cui siamo parte. I nostri atomi si scambiano continuamente con quelli dell'Universo, al punto che ogni anno il 98% del nostro corpo si rinnova. Ogni nostro respiro mette in circolo miliardi e miliardi di atomi già riciclati nelle ultime settimane dal respiro di altri viventi. Nulla di ciò che ora forma i miei geni esisteva un anno fa. Tutto viene rinnovato, rigenerato ogni momento, attingendo a quella fonte di materia e di energia che è l'Universo. La mia pelle si rinnova ogni mese e il mio fegato ogni sei settimane. Possiamo dire che, tra tutti gli esseri dell'Universo, noi siamo tra i più riciclati! Siamo così ricondotti alle interrogazioni di fondo. Primo: la vita, nel quadro dell'evoluzione dell'universo fisico, doveva necessariamente apparire? O apparve per caso? Tale comparsa può essere "spiegata"? Secondo: la vita esiste solo sul nostro pianeta? Terzo: la vita, a livello dell'intelligenza e dell'autocoscienza, rappresenta un fattore importante per la futura evoluzione dell'Universo? Sono domande che, forse, ci portano fuori del campo delle scienze della natura. Preferisco, tuttavia, correre questo rischio riassumendole in un'unica questione tendenziosa: esistiamo "solo" per riciclare l'energia nella forma in cui ci viene fornita dall'Universo, oppure siamo esseri speciali, nei quali l'Universo trova la possibilità di passare dalla materia allo spirito? In questo quadro generale dell'Universo in evoluzione in cui si colloca la vita, e noi con essa, vorrei presentare alcune considerazioni di natura metascientifica, più che scientifica in senso stretto. La ricerca da parte dei cosmologi di una teoria unitaria che includa tutte le forze fondamentali conosciute (cioè gravità, forza nucleare forte, forza «debole» e forza elettromagnetica - queste ultime due sono state unificate nella forza «elettrodebole») è essenzialmente un tentativo di trovare la struttura matematica ideale alla base di tutta la realtà creata. Di fatto, i risultati sperimentali mettono in evidenza l'urgenza di questa ricerca, ma si ha pure l'impressione che essa si situi in una visione alquanto platonica della fisica matematica e che il controllo sperimentale di una teoria unificata, nel nostro mondo di ombre, sia di interesse secondario. Tuttavia, va tenuto presente che tale ricerca ha avuto inizio ed è stata sostenuta in relazione ai modelli di cosmologia evolutiva accennati sopra e sorti in seguito alle osservazioni e alle misure dei parametri caratteristici dell'Universo, come la dipendenza temporale della temperatura e della densità di un universo in evoluzione. La cosiddetta dinamica dei sistemi non lineari ha dato origine a due nuovi campi di studio: la teoria del caos e quella della complessità. L'immensa varietà di forme e strutture esistenti sia nel mondo inorganico sia in quello organico mette alla prova qualunque teoria che ponga a fondamento della fisica una serie di leggi deterministiche. Tuttavia, applicando alle leggi della fisica l'analisi matematica dei sistemi non lineari, si ottengono modelli che permettono una conoscenza delle strutture dei cambiamenti: cambiamenti, però, di cui non è possibile "predire" il risultato finale in quanto non si è in grado di prevedere l'effetto prodotto da piccole perturbazioni che si accumulano con legge non lineare (nel senso già indicato da Henri Poincaré (1908), per cui «piccole differenze nelle condizioni iniziali generano differenze grandissime nei fenomeni finali», vedi "Scienza e metodo", trad. it. Einaudi, Torino 1997, p. 56). In definitiva, il mondo sensibile ha una ricchezza tale da eludere il potere predittivo di modelli matematici anche molto sofisticati. Il che ci riporta alle nostre considerazioni sulla comparsa della vita nell'Universo. Se possedessimo una teoria unitaria, e conoscessimo tutte le condizioni fisiche dell'Universo in espansione, in un istante molto vicino al Big Bang (qualche unità di Planck, vedi p. 21), potremmo predire l'apparizione della vita? A mio parere, chi è alla ricerca «onestamente» di una teoria unificata dovrebbe rispondere che saremmo in grado di predire l'emergere, l'esatta natura e intensità delle quattro forze fondamentali, insomma la fisica che conosciamo. Ma possiamo dire che la vita è il risultato di tante biforcazioni avvenute in obbedienza a una «termodinamica non lineare», tale che noi non saremmo mai stati in grado di prevederla, anche nel caso che avessimo posseduto la Teoria del Tutto e la conoscenza di tutte le leggi della fisica macroscopica e microscopica? Uno dei concetti caratteristici della nuova cosmologia è quello della «mente di Dio». Ritengo che nella maggior parte dei casi con questo termine si voglia intendere la struttura matematica ideale alla quale corrisponde, secondo Platone, il mondo delle ombre nel quale viviamo. La mente di Dio sarebbe una teoria unificata che ci permetterebbe di comprendere tutte le leggi fisiche e le condizioni iniziali dell'Universo. Nel caso di siffatta teoria, avremmo anche una comprensione adeguata della vita? A mio giudizio, il concetto di «mente di Dio» nella cosmologia non implica alcun carattere di intenzionalità. Ma può la vita essere spiegata senza far ricorso all'intenzionalità? Riconosco la natura piuttosto pretenziosa di queste domande; esse, infatti, vanno al di là del campo di competenza proprio dello scienziato, che è quello di un approccio puramente razionale alle questioni che riguardano il mondo in cui viviamo. Esse pertanto m'inducono a ulteriori riflessioni. Benché possa sembrare un giudizio alquanto sbrigativo, ritengo corretto sottolineare come, da Platone a Newton, la disputa circa il ruolo della matematica nella comprensione scientifica dell'Universo si sia svolta quasi per intero entro una cornice religiosa. Ancora oggi sentiamo ripetere dagli scienziati il ritornello della scoperta della «mente di Dio». Ci tocca, allora, il compito di fare un serio tentativo, sia di valutare questa lunga storia, sia di dare senso all'eco che ancora ne risuona al giorno d'oggi. La conoscenza razionale di Dio è analogica; perciò, è giusto che nella ricerca della comprensione di Dio si faccia ricorso anche ai concetti della cosmologia. Dobbiamo tentare di comprendere Dio come creatore di un Universo dove il fine e il progetto non sono i soli, e neanche i più importanti, fattori, ma dove la spontaneità e l'indeterminismo nell'Universo (anche, secondo la teoria di sistemi dinamici non lineari, a livello macroscopico) hanno contribuito in modo significativo all'evoluzione di un Universo in cui è apparsa la vita. Dobbiamo, però, anche guardarci dall'insidiosa tentazione della cosmologia contemporanea dove Dio viene visto essenzialmente, se non esclusivamente, come una spiegazione e non come una persona. Dio rappresenta la struttura matematica ideale, la Teoria del Tutto. Secondo questa cultura Dio è Spiegazione. Ma l'uomo di fede sa bene che Dio è molto di più, e che la rivelazione nella quale Dio si è manifestato nel tempo è più che una comunicazione di un'informazione. Anche se scopriremo la «mente di Dio», non per questo avremo necessariamente trovato Dio. DIALOGO (Carlo Maria Martini e Francesco Bertola). CARLO MARIA MARTINI: Ho trovato opportuno che Lei abbia ricordato il valore di Giordano Bruno anche «scienziato». Lo conoscevo nella sua veste di teologo, trattato come eretico: sarei lieto se la sua figura potesse diventare oggetto di uno di quei «ripensamenti critici» che la Chiesa si è ripromessa per la fine del secondo millennio. Bruno riteneva che l'eccellenza di Dio si manifestasse «non in uno, ma in Soli innumerabili». La cosmologia contemporanea non esita a prospettare lo scenario di molti universi, il Multiverso, anche se questa congettura non pare allo stato attuale empiricamente controllabile. Allora, non c'è forse contraddizione tra lo spirito delle scienze osservative e sperimentali e un'ipotesi come questa, che letteralmente toglie il fiato? Di per sé l'idea dei molti universi non contrasta con alcuna verità di fede, anzi Lei stesso ha ricordato come fosse previsto il contrario nella sentenza del 1277. Tuttavia, mi domando come possano degli scienziati formularla senza adeguato sostegno empirico. FRANCESCO BERTOLA: La questione dei molti, forse infiniti universi si ripropone ora nel contesto del cosiddetto principio antropico, spesso per non cadere in forme troppo spinte di finalismo. Resta un dovere dell'uomo di scienza indicare, prima o poi, un controllo empirico, se non una prova di laboratorio che ci consenta di dire: qui è nato un nuovo universo. Ma siamo ancora agli inizi. Inoltre, l'impresa potrebbe addirittura apparire contraddittoria, perché per definizione Universo dice il tutto, mentre noi parliamo di "molti" universi. Comunque il problema resta e lo sforzo attuale della comunità scientifica potrà dare i suoi frutti... forse solo alla fine del prossimo millennio. MARTINI: E allora come vive uno scienziato le incertezze dell'attuale cosmologia circa l'origine dell'Universo, e forse la fine? Nella speranza che un giorno saranno dissolte? Oppure con il presentimento che appena trovate le «risposte» saranno cambiate le «domande»? Mobile è l'orizzonte, sempre al di là della nostra presa? BERTOLA. Di incertezze ne avremo sempre, poiché la scienza si conquista. Ma le vittorie in questa impresa non sono altro che la rimessa in discussione di quello che, prima, si teneva per certo. Proprio quando crediamo di essere giunti a un punto indubitabile, ci accorgiamo che la verità è diversa, e per questo siamo costretti ad andare oltre. E' un processo continuo. Per esempio, a proposito del problema dell'origine del nostro Universo, val la pena di ricordare che negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento si era individuato il famoso "tempo zero" - come risultava dalle equazioni - e si pensava che fosse quella l'origine dell'Universo, laddove si trattava solo di una soluzione matematica. In seguito, ci si è accorti che questo non basta alla fisica. Personalmente dubito che si possa pervenire a una risposta definitiva... e forse la natura stessa della scienza è quella di una crescita continua che mai perviene a qualcosa di assoluto. Tuttavia, il carattere fallibile dell'impresa scientifica non esime i fisici dal compito di indicare possibili controlli e di cercare delle prove. Ciò vale per un'eventuale fine del nostro Universo e persino per la già citata ipotesi del Multiverso. La scienza come insieme di acquisizioni incontra di continuo degli ostacoli, ma non porrei un limite ai desideri e agli sforzi degli scienziati, pur riservandomi di vederne i risultati - anche se, lo ribadisco, nel caso di ipotesi molto ardite e speculative, questi verranno magari tra secoli. DIALOGO (Carlo Maria Martini e George V. Coyne). CARLO MARIA MARTINI: Dalla sua esposizione appare chiaro che sappiamo stabilire l'età dell'Universo in cui viviamo (più o meno quindici miliardi di anni) e che, anzi, si possono individuare delle «pietre miliari»: per esempio, a dodici miliardi di anni dall'«inizio», cioè tre miliardi di anni fa, è comparsa la vita. Ora, come si conciliano tali stime con le ipotesi ricordate da Bertola circa un'eventuale origine dell'Universo in un tempo infinitamente lontano, o addirittura con l'ipotesi di mancanza dell'origine? GEORGE V. COYNE: Parlando della durata dell'Universo intendo riferirmi a una durata dall'"inizio" dell'Universo in cui vivo ed entro cui, come scienziato, raccolgo dati e cerco di arrivare a una descrizione fisica o almeno a un modello matematico che renda conto di tali dati. Una durata, dunque, empirica, misurabile. Sorge, però, il quesito: durata sì, ma "da che punto"? Le stesse leggi della fisica erigono per così dire un muro. Il vero e proprio Big Bang - quello che i matematici chiamano singolarità iniziale - nonché gli eventi immediatamente successivi, compresi nel cosiddetto "tempo di Planck" (da zero a 10 alla meno 43esima secondi), non possono nemmeno inviarci alcun messaggio. Di fatto, possiamo "vedere indietro nel tempo" solo fino al momento in cui l'Universo divenne trasparente (a circa trecentomila anni dal Big Bang). Prima di quest'epoca, caratterizzata da una temperatura maggiore di 6000 gradi, l'energia radiante non poteva liberarsi dalle particelle materiali con cui interagiva. Va quindi precisato che non è possibile riprodurre le condizioni estreme verificatesi nell'Universo primordiale. Ma, almeno in una certa misura, dalle osservazioni che facciamo oggi delle "conseguenze" di ciò che avvenne in quel "laboratorio unico" possiamo tentare di risalire alle grandezze che lo caratterizzavano. MARTINI: Diceva Tommaso d Aquino: «Novitas mundi non potest demonstrationem recipere ex parte ipsius mundi». E' inutile, cioè, ricercare all'interno del mondo qualcosa che ne riguarda l'origine. Secondo Lei ciò coincide con le moderne intuizioni oppure Tommaso voleva dire altro? COYNE: La ringrazio per la citazione. Anche alla luce della scienza dei nostri giorni penso che Tommaso abbia avuto buone ragioni per affermare che è vano cercare all'interno del mondo qualcosa che ne riguardi l'origine. Bisogna cioè trascendere l'Universo per vederne le origini. L'Universo, anche assumendo che sia finito, non può essere osservato nella sua totalità. Di esso, infatti, vediamo solo quella parte (il cosiddetto "Universo visibile") compresa nella distanza percorsa dalla luce in un tempo eguale alla sua età. Dato che la luce ha una velocità finita, non osserviamo mai gli oggetti dell'Universo "come sono", ma unicamente "come erano". I nostri telescopi non sono solo puntati sullo spazio lontano, ma anche sul tempo remoto. Oggetti molto lontani potrebbero essersi evoluti enormemente, e il segnale di questa evoluzione potrebbe non esserci ancora pervenuto. Poiché conosciamo un solo universo, non possiamo procedere come di consueto confrontando oggetti simili per scoprire le leggi comuni che ne determinano il comportamento. Ci sono, è vero, cosmologie che postulano molti universi; ma qui le cose si fanno ancora più difficili, dato che le distanze che li separano superano quella percorsa dalla luce nel tempo corrispondente all'età del nostro Universo. Sono universi che non possono comunicare tra loro e nemmeno con il nostro. E allora mi sembra legittimo asserire che la teoria dei molti universi sia più speculazione che scienza. Infine, la citazione di Tommaso mi sollecita a un'ulteriore riflessione. Applicando la meccanica quantistica alla cosmologia, facendo cioè della cosmologia quantistica, possiamo avere anche un modello dell'Universo che scaturisca da una sorta di nulla ("ex nihilo"). In tal caso potremmo dar ragione dell'Universo senza trascendere l'Universo stesso. Verrebbe allora smentita quella tesi di Tommaso... Peraltro, da un siffatto modello cosmologico, in cui l'Universo è concepito in modo da non aver bisogno di condizioni al limite, non bisogna affrettatamente concludere alla non esistenza di Dio. Il Dio dei teologi non è una condizione al limite imposta all'Universo, ma il creatore, in qualunque senso possiamo scientificamente esplicitare l'idea di un'origine dal nulla. MARTINI: Dai limiti della cosmologia scientifica siamo così ricondotti alle difficoltà stesse del teologo o del filosofo (e Tommaso era entrambe le cose) che non possono non porsi la questione del senso del nostro Universo. COYNE: Come mostra il caso della battuta di Tommaso, anche la ricerca teologica può incontrare dei limiti. Limiti che, in qualche occasione almeno, si definiscono proprio nel confronto con la scienza. In tutte le sue procedure la teologia muove sempre dalle verità di fede per giungere a un'intelligenza della fede stessa: "fides quaerens intellectum". In questo senso, proprio perché si sforza di giungere a una comprensione razionale della rivelazione, essa è soggetta a tutte le evoluzioni del pensiero umano. Pur riconoscendo che la verità rivelata ci è stata data in tempi determinati e attraverso persone particolari, il suo approfondimento richiede un cammino continuo. Inoltre, poiché la conoscenza razionale di Dio è analogica, è opportuno che nell'impresa si ricorra anche ai concetti via via dispiegati dalla scienza, in particolare dalla cosmologia. I criteri che abitualmente si richiedono per una buona teoria sono che essa sia semplice, elegante, controllabile e che abbia un grande potere di unificazione. Non sempre nella pratica tutti questi requisiti vengono soddisfatti insieme. Ma restano ideali regolativi della «nuova fisica». Non potrebbero esserlo anche di una «nuova teologia» che cooperi con l'impresa scientifica nell'avvicinarci a quelle verità che ancora non possediamo? 2. LE ORIGINI DELLA VITA. GLI ALBERI DELLA VITA (Julian Chela-Flores). Quanto la scienza ci insegna sull'origine della vita ha un'indubbia risonanza filosofica e ne possiamo trarre un insegnamento etico. Per ragioni di onestà intellettuale mi pare opportuno esporre in primo luogo le ragioni che mi inducono a negare che sussista un conflitto tra impegno religioso e ricerca scientifica. Ciò premesso vorrei trattare, in secondo luogo, il problema dell'origine, dell'evoluzione e della distribuzione della vita nell'Universo, insistendo su quella che a mio avviso è la questione principale: la relazione vita-Universo. Ma, poiché non abbiamo ancora una risposta sull'origine della vita in termini di teoria dell'evoluzione, cercherò in terzo luogo di delineare una possibile via alternativa: la mia tesi sarà che l'esplorazione del Sistema solare, alla ricerca di altre forme di vita, sia prima o poi in grado di fornire un considerevole aiuto per risolvere il "mistero dell'origine" tramite il confronto fra differenti forme di vita. Prendo dunque le mosse da quello che, a mio parere, dovrebbe costituire il punto di partenza di qualsiasi «Cattedra dei non credenti»: l'esortazione a prendere in esame il dialogo tra fede e non fede, che si svolge all'interno di ognuno di noi, qualunque "credo" professi, magari quello dell'ateismo più radicale. In particolare, penso che chiunque si dedichi alla scienza debba interrogarsi sul senso e le possibilità di coesistenza tra fede e ragione. E, per quanto mi riguarda, non trovo alcuna contraddizione tra ricerca scientifica ed esperienza di fede, poiché entrambe hanno di mira la verità - anche se, nel caso della scienza, non nelle forme della tradizione religiosa ebraica, cristiana, islamica, eccetera. Nella scienza si cerca la verità tramite il confronto tra teorie ed esperimenti, oppure tra teorie e osservazioni ripetibili. In nessuno dei due casi dovrebbero, a mio avviso, prodursi contraddizioni con la fede. La scienza, infatti, è di per sé limitata - come suggerisce anche il titolo di questa stessa Cattedra. Essa è rivolta unicamente allo studio di fenomeni osservabili e soggetti a esperimenti, e quindi non coinvolge direttamente la fede. Al contrario, nel "De Genesi ad Litteram" Agostino (354-430) ha indicato un modo di porre l'interazione fede-ragione oggi quanto mai attuale. Allorché la scienza approda a una qualche conclusione che suoni in contrasto con la narrazione biblica, Agostino non respinge il resoconto scientifico e pone il problema dell'interpretazione allegorica delle parole della Bibbia. Personalmente, non smarrisco la fede poiché mi appello da un lato alla distinzione e dall'altro alla graduale convergenza tra le scritture dell'uomo - le discipline scientifiche, e la Scrittura di Dio - la rivelazione. A questo proposito, vorrei menzionare anche un non credente, addirittura desideroso di spiegare "perché" non era "cristiano", il filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970). Nel suo "Scienza e religione" (1935) questi evidenzia come filosofia e teologia rappresentino altrettante frontiere della scienza. A suo dire, infatti, le procedure della scienza non contemplerebbero, tra i problemi di cui si occupano, alcune questioni essenziali per l'esistenza, mentre quest'ultimo è l'aspetto della vita religiosa «forse più desiderabile» che comunque «può sopravvivere quali che vengano a essere le nostre convinzioni sulla natura dell'Universo» (trad. it. Longanesi, Milano 1974, p. 18). L'impresa scientifica sarebbe dunque limitata dal suo stesso rigore. Insomma, restando entro i confini della scienza ammette Russell, non possiamo giungere a dare tutte le risposte di cui l'uomo sente il bisogno: a queste provvedono, invece, filosofia e teologia. Da parte mia, ritengo che molti dei problemi che sorgono nel dialogo tra scienza, filosofia e teologia siano dovuti non tanto alla pratica scientifica in sé, quanto all'assunzione di certe posizioni filosofiche. E' il caso del positivismo logico, una corrente che esclude come puro «non senso» quello che non può essere affrontato con una metodologia scientifica. Io sono tra coloro che limitano la pratica della scienza al dialogo tra teoria ed esperimento: è con esso che è nata la conoscenza scientifica. Una ipostatizzazione in chiave filosofica del dialogo tra teoria ed esperimento può rappresentare un'indebita interferenza nel convergere di diverse manifestazioni della cultura umana. A questo punto, passiamo a trattare l'argomento dell'origine e dell'evoluzione della vita, fino alla comparsa dell'uomo sulla Terra. Tale ricerca rappresenta il frutto del lavoro di un gran numero di scienziati per oltre settant'anni. Ma, per essere sinceri, è ancora lontana dall'offrire risultati soddisfacenti. Come ha ricordato George Coyne (vedi "questo volume", p.p. 28-30), dopo tre generazioni di stelle, l'abbondanza di elementi è sufficiente per la cosiddetta evoluzione chimica, ossia l'auto-organizzazione dei mattoni della cellula vivente. E' a questo punto dello sviluppo che possiamo parlare di una nuova scienza delle origini. Tale ricerca non ha ancora un nome definito, anche se il termine «astrobiologia» sembra godere oggi di largo favore. Il presupposto è che l'evoluzione biologica sia apparsa dopo l'evoluzione cosmica e quella chimica. Il processo evolutivo ha fornito all'uomo notevoli proprietà, uniche nel Regno Animale, quelle stesse che sono state analizzate da Charles Darwin (1809-1882) nelle opere in cui ha gettato le basi della sua teoria dell'evoluzione. Non va dimenticato che, nel 1996, durante una sessione dell'Accademia Pontificia, Giovanni Paolo Secondo ha dichiarato che «la teoria dell'evoluzione è più che una ipotesi». Possiamo interpretare questo riconoscimento come un incoraggiamento al processo di convergenza della scienza con la filosofia e la teologia. Ma, al di là dell'importanza della teoria darwiniana, non si può tacere del fallimento, almeno sino a oggi, della ricerca mirante a esplorare il meccanismo chimico che sarebbe alla base dell'origine della vita. Un'alternativa praticabile per dissiparne il mistero può essere quella di cercare vita fuori dalla Terra, poiché ciò ci permetterebbe di confrontare forme di vita indipendenti, giungendo così a una comprensione più ampia e più profonda dell'origine della vita. Tale ricerca dovrebbe estendersi anche oltre i confini del Sistema solare. E' mia personale convinzione che ciò possa portare a risultati positivi nei prossimi decenni. Oggi sappiamo che su alcuni pianeti orbitanti attorno a stelle della nostra Galassia, abbastanza vicine a noi, sussiste la possibilità di trovare nuovi organismi. Ma anche senza spostarci così lontano, l'esplorazione del nostro Sistema solare, grazie al lavoro di molti ricercatori, potrebbe offrirci una visione più chiara di come sono andate le cose all'origine, e quindi, dell'evoluzione della vita sulla Terra. Per meglio intendere l'obiettivo principale dell'astrobiologia, possiamo servirci di una metafora. L'insieme del vivente può essere rappresentato come un albero, con pochi rami e tante foglie; ognuna di queste rappresenta una specie diversa; per esempio la nostra, "Homo sapiens", sarebbe, in questa visione simbolica, una foglia. A livello molecolare il nostro albero della vita appare semplice (vedi figura 9): ci sono tre rami fondamentali, che corrispondono a tre gruppi di cellule ossia, usando la terminologia della biologia cellulare, tre «domini». Il primo ramo corrisponde alle cellule eucariotiche: sono le cellule di cui siamo composti e hanno il materiale genetico racchiuso entro una membrana di lipidi. Tali cellule sono tipiche di tutti gli organismi pluricellulari, dalle alghe fino agli animali superiori, compreso l'uomo. Al secondo dominio appartengono i batteri, o «procarioti»; il terzo ramo dell'albero della vita è infine il dominio degli «archeobatteri». Una delle principali differenze tra batteri e archeobatteri consiste nella natura stessa della membrana cellulare. Gli archeobatteri sono organismi unicellulari estremofili: possono sopravvivere sul fondo degli oceani nonostante le elevatissime pressioni esistenti (sono cioè «barofili»), così come al bordo delle sorgenti idrotermali, al limite delle temperature di denaturazione delle proteine (sono cioè «termofili»). Sono questi tre domini filogenetici che hanno colonizzato il nostro pianeta. La biologia ci permette di capire quale collocazione abbia l'uomo nell'albero della vita "terrestre". Nella pianificazione delle future missioni di esplorazione entro il Sistema solare, a mio parere, dovremmo avere come obiettivo il reperimento di eventuale "eucariogenesi", cioè di cellule con un certo grado di complessità. Inoltre, ritengo che la ricerca della vita fuori dalla Terra ci ponga di fronte a una nuova domanda fondamentale: qual è la nostra collocazione nella "foresta della vita"? Tale domanda ci porta direttamente al cuore dell'astrobiologia, poiché potremmo essere ben presto in grado di identificare "altri" alberi della vita, localizzati in corpi celesti diversi dal nostro. In altre parole, infatti, in futuro potremmo avere esperienza di evoluzioni parallele, in ambienti differenti da quello terrestre. Con le potenzialità tecniche di cui disponiamo, saremmo comunque in grado di continuare il fecondo dialogo fra teoria ed esperimento iniziato con Galileo Galilei (1564-1642). Restiamo all'immagine della foresta: la ricerca della vita nel sistema solare ci permetterà di scoprire se alcuni alberi siano abbastanza vicini tra loro. Il sistema gioviano sembra per ora il luogo più probabile dove cercare un «secondo albero della vita». Con il suo «occhiale» (1610) Galileo scoprì quattro «lune» di Giove, i «pianeti medicei» (vedi p. 12). Tra questi, il satellite più vicino a Giove è Io, le cui dimensioni sono di poco maggiori di quelle della nostra Luna. Mentre sulla Luna non si ha alcuna attività vulcanica, Io è invece il corpo di tutto il sistema solare in cui tale attività è più intensa. Il secondo satellite galileiano è Europa, di dimensioni minori della Luna e con la caratteristica principale d'essere ricoperto da una crosta di ghiaccio. Proprio Europa è oggi il candidato principale, fra i corpi celesti diversi dalla Terra, per ospitare forme di vita; il primo, dunque, che potrebbe rivelare un "secondo albero della vita". Europa è relativamente vicino a Io e potrebbe avere attività vulcanica, cioè una possibile fonte di calore atta a sciogliere il ghiaccio sovrapposto al nucleo di silicato. Nella comunità scientifica si discute anche della possibilità che vi sia su Europa un oceano di acqua liquida. E' pure probabile la presenza di carbonio e composti organici. Vi sarebbero quindi su Europa i tre ingredienti indispensabili per lo sviluppo di forme di vita, del tipo di quelle che noi conosciamo sulla Terra: una fonte di energia, acqua liquida e carbonio. Per i prossimi dieci anni vi sono diverse proposte per l'esplorazione di Europa, che, attualmente, è «scrutato» dalla missione "Galileo" (lanciata nel 1989 ed entrata in orbita attorno a Giove nel 1995), grazie alla quale ci sono pervenute nitidissime immagini del satellite. Una delle missioni in discussione, proposta da un gruppo di ricercatori degli Stati Uniti, con la collaborazione del Centro Abdus Salam di Trieste, prevede la discesa di una sonda sulla superficie ghiacciata di Europa, dove potrebbe essere trovato materiale biologico. E' interessante notare che quel satellite avrebbe al suo interno un nocciolo, ricoperto da un mantello di rocce e infine da uno strato di ghiaccio: configurazioni simili sono presenti in diverse località della Terra. Un primo esempio è l'Oceano Artico, caratterizzato da profondi bacini: pur non essendo presenti fonti idrotermali sul fondo dell'Oceano, la temperatura dell'acqua, sino a una profondità di circa 500 metri, è superiore a quattro gradi centigradi. Conosciamo anche molto bene i tipi di microorganismi che si trovano al Polo Sud, dove l'habitat è abbastanza simile a quello di Europa: nelle valli secche, al di sotto di un mantello di ghiaccio permanente, si trovano laghi in cui sono presenti batteri (cianobatteri) e diatomee (cellule eucariotiche). Non si può escludere che questi tipi di organismi, presenti in Antartide, possano sopravvivere in condizioni simili a quelle presenti in un eventuale oceano di Europa. E' per questo che sarebbe interessante poter inviare un sommergibile capace di penetrare lo strato di ghiaccio di quel satellite di Giove. Un tale mezzo scenderebbe sotto il ghiaccio di Europa grazie a un «penetratore» realizzato con tecniche molto avanzate. Questa missione potrebbe essere pronta nel 2010, ma non vi è ancora la certezza di poter reperire i fondi necessari. Tuttavia, anche se la ricerca di un altro "albero della vita" fallisse sia su Europa sia su ogni altro corpo del Sistema solare, altri alberi della vita potrebbero comunque esistere abbastanza vicini al nostro "villaggio cosmico", accanto a quelle stelle prossime al Sole attorno alle quali oggi sappiamo che orbitano sistemi planetari. Forse, solo così si potrà far luce sul meccanismo dell'origine della vita. In ogni caso, mi sembra importante riflettere sulle implicazioni che la scoperta di vita extraterrestre avrebbe sulla nostra cultura, e in particolare sulla scienza, sulla filosofia e sulla teologia. Basti solo ricordare quale impatto ebbe sulla società e sulla cultura del Vecchio Continente la scoperta dell'America, in particolare l'incontro con i nativi americani. Con Cristoforo Colombo si è meglio compreso anche l'uomo europeo! L'arte del confronto tra civiltà diverse ha creato l'antropologia moderna. Ma, nello studio della vita, questa «arte» potrà avere un ruolo anche maggiore. Infatti, nella discussione circa la possibile esistenza di altre forme di vita, possiamo oggi avvalerci delle conquiste della biologia molecolare. Questa studia a livello microscopico le foglie dei tre rami dell'albero della vita terrestre. La sfida che ci attende nel Terzo millennio avrà quasi certamente un impatto maggiore di quello che ebbe la scoperta dell'America alla fine del quindicesimo secolo. Si tratterà di confrontare la massima espressione dell'evoluzione cellulare terrestre (l'eucariogenesi) con i microorganismi che potrebbero esistere nel nostro Sistema solare, od oltre. L'allargamento dell'orizzonte scientifico che ne conseguirà potrà rivelarsi forza motrice di un'impetuosa crescita della cultura umana. Non potrebbero qui fede e ragione avvicinarsi ulteriormente? L'EVOLUZIONE DEL VIVENTE (Edoardo Boncinelli). L'origine della vita, ossia quello che è successo prima degli ultimi tre miliardi e ottocento milioni di anni, è tutt'altro che chiara. Possiamo certo immaginare che vi sia stato un periodo in cui la vita era assente. Sappiamo, ovviamente, che vi è stato un periodo in cui la vita è comparsa: infatti, "noi ci siamo". Ma cosa sia successo in quel frangente non lo sappiamo; e non è facile neppure definire cosa sia vita. Da sempre l'uomo si è interrogato sul vivente e gli è parso abbastanza facile distinguerlo dal non vivente. Tuttavia, cerchereste invano una definizione adeguata di vita in qualsiasi manuale di biologia. Non mancano tentativi che vi si avvicinano: per esempio, la vita è una quantità di materia organizzata in maniera particolare. Il segreto della vita sarebbe allora l'organizzazione - ma parlando di organizzazione, dato che l'organizzazione viene considerata tratto caratteristico della vita, non si fa altro che ribadire che il segreto della vita è la vita. Che dire allora del grande tema della comparsa del vivente in un Universo in evoluzione? Uno scienziato può immaginare, ipotizzare, congetturare, discutere con entusiasmo e passione in convegni e congressi quello che è successo "prima" di tre miliardi e ottocento milioni di anni fa, ma di fatto non lo sa. Invece, quello che è accaduto dalla comparsa della prima cellula fino all'apparizione dei primi organismi, nel lasso di tempo che va quindi da tre miliardi e ottocento milioni sino a seicento milioni di anni fa, si può ricostruire con un certo grado di attendibilità, pur restando ancora semplice materia di osservazione più che di riflessione e di spiegazione. Quello che è poi successo da seicento milioni sino a quaranta-cinquantamila anni fa costituisce il campo vero e proprio del biologo, che può dire molte cose, può spiegarne molte altre, e persino sperare di avere spiegato "quasi" tutto. Infine, c'è l'ultimo periodo, quello che porta dai primi esseri simili all'uomo all'uomo stesso. Qui, di nuovo, lo scienziato come scienziato vacilla. Attenzione: non sto minimamente contrapponendo «scienziato» a «uomo di fede». Voglio, invece, ribadire che lo scienziato, se onesto, deve riconoscere di comprendere piuttosto bene quanto è successo tra seicento milioni e quaranta-cinquantamila anni fa, ma deve anche confessare che gli sfuggono il "prima" e il "dopo". Accontentiamoci: un vivente è una certa quantità di materia organica, fisicamente separata dal resto del mondo, dotata della capacità di metabolizzare materia ed energia, nonché di quella di instaurare e sostenere una propria organizzazione interna. Sono queste le proprietà essenziali della "cellula", l'unità fondamentale di tutti gli esseri viventi. Per mantenere e trasmettere questa organizzazione interna la cellula necessita di una continua "attività"; essa presenta, però, anche una reattività, cioè la capacità di avvertire le sollecitazioni dell'ambiente circostante e di regolare su di esse il proprio assetto e comportamento. Anche un organismo elementare come un batterio può dirigersi verso una fonte di materiale nutritizio o allontanarsi da una sorgente di sostanze nocive; un'alga verde unicellulare può andarsi a posizionare in una zona dell'ambiente che offra opportune condizioni di luminosità, eccetera. Anzi, un batterio o un'alga possono fare molto di più: collocati improvvisamente in un ambiente privo di certe sostanze, possono cominciare a sintetizzare loro stessi quelle che sono ora indispensabili alla loro sopravvivenza. Le cellule del nostro corpo non sono da meno. Per esempio, quando una cellula avverte nel sangue la presenza dell'ormone tiroideo, impartisce automaticamente un'accelerazione al proprio metabolismo, mentre se avverte una carenza di zuccheri, tende a ridurne il consumo. Le cellule posseggono, dunque, tre caratteristiche essenziali: sensibilità, capacità di far corrispondere alla ricezione di certi segnali l'approntamento di certe risposte, capacità di mettere in atto queste stesse risposte. All'interno degli organismi "pluricellulari" vige, per così dire, una stretta divisione del lavoro, e la proprietà di rispondere alle sollecitazioni esterne risulta maggiormente articolata. Essa è concentrata, anche se non confinata, in alcune particolari cellule dette cellule nervose o neuroni. Il loro complesso costituisce il cosiddetto sistema nervoso: la sua funzione è quella di mettere l'organismo in relazione con l'ambiente circostante e di guidarne la risposta alle sollecitazioni che da quello provengono. Allo scopo occorrono dei sensori specializzati che captino cosa sta succedendo all'intorno (in un organismo superiore come l'"Homo sapiens" tali sensori sono rappresentati dalle cellule degli organi di senso); e ancora, delle linee di trasmissione ascendenti che trasportino il segnale nervoso dai sensori periferici all'unità decisionale centralizzata (nel caso dell'uomo, le vie nervose "afferenti", cioè che afferiscono al cervello); inoltre, delle linee di trasmissione discendenti che dall'unità decisionale centralizzata portino alla superficie del corpo la decisione di un'eventuale strategia di risposta (nel nostro esempio, le vie nervose "efferenti" che scendono dal cervello alla periferia); infine, degli organi e delle strutture capaci di mettere in atto la risposta (nel caso degli animali superiori e dell'uomo, l'apparato motorio deputato a mettere in atto le decisioni centrali è così articolato da consentire quelle risposte comportamentali che tanto affascinano gli etologi). Seicento milioni di anni fa, quasi improvvisamente, si è formata la maggior parte delle grandi divisioni degli animali che osserviamo oggi: vertebrati, insetti, platelminti, e così via. E questi individui piuttosto «primitivi» o «antichi» si sono andati adattando alle condizioni ambientali, si sono cioè «evoluti». Ma quando si arriva all'origine dell'uomo e alla comparsa della mente, del linguaggio e della coscienza, lo scienziato esita. Che cosa abbiamo imparato in questi ultimi centocinquant'anni circa l'evoluzione dei grandi "phyla" o tipi animali? Come è noto, la teoria dominante in ambito scientifico è quella di Darwin. Anche se non mancano i detrattori: non c'è giorno o quasi in cui non si dica che il "darwinismo" è morto e sepolto (e sappiamo bene come ai giornali piaccia gridare allo scandalo o andare a caccia del sensazionale). In realtà, esso gode di ottima salute, anzi non è mai stato bene come oggi. Per essere più precisi, la teoria vigente è piuttosto una sorta di "neodarwinismo": l'idea originaria di Charles Darwin (1809-1882), che ormai ha più di un secolo, è stata raffinata e perfezionata grazie alle conquiste della genetica e della biologia molecolare del Novecento. Darwin aveva intuito come si potesse spiegare l'evoluzione dei viventi sulla base di una serie di meccanismi che, se dal punto di vista razionale sono soddisfacenti, da quello psicologico lasciano l'amaro in bocca, perché puramente casuali. E l'essere umano non ama troppo le spiegazioni di tipo casuale: preferisce quelle in cui si enfatizza un fine, uno scopo; è affascinato dall'idea di progetto, ama contemplare la realizzazione di un disegno. Da scienziato, però, devo dire che buona parte di quanto è accaduto nel processo evolutivo durante il periodo di cui sto parlando è spiegabile razionalmente, e la spiegazione non è nemmeno troppo complicata. Consideriamo una popolazione di granchi, molto simili l'uno all'altro. Ogni tanto, per caso nasce un granchio che ha, poniamo, le zampe più lunghe. La ragione è che nel suo patrimonio genetico si è prodotta casualmente un'alterazione o, meglio, una mutazione. In genere questo mutante sarebbe uno svantaggiato: del resto, in qualsiasi popolazione un diverso è svantaggiato, perché se la popolazione è abituata a vivere con un certo stile sia materiale sia comportamentale (anche lo stile comportamentale è importante nel mondo animale), il diverso non può che venire penalizzato. Insomma, nella stragrande maggioranza delle situazioni questo granchio con le gambe più lunghe (o più corte, potete fare l'ipotesi che vi aggrada) verrà eliminato dalla lotta per la vita. Tuttavia, può anche darsi che nasca un granchio con caratteristiche tali da recargli un minimo vantaggio su tutti gli altri: o perché effettivamente nell'ambiente dove vive quelle caratteristiche sono più vantaggiose, oppure perché nel frattempo è cambiato qualcosa, per esempio le maree, il mare si è ritirato, o si è affermato un certo tipo di alghe che prima non esisteva. Allora, il mutante può riuscire a imporsi: quel granchio disadattato potrà venire favorito a discapito degli altri granchi, i «normali» di una volta. Anzi, se le condizioni ambientali non cambieranno ulteriormente, i nuovi individui potranno lasciare una progenie più abbondante di quanto facciano i «normali», e i loro discendenti finiranno per costituire il grosso dell'intera popolazione. Nel grande calderone della vita in cui (soprattutto nel mare) si mettono in circolazione milioni di uova - e di queste solo poche decine arrivano all'adulto -, nella grande competizione biologica, potrà capitare che dopo un certo lasso di tempo tutta la popolazione avrà le caratteristiche di questa "bizzarria originaria", oppure (molto più probabilmente) la popolazione finirà con il dividersi in due: per ritornare al nostro esempio, granchi con le gambe corte e granchi con le gambe lunghe. Quelli con le gambe corte si sistemeranno un pochino più a riva, quelli con le gambe lunghe un pochino più al largo. Ecco come avviene la creazione di una nuova specie, oppure lo sdoppiamento di una specie già esistente. Questo semplice meccanismo ci permette di rendere conto di molti aspetti di quella che appare la caratteristica della vita: la tremenda variabilità, la tremenda diversità biologica. Chiunque si accinga a studiare la vita, non può non essere immediatamente colpito dall'enorme varietà di specie. Ve ne sono davvero moltissime, con esattezza non sappiamo nemmeno quante. Solo di animali sembrano esservene quasi dieci milioni, e solo di insetti quasi due milioni! E' chiaro, quindi, che in questa gigantesca lotta per la vita, per usare le parole di Darwin, non c'è un solo vincitore, e nemmeno due o tre, ma ve ne è un numero enorme: tutti sono vincitori o, meglio, lo sono tutti quelli che si trovano al momento attuale sulla crosta terrestre. Solo che sono diversi dai loro antenati di cinquanta, sessanta o cento milioni di anni fa. Mentre si diversificano, in molti casi infatti si adattano. Dai libri di divulgazione o dai documentari scientifici veniamo bombardati con la parola «adattamento», anzi «mirabile adattamento»: il muso e la lingua del formichiere sembrano progettati "ad hoc" per catturare le formiche dentro i formicai, la coda del castoro serve in modo eccellente a piazzare la malta dei muriccioli negli stagni, eccetera. Quello che ci colpisce, al di là della varietà, è l'adattamento - anzi, si è tentato di spiegare "tutta" l'evoluzione in termini di adattamento. Ma se si considera non la singola specie, bensì la totalità delle specie, si vede che tutte si sono adattate. Non vi è quindi una "sola" forma di adattamento. Ora, se "tutte" sono adattate, diventa vuota la categoria di adattamento; utilizzarla significa semplicemente asserire che "ogni" specie trova il "suo" modo di perpetuarsi. Pertanto, la teoria di Lamarck (ben dura a morire, soprattutto tra certi intellettuali), rivale di quella darwiniana, nell'enfatizzare l'adattamento finisce per privilegiare un "unico" aspetto: secondo Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), infatti, o meglio secondo i suoi epigoni, i mutanti non nascono per caso, come vuole la teoria darwiniana, ma per il fatto che di generazione in generazione sono trasmissibili particolari "caratteri acquisiti". Si tratta di una spiegazione affascinante, brillante, che risolverebbe non pochi problemi - peccato non sia quella vera. I caratteri acquisiti durante la vita non si «ereditano». Succede spesso che teorie molto affascinanti non siano vere: la Natura fa quello che le pare, non quello che vorremmo noi. Dunque, il meccanismo darwiniano, che appare così frustrante per la nostra psicologia e per il nostro desiderio di comprendere, invoca pesantemente l'azione del caso. E' il caso e solo il caso quello che presuppone i nuovi mutanti ed è solo su quegli individui varianti che effettivamente compaiono nelle varie popolazioni che può intervenire la selezione naturale operata dall'ambiente. In questa circostanza il ricorso al termine «caso» non significa che non potremmo, volendo, analizzare i meccanismi che portano alla comparsa di nuovi varianti. Significa soltanto che la comparsa di questi varianti non è in alcun modo correlata alle esigenze degli individui della specie in questione, né a qualche cosa che sia successo precedentemente, né alla direzione che prenderanno successivamente gli eventi. Non si tratta, quindi, di una casualità incondizionata, ma di una casualità specifica rispetto a un'eventuale direzionalità degli eventi evolutivi. Perciò, più che di "casualità" si dovrebbe parlare di "non direzionalità" o di "non intenzionalità". Insomma, giusto il contrario di quello che ogni teoria ingenua dell'adattamento o lo stesso lamarckismo danno per scontato - cioè che i cambiamenti abbiano luogo sempre in una determinata direzione. Questa direzione sarebbe quella di un sempre maggiore adattamento degli individui delle varie specie alle condizioni ambientali nelle quali vivono, il che comporterebbe a sua volta un miglioramento delle varie specie e a lungo andare la comparsa di organismi sempre più complessi. E' interessante notare che la scienza non riesce ancora, qui come altrove, a dirci esattamente come stanno le cose - anche se può dirci con sicurezza come le cose non stanno. Anche l'Universo in cui noi oggi viviamo ha avuto una sua «evoluzione». Agli «inizi» vi era una sola forza, cioè un solo principio attivo che controllava il comportamento di tutte le entità allora esistenti. Dopo un'infima frazione di secondo tale unica forza ha cominciato a esprimersi in due forme diverse: la forza gravitazionale da una parte, e quella comprendente le altre tre forze oggi note dall'altra. La diminuzione di temperatura - che resta sempre dell'ordine di 103 gradi ha causato la prima rottura della perfetta simmetria originaria. Dopo un'altra frazione di secondo si è separata dal resto della compagnia la forza nucleare forte e infine, quando la temperatura è ulteriormente scesa - a 10 alla quindicesima gradi - si sono separate l'una dall'altra anche la forza nucleare debole e quella elettromagnetica (vedi figura 10). Oggi la temperatura media dell'Universo è di circa 270 gradi sotto zero, corrispondente ad appena 3 gradi sopra lo zero assoluto (gradi Kelvin): ovviamente, qua e là si possono avere situazioni locali molto più confortevoli, come quelle della superficie del nostro pianeta dove noi viviamo al tepore del Sole... Via via che l'Universo si andava raffreddando, si sono prodotte innumerevoli altre rotture di simmetria - con la comparsa di oggetti fisici sempre più complessi, dalle galassie alle stelle, da queste ai pianeti e, infine, agli organismi viventi. Ritengo molto opportuno concettualizzare come una (ennesima) rottura di simmetria la separazione degli esseri animati da quelli inanimati. Per comprendere qualcosa della vita bisogna, dunque, avere una disposizione per la storia. Consideriamo, per esempio, un organismo pluricellulare come l'uomo. Esso deriva dalla combinazione di due gameti, la cellula-uovo femminile e lo spermatozoo maschile, i quali derivano da due organismi adulti, i quali, a loro volta, derivano dalla combinazione di altri gameti, e così via, fino ad arrivare ai primi individui appartenenti a quella specie. Questi si saranno originati dai gameti di altri organismi un po' diversi, e questi da altri gameti derivanti da altri organismi pluricellulari. Il primo organismo pluricellulare sarà stato originato dall'aggregazione di alcuni organismi unicellulari, i quali saranno a loro volta derivati da altri organismi unicellulari e via discorrendo, fino a risalire al «primo oggetto vivente» comparso sulla Terra... A questo punto la catena si interrompe. Il cammino a ritroso che abbiamo tracciato è pieno di «lacune». Non sappiamo come si siano formate le prime macromolecole capaci di autoreplicarsi, come si siano associate ad altre macromolecole capaci di metabolizzare efficacemente materia ed energia, come tutte queste si siano poi autosegregate in una membrana cellulare dotata di certe caratteristiche, e come, dopo centinaia di milioni di anni, un certo numero di tali cellule primitive si sia aggregato e associato per dare luogo a un organismo complesso. Così, come abbiamo detto, la teoria darwiniana dell'evoluzione spiega molte cose, ma non tutte. Per esempio, non dà ragione dei grandi salti. Darwin, uomo riflessivo e critico quanto altri mai, ne era consapevole. Come è possibile che l'occhio, strumento perfetto, compiuto e raffinato, sia il frutto di una serie di eventi casuali quali la creazione di certi «mutanti» e la loro affermazione? In una fondamentale pagina del capitolo sesto dell'"Evoluzione delle specie" - ove poco dopo paragona la teoria dell'evoluzione alla concezione copernicana non foss'altro che per la maniera in cui entrambe stravolgono il senso comune - Charles scrive: «Io confesso liberamente che mi pare il più alto assurdo possibile supporre che l'occhio sia stato formato, per mezzo dell'elezione naturale, con tutte le sue inimitabili disposizioni ad aggiustare il suo fuoco alle varie distanze, ad ammettere diverse quantità di luce e a correggere l'aberrazione sferica e cromatica» (cito volutamente dalla prima traduzione italiana, 1864 - reprint Zanichelli, Bologna 1982, p. 147 -, dove è significativa la scelta di «elezione naturale» per rendere quella che è oggi per noi «selezione naturale», "natural selection"). E ancora, qualche anno dopo, in una lettera: «L'occhio mi fa venire ancor oggi un brivido freddo, ma [...] la ragione mi dice che dovrei superare questo brivido» (citato in R. Dawkins, "La conquista del monte impossibile", trad. it. Mondadori, Milano 1997, p. 132). Non è facile rispondere a queste domande neppure oggi, anche se si è convinti di aver compreso almeno per l'essenziale i meccanismi che hanno condotto a tutto ciò e di sapere qualcosina di più circa i grandi salti. Abbiamo già enfatizzato il concetto di organizzazione a proposito del vivente. Nel caso degli oggetti inanimati, la loro permanenza nel tempo richiede necessariamente una continuità della loro base materiale. Nel caso degli oggetti viventi, invece, è sufficiente una continuità della loro organizzazione formale (per esempio, mentre la roccia di oggi è la stessa di ieri, la mia mano di oggi non è la medesima di ieri: molte molecole che compongono la mia mano di oggi non sono fisicamente quelle che facevano parte della mia mano di ieri o che faranno parte della mia mano di domani). Sappiamo ora che questa particolare forma di organizzazione che interessa le molecole della materia vivente altro non è che il frutto della continua consultazione di una serie di istruzioni che ogni cellula porta racchiusa nel suo nucleo e che prende il nome di patrimonio genetico o "genoma". Le istruzioni sono scritte in un linguaggio particolare e si trovano registrate su di un particolare supporto materiale, chiamato D.N.A. Quest'ultimo consta di un'enorme macromolecola costituita da una successione, non casuale e non monotona, di quattro tipi di nucleotidi, A, G, C e T, che vengono letti a gruppi di tre - per esempio, A.A.T., oppure G.C.T., oppure G.G.G., oppure T.T.C. e così via - chiamati "triplette nucleotidiche" o "codoni". Ciascuna tripletta codifica uno specifico amminoacido, secondo una tabella di corrispondenze di validità universale, chiamata codice genetico (vedi figura 11). Le quattrocento-cinquecento triplette che costituiscono un singolo gene codificano i quattrocento-cinquecento amminoacidi che costituiscono la proteina corrispondente. Ogni cellula di un organismo consulta in continuazione la propria lista di istruzioni biologiche e da queste apprende di volta in volta quali proteine deve sintetizzare e quindi cosa deve fare e come si deve comportare, sia autonomamente sia in risposta ai segnali e ai messaggi che le vengano da altre cellule o direttamente dal mondo esterno. Molte delle molecole di una data cellula possono essere distrutte con il passare del tempo e altre subentrano, ma tutte, vecchie e nuove, si conformano a uno stesso schema organizzativo, sia sul piano strutturale sia su quello funzionale, perché unico e costante rimane il patrimonio genetico di questa cellula. I geni, elementi del patrimonio genetico che trasmettono per così dire le «istruzioni per l'uso» da genitori a figli, sono di due categorie: quelli "strutturali", preposti alla formazione del nostro corpo, e quelli "regolatori", che controllano l'azione dei primi. Esiste, per esempio, un gene regolatore che controlla contemporaneamente la formazione della corteccia, della laringe e certe caratteristiche dei reni. Una variazione casuale su un gene di questo tipo può portare allora a un ampio sconvolgimento. Per anni ci si è chiesto se nell'evoluzione umana sia comparso prima il linguaggio o lo sviluppo della corteccia cerebrale: una questione non risolta, un po' come quella se sia nato prima l'uovo o la gallina. Si tratta di una domanda, forse, mal posta: può darsi che un singolo evento genetico abbia prodotto delle alterazioni, così che di fatto, in un sol colpo, molte sono state le modificazioni intervenute nell'organismo. Questa è un'ipotesi particolarmente interessante e, oserei dire, stimolante, emersa nell'ultimo ventennio. Molto c'è da imparare dalla lezione dell'evoluzione, anche se non bisogna arrischiarsi in estrapolazioni eccessive. Essa appare soddisfacente nei limiti cronologici che si sono specificati sopra. E', infatti, molto arduo spiegare scientificamente quanto è avvenuto "prima": pur sapendo che vi è continuità, è difficile rendere conto di come sia stato possibile passare da un antenato comune a un mammifero da una parte, e a un insetto, dall'altra. Per esempio, i geni che controllano lo sviluppo della testa di una mosca sono gli stessi che controllano lo sviluppo della testa di un essere umano: non c'è dubbio che vi sia continuità, e che i due rami derivino dallo stesso tronco. Tuttavia, non sappiamo spiegare perché, da un lato, siano comparsi insetti, che nonostante la loro perizia e la loro evoluzione sociale, non sono mai riusciti a sviluppare uno scheletro interno, e dall'altra i vertebrati che, avendolo, possono raggiungere grandi dimensioni, come le balene. Non c'è altra via per spiegare tutto ciò se non invocare il caso. Ma questo può offrire davvero una spiegazione? A volte, ma non sempre. Se integriamo la teoria dell'evoluzione darwiniana con vere e proprie "contingenze", quali la caduta di una gigantesca meteorite, un'enorme eruzione vulcanica, una tempesta solare, o altre catastrofi di cui forse quasi nulla sappiamo, riusciamo a estendere la spiegazione a qualche decina di milioni di anni prima - ma non di più. Infine, pare ancor più difficile spiegare in questi termini gli eventi di quell'ultimo periodo che ha visto la comparsa e l'affermazione dell'uomo. E' indubbio che vi sia stata un'evoluzione biologica delle diverse parti dell'organismo, del cervello, e una crescita dello spessore della corteccia. Quindi, non è nemmeno esatto dire che non sappiamo niente. Tra una corteccia cerebrale grossa e una piccola c'è una differenza di complessità - anche se questo non garantisce automaticamente la nascita di un'intelligenza, di un linguaggio o di una coscienza. Accostandosi alla complessità dell'essere umano, ancora oggi la scienza arranca, per così dire. Eppure, sono abbastanza sicuro che nei prossimi dieci o vent'anni comprenderemo molte più cose (come mi pare aver mostrato in queste poche righe, sono un inguaribile ottimista). Possiamo imparare qualcosa anche dal fallimento di certi programmi. Alludo, per esempio, alla cosiddetta Intelligenza Artificiale (I.A.). La caratteristica principale di un computer, quella di essere un elaboratore di "informazione", è stata assunta da molti esperti di I.A. come elemento fondamentale (anche se non unico) delle funzioni mentali: per costoro la realizzazione di calcolatori sempre più potenti ha rappresentato, come minimo, qualcosa di molto simile a quello che i matematici chiamano un «teorema di esistenza», vale a dire la prova del fatto che mediante semplici elaborazioni di dati e simboli è possibile portare a termine un numero non trascurabile di «operazioni mentali». Personalmente, ho una certa simpatia per l'approccio che ricorre al computer per tentare di capire come la «mente» funzioni, ma credo che non vada dimenticato quel particolare insegnamento del computer che ci indica come la «mente» "non funzioni", che ci fa cioè capire come essa non viva soltanto di ragionamenti e processi logici. Qualunque sia la definizione di mente, essa deve comprendere anche il quotidiano di una vita interiore scandita da non pochi aspetti affettivi. Del resto, la mente non si comporta come un computer convenzionale, nemmeno nei processi che ci paiono più razionali: troppo spesso le nostre classificazioni sono approssimate, le nostre valutazioni arrischiate, le nostre convinzioni scarsamente controllabili - inoltre, la passione si mescola indissolubilmente alla conoscenza, mentre aspetti cognitivi modellano i nostri atteggiamenti e comportamenti più passionali. Infine, un computer per funzionare dipende da un "programma", il nostro cervello invece da una "storia", anzi vorrei dire che la storia è la cifra stessa della «mente»: una storia di vincoli fisici e biologici, ma anche di orizzonti personali e sociali. Quindi, proprio là dove sono in gioco le caratteristiche più pregnanti del nostro io, mi sembra giusto procedere con ancor maggior prudenza e cautela. Vorrei definirmi un «illuminista romantico» che accoglie la lezione scientifica e cerca di «guardar lontano», sapendo che c'è sempre qualcosa di «ancor più lontano». Mi piace qui ricordare una celebre immagine di Kant per cui la conoscenza sarebbe un processo asintotico. Pensiamo a una curva che si avvicini sempre più a un determinato asse, ma non lo incontri mai o, come dicono i matematici, solo all'infinito. Ecco, l'investigazione scientifica è un processo del genere: ci avvicineremo sempre più a un complesso coerente di spiegazioni... per degli esseri umani, è già tanto. DIALOGO (Carlo Maria Martini e Julian Chela-Flores). CARLO MARIA MARTINI: Quali sono le conoscenze consolidate e quali, invece, i problemi aperti relativamente all'origine della vita sulla Terra, e gli indizi a favore dell'origine extraterrestre della vita? JULIAN CHELA-FLORES: Ciò che conosciamo abbastanza bene è come la chimica organica abbia fatto i primi passi verso la vita, là dove si parla di «evoluzione chimica». Ciò che resta ancora insoluto è il passaggio dall'evoluzione chimica a quella biologica. Per quanto riguarda gli indizi di vita extraterrestre possiamo solo dire che per ora si basano esclusivamente sull'universalità delle leggi della natura. L'oggetto principale di quella nuova disciplina indicata come "astrobiologia" o anche "esobiologia" è proprio lo studio dell'origine, evoluzione e distribuzione della vita nell'Universo. Le risposte, che si dovrebbero ottenere nei prossimi decenni, potranno aprire nuove prospettive anche sulla comparsa e sull'evoluzione della vita sulla Terra. MARTINI: Lei ha parlato, come di cosa ovvia, dell'albero della vita, che avrebbe tre rami. Potrebbe spiegare che cosa intende con questi «rami»? CHELA-FLORES: Una volta alle scuole elementari ci parlavano dei cinque regni del vivente (animali, piante, funghi, eucarioti e procarioti; o anche: animali, piante, funghi, protozoi e batteri). Oggi i biologi hanno raggiunto la convinzione che tutti gli organismi presenti sulla Terra vadano ripartiti in tre raggruppamenti fondamentali caratterizzati dalla loro struttura cellulare. E si parla di domini invece che di regni. Con l'immagine dell'albero a tre rami enfatizzavo, dunque, come la biologia si servisse di una classificazione a tre grandi tipi, a seconda del tipo di cellula. Così noi finiamo nello stesso gruppo dei microorganismi, per così dire siamo degli eucarioti! Tutto ciò è davvero profondo, perché semplifica le cose. Per esempio, Edoardo Boncinelli ha parlato di vari milioni di specie viventi - dieci milioni più, dieci milioni meno (vedi p. 55). Ma se ci riferiamo al livello molecolare, ci sono unicamente tre tipi distinti di vita. MARTINI: Lei ha anche ventilato la possibilità che in qualche parte dell'Universo si scopra la presenza di un secondo albero, o addirittura di una foresta di alberi della vita. Quali conseguenze ne verrebbero per la consapevolezza che l'uomo ha di sé e per la coscienza del credente, se emergesse una foresta di alberi della vita con cui doversi confrontare? CHELA-FLORES: E' noto come sia in atto una missione per cercare vita sotto il ghiaccio di Europa e le grandi agenzie a livello mondiale sponsorizzino il programma di ricerca della vita fuori della Terra. Credo che prima o poi verrà il momento del confronto a cui Lei allude. E a questo punto, come ha già sottolineato George Coyne (vedi p.p. 39-40), l'onere sarà del teologo. Da parte mia spero che un'eventuale scoperta di forme di vita in un qualche senso intelligenti, se mai vi sarà, possa svolgersi da entrambe le parti in un quadro di ben minore aggressività di quello che ha visto i coloni europei impadronirsi delle risorse del Nuovo mondo. MARTINI: Ma come un'evenienza del genere, secondo Lei, potrebbe influire sul delicato equilibrio tra spregiudicatezza scientifica e apertura alla fede? CHELA-FLORES: E' già stato ricordato come l'eventuale scoperta di altre specie di animali e di altre stirpi di «uomini» (cioè di "esseri intelligenti") in mondi lontani possa venir invocata contro l'idea di una provvidenza divina (era così in Lucrezio, "De Rerum Natura", II, v.v. 1067-1076 e 1090-1104, vedi del resto "questo volume", p. 16). Se «tutto» si replica, seppur in «luoghi» e «tempi» diversi, che senso può avere l'argomento del Progetto o Disegno di Dio? Eppure, io non sono disposto a trarre questa conclusione Vorrei ricordare che Lucrezio, nei passi sopra richiamati, dalla pluralità dei mondi e dalla considerazione di una eventuale «foresta della vita» perviene alla celebrazione di una «natura libera», anzi «priva di padroni superbi» ("dominis privata superbis", "De Rerum Natura", II, v. 1091) ma il Dio in cui io personalmente credo, il Dio "cristiano" è tutto tranne che «un padrone superbo»! Come dice bene John Polkinghorne, il fisico britannico che si è fatto pastore anglicano, l'Universo in cui viviamo è un universo «cui Dio ha concesso di essere sé stesso» ("Quark, caos e Cristianesimo", trad. it. Claudiana, Torino 1997, p. 99): dunque, in esso la vita (e l'intelligenza) può «comparire» secondo le modalità che sono "ammesse" dalla struttura di tale universo (cioè dalle sue «leggi»). Certo, la scoperta di una «foresta» della vita o l'individuazione di qualche «intelligenza» cosmica, ben lontano dalla nostra «piccola» Terra, darebbe ai teologi non pochi problemi su cui misurare la "loro" intelligenza! Ma sarebbe un male? Ancora con Polkinghorne, penso che la teologia più attenta già da tempo abbia compreso come «le nostre immagini di Dio [siano] inadeguate all'infinita ricchezza della sua natura» (op. cit., p. 104), sicché la necessità della "revisione" è sempre presente... Per questo continuo a ritenere che uno scienziato "possa" essere credente. MARTINI: Lei torna così a quel «dialogo tra fede e non fede» da cui aveva preso le mosse, citando all'inizio anche un "non credente come Bertrand Russell... CHELA-FLORES: In un certo senso, è così. Ma ogni volta che si sia realizzato almeno un frammento di tale dialogo, in modo onesto - si tratti del dialogo pubblico tra due diversi interlocutori o del dialogo tutto interiore tra il credente e il non credente in cui «si sdoppia» ciascuno di noi - non ci si ritrova semplicemente al punto di partenza, perché «qualcosa» ha lavorato dentro di noi, scavando nelle nostre «convinzioni» (o «non convinzioni»). Così, all'argomento (invero alquanto tradizionale) che in caso di vita «altrove» abbastanza sviluppata (tale, per esempio, da includere l'intelligenza o forse l'autocoscienza) chiedeva (spesso non senza sarcasmo) se si sarebbe «replicato» l'intero dramma del peccato originale e della redenzione, mi piacerebbe rispondere con un passo del Vangelo di Marco (12,18-27) che anche Polkinghorne ama citare, sebbene in un contesto alquanto diverso (op. cit., p. 96). Dei Sadducei espongono a Gesù l'ipotetico caso di una donna che era stata sposata a una serie di fratelli deceduti l'uno dopo l'altro, chiedendogli: «Quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna?» (12, 23) - solo per sentirsi rispondere che il Dio davanti cui si troveranno i risorti «come angeli nel cielo» senza che più sussistano «moglie né marito» (12, 25), quel Dio che Gesù annuncia, «non è un Dio dei morti ma dei viventi! Voi siete in grande errore» (12, 27). Così "ovunque" Dio resta il Dio della vita. DIALOGO (Carlo Maria Martini ed Edoardo Boncinelli). CARLO MARIA MARTINI: Qualche precisazione sui «grandi salti» della storia del vivente. Ha davvero senso guardare all'intero cosmo per comprendere la vita - o anche qui dobbiamo riconoscere che sappiamo troppo poco? EDOARDO BONCINELLI: Riprenderei alcuni spunti di Chela-Flores. Incontreremo mai quei «marziani» o quegli «andromediani» di cui tanto ha favoleggiato la fantascienza, di oggi come di secoli fa? E se ciò avvenisse, come cambierebbero le nostre concezioni del cosmo, della vita e della stessa intelligenza? Personalmente, sono abbastanza scettico circa l'esistenza di altre forme di vita nell'Universo - anche se entro la comunità scientifica non mancano coloro che sono pronti a scommettere qualsiasi cifra sul fatto che esista «qualcosa di vivente» fuori dalla Terra. Tuttavia, non sono affezionato all'idea dell'unicità del fenomeno vita: ammetto volentieri che prima di morire mi piacerebbe constatare se esistano veramente altre forme di vita, di conoscenza, di civiltà. Il fatto è che la vita ci appare così particolare, così peculiare che ci chiediamo se poteva essere realizzata in modo unico oppure no. D'altra parte, l'idea di un'ipotetica vita intelligente al di fuori del nostro pianeta solleva un tema affascinante. Penso, per esempio, alla celebre battuta di Wittgenstein: «Vedo un quadro: rappresenta un vecchio che avanza per un erto sentiero appoggiato a un bastone - Ma come? Non potrebbe darsi che il quadro rappresenti un vecchio che, in quella posizione, sta scivolando indietro lungo il sentiero? Forse un abitante di Marte descriverebbe quel quadro così. Non è necessario che io spieghi perché "noi" non lo descriviamo nel modo anzidetto» ("Ricerche filosofiche", trad. it. Einaudi, Torino 1967 e 1983, p. 75). Nel momento in cui arrivasse il marziano di Wittgenstein o un andromediano, non si potrebbe affrontare sperimentalmente il problema della relazione tra conoscenza o immagine del mondo e costituzione fisica del cervello e degli organi di sensazione, e osservare i vari gradi di dipendenza? MARTINI: Nel suo intervento Chela-Flores ha ricordato le parole di Giovanni Paolo Secondo: «La teoria dell'evoluzione è più che un'ipotesi» (vedi p. 45). Da quanto Lei dice ho l'impressione che essa possa essere considerata una spiegazione scientificamente soddisfacente per un'ampia gamma di fenomeni... BONCINELLI: La biologia di oggi è letteralmente dominata dall'idea di evoluzione biologica del vivente. Questa concezione trova la migliore articolazione nel quadro della teoria dell'evoluzione per selezione naturale, la cosiddetta teoria "neodarwiniana" (vedi p. 54). Essa si basa su due tesi fondamentali: la prima, per cui tutti i viventi hanno avuto origine da antichissimi antenati comuni; la seconda, per cui le varie categorie di organismi si sono evolute e differenziate tra di loro soprattutto a opera della «selezione naturale». Non ha molto senso applicare la teoria ai "primissimi eventi" all'origine della vita sulla Terra, e nemmeno, probabilmente, agli eventi che hanno portato alla formazione delle prime grandi suddivisioni del regno animale e di quello vegetale. Ma da quel momento in poi, vale a dire per tutti gli ultimi cinquecento o seicento milioni di anni, è stata la selezione naturale a creare, modellare e rimodellare le varie specie. Dunque, per una vasta gamma di fenomeni la teoria dell'evoluzione è una spiegazione altamente soddisfacente. Certo, non lo è per tutto: proprio quei grandi salti che tanto ci appassionano restano materia di rischiosa congettura. Il problema della macroevoluzione rappresenta ancor oggi una sfida aperta: come si è formata la prima cellula? Come si è formato il primo organismo pluricellulare? Il darwinismo non sa spiegarlo. Del resto, Charles Darwin disperava che mai, per esempio, si sarebbe riusciti a spiegare l'origine dell'occhio in termini di piccoli cambiamenti. L'impresa scientifica è davvero un "work in progress" in cui è importante evitare di fare «un passo avanti, due indietro». Molte cose non siamo oggi in grado di spiegare, ma questo non vuol dire rinunciare a cercare. MARTINI: Se l'evoluzione biologica forgia tutto il vivente, l'"Homo sapiens" è andato affiancandole e sovrapponendole nel corso del tempo un altro tipo di evoluzione, quella "culturale". Che cosa significa per gli individui della nostra specie restare esseri biologici e insieme acquisire la dimensione di esseri culturali? BONCINELLI: Amo dire che è proprio grazie alla sua cultura e alla sua storia che ogni essere umano si trova ad avere a disposizione qualcosa come il patrimonio di cento o mille cervelli affacciati sul mondo e aggregati al suo. L'evoluzione culturale consente a ogni individuo di non dover sempre ricominciare da capo. Ogni essere umano, almeno in linea di principio, è in grado di avvalersi dei contributi portati alla cultura umana da innumerevoli altri individui che sono esistiti o che esistono in altri luoghi o in altri tempi. Ricordiamo l'elogio della scrittura che conclude la Prima Giornata del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo" (1632) di Galileo Galilei: «sopra tutte le invenzioni stupende» la scrittura consente di «parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni», e inoltre «con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta ("Opere", VII, p.p. 130-131). Dalla scrittura al computer: la crescita tecnologica è al contempo parte integrante e condizione dell'evoluzione culturale. In generale, tale evoluzione è costellata da una serie di retroazioni: il cervello dei primi uomini li ha messi in condizione di approntare e utilizzare strumenti che non esistevano in natura o non venivano percepiti come tali da altre specie. L'impiego di questi «artifici» ha iniziato a cambiare materialmente l'ambiente in cui gli uomini si trovavano a vivere, creando nuove esigenze e nuove opportunità. Ogni tecnologia, per quanto primitiva, ha condotto alla necessità di sviluppare tecnologie ulteriori, rinsaldando la cooperazione tra individui diversi del medesimo insediamento. A loro volta, gli aspetti etici e politici di questa convivenza hanno modellato i lineamenti della stessa cultura materiale, eccetera. MARTINI: Quale relazione, dunque, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale? E come si ridefiniscono alla luce di essa nozioni come «mente», «pensiero» e «spirito»? BONCINELLI: Non pochi animali sono sociali, ma l'animale uomo si è trovato a vivere in condizioni e situazioni "sempre più sociali": ciò si è riflesso sulla sua stessa evoluzione biologica. Questa ha i suoi propri ritmi, dettati dalla biologia delle specie implicate. Al contrario, l'evoluzione della cultura, anche di quella materiale, può avere un ritmo molto più accelerato, mettendoci in condizione di tener conto delle mutate esigenze dell'ambiente in pochi decenni o addirittura in pochi anni. Un ambiente diverso crea esigenze differenti e sviluppa talenti differenti. Le doti biologiche di un singolo uomo e la varietà delle articolazioni dell'organizzazione sociale di cui fa parte non possono andare oltre un certo "limite", ma l'"orizzonte" della sua capacità di immaginazione e di astrazione è ben più ampio. Quando il cervello dell'uomo non si è più potuto materialmente espandere, perché ciò avrebbe messo a repentaglio la sua sopravvivenza e la sua capacità di riprodursi, si sono espansi i suoi correlati astratti, vale a dire la mente e il pensiero. Qui l'individuale rimanda al collettivo, e viceversa. Il motore dell'evoluzione culturale (nell'accezione più ampia del termine) resta l'interazione tra gli individui - così anche il «pensiero» andrà inteso come un'attività collettiva destinata a sedimentarsi, stratificarsi e a costituire una sorta di impalcatura del modo di ognuno di vedere e vivere il mondo. E il complesso delle attività che l'uomo promuove nel suo tentativo di orientarsi nel mondo diviene veramente la manifestazione di quello che i filosofi più diversi - da Hegel a Popper hanno chiamato «spirito». Non credo che sia lo spirito a «produrre» la realtà, bensì che sia dallo scontro con questa che lo spirito riesca ad arricchirsi e a migliorarsi. Comunque, del mondo dello spirito fa parte l'avventura della scienza. In particolare, quella della biologia, cioè la scienza del vivente, e di quel particolare vivente che è l'uomo. E' vero che la nostra mente non è nata per comprendere se stessa, ma per far fronte alle sfide poste dall'ambiente e ai problemi sempre più complessi sollevati dalla convivenza umana. Tuttavia, essa si è imbattuta nel problema della propria comprensione, magari a causa di quegli strani individui cui diamo il nome di filosofi: considero questa la «follia delle follie»..., ma penso pure che senza un pizzico di tale follia la vita non sia degna di essere vissuta. 3. INTELLIGENZA E SCIENZE COGNITIVE. LE BASI BIOLOGICHE DELLA CONOSCENZA (Giuliano Avanzini). L'orizzonte in cui si colloca il presente contributo è quello delineato dalla speciale relazione tra noi e il mondo che chiamiamo "conoscenza". Tale relazione è il presupposto stesso di qualunque tipo di indagine. Non si può parlare, infatti, di ricerca scientifica senza presupporre la possibilità di una conoscenza - d'altra parte, il valore di qualsiasi metodologia scientifica viene misurato dall'avanzamento di conoscenza che essa produce. La biologia è investita da un ulteriore problema. Qui, oggetto e soggetto della ricerca coincidono: l'uno come l'altro rientrano nel dominio del vivente. Sotto il profilo strettamente biologico, è sufficiente assumere che una forma di conoscenza sia implicita nel rapporto attivo che l'essere vivente istituisce con il mondo. L'insieme delle azioni e delle reazioni che il vivente intrattiene con il proprio ambiente sarebbe infatti impossibile, se non esistesse un qualche grado di conoscenza. Ciò fornisce una chiave biologica per l'interpretazione della conoscenza in termini di interazione tra vivente e ambiente. Data, dunque, per accettata la possibilità della conoscenza, iniziamo il nostro discorso dai modi della percezione, con una particolare attenzione alle basi biologiche, anzi neurobiologiche, dei nostri processi percettivi. La neurobiologia è una scienza relativamente giovane: il significato di questo ammasso di materia grigia e biancastra che costituisce il nostro sistema nervoso è rimasto enigmatico per secoli, se non per millenni. Neppure il fiorire degli studi naturalistici del Rinascimento ha gettato molta luce sulla struttura e sulla funzione del sistema nervoso. Se dovessi scegliere una data di nascita per la neurobiologia, opterei per una sera tempestosa del settembre 1786, quando l'anatomista bolognese Luigi Galvani (1737-1798) aveva escogitato un esperimento a casa propria, appendendo con degli uncini metallici alla ringhiera del balcone gli abituali preparati neuromuscolari di rana (vedi figura 12 (a) e (b)) su cui voleva controllare l'effetto dell'elettricità atmosferica (e per questo aveva scelto una serata di temporale). Così facendo si accorse casualmente che, quando toccava la ringhiera di ferro, il muscolo si contraeva; interpretò il fenomeno come dovuto alla chiusura di un arco di un circuito che permetteva il passaggio di cariche elettriche, generate nel midollo spinale, al muscolo. Veniva in tal modo delineato il concetto di una "elettricità animale" che poteva essere alla base del funzionamento del sistema nervoso (per la storia della quale rimando, per esempio, a M. A. B. Brazier, "A History of Neurophysiology in the 17th & 18th Centuries", Raven Press, New York 1984, in particolare p.p. 205-217). Galvani doveva confermare questo effetto in esperimenti condotti in laboratorio. Ma tali esperimenti vennero replicati da Alessandro Volta (1745-1827) che, diversamente da Galvani, era un fisico interessato all'elettricità. Lo scienziato comasco confermò il risultato, ma lo interpretò ben diversamente, finendo con il negare che l'effetto scoperto da Galvani fosse dovuto a elettricità animale, sostenendo invece che l'elettricità fosse causata dal contatto fra due "diversi" metalli. Nello specifico Volta aveva (parzialmente) ragione: del resto, è a tutti nota la vicenda dell'invenzione della pila che gli fruttò onori e denari. Ma, in un senso più generale, aveva ragione Galvani, poiché l'elettricità animale c'era, anche se semplicemente coperta dall'effetto Volta, come poi Galvani stesso e suo nipote Giovanni Aldini (1762-1834) riuscirono a mostrare con altri esperimenti. Oscurata dal successo di Volta, in cui ebbe una parte di primo piano persino Napoleone, l'intuizione di Galvani restò patrimonio di pochi, quegli specialisti che nell'Ottocento con pazienti ricerche di laboratorio raffinarono i concetti delineati dall'anatomista bolognese, gettando infine le basi di una nuova disciplina pertinente il sistema nervoso, l'"elettrofisiologia" (è la disciplina a cui appartengo, ed è pertanto naturale che mi dilunghi un poco sulle sue origini). Nell'Ottocento il sistema nervoso andava rivelando anche la sua «organizzazione fine» attraverso una serie di studi che, alla fine del secolo, culminarono in un'altra celebre controversia: quella tra Camillo Golgi (1843-1926) e lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal (1852-1934) se le cellule nervose fossero tra loro tutte direttamente collegate a formare un «reticolo diffuso» oppure staccate (vedi figura 13) ancor che reciprocamente connesse. Nel Novecento lo scenario muta radicalmente con l'avvento della biologia molecolare che apre la via all'indagine della struttura e della funzione dei componenti cellulari elementari e alla neurogenetica molecolare. Oggi sappiamo che il sistema nervoso è un complesso di stazioni e di vie che le collegano, costituite da cellule nervose e dai loro prolungamenti o fibre, secondo un'architettura estremamente precisa e complicata, i cui segreti (in parte) sono stati svelati dallo studio dello sviluppo del sistema nervoso nella vita sia prenatale sia postnatale. Sappiamo inoltre che le cellule nervose, pur appartenenti a stazioni diverse, possono comunicare tra loro attraverso delle vie a rapidissima conduzione sulle quali viaggia l'impulso nervoso, un fenomeno elettrochimico generato a livello della cellula. Quando l'impulso nervoso arriva all'estremità della fibra, cioè alla terminazione della fibra nervosa, il messaggio che deve passare alla cellula successiva è mediato da una sostanza chimica nota come «neurotrasmettitore». Questo reagisce con la membrana della cellula successiva e trasmette il messaggio. In tale punto di giunzione, che prende il nome di «sinapsi» (termine inventato da Charles Sherrington (1861-1952), premio Nobel nel 1932), può prodursi una serie di elaborazioni dei segnali che viaggiano su queste vie, poiché l'evento mediato da una interagisce con tutte le altre sinapsi che arrivano sulla stessa cellula (ne possono arrivare fino a un milione su un'unica cellula nervosa: possono sommarsi, sottrarsi, e comunque interagire). Inoltre, la sinapsi è il punto dove più facilmente avviene una modulazione della trasmissione per effetto di varie sostanze fra cui, per esempio, gli ormoni; molti dei farmaci che vengono abitualmente utilizzati vanno ad agire in questo punto. E ancora, la sinapsi ha un'importantissima proprietà, che è quella dell'adattabilità in rapporto all'uso, o «plasticità», la quale ha un'enorme rilevanza nella spiegazione della funzione nervosa. Sostanzialmente, tutto è organizzato per facilitare la comunicazione e, al tempo stesso, salvaguardarne la specificità - il che è dovuto alla suddetta architettura delle vie che devono portare i messaggi e a una differenziazione dei neurotrasmettitori, che sono specifici a seconda del tipo di messaggio (eccitatorio, inibitorio) che devono portare. L'informazione che proviene dal mondo esterno entra nel sistema nervoso attraverso i recettori. Questi sono tessuti modificati in maniera tale da essere sensibili a variazioni di energia dell'ambiente. Per fare un esempio abbastanza comprensibile pensiamo alla retina: in essa vi sono delle cellule recettoriali (i coni e i bastoncelli) che vengono modificate dalla luce, e questa loro modificazione genera un primo segnale che innesca una catena di eventi nella via nervosa che porta il messaggio fino alla corteccia visiva. Studiando il sistema visivo abbiamo appreso che il messaggio proveniente dalla periferia, lo stimolo che va a colpire il recettore, viene fin dall'inizio, cioè fin dalla porzione più periferica, acquisito e analizzato in maniera differenziata nei suoi vari aspetti. Per esempio, la forma, il colore, la cinetica (cioè il fatto che lo stimolo sia in movimento o sia fermo) e le coordinate spaziali entro cui si colloca lo stimolo sono analizzati da sottosistemi differenziati. E' interessante constatare che il sistema che si occupa della localizzazione dello stimolo nello spazio è già molto sviluppato negli animali più semplici; evidentemente, si tratta di un tipo di informazione importante per la sopravvivenza. Ciò appare del resto logico; immaginiamo per esempio che lo stimolo sia generato dall'avvicinarsi di un predatore: non importa, allora, sapere se il predatore abbia i baffi lunghi o corti; quel che interessa è sapere da quale direzione stia arrivando per fuggire immediatamente in direzione opposta... Altre cose ci ha insegnato lo studio del sistema visivo, per esempio il fatto che esistano nel sottosistema che si occupa dell'analisi della forma cellule che sono sensibili alle forme geometriche al punto che alcune cellule sono specificamente sensibili a determinate ampiezze di un angolo. Questo ci induce a congetturare che l'invenzione della geometria non derivi tanto dall'osservazione della realtà, quanto dal modo con cui viene osservata, che dipende a sua volta da proprietà insite nel tipo di analizzatore che viene messo in causa (in realtà, le buone forme geometriche in natura non sono poi molte: i cristalli, qualche particolare guscio di animale...). Ciò che si è detto per il sistema visivo può essere applicato a tutti gli altri sistemi. Alla fine, le aree che si ritrovano sulla corteccia cerebrale dove arrivano tutte le informazioni dal mondo esterno sono moltissime (solo per il sistema visivo se ne sono contate fino a 32), ma tutte strettamente interconnesse: tutto quello che è stato fino a quel momento in qualche modo disaggregato può venire riaggregato secondo diverse modalità che, per esempio, tengano in considerazione le informazioni che arrivano su diversi canali sensoriali e sono relative allo stesso tipo di fenomeno o di oggetto. La percezione globale nasce infatti dalla sintesi di informazioni somestesiche, visive, uditive, olfattive e gustative relative all'effetto della percezione. Si usa dire che nel cervello, e in particolare nella corteccia, sia presente una "mappa del mondo" - metafora forse non del tutto felice perché il termine «mappa» evoca immediatamente un osservatore capace di utilizzarla per orientarsi. Qui, però, non c'è alcun osservatore esterno: la mappa è piuttosto dentro l'osservatore, coincide con lui, è il suo modo di osservare la realtà (vedi figura 14). Non possiamo sapere come sia "realmente" il mondo: già gli antichi, del resto, conoscevano gli inganni dei sensi (il bastone che immerso nell'acqua appare spezzato) - per non parlare delle varie illusioni ottiche ottenute giocando sul rapporto figura/sfondo (pensiamo alle immagini care agli psicologi della "Gestalt" di cui la figura 15 porta un esempio). Ne abbiamo una prova ancora più sottile e inquietante: i messaggi infraliminari, quei messaggi, cioè, che non arrivano a livello della coscienza, ma sono comunque in grado di influenzare il comportamento delle persone come «persuasori occulti». Tanti osservatori, tante diverse percezioni del mondo - ce ne rendiamo conto anche studiando il comportamento dei nostri animali domestici come cani e gatti, che esperiscono il mondo grazie a informazioni, per esempio olfattive, di cui noi non disponiamo se non in forma rudimentale. Non siamo in grado, dunque, di accedere alle cose in sé, anche se possiamo "constatare" la rispondenza delle nostre percezioni alle nostre e/o altrui azioni compiute nel mondo esterno. Tale confronto può avvenire anche in rapporto con altri individui; e proprio la congruenza con altri soggetti, o meglio la congruenza della "mia" percezione del mondo con la "tua", costituisce la base su cui costruire una cultura "comune". Si possono approfondire i metodi di indagine e si può percorrere molta strada nella conoscenza biologica della percezione: c'è, però, un limite che resta insuperabile per il biologo. Si tratta del «passaggio» per cui la percezione dei segnali che arrivano dall'esterno diventa parte del Sé. Di fronte a questo limite il biologo è costretto ad assumere che l'autocoscienza sia implicita nei processi di conoscenza analizzabili sulla base del comportamento, senza poterne fornire una dimostrazione diretta. Come si è detto, la rappresentazione sensoriale del mondo non è solo dell'uomo, anzi per alcuni animali è addirittura più ricca. C'è qualche cosa che, però, è peculiare dell'uomo: un secondo tipo di rappresentazione del mondo, quella nel dominio linguistico. Essa consente una notevole facilitazione dei processi di categorizzazione della realtà, nonché combinazioni inedite di esperienza, permettendoci in qualche modo di prevenire un'esperienza o addirittura di contraddirla, e comunque di trascenderla attraverso il gioco della rappresentazione verbale. Il linguaggio potenzia in maniera straordinaria il trasferimento dell'esperienza da un individuo all'altro, e anche da una generazione all'altra, rappresentando così un elemento essenziale per la costituzione di una cultura. Conferisce a chi lo possiede la capacità di descrivere se stesso e il mondo, ed è così strumento fondamentale per la riflessione. Per questo si può legittimamente sostenere che il linguaggio sia criterio necessario e sufficiente per differenziare la specie umana dalle altre specie animali, con buona pace degli studiosi del linguaggio animale. I risultati di questi studi peraltro affascinanti non ci hanno infatti fino a ora fornito evidenze di un uso spontaneo del linguaggio nel mondo animale anche lontanamente paragonabile a quello che caratterizza la specie umana. Il linguaggio dà forma allo stupore e alla «meraviglia» che il mondo suscita in noi fin da quando, bambini, chiediamo i primi «perché». Abbiamo cominciato allora, non abbiamo più smesso: fiduciosi (se siamo credenti) che alle domande esistano delle risposte ultime; convinti (se, come me, non credenti) che questa aspettativa sia infondata e che la catena delle domande e delle risposte possa svolgersi all'infinito. Tutti però, credenti e non, accomunati da quella inesauribile tensione verso la conoscenza che ci rende uomini. MENTE E CERVELLO (Alberto Oliverio). Da sempre la mente è al centro della "riflessione filosofica", ma è solo di recente, appena da pochi decenni, che le "neuroscienze" hanno cominciato a studiarne in modo rigoroso le caratteristiche. Attenzione, sensazione, percezione, sonno, memoria, apprendimento, emozione sono soltanto alcune delle funzioni cerebrali che vengono analizzate, collegate a circuiti e a strutture nervose, interpretate alla luce delle nuove conoscenze che provengono da discipline sperimentali in continua e rapida espansione. Per esempio, le neuroscienze hanno compiuto enormi progressi nello studio della memoria, nella identificazione delle sedi di alcune attività mentali, nella comprensione di alcune alterazioni o "deficit" del comportamento: parlano il linguaggio del "riduzionismo", in linea con tutto quel sapere scientifico che è in grado di analizzare sempre più a fondo la realtà che ci circonda e di modificarla attraverso le tecnologie. Considerato in quest'ottica, il cervello può sembrare una complessa macchina che i ricercatori smontano e riducono alle sue diverse parti nel tentativo di sottrarlo a quell'alone di mistero che da tempo lo circonda. Eppure, per quanto entusiasmanti e suggestive paiano le scoperte delle neuroscienze, esse non hanno ancora chiarito come i diversi «meccanismi» del cervello "cooperino" e come dalla loro interazione emerga una "mente" che non deriva dalla semplice somma di singole attività, separate tra di loro da compartimenti stagni. Conosciamo, per esempio, i meccanismi dell'emozione, il gioco di molecole che ne è alla base, i centri nervosi che vi sono coinvolti: ma cosa possiamo dire, come nota anche Sergio Moravia (vedi "L'enigma della mente", Laterza, Roma-Bari 1986), del significato dell'emozionarsi, dei suoi rapporti con lontane esperienze, del modo in cui le emozioni contribuiscano a dare un senso alla nostra esistenza, a orientare i nostri fini, a strutturare i nostri schemi mentali? Anche se alcune teorie della mente tengono conto dei risultati che provengono dalle conoscenze neuroscientifiche, la mente cui guarda il filosofo è diversa da quella descritta dallo psicobiologo: nonostante siamo sempre più in grado di analizzare il cervello e di comprenderne i meccanismi, restiamo lontani dal considerarlo in modo unitario, dal comprendere come dalla materialità dei circuiti cerebrali possa scaturire quel mondo dei significati che ci guida in ogni azione, anche la più banale, della vita quotidiana. Tradizionalmente, lo studio delle attività psichiche è aperto a due campi di indagine che sembrano essere tra loro in conflitto: da un lato, filosofi, psicoanalisti e psicologi si indirizzano a un ricco mondo soggettivo, a vissuti densi di significato, a una realtà nascosta che è necessario interpretare; dall'altro, gli studiosi del cervello vanno alla ricerca di un mondo oggettivo, palese, accertabile, in cui gli eventi psichici e i fenomeni mentali si traducano in correlati dotati di un'inoppugnabile evidenza. Le tecniche di cui dispongono oggi gli scienziati del cervello sono sempre più affascinanti, in grado di spalancare una porta su quel mondo oscuro che si cela all'interno della nostra testa. Pensiamo, per esempio, alle tecniche che utilizzano i neurologi, ben più potenti di quelle radiografie che un tempo consentivano di «vedere» il cervello ed eventualmente di svelarne i processi patologici: oggi tecniche come la TAC, la PET, la R.M.N. fondono il sapere del radiologo con quello dell'esperto in computer e consentono di guardare «in diretta» al funzionamento del cervello e di evidenziare se una particolare area cerebrale sia più attiva quando il nostro cervello svolge una specifica funzione. Vedere, udire, provare dolore, memorizzare, ricordare, pensare, eccetera, implicano che una data parte del cervello «lavori» più di quelle circostanti, in altre parole che vi siano regioni cerebrali responsabili di funzioni ben precise. Dopo che il neurologo ha puntato il dito su queste regioni, candidandole a rappresentare i diversi ruoli di cui si compone il nostro comportamento, neurofisiologi e biochimici si concentrano su minuscole caratteristiche funzionali o strutturali di quelle parti del cervello che sono «responsabili di», per porre in evidenza quali siano le basi materiali del vedere, dell'udire, del memorizzare, eccetera. In tal modo un evento, per esempio un dolore, non viene descritto per ciò che significa per chi lo prova, ma per la sede cerebrale in cui esso si verifica, per le modifiche dell'attività delle cellule nervose che sono coinvolte nella sensazione del dolore, indipendentemente da ciò che questa implica "per me", soggetto di tale esperienza. Per quanto affascinante, questo approccio non ci rivela molto sulla caratteristica fondamentale degli "eventi mentali", in quanto ne minimizza la ricca componente soggettiva, il significato. Spesso, però, gli scienziati cercano di rifuggire proprio da questo aspetto, il significato, in quanto si prefiggono di attenersi all'oggettività e, quindi, di ridurre la vita psichica ai suoi correlati osservabili e quantificabili. L'intento è quello di non interpretare, di non addentrarsi in una foresta densa di trabocchetti e mostri quasi mitici: i desideri, gli scopi, i significati..., ossia tutto l'universo della soggettività. Malgrado i progressi nell'ambito delle neuroscienze - o, forse, per causa loro - sembra dunque persistere un contrasto tra il mondo dell'oggettività e quello della soggettività, tra il mondo dei meccanismi e quello dei significati: da un lato, vi è lo scienziato che descrive un aspetto del comportamento, per esempio il desiderio sessuale, in termini di meccanismi nervosi coinvolti nelle motivazioni e nell'emotività, di centri nervosi responsabili del piacere, di ormoni sessuali alla base della "libido"; dall'altro, l'Io che sente che il suo desiderio significa un complesso di turbamenti, passioni, fantasticherie che affondano le loro radici in precedenti esperienze e desideri, e che il suo desiderare lo investe in una dimensione conscia, ma anche inconscia... Questo contrasto tra due diversi modi di guardare alle attività mentali è stato sottolineato da molti filosofi, e in particolar modo da Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) che al tentativo di spiegare il comportamento attraverso meccanismi causali locali oppone l'esigenza di comprenderne il significato "globale", il senso in termini di esperienza. Nella "Fenomenologia della percezione" (1945) si legge: «Tutto l'universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l'esperienza seconda» (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1965, p. 17). Per Merleau-Ponty la pratica scientifica non si mostrava capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva: «le vedute scientifiche per le quali io sono un momento del mondo, sono sempre ingenue e ipocrite, perché sottintendono, senza menzionarla, l'altra veduta - quella della coscienza - per la quale originariamente un mondo si dispone attorno a me e comincia a esistere per me» (ibidem). A mezzo secolo di distanza, il conflitto sembra ancor più radicale, almeno se consideriamo le asserzioni di numerosi biologi e studiosi del cervello: per esempio, vi è chi, come Evelyn Fox-Keller, indica come la biologia molecolare e le neuroscienze consentano di descrivere l'uomo in modo «oggettivo», ponendo addirittura fine all'era della soggettività, o chi, come Patricia Churchland («A perspective on mindbrain research», "Journal of Philosophy", 77 (1980), p.p. 185207), sostiene che le neuroscienze si stanno trasformando in "neurofilosofia", in quanto classici temi della discussione filosofica - il rapporto mentecorpo, l'identità, la coscienza, il libero arbitrio, eccetera - non possono più essere affrontati al di fuori di esse. Da un lato, allora, vi sarebbero le neuroscienze che tendono ad accertare la realtà naturale del cervello e, dall'altro, la filosofia che, non meno della tradizione psicoanalitica, è impegnata a comprendere i significati, palesi o reconditi che siano? Ci ritroveremmo di fronte all'antitesi tra scienze naturali e scienze umane, alla contrapposizione tra "Erklären" (ossia il tentativo di spiegare una realtà esistente, dotata di un'evidenza propria) e "Verstehen" (vale a dire la comprensione del significato)? Generalmente, si fa risalire la tradizione del "Verstehen", inteso in questa accezione, al pensiero di Giambattista Vico (1668-1744) che, sulla base del principio del "verum et factum convertuntur", si oppose all'enfasi di René Descartes (1596-1650) sulla certezza fornita dalle scienze naturali. Per Vico il "vero", ciò che possiamo sapere con sicurezza, equivale al "fatto", ciò che noi stessi abbiamo creato: gli uomini sarebbero atti a comprendere azioni, opere e istituzioni, nonché storia, attività spirituali e produzioni della mente più che i fenomeni naturali, che non sono opera loro. Perciò, nell'ambito di questa concezione, ripresa tra gli altri anche da Wilhelm Dilthey (1833-1911) e da Max Weber (1864-1920), le scienze dello spirito (e della mente) si oppongono a quelle della natura (e del cervello). Certo, nel passato i biologi che si sono rivolti allo studio dei rapporti tra cervello e comportamento hanno sovente peccato di riduzionismo spicciolo, negando ogni valore a quelle nozioni che sono al centro delle concezioni del "Verstehen", quali intenzione, desiderio, decisione, percezione, giudizio, eccetera; soprattutto, hanno finito per minimizzare una dimensione fondamentale nelle scienze umane: quella storicotemporale. Tuttavia, questa dicotomia oggi dovrebbe apparire in larga parte superata, e la stessa opposizione tra scienze naturali, dotate di un carattere universale, e scienze umane legate al particolare, appartenere a schemi concettuali ormai in disuso. Tutte le scienze, infatti, da quelle «umane» a quelle «naturali», possono essere viste come una sorta di tappe ideali successive, con diversi livelli di certezza, in cui trova spazio un'importante dimensione: il tempo. Tale dimensione non riguarda soltanto la storia naturale degli esseri viventi e, di conseguenza, ogni aspetto della vita, in quanto le specie, gli organismi e lo stesso programma genetico di un particolare individuo rappresentano il prodotto storico di epoche passate: nell'ambito delle stesse scienze del cervello non esiste infatti aspetto - lo sviluppo, la formazione dei circuiti nervosi, la memoria, l'oblio, eccetera - che non sia segnato da tempo e individualità. Ciononostante, continuano ad affermarsi modelli riduzionistici della mente, spesso a immagine e somiglianza di quelle funzioni simbolicocomputazionali che sono tipiche dell'Intelligenza Artificiale (I.A.), ovvero a immagine e somiglianza della cosiddetta "macchina di Turing" (una sorta di idealizzazione del computer che differisce da un calcolatore reale solo per il fatto di avere capacità di memoria illimitata e di essere in grado di eseguire computazioni senza mai commettere errori o senza mai rompersi, vedi figura 16). Ora, se è vero che il paradigma dell'I.A. può essere utile per elaborare modelli del funzionamento cerebrale, è innegabile che, quando le teorie della mente umana coincidono con quelle relative alle «menti» artificiali, possano emergere problemi che vanno oltre la specifica questione delle teorie della mente e le cui ricadute investono l'immagine stessa dell'uomo: è possibile, si chiede a riguardo Margaret Boden («La simulazione della mente al calcolatore è socialmente dannosa?», in R. Viale (a cura di), "Mente umana e mente artificiale", Feltrinelli, Milano 1989, p.p. 3-17), che in futuro i valori umani possano avere quale punto di riferimento primario il campo teorico e applicativo dell'Intelligenza Artificiale? Che le teorie della mente basate su paradigmi di tipo computazionale possano influenzare l'immagine dell'uomo, nell'ambito di una concezione neomeccanicistica che induca una svalutazione di quei valori della persona che rappresentano l'istanza ultima di ogni etica? Tali interrogativi possono essere estesi ad altri ambiti, e in particolare a un'interpretazione riduzionistica della mente in cui non trovino posto i significati (vedi anche "questo volume", p.p. 62-64). Per affrontare questo problema, e così andare alla radice stessa della dicotomia mente-cervello, possiamo partire da uno dei temi più dibattuti, ossia quello degli scopi che guidano il comportamento di un individuo: come può, infatti, un'idea, uno scopo influenzare la nostra azione fisica? I nostri comportamenti sono intessuti di scopi e intenzioni al punto che questi non vengono mai esplicitati. Quando essi mancano o sono incongrui, oppure non sono suscettibili di interpretazione razionale, siamo propensi a ritenere di essere in presenza di disturbi mentali e a credere che la vita di un individuo non abbia più senso poiché egli «non avrebbe più uno scopo». Il nostro agire sembra essere talmente motivato da un senso, da desideri, ambizioni, interessi, necessità che difficilmente usiamo la parola «scopo» per spiegare le nostre azioni - ed è proprio per questo, per l'ovvietà della loro presenza, che non pochi studiosi della mente sostengono di non doversi prendere cura degli scopi e di dover tacere di questo aspetto dell'agire umano. Anche nell'ambito della fisiologia cerebrale ci si è, almeno inizialmente, opposti all'idea di scopo in quanto non pertinente a quelle descrizioni fisiche in cui rientrano struttura e funzioni del cervello: tuttavia vi sono stati alcuni neurofisiologi che sono ricorsi a un concetto che in qualche misura è implicito in quello di scopo, vale a dire quello di modello cerebrale o di rappresentazione interna del mondo. Secondo Kenneth Craik ("The Nature of Explanation", Cambridge University Press, Cambridge 1943), a cui si devono molte delle idee più influenti circa la teoria del cervello, nel nostro sistema nervoso vi sono meccanismi fisici che svolgono il ruolo di modelli interiori del mondo. E' grazie a loro che percepiamo la realtà, che la pensiamo e la modifichiamo, e a loro dunque devono fare capo le spiegazioni dei fenomeni psicologici, poiché senza le rappresentazioni interiori non si potrebbe dar ragione delle esperienze e delle azioni di un individuo. Inizialmente, l'esistenza di modelli simili nell'ambito di un cervello umano è stata postulata facendo riferimento alla neurofisiologia dei movimenti. Per quanto possano sembrare banali automatismi, questi sono in realtà improntati a complessi schemi che vengono realizzati tramite azioni selettive e mediate dei muscoli e degli arti. In mancanza di uno schema generale, ossia della visione di un certo «mondo», non è possibile alcuna variazione o adattamento degli schemi motori a situazioni simili o differenti. Pensiamo alle varietà stilistiche con cui vengono rappresentate le lettere dell'alfabeto, per esempio la lettera «A»: ne esiste una versione in corsivo e una in stampatello, una in caratteri latini e una in caratteri greci o in stile gotico, eccetera. Per realizzare versioni differenti della «A», la nostra mano deve compiere dei movimenti diversi a seconda della specifica «A» che vuole tracciare: movimenti circolari o interrotti, linee continue o spezzate. Nonostante tali differenze a livello motorio, che comportano l'impegno di muscoli diversi, le varie realizzazioni e forme di una stessa lettera rispondono a un'idea comune, a un medesimo schema mentale, quello per cui siamo disposti a riconoscere immediatamente che, pur nella varietà di stili, tutte le lettere «A» rinviano a uno stesso significato. Il nostro cervello, infatti, non ha bisogno di far capo a singole memorie per ogni possibile versione di una medesima lettera in quanto le accomuna tutte sotto uno stesso schema. E' stato proprio riferendosi alla memoria che F. C. Bartlett (1932) ha introdotto il termine «schema» in relazione a quell'organizzazione di esperienze e reazioni del passato che dà forma ad apprendimenti successivi (vedi "La memoria. Studio di psicologia sperimentale", trad. it. Franco Angeli, Milano 1974) Ma il concetto di schema è ritrovabile nella maggior parte delle teorie della mente - pensiamo, per esempio, alla psicologia dello sviluppo. Per «schema» Jean Piaget (1896-1980) intende, infatti, la rappresentazione generalizzata di un insieme di situazioni che consente all'organismo di agire in un'intera gamma di situazioni analoghe, e di generalizzare così alcuni comportamenti. Tuttavia, il modello di schema forse più noto e sicuramente più legato a basi neurofisiologiche è quello riferito ai cosiddetti «meccanismi innati di scarica» (gli istinti) studiati dall'etologia: lo schema, in questo caso, è un «pacchetto» di informazioni trasmesse per via genetica che consente ai membri di una specie animale di reagire a un dato stimolo con una serie di azioni concertate e stereotipate. Per quanto il termine «istinto» goda di scarso credito presso non pochi etologi, poiché sembra escludere un ruolo attivo dell'esperienza, esso rinvia a quella componente predeterminata e stereotipata del comportamento oggi definita «schema d'azione fisso» (FAP, dall'inglese "fixed action pattern") - un'espressione che indica come gli animali, dopo aver interagito con gli stimoli ambientali ed essere sospinti da una pulsione interna (fame, motivazione sessuale, necessità territoriali, eccetera), mettano in atto sequenze comportamentali più o meno comuni a tutti i membri di una stessa specie. E' il caso del falco che uccide la preda compiendo una rigida serie di movimenti, della maggior parte dei corteggiamenti che rispondono a veri e propri schemi di comportamento, o delle femmine che depongono uova o partoriscono e hanno cura dei piccoli secondo modi che dipendono da un programma preesistente, uno schema appunto, il quale si traduce in opportune interazioni con gli stimoli ambientali in movimenti, azioni finalizzate emozioni, eccetera. Lo schema di un istinto è iscritto nei circuiti nervosi: prova ne è che la stimolazione di specifiche aree del cervello attraverso una tenue corrente elettrica fa sì che l'animale metta in atto frammenti più o meno rilevanti di attività istintive, quali comportamenti di alimentazione (masticare, inghiottire), di predazione (aggredire, uccidere, consumare), di attività sessuale (corteggiare, accoppiarsi), eccetera. Anche se, al momento, nessun neurofisiologo ha descritto in maniera dettagliata l'architettura delle strutture e dei modelli interiori (il programma) alla base degli schemi istintuali, la psicobiologia ha mostrato che vi sono sedi specifiche in cui essi sono depositati e che uno schema o modello cerebrale è implementato su una matrice nervosa, materiale. Non è allora possibile che gli stessi modelli cerebrali che sottendono scopi, intenzioni convinzioni e idee abbiano aspetti simili a quelli di altre forme di schemi, come avviene, per esempio, per gli istinti? Ma ritorniamo alla nostra analogia informatica, che per i sostenitori delle scienze cognitive rappresenta qualcosa di più di una semplice metafora, e al possibile rapporto tra modelli interiori cerebrali e fenomeni mentali. Ora, se anche gli studiosi della biologia cerebrale conoscessero il cervello in ogni suo dettaglio, dovrebbero sempre utilizzare delle spiegazioni di tipo psicologico per comprendere i fenomeni mentali. Questo significa che la psicologia non può essere ridotta alla fisiologia - se con ciò intendiamo che una dettagliata conoscenza di tipo fisiologico segnerebbe la fine di concetti quali scopo, idea, convinzione, intenzione -, mentre possiamo ammettere che la psicologia sia riducibile alla fisiologia, nel senso che entità di tipo psicologico come quelle sopra menzionate possono essere ricondotte a realtà cerebrali, invece di essere considerate categorie prive di alcuna spiegazione scientifica. Tuttavia, l'adesione a quest'ultimo principio (la riducibilità «limitata» della psicologia alla fisiologia) non implica necessariamente che l'eventuale conoscenza dei modi attraverso cui gli scopi sono incorporati nei meccanismi cerebrali possa esimerci dal considerare quei concetti che permettono di esprimere ciò che contraddistingue ogni singolo essere umano rispetto agli altri. Quali possono essere le modalità - per non utilizzare l'ambiguo termine «meccanismi» - per cui il cervello è l'organo della mente? Attraverso quali vie esso può dare espressione delle concezioni del mondo e far sì che un individuo abbia scopi o metta in pratica «copioni», atteggiamenti generali con cui interpretare e modificare la realtà? Per rispondere a tali interrogativi è opportuno soffermarsi su come è stato affrontato in passato il problema mente-cervello. Sovente il cervello è stato considerato un rivelatore della mente, un dispositivo in grado di connettere l'esistenza di un uomo con la sua esperienza soggettiva o meglio con la sua realtà spirituale. In contrasto con le ipotesi spiritualistiche, i sostenitori di un approccio naturalistico hanno, infatti, guardato al cervello come a un sistema formato da un insieme di microorgani specializzati, ognuno dei quali responsabile di sensazioni, movimenti volontari, motivazioni, memorie, idee. Gruppi particolari di cellule nervose, disposti in particolari strutture cerebrali, sarebbero responsabili della produzione di speciali stati mentali, e le funzioni mentali sarebbero delle proprietà elementari primarie, delle «capacità» del cervello: attraverso le associazioni tra le diverse singole capacità emergerebbero le funzioni mentali superiori. Nel corso degli ultimi anni, lo sviluppo di tecniche per lo studio del cervello ben più potenti e sofisticate di quelle che erano a disposizione degli studiosi dell'Ottocento ha consentito di individuare le sedi di disparati processi psicologici: il cervello appare frammentato in una serie di centri e aree della corteccia responsabili di «funzioni» che vanno dalla motricità alle sensazioni, dal linguaggio all'attenzione, dal sonno ad alcuni aspetti dell'emozione. Le analisi condotte attraverso queste nuove tecniche (PET e R.M.N.) hanno sempre più consentito di evidenziare lo stato di maggior attività di una particolare area nervosa rispetto alle aree circostanti, e quindi di ritenerla responsabile di una specifica attività nervosa: muovere una mano comporta una maggior attività dell'area motoria della corteccia; provare dolore si traduce in un'elevata attività dei nuclei profondi del cervello e della corteccia sensoriale; sentire un suono comporta un'attività della corteccia temporale; vedere una luce significa un aumento dell'attività della corteccia occipitale, eccetera. Una frammentazione ancor maggiore viene postulata nell'ambito delle scienze cognitive che considerano il cervello una sorta di alveare formato da singole cellette, ognuna funzionalmente autonoma. In realtà, la situazione non è così semplice e un'ipotesi naturalistica improntata a un meccanicismo semplicistico non rende conto della complessità della vita mentale. Ciò vale, in particolare, per le caratteristiche delle stesse strutture cerebrali che non sono «rigide» e predeterminate come le componenti di una qualsiasi macchina. L'organizzazione cerebrale è, infatti, plastica: i rapporti tra una particolare struttura e una particolare funzione variano nel tempo, a seconda delle necessità e delle richieste ambientali, compreso l'ambiente interno del nostro corpo e del nostro cervello. Per esempio, gli esperimenti effettuati da alcuni neurofisiologi hanno mostrato che certe funzioni, come quelle motorie e sensoriali, sono localizzate in specifiche aree della corteccia dove è possibile tracciare delle «mappe topografiche» che consentono di identificare un gruppo di cellule nervose che corrispondono ai territori periferici da cui ricevono informazioni (corteccia sensoriale) o a cui inviano comandi di tipo motorio (corteccia motrice). Ma la presenza di queste mappe corticali implica che esse siano rigide e «fisse», immutabili per tutta la vita di un individuo? Oppure si tratta di carte topografiche i cui confini possono variare nel corso del tempo, adattandosi alle nuove esigenze e alle situazioni dei territori periferici? Vari esperimenti effettuati in questi ultimi tempi indicano che la rappresentazione di una particolare funzione sensoriale o motrice a livello della corteccia cerebrale è fortemente variabile, estremamente plastica e soggetta a profondi rimaneggiamenti - e ancor più plastici sono quei circuiti cerebrali che sono coinvolti in funzioni più sfumate e complesse come l'apprendimento e la memoria. Consideriamo, per esempio, l'area motoria corticale, una sottile estensione di neuroni organizzati in una mappa dei territori muscolari periferici che prende il nome di «omuncolo»: essa è deformata, in quanto alcuni organi come la mano o il volto sono rappresentati da un maggior numero di neuroni rispetto al tronco o alle gambe a causa della complessità delle funzioni motorie necessarie alla manipolazione fine, alle espressioni facciali o al linguaggio. Ebbene, l'omuncolo non costituisce una carta geografica immutabile nel tempo, ma varia di forma - cioè rispecchia un diverso rapporto numerico tra i neuroni e i territori periferici - a seconda della situazione della periferia, ossia dell'uso o del disuso di arti e muscoli. Immaginiamo che in seguito a una lesione traumatica una persona perda un arto: cosa succede a livello dell'omuncolo corticale per quanto riguarda la rappresentazione di un territorio periferico ormai inesistente? Diversi studi indicano che la mappa corticale dei territori periferici, sia quella che rappresenta la motricità sia quella analoga che rappresenta la sensibilità (vedi "questo volume", p.p. 82-83, va incontro a profondi rimaneggiamenti di tipo adattivo, utili a dare maggior spazio o «rappresentazione» centrale a quelle aree del corpo che ora potrebbero fare le veci della funzione scomparsa: l'altro arto, il moncone residuo dell'arto, eccetera. Tuttavia, non c'è bisogno di ricorrere a una situazione drastica quale la perdita di un arto per comprendere la plasticità dell'omuncolo e, quindi, della corteccia cerebrale: per esempio, si è osservato che un aumento della funzione di un territorio periferico - si pensi alla mano di un pianista o alle braccia di un giocoliere - comporta una dilatazione della mappa corticale. In altre parole, un maggior numero di neuroni si fa carico di una particolare funzione, come se la mappa corticale fosse tracciata sulla superficie di un palloncino di gomma e questo venisse più o meno gonfiato o deformato. Negli ultimi anni alcune ricerche in campo neuroscientifico hanno visto la ripresa e rielaborazione del concetto di «area localizzata». Si pensi, per esempio, agli studi ormai classici di David H. Hubel e Torsten N. Wiesel («The period of susceptibility to the physiological effects of unilateral eye closure in kittens», "Journal of Physiology", 1970, 206, p.p. 419-436) che hanno mostrato come alcune aree della corteccia occipitale siano predisposte per la visione binoculare in modo da assicurare la fusione delle immagini formate sulle due retine e da fornire una rappresentazione tridimensionale della realtà. Infatti, parte dell'area corticale visiva è strutturata in «colonne di dominanza oculare», disposte in modo tale che se una colonna ha un campo recettivo nell'occhio sinistro (riceve informazioni da una piccola area della retina dell'occhio sinistro), la colonna a fianco, distante poco meno di mezzo millimetro, risponderà agli stimoli che incidono sullo stesso punto dell'occhio destro. Queste colonne si alternano per tutta l'area corticale: si può quindi affermare che esiste un'evidente predisposizione per una decodificazione «intelligente» degli stimoli visivi e che questa funzione è localizzata in una specifica parte della corteccia. Anche in questo caso, tuttavia, il rapporto tra la predisposizione genetica, alla base delle caratteristiche e delle localizzazioni della funzione corticale, e gli effetti dell'ambiente risulta complesso: è, infatti, sufficiente che nel corso delle fasi precoci dello sviluppo gli stimoli provenienti da uno dei due occhi vengano a mancare per un certo periodo (come avverrebbe se si bendasse l'occhio di un neonato per più giorni), perché venga a cessare l'alternanza funzionale, in quanto tutto lo spazio disponibile verrebbe «invaso» dalle fibre nervose provenienti dal solo occhio funzionante. L'altro occhio diventa così «cieco», non tanto perché non percepisce più gli stimoli visivi, quanto perché la corteccia su cui si proiettavano le sue fibre nervose è stata occupata dalle fibre provenienti dall'occhio non bendato. Ma se la localizzazione e la rappresentazione topografica degli schemi motori e sensoriali può variare nel tempo, non è possibile che vari anche la stessa rappresentazione dei ricordi? In altre parole, non è possibile che i ricordi vengano ristrutturati, deformati, «reimpastati» in modo tale che il nucleo originale di una memoria perda alcune delle sue caratteristiche per la sovrapposizione di «strati» successivi? Non è possibile che esista un'evoluzione del ricordo che riveli il lavorio del tempo, la sovrapposizione di strati e di sedimenti appartenenti a esperienze successive, a ere diverse? Numerosi studi sulla memoria animale e umana indicano che ogni singolo ricordo non viene registrato tramite un procedimento di tipo «fotografico», come se ogni singola esperienza contribuisse a impressionare un'ideale lastra fotografica e il cervello fosse simile a un immenso archivio. Ogni esperienza si riallaccia, infatti, a una precedente: vengono formate categorie, compiute generalizzazioni, riaggiornati vecchi schemi in un processo plastico che comporta un continuo reimpasto delle memorie, una loro contaminazione e ristrutturazione nel corso del tempo, cosicché esse si trasformano al punto da occultare il loro nucleo originario. La mutevolezza dei ricordi è testimoniata da molti dati sperimentali e clinici, e soprattutto dalle analisi di tipo longitudinale basate sulle cosiddette "life histories" o autobiografie, raccolte a distanza di 2, 5,10 anni dallo stesso sperimentatore. Anche in questo caso si nota come la persistenza di alcuni ricordi, che una determinata persona ritiene fondamentali in quanto «pietre miliari» della sua vita, sia tutt'altro che stabile: il medesimo evento viene narrato in modo diverso, cambiano i particolari, compreso il suo stesso significato, quasi che la memoria, anziché corrispondere a una precisa «fotografia» della realtà, modifichi la propria forma come un pezzo di plastilina. Ma, nonostante questo continuo processo di reimpasto, ogni singolo individuo ritiene non solo di essere un fedele custode delle proprie memorie, ma pure che queste siano immutabili: riconoscere che possano essere soggette a cambiamenti significherebbe accettare che la propria individualità e identità siano precarie, ossia porre in discussione la coerenza del nostro «io» e delle nostre esperienze. Dunque, a differenza di quanto avviene nelle macchine tradizionali, a livello cerebrale tutto è soggetto a essere rimaneggiato, plasmato e modificato. Se il cervello è una «macchina» è allora una macchina particolare, e non ha senso affermare che una funzione è localizzata in una particolare struttura e dipende esclusivamente da quell'area della corteccia o da quel nucleo sottocorticale. Oggi, sta lentamente tramontando una concezione dei rapporti mente-cervello basata sull'esatta coincidenza di funzione mentale e «microorgani» specializzati: i processi mentali vengono considerati come complesse attività di analisi dell'informazione, in grado di «riflettere» la realtà. Nell'ambito dell'attività mentale le singole informazioni vengono collegate tra loro e combinate per costruire progetti o programmi comportamentali che aderiscono a scopi: ogni funzione del cervello umano, dalla percezione alle stesse emozioni, rappresenta una sorta di attività funzionale che riflette il mondo esterno attraverso una continua analisi e riaggiornamento dell'informazione, e che contribuisce a elaborare progetti e programmi. In questa complessa attività svolge un ruolo importante una parte del cervello che, rispetto agli altri primati, è tipica dell'uomo e che è formata dalle aree frontali e prefrontali, cioè le parti anteriori del cervello: esse sono coinvolte nel perseguimento di scopi, progetti e programmi di azione, e la loro lesione, come avviene per alterazioni di tipo vascolare o in più rari casi di interventi chirurgici, comporta l'affievolirsi delle motivazioni e il disintegrarsi dei cosiddetti progetti diretti a un fine. L'analisi dell'informazione, l'adattamento all'ambiente e il perseguimento degli obiettivi e delle «visioni del mondo» dipendono in sostanza dalla globale cooperazione dei diversi sistemi funzionali del cervello che sono strutturati sulla base di programmi e progetti incorporati nel corso dello sviluppo individuale nell'ambito di un particolare sistema sociale. Questa concezione dei rapporti mentecervello va al di là della classica opposizione tra mentalismo e naturalismo, in quanto ha una dimensione che non si limita a ridurre la mente alla somma dei meccanismi cerebrali responsabili di elementari funzioni mentali: essa permette di superare il sogno di un facile riduzionismo neuroscientifico secondo cui la corrispondenza tra un evento mentale e il funzionamento del cervello sarebbe così stretta da permettere di giungere, col progredire delle tecniche, a conoscere le esperienze e la mente di una persona mediante l'analisi del suo sistema nervoso. In conclusione, le neuroscienze ci consentono oggi di tracciare un'immagine della mente che è forse meno prevedibile e confortante di quella che ci si attenderebbe da un approccio scientifico che, in quanto tale, viene spesso ritenuto sinonimo di ordine, di semplicità e di lineare univocità. Tuttavia, proprio per questo motivo, le concezioni della mente che vanno emergendo da un nuovo modo di guardare al cervello sono più vicine al mondo degli uomini, alla variabilità e complessità del vivente che a quello delle macchine. DIALOGO (Carlo Maria Martini e Giuliano Avanzini). CARLO MARIA MARTINI: Lei ha preso le mosse dalla circolarità della conoscenza, come se uno strumento studiasse se stesso. Che cosa suggerisce questa immagine? Un limite o un orizzonte? GIULIANO AVANZINI: Dal punto di vista biologico non vedo la possibilità di uscire dalla circolarità nell'approccio alla conoscenza. Infatti, il neurobiologo non ha gli strumenti per compiere il salto dai meccanismi che studia (in maniera anche sofisticata) alla percezione soggettiva, cioè all'"autoriferimento". A mio avviso, la linea di condotta legittima è quella più modesta: attenersi alle espressioni osservabili, studiare il comportamento, paragonare differenti reazioni di viventi diversi. Così facendo il neurobiologo può ottenere una certa comprensione dei processi che portano alla conoscenza. Ma questo non significa affatto poter colmare la lacuna di cui si diceva. MARTINI: Sembra dunque delinearsi una lacuna, forse incolmabile: quella tra la percezione dei segnali e la nascita dell'autocoscienza. Potremmo mai comprenderla o dovremo dare per scontata l'autocoscienza senza riuscire a spiegarne scientificamente l'emergenza? AVANZINI: Spero di non essere stato troppo drastico nel criticare l'immagine della mappa (vedi p. 83). Oggi sappiamo abbastanza su come l'interazione tra varie zone del sistema nervoso restituisca un quadro della realtà quale quello che potremmo leggere sulla corteccia cerebrale. Tuttavia, nemmeno questo ci porta a sondare con uno strumento diretto l'autocoscienza. Lo stesso vale per il passaggio dalla percezione intesa quale afferenza di segnali alla percezione intesa come esperienza che entra a far parte del Sé. Dunque, sono ben disposto a riconoscere i limiti dell'approccio biologico. Questo riconoscimento è peraltro necessario perché tale approccio sia scientifico, in quanto in qualsiasi ambito non si ha scientificità se non si precisano i limiti di validità. MARTINI: Il fenomeno dell'espressione verbale è solo allargamento della conoscenza o anche limitazione della conoscenza a causa dei vincoli che la lingua impone? AVANZINI: Credo che il linguaggio offra all'essere umano opportunità uniche: la possibilità di plasmare la realtà, ricombinandola e anticipandola, magari contraddicendola, nonché la possibilità di far sì che la conoscenza divenga problema. Certo, il linguaggio impone delle regole, e forse anche modalità conoscitive meno ricche rispetto a quelle che pertengono alla sfera emotiva e all'elementare adesione all'esperienza immediata del mondo che ci deriva dai nostri sensi. MARTINI: La sua risposta sul tema affascinante della lingua mi fa pensare che esistano cose che si intuiscono senza poterle dire. Vengo così alla questione per me fondamentale, quella della relazione tra processi sensoriali cognitivi e ciò che chiamiamo anima. Lei, insieme con Baroukh M. Assael, ha scritto un libro, intitolato "Il male dell'anima" (Laterza, Roma-Bari 1977), che è forse pertinente alla mia domanda. Si può davvero spiegare il processo della conoscenza, e persino quello dell'autocoscienza, unicamente in termini di crescente complessità dei processi sensoriali? Oppure bisogna supporre altro perché tutto ciò abbia unità? AVANZINI: Devo precisare che l'espressione "male dell'anima" è stata usata da Assael e da me nel libro, che Lei gentilmente cita, come metafora della condizione di disagio che il pregiudizio e l'incomprensione di molti generano nel vissuto di una persona che soffre di epilessia. Il discorso che vi si svolge ha rilevanza con il tema di questa conversazione solo come esempio delle distorsioni che una cultura (o piuttosto "incultura") alimentata da un atteggiamento ascientifico e umanamente deteriore può indurre nella visione della realtà che ci circonda. Ma venendo alla domanda rispondo che non ritengo legittimo compiere il passo che, in mancanza di una spiegazione biologica, porta a far riferimento ad altro. Ciò che chiamiamo anima non è deducibile dall'indagine scientifica e rientra piuttosto nella sfera delle convinzioni personali. Non penso, d'altra parte, che la constatazione di un limite insuperabile per una determinata metodologia scientifica possa portare consequenzialmente a postulare un'istanza che si sottrae a ogni possibilità di controllo. Anche per questo ho affermato che non ha senso parlare di un osservatore esterno alla mappa. Ancora recentemente mi è capitato di vedere un articolo intitolato «Chi legge nel cervello il processo temporale dei suoni?» - come se una parte del cervello fosse sovraordinata a un'altra nella rielaborazione delle informazioni. In realtà, il processo di codificazione dell'informazione e la sua lettura sono nel sistema nervoso centrale coincidenti. Vorrei riprendere un punto di quello che ho già detto: se è vero che possiamo inferire la presenza della percezione o della conoscenza dal comportamento interattivo del vivente con il mondo, dobbiamo pure notare che già esseri unicellulari interagiscono con il loro ambiente, per esempio fagocitando «prede» o allontanandosi da zone che sono per loro a rischio: si comportano come se di quell'ambiente avessero comunque una conoscenza. Il che ci porta alla provocatoria affermazione che possa sussistere conoscenza senza sistema nervoso - cioè che le due cose non siano necessariamente coincidenti. Il sistema nervoso potrebbe, allora, non essere altro che il risultato di una differenziazione adattativa sviluppatasi negli esseri pluricellulari per garantire la sinergia delle parti nella produzione di comportamenti coordinati utili all'interazione con l'ambiente. Una ipotesi chiaramente «eretica», ma proprio per questo ricca di implicazioni dialettiche che sarebbe forse interessante sviluppare. DIALOGO (Carlo Maria Martini e Alberto Oliverio). CARLO MARIA MARTINI: La memoria è la radice non solo della personalità, bensì della cultura, della coscienza storica di un popolo, la radice delle religioni - in particolare la religione cristiana vive di memoria e di riproposizione di gesta del passato nel presente e per il futuro. Lei ha parlato soprattutto di memoria dell'intelligenza. C'è anche una "memoria del cuore", degli affetti? E' possibile studiare l'unità di tutti i processi di memoria, compresi quelli affettivi, considerandoli da un'unica prospettiva scientifica? ALBERTO OLIVERIO: La memoria del cuore, quella emotiva, è fondamentale; quasi non esiste ambito del nostro ricordo che, in qualche misura, non faccia capo all'emozione. Difficilmente ogni nostra esperienza è neutra, ed è raro che dimentichiamo quello che ha valenza emotiva. Possiamo non ricordare un appuntamento di lavoro o il nostro codice fiscale - ma alcune «pietre miliari» restano, quelle che rivestono per noi un significato particolare. Può capitare che non si abbia memoria per la nostra professione, ma che non si dimentichi nulla di un "hobby", cioè di un qualcosa che ad altri sembrerà un dettaglio, mentre invece noi vi abbiamo investito emozioni e aspettative. La dimensione emotiva è dunque al centro, così come lo è quella corporea. Non c'è rapporto al mondo che non sia tramite il corpo: naso, mani, occhi, eccetera ci regalano un patrimonio di sensazioni che consentono di avere ricordi segnati dalla nostra individualità corporea. Per questo non credo all'ipotesi dello «scambio» "à la" John Locke (1632-1704). Nel suo "Saggio sull'intelletto umano" (1690) si legge: «Se l'anima di un principe, portando con sé la consapevolezza della vita passata del principe, entrasse a informare di sé il corpo di un ciabattino subito dopo che questo fosse stato abbandonato dalla propria anima, ognuno vede che egli sarebbe la stessa "persona" che il principe, responsabile solo delle azioni del principe, ma chi direbbe che si tratta dello stesso uomo?» (Libro secondo, XXVII, 117, trad. it. Laterza, Bari 1972, p. 344). Senza imbarcarmi nella discussione dell'anima, mi sembra che nel passo citato Locke ipotizzi una sorta di trasferimento nel corpo del ciabattino della memoria del principe. Certo, chi oggi concepisce una persona come "software" o informazione potrebbe riproporre un esperimento ideale analogo a quello del "Saggio sull'intelletto" (e molte trame di fantascienza fanno questo). Ma a queste concezioni lockiane o neolockiane ribatto che la memoria non è solo sistema nervoso; è una serie di strategie, movimenti, capacità di padroneggiare l'ambiente, eccetera che sono inscritte nel nostro corpo. Qualsiasi gestualità (pensiamo a un pittore, a un pianista, a un attore) porta con sé una memoria, che gradualmente si modifica, si raffina, anche tramite i suoi oblii... MARTINI: Avanzini ha menzionato (vedi p. 107) una conoscenza addirittura a partire dalla cellula. Se la memoria è presente in stati di vita alquanto primitivi, e comunque è presente negli animali, che cosa caratterizza la memoria di un'intelligenza propriamente umana? OLIVERIO: Indubbiamente, a livello animale le basi della memoria (le basi molecolari, neurobiologiche) rispondono a principi fondamentalmente simili. Ogni specie animale, ogni età della vita, ogni individuo ha poi capacità di interagire con la realtà che sono assai differenti. Chiaramente, la memoria degli uomini è diversa da quella degli altri animali, grazie anche al linguaggio che consente di ritagliarsi la realtà ciascuno a suo modo, di rielaborarla, di creare scenari ipotetici, e così via. MARTINI: A proposito di dinamismi della memoria, penso ai bambini letteralmente bombardati da «realtà virtuali»: c'è differenza tra il modo in cui si forma la memoria del bambino oggi e quello in cui si è formato il nostro tesoro di ricordi? Il fatto che la memoria sia plastica è d'aiuto per evitare la confusione tra memorie reali e impressioni virtuali? OLIVERIO: Di fatto, il bambino è ancora più vittima dell'adulto, vive nell'immediatezza, e labile è per lui il confine tra realtà e finzione. Senza voler invadere il campo degli psicologi dell'età evolutiva, mi pare lecito affermare che vi sono età in cui è assai difficile discriminare tra la propria esperienza e quella rappresentata. Per questo, le immagini virtuali, non mediate dall'intelligenza, hanno una forte presa sui bambini, sulle loro emozioni, e a mio avviso oggi non si è ancora a sufficienza riflettuto sui pericoli di tale "memoria acquisita". Forse perché gli «esperti» sono degli adulti che hanno poca dimestichezza con il «meraviglioso mondo nuovo» in cui stanno crescendo le ultime generazioni. Un bambino che gioca in cortile o per strada con altri bambini, ha esperienze e visioni del mondo ben diverse da quelle di un bambino che fa solo giochi virtuali - giochi che troppo spesso si prestano a stimolare l'aggressività. Certo, anche i giochi dei bambini di una volta erano carichi di aggressività. Però, in genere ci si sapeva fermare quando ci si rendeva conto che l'altro subiva le nostre stesse piccole sofferenze. Ora che tutto è smaterializzato, l'altro può essere schiacciato, tritato, polverizzato, annullato, e poi miracolosamente dovrebbe ricomporsi - come in un videogioco. Nella realtà nessuno si ricompone, nessuno risuscita! MARTINI: Sono dunque così minacciose tutte le tecnologie del virtuale? L'intero cammino verso l'Intelligenza Artificiale finirà per svalutare il valore della persona, riducendola a pura meccanica? O, invece, saranno i valori dell'uomo a indurre la scienza ad aprire nuovi fronti grazie alle conquiste tecnologiche? In un futuro prossimo o remoto non potrà l'impresa scientifico-tecnica seguire interessi più profondi? Penso, per esempio, al miglioramento dell'apprendimento dei bambini, alla cura delle malattie invalidanti degli anziani, allo smascheramento della trappole su cui si sorreggono le odierne tecniche del consenso. Tutto questo costituisce uno scenario molto incoraggiante, purché l'intelligenza umana rimanga padrona dei processi... OLIVERIO: Non mi sento di azzardare previsioni, anche perché le tecnologie hanno spesso conseguenze "inattese", ben diverse dagli scopi per cui sono state ideate. Non è detto che siano sempre conseguenze "perverse", ma a volte si rivelano comunque di vasta portata. Pensiamo all'automobile ieri e all'informatica oggi. Forse, non siamo ancora in grado di cogliere un'imponente crescita di cui godiamo i vantaggi immediati. I timori di quanti pensavano che l'uomo potesse un giorno risvegliarsi «antiquato» rispetto alle "performances" dell'Intelligenza Artificiale, sono a mio avviso in gran parte infondati. In campo informatico si cerca oggi non di emulare l'intelligenza umana con quella artificiale, quanto di accoppiare proficuamente l'una all'altra. E tutto il complesso delle scienze cognitive - dalla riflessione sulla natura e significato dei linguaggi di programmazione alle neuroscienze, alla psicologia - ha contribuito a riorientare l'originario programma della I.A. E' come se ci avessero detto: state attenti che l'intelligenza reale non è l'intelligenza formale, non è soltanto la logica; ma è anche tutto un insieme di cose: l'analogia, l'emozione, l'intelligenza del cuore... 4. FILOSOFIA E TEOLOGIA: ANCELLE DELLA SCIENZA? NELLE PIEGHE DELLA SCIENZA (Giulio Giorello). Ma io che ci faccio qui? Tentativo di risposta: «Il filosofo è mezzo scienziato, mezzo artista, e interamente (poiché non vi può essere una terza metà) sacerdote» (A. Emo, "Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973", a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Cortina, Milano 1998, p. 106). Perché attribuire questa triplice natura al filosofo? Innanzitutto, lo "scienziato": ritengo che, non diversamente dalla scienza, lo stile della filosofia sia quello dell'"analisi" un'investigazione che non obbedisce ad alcuno scopo estrinseco e si svolge nella più completa autonomia. Per dirla con Galileo Galilei, in filosofia non ci dovrebbe essere necessità alcuna di un'autorità cui conformarsi: «ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta» ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", in "Opere", VII, p. 138) . Quanto alla "sintesi", cioè alla ricomposizione di quello che l'analisi ha pazientemente sezionato, essa è sovente ottenuta al di là delle intenzioni. L'analisi è premio a se stessa. Poi, l'"artista": la parola filosofica è a sua volta "poiesis", apertura di mondo, ossia creazione di senso, di immagini che non celano nulla. Per questo ritengo che non si possa considerare il filosofo come un professionista. Vi sono, certo, dei professionisti della filosofia, i professori universitari, per esempio, ma la filosofia è altro. Infine, il "sacerdote": il filosofo lo è «interamente» perché prende sul serio la finitezza dell'esistenza, muove dall'esperienza dello scacco. Cito ancora da Andrea Emo (1901-1983) «la filosofia [...] è anche pratica, è come la religione, un sistema, un modo di sopportare l'atroce assurdità della vita. Una religione che ha degli eretici e degli apostati, delle cattedrali e delle catacombe» (A. Emo, op. cit., p. 106). Il filosofo riconosce la nostra natura «sospesa» tra la constatazione della relatività di tutte le nostre conquiste e il bisogno di assolutezza che a esse ci motiva. L'uno aspetto è il rovescio dell'altro: «non possiamo vivere senza essere assoluti, non possiamo vivere senza essere relativi» (A. Emo, op. cit., p. 96). Eppure, che strano personaggio è quello in cui tre nature si sommano insieme, e alcune solo per metà? A prima vista, è più bizzarro del mitologico centauro, metà umano e metà equino. Nel caso del filosofo la componente scientifica e quella artistica si saldano in modo da rendersi irriconoscibili ai professionisti sia della scienza sia dell'arte. Una delle metà altera i contorni dell'altra: a differenza che nell'impresa scientica, le «immagini» filosofiche non hanno la forma né di teorie empiricamente controllabili né di istruzioni tecnologicamente affidabili (se mai lo diventano, cessano di essere filosofia), diversamente dall'arte, non danno luogo a «opere» ma a «sistemi» - che, ovviamente, possono essere articolati anche in modo asistematico, pensiamo alle domande impertinenti di Socrate, agli aforismi di Nietzsche o alle «osservazioni» di Wittgenstein, eccetera. Per capire questo punto è bene, forse, muovere dalle parole con cui Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis (1772-1801), riassumeva la lezione copernicana: «Tutti i buoni ricercatori [...] fanno come Copernico: ruotano i dati e i metodi per vedere se così va meglio» ("Allgemeines Brouillon", 517, trad. it. "Opera filosofica II", a cura di F. Desideri, Einaudi, Torino 1993, p. 385). Sembrerebbe un'operazione abbastanza innocua, è invece la rivoluzione. «La fil[osofia] "scioglie" ogni cosa - relativizza l'universo - Come il sistema copernicano, essa toglie i punti "fissi" - e di quanto quietamente riposava fa un qualcosa di fluttuante. Essa insegna la relatività di tutti i fondamenti e di tutte le proprietà - l'infinita varietà e unità delle costruzioni di una cosa» ("Allgemeines Brouillon", 622, trad. it. cit., p.408). Non si intendano queste battute come l'annuncio di un relativismo a buon mercato. Del resto, non c'è affermazione che evochi un assoluto più di quella che dichiara che «tutto è relativo». Lasciatemi citare, per un'ultima volta, Andrea Emo: il «mistero» che caratterizza quella particolare «religione» che è la filosofia è il rapporto che essa istituisce «tra l'infinito e la sensazione» (op. cit., p. 106). Almeno, da quando Talete ha insegnato a cercare l'"arche" al di là della varietà del mondo fenomenico. E' questo «spirito» della filosofia che traspare dalla stessa "Fides et Ratio": la «grande sfida» di più di venticinque secoli fa come alle soglie del terzo millennio «è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; [...] è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale, il fondamento che la sorregge» (n. 83). Ma di questo fondamento il filosofo è «interamente» sacerdote. E lo è al punto da riconoscere in esso unicamente un "nome": «si dice di Dio: 'nessun nome può nominarti'. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi. [...] "Proprietario" del mio potere sono io stesso, e lo sono in quanto so di essere "unico". Nell'"unico" il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso», ossia ogni fondamento, «sia Dio o l'uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l'unico, essa poggia sull'effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire: io ho fondato la mia causa su nulla» (M. Stirner, "L'unico e la sua proprietà", trad. it. Adelphi, Milano 1979, p.p. 380-381). Non si tratta, però, di fare dell'assenza di fondamento un nuovo idolo di fronte al quale piegare le ginocchia. Né si tratta di abbandonarsi in modo compiaciuto all'esperienza dello «spaesamento» o del «disincanto», ritirandosi nell'«attesa». Al contrario, è in quel nulla della causa che trova ragione la filosofia. Certo, essa per secoli ha cercato di svelare l'essere in quanto tale - e le cosiddette "filosofie speciali" mirano a enucleare le condizioni di possibilità delle differenti pratiche umane: la filosofia dell'arte per l'arte, la filosofia della politica per la politica, la filosofia della scienza per la scienza. Tuttavia, l'ossessiva ricerca del fondamento ne consuma la sostanza, immagine di nulla, così che non c'è alcuna divinità che possa sorreggerci. Come diceva Novalis, «una vera anarchia è l'elemento generatore della religione» ("La Cristianità ovvero l'Europa", in "Opera filosofica II", trad. it. cit., p. 601). Per questo, se il filosofo è sacerdote, lo è per "non credenti", e quella della filosofia è una fede per increduli, una verità che non salva, poiché non c'è alcuna anima da salvare; una ricerca della salvezza che si compie in un esercizio senza fine che rinuncia al suo possesso. Esercizio del rischio, perciò stesso rischioso. Verità che non è monopolio di alcuna Chiesa, nemmeno di quella dei liberi pensatori. In che modo, allora, si può dire che la filosofia sia «ancella delle scienze» - per riprendere il titolo di questa sezione? Sicuramente, non nell'accezione letterale del termine, per cui "ancilla" deriverebbe, come diminutivo, da "ancula", ossia serva o schiava. Se c'è uno spirito che mi pare estraneo alla filosofia è il cosiddetto "spirito di servizio". Ogni tanto qualche malcapitato rinfaccia alla filosofia di non servire a nulla. Appunto, non serve a "niente" e a "nessuno". Quindi, nulla essa guadagnerebbe a passare da "ancilla theologiae" ad "ancilla scientiarum". Questo non significa, però, che il confronto tra filosofia e scienza sia insensato o vano. Per dirla ancora con Novalis: «Ogni s[cienza] ha il suo Dio che al contempo è la sua meta. Così la meccanica vive propriamente del perpetuum mobile - e nello stesso tempo cerca, come suo massimo problema, di costruire un "perpetuum mobile". Così la chimica con il menstruum universale - e la sostanza "spirituale" o la pietra filosofale. La fil[osofia] cerca un primo e unico principio. Il matem[atico] la quadratura del circolo e un'equazione principale. L'"uomo-Dio". Il medico un elisir della vita - un'essenza per ringiovanire e il per[fetto] sentimento e trattamento del corpo. Il politico uno Stato perfetto - la pace perpetua - "Stato libero"» ("Allgemeines Brouillon", 314, trad. it. cit., p. 323). Qualsiasi studente delle medie superiori sa, o almeno dovrebbe sapere, come in matematica, in meccanica o in chimica il particolare «Dio» indicato da Novalis abbia segnato al tempo stesso lo scacco di un ambizioso programma e l'innesto di nuove o più proficue tecniche di ricerca. Quanto alla medicina, non è forse uno dei grandi sogni o incubi del nostro tempo «il perfetto trattamento del corpo»? Sulle «piccole» guerre che costellano le «grandi» paci di questo fine secolo non sto nemmeno a spendere parola - mentre di quanto sangue possa grondare uno «stato libero» lo sanno tutti quelli che l'hanno provato. Eppure, sono queste «aspettative sempre deluse e sempre rinnovate» (Novalis, "Allgemeines Brouillon", 314, trad. it. cit., p. 323) a informare ogni pratica di ricerca. La stessa filosofia è un po' come la «pietra filosofale», una sorta di «quadratura del cerchio», in qualche senso impossibile, in un altro necessaria: «la filosofia è l'intelligenza stessa» (vedi Novalis, "Allgemeines Brouillon", 640, trad. it. cit., p. 416). Oggi l'impresa scientifica riesce a prospettare un quadro plausibile dell'evoluzione del cosmo (a partire da tempi di poco superiori al "tempo di Planck", vedi "questo volume", p.p. 19-22 e in particolare p. 21) e del vivente (vedi p.p. 51-64), della struttura del cervello umano (vedi p.p. 77-86) e del comportamento cosciente o meno (p.p. 87-103). Riesce a fare tutto ciò perché ha saputo abbinare speculazione teorica e potenza tecnologica. Talvolta, sono gli stessi ricercatori scientifici a riconoscere quanto le loro "analisi" restino tuttavia lontane da una possibile "sintesi" (valga per tutti l'esempio di Roger Penrose, "Il grande, il piccolo e la mente umana", a cura di M. Longair, trad. it. Cortina, Milano 1998). Peraltro, la cosmologia contemporanea si alimenta persino dell'audace congettura su quello che vi era prima dell'inizio (vedi "questo volume", p.p. 23-24), e la biologia si arrovella sulla comparsa del vivente (cioè sulla transizione dal chimico al biologico, vedi p.p. 43-50), e poi sul modo in cui dai procarioti si è passati alle cellule più complesse di cui noi siamo fatti, gli eucarioti (vedi p.p. 65-66), per non dire sull'«emergenza» nella vita dell'"intelligenza". Si darà mai un senso a un'espressione come «macchina pensante», o una spiegazione di cosa sia la «mente»? Come si vede, un qualche «Dio» di Novalis è sempre all'opera, e ogni volta che si produce quel particolare effetto di «delusione» e insieme di «rinnovamento», la filosofia, non tanto come disciplina definita, quanto piuttosto come compito di continuo ridefinibile, si insinua "nelle pieghe della scienza". E' possibile farne a meno? Forse, ma a quale prezzo? Nel paesaggio che ci è offerto dall'impresa scientifica è fin troppo facile che la luce delle conquiste finisca per abbagliarci facendoci dimenticare le zone d'ombra. Ed è in questa loro «"prosperity"» che va rintracciata, paradossalmente, quella "crisi delle scienze" di cui ha trattato molta riflessione del Novecento (e che non va intesa come crisi nelle scienze o crisi di una disciplina particolare). Nei successi delle «scienze», innegabili - così come innegabile è la loro portata conoscitiva -, si cela, quasi a condizione di possibilità della loro efficacia, la rinuncia, consapevole o meno, a porre la questione del senso. Del senso non solo delle loro pratiche, ma anche dell'esistenza. E', dunque, l'oblio, pressoché necessario, di tali domande da parte della scienza l'indice dell'esigenza di rivendicare il diritto all'interrogazione filosofica. Senza cadere per questo in facili irrazionalismi o in ancor più facili atteggiamenti antiscientifici che, di fatto, rappresentano la negazione dell'istanza della filosofia. Si è evocata (vedi "questo volume", p.p. 16-18) anche la figura di Giordano Bruno (1548-1600). Vorrei rifarmi qui, oltre che al cosmologo del "De l'infinito, universo e mondi" (1584), al teorico di "Gli eroici furori" (1585). Per il Nolano non vi sono unicamente furori distruttivi, bensì anche furori alimentati da spirito lucido ed intellettuale», «dal fuoco del desio e soffio dell'intenzione» - tali che «nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente». Tali furori «non sono oblio, ma una memoria; [...] non è un raptamento sotto le leggi di un fato indegno, [...] ma un impeto razionale» ("Dialoghi italiani", nuovamente ristampati con note da G. Gentile, terza edizione a cura di G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1958, p.p. 986-987). Non paia strano che qui si rimandi a colui che morì da ultimo dei maghi e primo dei moderni, e che aveva fatto del copernicanesimo lo strumento per ripristinare l'antichissima religione di un Dio infinitamente infinito (cui può solo convenire un universo senza "limiti": «straccia le superficie concave e convesse, che terminano entro e fuori tanti elementi e cieli» ("De l'infinito, universo e mondi", in "Dialoghi italiani", cit., p. 536). Bruno non fu l'illuminista "ante litteram" o il «libero pensatore» dell'iconografia ottocentesca, e fu quasi certamente l'iniziato ben disposto a lasciare le masse (se vogliamo ancora usare questa orribile parola) sotto i vincoli delle religioni positive. Nonostante questo, o forse proprio per questo, risalta la forza del suo gesto filosofico. A qualche secolo di distanza, la posta è sempre la stessa: «il maggior pericolo [...] è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quella disposizione d'animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall'incendio distruttore dell'incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità» (Edmund Husserl, "La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale", trad. it. Il Saggiatore, Milano 1983, p. 358). PER UNA ETERONOMIA FONDATRICE (Bruno Forte). Teologia: ancella della scienza? Questa domanda è figlia del tempo della modernità: alla teologia - "regina scientiarum" nell'enciclopedia del sapere medioevale - la ragione moderna ha sostituito se stessa quale protagonista e vertice della conoscenza. Ecco perché nell'epoca iniziata dall'Illuminismo il vero problema del rapporto fra teologia e scienza "non" è quello della loro separazione, quanto piuttosto quello di una loro eccessiva conciliazione: da una parte, la ragione moderna tende ad assorbire in sé la fede, a farne una «provincia dello spirito», regolata dalle leggi del divenire che abbraccia tutte le cose; dall'altra, una certa apologetica teologica tende ad asservire a sé il dato scientifico in un concordismo a tutti i costi. La crisi delle pretese della razionalità moderna, la cosiddetta «dialettica dell'Illuminismo», investe questo tipo di rapporto fra scienza e teologia: si avverte l'insufficienza di ogni «scientismo», di quell'ideologia della scienza, cioè, che è stata smentita nelle sue presunzioni deterministiche assolute dalla stessa evoluzione delle teorie scientifiche, al tempo stesso in cui appare non meno ideologico e insostenibile un uso teologico strumentale della scienza. La crisi dei modelli di sapere prodotti dalla modernità smaschera i possibili impianti ideologici della conoscenza scientifica e di quella teologica. Teologia e scienza si scoprono così entrambe più povere: però, è forse questa nuova povertà che consente anche un nuovo dialogo. Da una parte, la razionalità teologica non potrà che avere un compito blasfemo nei confronti di una razionalità scientifica che continuasse ad avanzare pretese di assolutezza: essa si pone come correttivo antiidolatrico, denuncia del limite di ogni totalità chiusa, stimolo all'apertura sulla traccia dell'infinito. Dall'altra, la razionalità scientifica avrà ragione di mostrarsi disinteressata e scettica, perfino canzonatoria nei confronti di una teologia concordistica a ogni costo. Dove però la teologia saprà essere non meno, ma più «teologica», e si presenterà dunque come pensiero della "Krisis" (Karl Barth), dell'interruzione (Johann Baptist Metz), anti-ideologico per eccellenza, e la razionalità scientifica saprà coniugare la conoscenza del mondo dei fenomeni all'onesta consapevolezza dei propri limiti, allora entrambe potranno assumere una singolare rilevanza nell'attuale contesto di «caduta degli dei» che è la crisi delle ideologie, specie nel Nord del mondo. Teologia e scienza, più modeste e consapevoli del loro servizio a tutto l'uomo in ogni uomo, possono allora incontrarsi sul piano della intenzionalità ultima e della responsabilità etica. Nel tramonto degli idoli, legati ai grandi miti dell'ideologia, esse si trovano a confrontarsi non come due mondi chiusi che si sfidano, ma come due forme del pensare e dell'agire umano, chiamate entrambe a misurarsi sull'altro per cui esistono. Oggi scienza e teologia sono entrambe sfidate in modo nuovo dalle loro responsabilità etiche: è su questo terreno che il loro incontro potrà essere ben più radicale e fecondo di quanto la contrapposizione o l'assimilazione a buon mercato abbia potuto far ipotizzare per il passato. Vorrei soffermarmi su tre aspetti: 1) le responsabilità della scienza, 2) le responsabilità della teologia, 3) l'eteronomia fondatrice tra scienza e teologia. 1) "Le responsabilità della scienza". La razionalità scientifica è chiamata in causa dal problema - oggi più che mai attuale - della distinzione fra ciò che è tecnicamente possibile all'uomo e ciò che gli è eticamente consentito: il mito della neutralità della scienza, fondato sulla soppressione di questa basilare distinzione, si è rivelato clamorosamente distruttivo e alienante proprio nei suoi risultati umani e sociali. Per esempio, la crisi ecologica, di cui si è così acutamente consapevoli ai nostri giorni, consiste precisamente nel turbamento indiscriminato indotto nei ritmi e negli equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono sottoposti a causa del comportamento umano, che la scienza ha dotato di potenzialità prima imprevedibili. Si potrebbe affermare che il nucleo della crisi ambientale stia nella differenza tra «tempi storici» e «tempi biologici», nella sfasatura cioè fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia. Le conseguenze di questa sfasatura - di cui l'esempio più eclatante è il possibile impiego distruttivo dell'energia nucleare - non sono solo riscontrabili negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale e sul ricambio energetico, ma anche nelle prospettive che si disegnano per i soggetti storici. Il profilarsi della scissione fra etica e scienza coincide con quella che Martin Heidegger ha chiamato «l'epoca dell'immagine del mondo»: è il tempo in cui il trionfo moderno della soggettività si è consumato a prezzo della riduzione degli enti a mero oggetto, compiuta attraverso «un rappresentare, un porre-innanzi ("vor-stellen"), che mira a presentare ogni ente in modo tale che l'uomo calcolatore possa esser sicuro, cioè certo dell'ente» («L'epoca dell'immagine del mondo», in "Sentieri interrotti", trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1984, p.p. 83 seg.). Il conoscere diviene possesso del conosciuto e la ricerca esercizio della «volontà di potenza» della ragione assoluta: gli esseri umani si relazionano al mondo come al vasto campo del loro dominio, «maîtres et possesseurs de la nature» (Cartesio). Il «sapere aude» illuministico si coniuga al «sapere è potere» (Bacone), che sta alla base del moderno sviluppo della scienza e della tecnica. Si profila a pieno campo il trionfo della ragione strumentale! La violenza che si esercita sul reale, per assimilarlo alla rappresentazione concettuale, è percepita come una forma di affermazione della verità, come uno stabilire l'«ordre de la raison» sull'irrazionale disordine del tempo storico. Imperialismo della soggettività, volontà di potenza e rapporto strumentale con la natura si corrispondono. Anche la concezione del tempo è plasmata dalla svolta moderna verso il dominio del soggetto: la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, imprime ai processi storici di adeguamento del reale all'ideale un'incalzante accelerazione. Questa fretta della ragione si esprime tanto nella crescente rapidità dello sviluppo tecnico e scientifico, quanto nell'urgenza e passione rivoluzionaria, connessa all'ideologia. Il mito del progresso non è che un'altra forma della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave di lettura dei processi storici, anima ispiratrice dell'impegno di trasformazione del presente. Il divario fra «tempo storico» e «tempo biologico» è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica delle «grandi narrazioni» dell'ideologia del progresso, anche scientifico. Porre un limite alle pretese della scienza, negare il principio scientista per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche lecito, diventa urgenza richiesta dalla tutela della qualità della vita di tutti. 2) "Le responsabilità della teologia". Anche la teologia ha in tutto questo le sue responsabilità: le radici culturali della mentalità, che presiede allo sviluppo del rapporto squilibrato fra uomo e natura, sono state certo anche teologiche (si veda in particolare Lynn White junior, «The historical roots of our ecological crisis», "Science" 155 (1967), p.p. 1203-1207, trad. it. in "Il Mulino", marzo-aprile 1973). In modo particolare, la sopraffazione esercitata dall'uomo sulla natura sarebbe giustificata dal comando divino riportato nel libro della Genesi: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (1, 28). Questa affermazione - rivestita dell'autorità della rivelazione - avrebbe determinato lo sviluppo di un'etica del dominio, fortemente antropocentrica, tale da giustificare la finalizzazione e la strumentalizzazione del mondo agli interessi del soggetto umano. Un secondo rimprovero che viene mosso alla teologia propria della tradizione ebraico-cristiana è quello di aver comportato un originario «disincanto del mondo» (Max Weber), che avrebbe consentito l'abbandono di ogni atteggiamento sacrale verso la natura: enfatizzando la divinità di Dio e la Sua sovrana trascendenza, il pensiero biblico avrebbe operato la più radicale delle secolarizzazioni, spopolando l'Universo dei suoi numi e riducendolo a semplice terra di conquista abbandonata alla cupidigia dell'uomo. Viene infine attribuita alla tradizione teologica ebraico-cristiana la responsabilità del profilarsi di quella concezione lineare del tempo, che è alla base del moderno mito del progresso, causa di tanta violenza nei confronti della realtà naturale, forzatamente piegata alle rappresentazioni ideali e alle loro ambizioni di compimento rapido e trionfante. La visione biblica dell'Esodo e del Regno, la religione della promessa e l'etica della speranza sarebbero colpevoli di aver proiettato gli uomini verso il futuro, imprimendo un'esasperata accelerazione al tempo storico. La derivazione della moderna filosofia del progresso dall'eredità teologica occidentale caricherebbe di responsabilità proprio la teologia nei confronti delle tragedie prodotte dai vari «totalitarismi» ideologici affermatisi nel «secolo breve» (Eric Hobsbawm). 3) "L'eteronomia fondatrice tra scienza e teologia". Sia le responsabilità della scienza sia quelle della teologia rimandano, dunque, a una misura che sia fuori del chiuso orizzonte delle visioni ideologiche, teologiche o scientifiche, a un criterio altro, capace di fondare un impegno morale, che aiuti a discernere fra ciò che è possibile e ciò che è lecito in vista del bene di tutti. La tradizione ebraico-cristiana coglie questo criterio nell'orizzonte biblico dell'alleanza con Dio: pur ricevendo una particolare dignità e responsabilità, l'uomo sta davanti a Dio nella solidarietà con tutto il creato, chiamato a realizzarsi nel suo rapporto col Creatore e in quello con gli altri uomini e l'Universo intero. Accanto a Gen 1, 28 c'è l'affermazione dell'altro e più antico racconto della creazione, dove l'atteggiamento richiesto all'uomo verso il mondo presenta i tratti della sollecitudine, dell'affidamento e della cura: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15). La tradizione ebraico-cristiana, peraltro, ha espresso esempi altissimi di rapporto non strumentale e anzi amorevole con la natura: ne sono prova per esempio, la laboriosità benedettina, ricca di tensione spirituale, la «custodia» del creato nello spirito di Francesco d'Assisi e del suo "Cantico delle creature", o la «riverenza» ignaziana verso tutto ciò che esiste, in quanto porta in sé l'impronta del Creatore. Certamente, in questa prospettiva la natura non ha nulla che possa farla divinizzare: essa è creatura, come lo è l'uomo. Tuttavia, proprio in quanto oggetto dell'amore creatore del Dio dell'alleanza, essa riveste una dignità altissima, costantemente richiamata dall'espressione del compiacimento divino dinanzi all'opera dei sei giorni: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1). Il disincanto del mondo compiuto dalla rivelazione biblica si traduce allora non nel rapporto esclusivo uomonatura, interpretato nella forma dello sfruttamento e del dominio, ma nella relazione articolata fra l'universo creaturale, la più alta delle creature, e l'unico Signore del cielo e della terra. E' proprio la relazione dell'uomo e della natura al Creatore, dunque, a fondare una responsabilità ecologica di alto livello nella coscienza del soggetto storico. Sul piano etico questa relazione impegna l'uomo a render conto al Dio vivente della maniera in cui si rapporterà al mondo, che l'Eterno ha affidato alle sue cure, e tanto più del modo in cui si relazionerà all'altro uomo, come lui immagine di Dio. Secondo la nota tesi di Karl Löwith non è la radice teologica, ma la sua perdita che trasforma il mito moderno del progresso in una permanente minaccia all'equilibrio dei rapporti fra l'uomo e il suo ambiente. Dove è perduto il senso della Trascendenza, ogni alterità è svuotata di consistenza e l'imperialismo del soggetto ha libero corso, anche nei rapporti con la natura. L'Altro non riducibile al medesimo è, dunque, quanto la coscienza morale ispirata dalla fede biblica propone all'uomo come misura del suo agire, altrimenti indiscriminato: in questo senso, il Dio biblico è davvero l'avvocato dell'uomo, non la sua minaccia o il suo concorrente. Alla luce di questo criterio fondamentale la teologia ricorderà alla scienza che nessun intervento promosso dalla ragione scientifica sarà moralmente accettabile se comporterà in qualunque forma o misura una violazione della sacralità della vita umana e della unicità e irripetibile dignità dell'essere personale (come nel caso di applicazioni di ingegneria genetica a scopo alterativo o distruttivo di esseri umani). Viceversa, dove la persona sarà rispettata o promossa (come nel caso delle applicazioni della genetica a livello diagnostico, terapeutico o produttivo, sempre che le tecniche adoperate non comportino danno all'integrità o alla vita stessa dell'essere umano), l'intervento di manipolazione scientifica risulterà moralmente fondato. Dove vi è autonomia assoluta del protagonismo storico, ogni manipolazione e alienazione risulterà possibile. Dove, invece, è riconosciuta e accolta un'eteronomia fondatrice, anche le forme più avanzate di ricerca scientifica rispetteranno il valore assoluto della persona umana e promuoveranno una cultura della vita e della sua qualità per tutti e per ciascuno. Affermare l'eteronomia fondatrice vuol dire, insomma, per lo scienziato non ergersi a misura del tutto e di tutti, ed entrare nella logica di un'etica della solidarietà e della responsabilità che sola è capace di servire tutto l'uomo in ogni uomo. In questo tempo postmoderno, descritto già come quello del «naufragio con spettatore» (Hans Blumenberg), in cui ciascuno è al tempo stesso naufrago e responsabile dinanzi al naufragio, nel dialogo fra teologia e scienza non si svolge solo una battaglia dell'uomo con se stesso, ma una vera e propria lotta di Giacobbe, in cui la posta in gioco è la dignità stessa dell'essere umano e la qualità della vita per tutti. In questa lotta vince chi si lascia vincere dalla maestà dell'altro, trascendente e sovrano: solo dove l'esistenza della persona è riconosciuta come dono da accogliere e rispettare, inviolabile nella sua sacralità, fondata eteronomamente, la ricerca scientifica conosce limiti e misure di ordine deontologico e sfugge ai rischi dell'alienazione. La qualità etica della scienza non sta nelle sue possibilità e nelle sue pretese di assolutezza, ma nel suo essere consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità in campo etico e sociale, per inserirsi ordinatamente in un progetto di umanità solidale e di responsabilità morale nei confronti di ogni essere umano. E' ricordando questo alla scienza che la teologia si fa sua «ancella»: è tacendo su questo, che si fa complice della caduta della razionalità scientifica nelle secche alienanti dello «scientismo». Dunque, non una teologia ancella della scienza in senso servile, né una scienza ancella della teologia in chiave concordistica, ma teologia e scienza ancelle entrambe dell'altro, al servizio di tutto l'uomo in ogni uomo, aperte all'Ultimo, che tutto supera e trascende, nella fedeltà al penultimo, senza lasciarsi catturare da alcuno. DIALOGO (Carlo Maria Martini e Giulio Giorello). CARLO MARIA MARTINI: Lei ha trattato della filosofia entro le pieghe della scienza, accennando peraltro a quelle «zone d'ombra» relative all'origine dell'Universo, alla comparsa della vita, all'emergenza della mente. Che cosa ha da dire la filosofia sui "limiti" della scienza? Ha una dottrina, una riflessione in proposito? GIULIO GIORELLO: Nella luce accecante delle certezze può dar sollievo l'ombra della palma. Sulle più varie pratiche umane la filosofia incessantemente solleva dei dubbi. E' questo il suo «sistema». Potrei quindi rispondere che, a proposito dei limiti della scienza, la filosofia ha certo una riflessione, anche se non una dottrina. Tuttavia, non è che la filosofia debba giudicare la scienza (come, del resto, ci parrebbe bizzarro che la scienza giudicasse la filosofia). Si tratta piuttosto (come ho detto a p. 120) di cercare la filosofia nelle stesse pieghe della scienza - e riprendo la bella immagine del mio maestro Ludovico Geymonat (1908-1991) (vedi "Lineamenti di filosofia della scienza", Mondadori, Milano 1985, p. 144). Una filosofia "nella" scienza, dunque: una filosofia che è all'opera in essa, e non soltanto nei termini di quella «metafisica influente» che parte dell'epistemologia contemporanea (da Karl Popper a John Watkins, da Joseph Agassi a Imre Lakatos, per non dire di alcuni spunti suggeriti dalle ricognizioni «storiche» di Thomas Kuhn e di Paul Feyerabend) ha più volte enfatizzato. Alludo piuttosto alla possibilità di "pensare" filosoficamente entro la scienza, avendo il coraggio di spingere l'interrogazione fine alla linea d'orizzonte che idealmente ne delimita il «patrimonio» (il termine è ancora di Geymonat). "Orizzonti e limiti della scienza": «linea aperta e invalicabile», l'orizzonte è invenzione del nostro occhio e si muove con esso (vedi A. Emo, "Supremazia e maledizione", cit., p. 110); quanto ai limiti, riconoscerli non esclude che "si lavori su di essi", «una paziente fatica che dia forma alla nostra impazienza per la libertà» (vedi M. Foucault, «What is Enlightenment?», in P. Rabinow (a cura di), "The Foucault Reader", Pantheon Books, New York 1984, p.p. 32-50, poi in "Dits et écrits 1954-1988", vol. 4, Edition établie sous la direction de D. Defert et F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, p.p. 562-578, in particolare p. 578). MARTINI: La filosofia può spingersi allora oltre i limiti della scienza, in riferimento all'origine dell'Universo, della vita e della mente? Oppure tutto questo esula dal suo campo? GIORELLO: Non penso sia compito della filosofia dire ciò che la scienza non dice. A lei spetta, semmai, far riflettere sul perché siano dette certe cose, e non altre (e quali implicazioni abbiano). Possono essere utili due esempi. Il primo è pressoché un classico per lo storico del pensiero scientifico. Nelle parole di Federigo Enriques (1871-1946): «quando Newton scoprì che l'attrazione si esercita non tanto tra il Sole e i pianeti, ma anche tra i pianeti - reciprocamente da ciascuno di essi sull'altro - ei s'avvide che l'ordine del sistema solare ne risulterebbe turbato, ché le ellissi kepleriane descritte dai corpi andrebbero deformandosi e così la bella armonia dell'insieme potrebbe rompersi un giorno. Ma lo spettacolo della catastrofe bruciò gli occhi al severo scienziato, che, dimentico in quel punto delle esigenze fondamentali del proprio metodo, si rifugiò nella fede divina, lasciando alla Provvidenza di ristabilire l'ordine turbato del cosmo» ("Scienza e razionalismo", Zanichelli, Bologna 1912, ristampa anastatica 1990, p. 288). Qui addirittura era la teologia a essere messa al servizio della scienza. O meglio, si sostenevano in una sorta di circolo la concezione newtoniana di un Dio garante dell'ordine del mondo e una filosofia della natura fortemente matematizzata che faceva esperienza dei propri ostacoli interni (vedi V. I. Arnol'd, "Huygens & Barrow, Newton & Hooke", trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 63). Dopo Newton (1642-1727) la ricerca fisico-matematica ha ripetutamente affrontato la questione fino alla svolta segnata dai contributi di Henri Poincaré (1854-1912) che consentirono di impostare «il problema in modo tutto nuovo»: «invece di cercare formule che esprimessero il variare della posizione dei corpi celesti nel corso del tempo egli si interrogò sull'aspetto qualitativo delle orbite: i pianeti si avvicinano tra loro? Possono cadere sul Sole oppure allontanarsene? e via di questo passo» (V. I. Arnol'd, cit., p. 73). E' risultato alla fine che il moto in un sistema di più di due corpi è ora regolare, ora caotico a seconda delle condizioni iniziali. E «anche se il moto di un pianeta [...] è regolare, è sufficiente una perturbazione arbitrariamente piccola dello stato iniziale per renderlo caotico. Fortunatamente, la velocità con cui si instaurano queste perturbazioni caotiche è estremamente piccola, sicché il tempo necessario al manifestarsi della caoticità, per una perturbazione abbastanza piccola allo stato iniziale, è lungo rispetto all'intera durata del sistema solare. Così, per i prossimi miliardi di anni [...] 'l'orologio meccanico' descritto da Newton continuerà a funzionare diligentemente» (V. I. Arnol'd, cit., p. 75). E che ne è ora del suo Dio? Si potrebbe pensare che il mescolare l'Onnipotente ai problemi fisicomatematici sia proprio di un periodo ancora aurorale, benché grandioso, della «filosofia naturale». Di fatto, sono talora i ricercatori scientifici a ritornare oggi sul terreno che un tempo era tipicamente filosofico, se non teologico. L'idea del "fine tuning" (vedi "questo volume", p. 22) per cui se le costanti universali che sono alla base della fisica dell'Universo avessero valori anche minimamente differenti, la vita (come la conosciamo) non si sarebbe potuta sviluppare su questa Terra (e noi non saremmo qui in questa Cattedra...), è per qualcuno il modo migliore per riaffermare l'idea che nella nascita e nell'evoluzione dell'Universo si manifesti una sorta di Grande Disegno. Curiosamente, miscredenti come Fred Hoyle e credenti come John Eccles sembrano convergere in questo argomento del Progetto che parte dalla chimica stellare per concludere che l'Universo non aspettava altro che la comparsa dell'«osservatore intelligente», l'uomo. Per non parlare, addirittura, di una "Fisica dell'immortalità" (come pretende Frank Tipler, trad. it. Mondadori, Milano 1995). Di fronte a scenari del genere, dove il fisico si annette «imperialisticamente» i territori del teologo, è bene guardarsi intorno alla ricerca di qualche alternativa - nella fattispecie l'alternativa dei molti universi (o «Multiverso») che riduce la portata teleologica del cosiddetto ragionamento antropico in un contesto matematicamente ed euristicamente assai stimolante. Sarà, per ora, mera speculazione, ma non dobbiamo dimenticare che per secoli alcune «speculazioni», come quella bruniana (e non solo) della pluralità dei mondi, hanno impedito al pensiero di restare schiavo di quella che all'epoca era considerata la teoria scientifica accreditata. E se la cosmologia del Multiverso pare violare il principio di parsimonia usualmente attribuito a Occam, per cui gli enti non vanno moltiplicati senza necessità, bisogna pur dire che essa ci libera da quel finalismo che farebbe della fisica un dio, come vorrebbe Tipler. Per altro, Guglielmo di Occam (ca 1280-1347) considerava possibile la pluralità e non la riteneva in contrasto con il suo nominalismo; vedi S. J. Dick, "Plurality of Worlds", Cambridge University Press, Cambridge 1982, p.p. 30-35; per il criterio della «economia» cui si contrappone la «liberalità» di Dio creatore vedi L. Bianchi, "Il Vescovo e i filosofi", cit., p.p. 81 e 99). La filosofia non va oltre la scienza, ma si muove "a latere", e questa sua attenzione alle possibilità di riaprire lo spazio delle alternative rappresenta il corrispettivo per la teoria di quella che è per la pratica la responsabilità di cui ha trattato Bruno Forte (p. 129). MARTINI: Quali sono i punti di incontro possibili con la teologia? Filosofia e teologia convergono soltanto sul tema etico della responsabilità, o anche nel delineare delle risposte a interrogativi sull'origine, sulla fine e sul senso della vita umana? GIORELLO: Insisto ancora sul senso della nostra finitezza, che porta il filosofo a situazioni apparentemente paradossali. Certo, concordo con Bruno Forte nel considerare "forma particolare di tirannide" una ricerca in cui tutto ciò che è tecnicamente possibile venga per ciò stesso attuato. Né basta a giustificare la cosa il desiderio di conoscenza. Trovo ripugnante, per esempio, che a scopo «conoscitivo» non venga somministrato un farmaco a una data categoria di persone pur sapendo che quel farmaco potrebbe salvarle. Nel 1972 venne resa pubblica negli Stati Uniti l'esistenza del «Tuskegee Study of Untreated Syphilis in the Negro Male», un progetto dell'U.S. Public Health Service perseguito dal 1932: i medici avevano messo sotto controllo seicento maschi neri e poveri della Georgia, di cui 399 malati di sifilide. Lo scopo della ricerca era studiare il decorso della sifilide in assenza di trattamento (anche quando venne scoperta la penicillina e il medicamento si rese largamente disponibile alla fine della Seconda Guerra Mondiale, i dottori continuarono a non curare gli uomini sotto inchiesta). Ora, non c'è dubbio che si avverta l'esigenza di limiti. Limiti, questa volta, esterni e non interni alla pratica scientifica - limiti etici direbbe Forte, limiti che vengono dalla nostra responsabilità, dal nostro riconoscimento dell'altro in quanto altro e non in quanto cosa. Tuttavia, bisogna avere la forza di porre limiti a chi pone limiti. Se, infatti, non si rischia tale circolarità, si finisce per cadere sotto la dittatura non dei tecnocrati ma dei superesperti della morale, che fissano doveri e scopi, condannando in nome dei loro valori ogni forma di dissenso. Dunque, anche nel caso dei limiti esterni, o etici, proprio l'esercizio coerente della responsabilità impone di «lavorare sui limiti» e di mettere pertanto in discussione la natura stessa di quei valori in nome dei quali ci dichiariamo responsabili. All'idea di una responsabilità assoluta "per ogni altro" opporrei l'istanza di una responsabilità che sappia farsi carico della sua stessa contingenza, del suo limite, in una parola, della sua finitezza - aprendo così alla possibilità di una responsabilità "di altri". MARTINI: Bruno Forte si è soffermato a lungo e in maniera sofferta sulla violenza di cui sarebbe accusata la teologia a proposito del dominio - sfruttamento e asservimento - della natura, e le ha opposto la via del servizio dell'altro e dell'orizzonte dell'alleanza. A suo avviso, non c'è il rischio di violenza nella ricerca incessante dell'assoluto anche in ambito filosofico? Se non lo raggiunge, forse il filosofo non osa imporlo. Ma se pretende di raggiungerlo, non lo vuole con ciò stesso imporre? Bisogna allora scegliere tra ricerca di assoluto e libertà? GIORELLO: In ogni esperienza di liberazione vi è una forte componente di violenza. Pensiamo all'immagine platonica della caverna: il filosofo libera gli schiavi incatenati "biai", «con violenza» ("Repubblica" 515e, e su questo punto tornerà Heidegger nelle sue lezioni su Platone). E la violenza è propria di ogni assoluto. Tuttavia, c'è un punto che è, forse, la salvezza e insieme la perdizione del filosofo: se lo imponiamo, l'assoluto non è più un assoluto, si è già dissolto, relativizzato. E' diventato l'idolo; la faccia della divinità è già altrove. Di nuovo, è l'esperienza della nostra finitezza che in qualche modo, paradossalmente, ci salva. Ci salva con la rinuncia alla salvezza, e all'imposizione di questa nostra salvezza agli altri. E tutto ciò ha nome libertà. Vorrei riprendere l'immagine della fenice (p. 121) che nel scegliere il suo nido nel fuoco che la distrugge potrebbe prestarsi a emblema della filosofia, se non fosse che quella, la fenice, si «accende con certezza», mentre questa, la filosofia, «con dubio de riveder il sole» (G. Bruno, "Degli eroici furori", in "Dialoghi italiani", cit., p. 1043 ). Forse, è questo «dubio» che meglio incarna il senso della responsabilità filosofica, dell'apertura all'altro in quanto tale: ciò che il cristianesimo chiama «amore». DIALOGO (Carlo Maria Martini e Bruno Forte). CARLO MARIA MARTINI: Sarei tentato di riproporre a Bruno Forte le stesse domande che ho rivolto a Giulio Giorello - allo scopo, questa volta, di saggiare il taglio del teologo... BRUNO FORTE: Sono domande che fanno pensare, soprattutto l'ultima, quella radicale: la "quaestio de veritate", per dirla con terminologia antica. E' mia convinzione che su questo si giochi tutto il nostro discorso. Poiché siamo figli di una tradizione culturale segnata dal passaggio dalla verità come "aletheia", come svelamento del nascosto, come esibirsi alla visione di ciò che era prima celato, alla verità in termini di dominio, di una "adaequatio (rei et intellectus)" che è anche possesso. In realtà, c'è almeno una tradizione, quella biblica, dove la verità si pensa nei termini della "emet". L'ebraico non ha una parola che dica «verità»; dice «verità» la parola «fedeltà», "emet". Le conseguenze sono enormi. La verità greca è monistica; la verità ebraica è pattizia. La verità ebraica sta nella relazione; quella greca nella comprensione, nel dominio, nell'idea (stessa radice dell'aoristo del verbo "orao", vedo). Dunque, la verità greca porta con sé un potenziale di violenza, di necessità. La verità ebraica vive nel regno della libertà, dell'incontro. Il greco possiede la verità, l'ebreo deve lasciarsi possedere da essa. Il greco vede, l'ebreo ascolta: "Shema' Israel, Adonai eloenu. Adonai echad". Mi sembra sia questo il punto. Se il filosofo e lo scienziato, o il teologo e lo scienziato, si pongono davanti alla verità non come oggetto di dominio, bensì come alterità da cui lasciarsi inquietare, possedere permettete che usi l'espressione teologica -, come Mistero ultimo che ci raggiunge, ci turba, allora si viene liberati da quella tentazione di violenza che porta con sé la "ideo-logia" in tutte le sue forme, anche teologiche. MARTINI: Questo significa, allora, che anche la teologia dovrebbe muoversi "a latere" della ricerca scientifica, così da indicarne i limiti? FORTE: Per quanto riguarda i limiti della scienza, una teologia che sia correttivo antiidolatrico, che abbia il compito blasfemo di denunciare l'idolo, è denuncia dello scientismo. Dunque il «no» di un teologo obbediente a una verità come "emet", patto, relazione, amore non è il «no» alla scienza, ma allo scientismo, ossia alla scienza praticata come ideologia totalizzante, al determinismo proprio di una scienza intesa come violenza. Può il teologo andare oltre i limiti della scienza, oltre i suoi «buchi neri»? Ritengo che sia compito del teologo denunciare gli orizzonti chiusi, e proprio per questo segnalare il Mistero, farsi in qualche modo voce dell'Altro, avvocato dell'altro; pur se - questo è il punto specifico e caratterizzante - il teologo riconosce il luogo dove l'Altro si è detto, pronuncia un nome, il nome del Cristo, del suo amore crocefisso. MARTINI: Quali sono, dunque, i punti di incontro fra il filosofo e il teologo? FORTE: Potremmo testimoniarli insieme, Giulio Giorello e io, e i molti altri con cui ho da tanto tempo cercato e pensato: la comune povertà, il domandare e non il dominare. Quando si hanno domande vere, si trovano risposte vere. Domandare è il primo compito del pensiero. E poi pensare l'altro, riconoscere l'altro come la vera questione. Allora, la grande domanda posta dal filosofo al teologo è che cosa induca il teologo a riconoscere nell'altro la traccia dell'Altro. Se entrambi sono inquieti e pensosi, se entrambi si pongono domande, se il credente è un ateo che si sforza ogni giorno di cominciare a credere e il non credente pensoso è forse un credente che si sforza ogni giorno di cominciare a non credere, che cosa ci aiuta a compiere il passo che nell'altro prossimo e vicino - ci faccia riconoscere l'Altro che fonda anche in maniera ultima e radicale la responsabilità etica? Vorrei rispondere non argomentativamente, ma in forma quasi narrativa, con le parole di una giovane donna ebrea morta ad Auschwitz, il cui "Diario" è inquietante per tutti (cristiani, ebrei, credenti, atei): Etty Hillesum. Ella motiva la sua scelta di consegnarsi ai tedeschi e di andare nel campo di concentramento in un piccolo testo che cito dal suo "Diario" del 12 luglio 1942: «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma "a priori" non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti nei cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anche esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare noi responsabili. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di metter in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento - invece di salvare te, mio Dio; e altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno, se si è nelle tue braccia» ("Diario 19411943", a cura di J. G. Gaarlandt, trad. it. Adelphi, Milano 1985 e 1997, p.p. 169-170). Ecco il passaggio dall'altro all'Altro. Forse, lo si può compiere quando si capisce, come Etty Hillesum, che si tratta di aiutare Dio. E aiutando Dio, un Dio umile, crocefisso, forse il filosofo e il teologo insieme scoprono un sentiero di trasgressione verso l'Altro, che li aiuta a vivere la loro responsabilità verso gli altri. 5. SCRITTURE DELL'UOMO E SCRITTURA DI DIO. UNA RIFLESSIONE (Carlo Maria Martini). "Premessa". "Orizzonti e limiti della scienza". Parole che invitano, intuizioni che stupiscono, scoperte che meravigliano. Vorrei iniziare citando un poesia di John Donne (15721631) - "Batter my heart, three person God, for you" - nella splendida traduzione di Cristina Campo: "Sfascia il mio cuore, Dio in Tre persone! Per ora tu solo bussi, aliti, risplendi, e tenti di emendare. Ma perché io sorga e regga tu rovesciami e tendimi la tua forza a spezzarmi, esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. Usurpata città, dovuta ad altri, io mi provo a farti entrare, ma ahi! senza fortuna. La ragione, in me tuo viceré mi dovrebbe difendere ma è prigioniera e si mostra molle o infida. Pure teneramente io t'amo e vorrei essere riamato. Ma fui promesso al tuo nemico. Divorziami, disciogli, spezza il nodo, rapiscimi, imprigionami: se tu non m'incateni non sarò mai libero, casto mai se tu non mi violenti". Ho scelto questi versi del teologo inglese, caposcuola dei «poeti metafisici», perché esprimono in maniera drammatica quel dialogo fede-ragione che si è tentato negli interventi di "questo volume". L'icona di partenza del mio intervento è suggerita dal titolo stesso: "Scritture dell'uomo e Scrittura di Dio". Scritture dell'uomo: i risultati della matematica, dell'astronomia, della fisica, della biologia, nonché della stessa filosofia; Scrittura di Dio, cioè le Scritture ebraico-cristiane, la Bibbia, dove i credenti ritrovano un messaggio «dall'alto» che offre risposte profonde ai grandi interrogativi della vita. Si potrebbe anche delineare - e lo si è fatto qui alle p.p. 115-140 - un confronto tra filosofia e teologia, intendendo per "filosofia" la riflessione razionale che abbraccia il cammino umano della ricerca, e per "teologia" la riflessione sistematica sui dati rivelati da Dio mediante le Scritture, le voci dei profeti e dei grandi maestri dell'umanità. Ancora l'icona delle due Scritture, traducibile dunque nel binomio filosofia-teologia, è suscettibile di venir espressa con un'altra immagine, con un altro simbolo, richiamato da Giovanni Paolo Secondo all'inizio dell'enciclica "Fides et Ratio". Scrive il Papa: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità». L'immagine delle due Scritture si tramuta così nell'icona delle due ali: quest'ultima indica più chiaramente la necessità, per chi desidera volare bene, di equilibrare le ali, di tenerle in sintonia di movimento, come un uccello addestrato al volo. E a queste immagini - Scritture e ali - farò qui idealmente riferimento nel tentativo di rendere ragione di quanto, come discepolo in ascolto di maestri, ho cercato di capire e di assimilare. Prima di entrare nel vivo dell'argomento, vorrei tracciare l'itinerario del nostro ultimo incontro. Resto, comunque, un "quidam de populo, quidam de plebe audientium", uno della folla che si è sforzato di farsi una sintesi interiore, che si è lasciato coinvolgere e quasi soverchiare da una serie infinita di interrogativi, numerosi come le stelle del cielo e come gli universi possibili di cui si è trattato. Intervengo, quindi, come persona che vuole pensare e capire, che vuole dar voce in sé al credente e al non credente. Alla fine del mio dire esprimerò, anche come cristiano e come Vescovo, ciò che sento, ciò che vedo di luci e di ombre nello scenario immenso di problemi evocato dagli uomini di scienza. Procederò secondo l'ordine che segue: PRIMO. "Attese e risonanze". A modo di richiamo spiegherò anzitutto perché mi sono deciso a mettere a tema, in questa decima sessione della Cattedra, le questioni della scienza; che cosa mi aspettavo e che cosa temevo; che cosa globalmente ne ho tratto, anche stimolato dal dialogo con i singoli relatori. SECONDO. "Orizzonti che si allargano". In un secondo momento vorrei sottolineare alcuni degli orizzonti che ci si sono aperti, e il rapporto tra tali orizzonti dell'impresa scientifica e quelli del credere (insisterò così sul rapporto tra orizzonti aperti dalle scritture umane e orizzonti proposti dalla Scrittura divina). TERZO. "Limiti che emergono". In un terzo momento, ispirandomi al titolo generale della Cattedra, "Orizzonti e limiti della scienza", tratterò dei limiti che «un profano» come me può cogliere nei diversi contributi, e di ciò che la Scrittura sacra suggerisce a proposito di questi limiti, e del loro (eventuale) superamento. Per ritornare, in "conclusione", all'icona iniziale delle due Scritture e delle due ali. "Attese e risonanze". 1. Mi sono deciso a proporre questa sessione della Cattedra perché da sempre sono affascinato dagli orizzonti e insieme dai limiti della scienza. Gli "orizzonti" sembrano sconfinati: si può arrivare quasi a tutto. Nello stesso tempo, però, emergono i "limiti": ci sono barriere che sembrano invalicabili anche concettualmente, per non parlare dei limiti etici. Penso a domande fondamentali come quelle sull'origine e la durata dell'Universo, la comparsa della vita, eccetera. Avvertivo il bisogno di approfondire tali orizzonti e tali limiti, come pure di coglierne la relazione con il credere e il non credere. Sovente si ritiene, infatti, che gli "orizzonti" sconfinati della scienza favoriscano il non credere; si ha l'idea che con la scienza si possa arrivare a spiegare e fare ogni cosa, senza bisogno di altre istanze, siano esse filosofiche, metafisiche o religiose. E, normalmente, si ritiene pure che, invece, i "limiti" della conoscenza favoriscano il credere, invitino a pensare che vi sia "al di là" qualcosa in grado di spiegare ciò che noi non riusciamo a spiegare e di dire ciò che noi non possiamo raggiungere con la sola ricerca, restando nell'ambito della «verità» scientifica. 2. Desideravo andare oltre queste due percezioni oltre la sintesi, troppo facile, che suona: più scienza meno fede, meno scienza più fede. Volevo indagare la correlazione esistente tra questi due esercizi dello spirito - scienza e fede - e cercare se e come sia possibile un'integrazione nel vissuto di una persona, pur nella distinzione degli ambiti. Ossia, come si possa esser scienziati senza rinunciare a pensare "al di là", e come si possa esser credenti senza rinunciare a lasciarsi interrogare e mettere in questione dai dati sempre nuovi della scienza. Volevo sentire da persone in vario modo coinvolte nell'impresa scientifica come esse vivano le aperture di orizzonti e i limiti, le frontiere del loro conoscere. Non mi interessava una semplice divulgazione dei risultati, in sé legittima e assai utile, che ha già i suoi luoghi propri. Cercavo una riflessione che si collocasse sull'orlo della scienza, tra il sapere e il non sapere. Dunque, neanche una discussione dei rapporti tra scienza e fede, ma, semmai, una testimonianza sul conoscere al limite del non conoscere, e sul credere al limite del non credere. Si trattava, me ne rendo conto, di una sfida ardua, che forse esigeva troppo da chiunque fosse stato chiamato a «rispondere». 3. Se questo è ciò che mi aspettavo, che cosa invece temevo? In parte, l'ho già accennato: che fosse difficile riuscire a non separare il ricercatore dall'uomo in ricerca, il classificatore e il controllore dei dati dall'indagatore dei significati - poiché i dati non possono essere intesi se non entro una cornice di senso, ordinandoli, sollevando ipotesi e domande. Se poi le mie attese si siano realizzate e i miei timori siano stati del tutto fugati lascio al lettore decidere. "Orizzonti che si allargano". 1. Chi scorre qualche buon libro di scienza ha sovente l'impressione che gli schiudano grandi orizzonti, e ricordo la metafora dell'orizzonte quale linea circolare aperta e insieme limite invalicabile, e tuttavia mobile. Ascoltando coloro che sono impegnati nella ricerca è possibile cogliere la verità delle parole che Giovanni Paolo Secondo pone quasi a conclusione della "Fides et Ratio": «Non posso non rivolgermi agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle componenti, animate e inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci» (n. 106). Anche noi non abbiamo cessato di stupirci, sentendo nostra l'immagine di Isaac Newton: «Io mi vedo come un fanciullo che gioca sulla riva del mare, e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto, mentre davanti mi si stende inesplorato l'immenso oceano della verità». Di fronte a questo oceano ci si sente a volte quasi smarriti. La fatica della ricerca, lo stupore per i risultati raggiunti, il dubbio mai del tutto eliminato circa le conquiste della conoscenza sono i fili conduttori dei saggi qui raccolti, dedicati alla descrizione delle varie scienze, prima che dal momento «analitico» si passasse a un tentativo «sintetico» da parte di filosofi e teologi. Pur non essendo tra gli addetti ai lavori, per così dire tra gli iniziati, ho potuto percepire il fascino della scienza derivante non solo dall'incredibilità dei traguardi raggiunti e dalla sfida di ipotesi ardite, ma anche e soprattutto dal dispiegarsi del processo di conoscenza con la sua capacità di penetrare le leggi invisibili della natura. I numeri che la cosmologia e la biologia hanno prospettato sono difficili da immaginare, e incutono meraviglia e timore: un Universo antico di qualche miliardo di anni, la comparsa della vita collocabile a oltre un miliardo di anni fa, e la sua fantasiosa potenza riproduttiva capace di generare milioni di specie diverse. Un Universo già difficile da comprendere, che forse si dilata in un Multiverso (vedi "questo volume", p.p. 23-25). Tre generazioni di stelle per dare origine a un "quantum" di sostanze chimiche sufficienti a far scaturire la vita. Infine, la comparsa di questo vivente che da animale è diventato "Homo sapiens" (vedi p.p. 27-33 e p.p. 43-50). Si è poi passati dal molto grande dell'Universo al molto piccolo dei geni che regolano la vita biologica e giustificano la diversità delle specie, secondo le vigenti teorie neodarwiniane - teorie che sono sufficienti a spiegare molti fatti dal punto di vista biologico, ma che vacillano di fronte al fenomeno umano (vedi p.p. 51-64). Più specificamente, abbiamo imparato a conoscere il funzionamento del cervello umano, a un tempo soggetto e oggetto del nostro ricercare, in una circolarità che è propria della conoscenza (p.p. 77-103). Anche il cervello, in quanto «entità biologica» è andato incontro a una progressiva complessità evolutiva, differenziandosi quantitativamente da quello degli altri animali e qualitativamente, però, solo con la comparsa del linguaggio. Ed è questo salto evolutivo che la biologia non sembra saper spiegare. Se la potenza del regno animale sta nell'agire, quella dell'uomo sta nel pensare e comunicare. Il mondo - è stato detto - è percepito tramite un dispositivo di recettori e di segnali, introiettato e archiviato mediante i sistemi della memoria, estratto ed elaborato attraverso le funzioni cognitive, trasmesso grazie a un codice simbolico, il linguaggio, che permette la comunicazione tra simili e la consegna transgenerazionale. L'uomo, dunque, «coscientizza» la propria esistenza e crea, con il pensiero e il linguaggio, cose nuove che arricchiscono il patrimonio conoscitivo. Questi, in sintesi, alcuni degli orizzonti scientifici che, pagina dopo pagina, si sono aperti a me (e, credo, si aprano a tutti i lettori del "presente volume") . 2. Sorge qui la domanda che è tipicamente mia: gli orizzonti che si allargano toccano, in qualche modo, anche gli orizzonti della Scrittura e della Rivelazione cristiana? Oppure, si tratta di campi del tutto indipendenti, riguardanti ambiti dell'esistenza tra loro distinti, non comunicanti, che non interferiscono l'uno con l'altro? Mi è sembrato di cogliere, in alcune affermazioni, un certo ottimismo, quasi una sorta di irenismo circa il rapporto scienza-fede, che è in qualche modo rintracciabile anche in chi sostiene la piena compatibilità tra esperienza scientifica ed esperienza di fede, le quali opererebbero in contesti pressoché indipendenti pur riguardando una medesima entità, l'uomo. Tuttavia, prima che si traggano conclusioni affrettate, ritengo utile sottolineare tre aspetti, riprendendo e integrando alcuni elementi emersi negli altri saggi del volume. "Primo") Il primo, espresso chiaramente, è il rifiuto deciso di ogni "concordismo" tra scienza e fede - concordismo sia alla maniera antica, vigente ancora ai tempi di Copernico, Galilei, se non oltre, che collocava le categorie spaziali della Bibbia in un mondo stellare concepito secondo i principi di Aristotele prima e di Tolomeo poi, sia nelle varie rielaborazioni moderne e contemporanee, tra cui, in particolare, il già citato tentativo di Frank J. Tipler (che ammette di aver cominciato la sua carriera di cosmologo da «ateo convinto», "La fisica dell'immortalità", trad. it. cit., p. XI), per il quale gli squarci aperti dalla ricerca sull'origine e l'evoluzione dell'Universo offrirebbero persino una dimostrazione dell'immortalità. "Secondo") Inoltre, si è insistito sul fatto che scienziati, filosofi e teologi hanno a che fare con la persona umana e che tutti sono, dunque, di fronte al mistero dell'altro, del volto. Ciò pone - come giustamente è stato detto - il problema etico nel cuore stesso della scienza, ed esso ne investirebbe pure le applicazioni tecnologiche. "Terzo") Mi sono chiesto, tuttavia, se, oltre ai rapporti relativi all'etica, non vi siano tra "scienza" e "teologia" rapporti di tipo conoscitivo tali da non permettere a chi legge le Scritture di affermare con tranquillità che i due ambiti non si toccano. Penso, in particolar modo, ai temi riguardanti l'origine del mondo e della vita, la comparsa dell'uomo, quella che chiamiamo la creazione dell'anima dal soffio di Dio, il peccato originale e, più in generale, la natura dell'Universo (uno o molteplice, o addirittura «Multiverso» senza confini?). Lo sfondo della Bibbia appare lontano dal pensiero evoluzionistico e dal modo con cui tale pensiero prospetta l'origine dell'uomo e dell'intero Universo. La Bibbia racconta di un uomo che sembra nascere perfetto e direttamente dalle mani di Dio, già essenzialmente "diverso" e "superiore" a ogni specie animale. Le ricerche della scienza sui processi di ominazione non hanno ancora trovato una collocazione per un periodo di stacco preciso da ogni specie animale e di inizio perfetto con quelle doti umane evocate dalle prime pagine della Scrittura e che sottostanno al racconto della colpa primitiva da parte di una prima coppia umana. Dov'è, per la scienza, la prima coppia umana? Nella Bibbia l'Universo, concretamente limitato al sistema solare, è presentato sì come costituito a tappe - e questo ha potuto illudere qualche accanito «concordista» di poter facilmente indicare corrispondenze tra i giorni della creazione e le diverse fasi dell'origine del mondo descritte dalla scienza - ma non sembra possibile leggere un vero e proprio dinamismo evolutivo nelle pagine del "Genesi". Da quando la Chiesa ha preso atto della plausibilità delle teorie evoluzionistiche, si sono rese necessarie una rilettura e una reinterpretazione dei dati biblici circa l'origine dell'Universo, la comparsa delle specie vegetali e animali e, in particolare, dell'uomo e della donna. Oggi si è abbastanza d'accordo nel considerare quelle pagine non come una storia e neppure come un mito, bensì come un'affermazione teologica del primato di Dio, della sua potenza di creatore, del suo privilegiato rapporto con la persona umana intelligente e libera, chiamata al dialogo con Dio; un'affermazione del fatto che il male morale del mondo non è una forza primigenia, ma la conseguenza del cattivo uso della libertà umana. Si ammette, anzi, che l'intuizione di Dio sull'uomo, il sogno di Dio sull'uomo, delineato nei primi capitoli della Bibbia, sia in realtà il punto di arrivo di un lunghissimo cammino e prefiguri, in qualche modo, come già suggeriva Paolo nella "Lettera ai Romani" (vedi, in particolare, capitolo 5), quel senso ultimo del dinamismo impresso nel cosmo che Teilhard de Chardin riassume nell'idea di "punto omega", ossia il punto di aggregazione di tutta l'umanità in Cristo. Tuttavia, vi è nella Bibbia qualcosa di molto importante che esprime una tensione evolutiva e ha qualche analogia con una visione evolutiva dell'Universo. Alludo, in generale, alla sensibilità che il testo biblico mostra per il divenire, per lo sviluppo della storia. In particolare, penso al principio per cui i passaggi, i salti di qualità nel divenire non avvengono globalmente e uniformemente secondo rigidi determinismi, ma emergono in luoghi e fatti concreti, singoli, e da questi si diffondono e si propagano. E' il "principio della elezione", che richiama il principio della selezione. E' la costante della singolarità dei momenti salvifici portanti e del loro dinamismo, del modo in cui avvengono i salti di qualità nel cammino della storia della salvezza. E' vero che sono semplicemente assonanze e analogie, però stanno a dire come la Bibbia non sia estranea a un dinamismo simile a quello del pensiero evoluzionistico. Tende a dargli nome e volto anche nel processo storico, fino a lasciare emergere il principio fondamentale che, secondo la Scrittura, presiede al dinamismo di tutto l'essere: l'"Amore". Al di là di tali riletture, peraltro non ancora ben recepite a livello di coscienza collettiva, è presente il bisogno di una riflessione teologica approfondita sul senso dell'Universo e del suo «espandersi» fino alla persona umana. George Coyne parla addirittura di una «nuova teologia» (vedi p.p. 40). E' necessaria una riflessione inedita che tenga conto del dinamismo evolutivo del cosmo e renda ragione di quella solitudine e marginalità della specie umana nell'Universo o nel Multiverso che sembra in contrasto con la visione di un Dio che ha di mira, nella sua creazione, soprattutto l'uomo e il suo destino, fino al farsi uomo del Figlio. Che senso ha questo apparente spreco di tempi e di mondi, se tutto è creato per l'uomo? Quale concezione ne deriviamo per la gratuità e quasi la «giocosità» di Dio nell'Universo? La teologia ha pure il compito di rispondere a tali domande, e grandi spiriti come Teilhard de Chardin e Karl Rahner vi si sono cimentati, con fortune diverse. Rahner è giunto a ricercare come una Cristologia - una dottrina su Gesù Cristo Figlio di Dio e Redentore - sia compatibile con una visione evolutiva del mondo, possa cioè essere presentata in modo comprensibile a persone per le quali la visione evolutiva è uno schema mentale ovvio. Ci accorgiamo, così, che teologia e scienza non sono due grandezze che procedono parallele o si toccano solo sul terreno etico; in realtà, vi sono spazi in cui in qualche modo «si disturbano» e si stimolano, invitando a guardare oltre e a pensare con più coraggio e audacia. I temi concernenti l'uomo e l'Universo sottendono un'ulteriore serie di domande che scienza e fede si pongono mutuamente: esse toccano il mistero stesso di Dio, del Creatore, di Colui che nella filosofia classica è chiamato causa prima, motore immobile del dinamismo dell'Universo. Vi è ancora un posto visibile per Dio nella storia dell'Universo? La scienza pensava di sì, almeno fino a Newton; anzi, postulava tale presenza, ma George Coyne sostiene qui con chiarezza - e sono d'accordo con lui - che non possiamo introdurre risposte di fede a domande lasciate aperte dalla scienza. Ritengo, dunque, che la speranza di trovare vestigia dirette di Dio, scientificamente dimostrabili, nell'origine e nello sviluppo dell'Universo, vada al di là degli orizzonti della scienza e che alcuni rinnovati tentativi in tale direzione conducano a vicoli ciechi E' importante che il mistero di Dio non venga sottomesso a verifiche umane e appaia all'uomo quale manifestazione fatta alla sua coscienza e intelligenza, a prescindere da argomenti scientifici, semmai contro di essi. Il mistero di Dio si svelerà, dunque, all'uomo non in dipendenza di controlli sperimentali o come ipotesi sostitutiva di anelli empirici mancanti, bensì a partire da domande prime cui la scienza non potrà rispondere: perché esiste ciò che esiste? Perché queste leggi di natura e non altre? Che senso ha l'esistenza umana? Quale mistero vi è nell'altro? Soprattutto, si svelerà a partire dalle testimonianze esteriori o interiori con le quali il Mistero trascendente - che è "al di là" di ogni mondo - continua a farsi conoscere nella storia umana, ossia nelle testimonianze bibliche che invitano a credere. "Limiti che emergono". Così, siamo già entrati nel terzo momento del mio intervento: i limiti che emergono entro e per la scienza. 1 . In pressoché tutti i contributi di "questo volume" sono stati evidenziati, accanto ai molti «orizzonti» evocati, anche alcuni «buchi neri», ossia interrogativi cui la scienza non è attualmente in grado di rispondere e cui, in parte, sa forse di "non" poter rispondere. Essa ritiene, per esempio, di non poter dire nulla sull'istante zero, quello assolutamente iniziale del nostro Universo, prima dei famosi 10 alla meno 43esima secondi; di non riuscire a cogliere alcuni salti decisivi nell'evoluzione, come il passaggio dalle molecole prebiotiche alle biomolecole e ai procarioti, e così pure quello da singole cellule a cellule organizzate; di non saper spiegare l'emergere dell'intelligenza come tale, di non capire ancora perché l'insieme delle cellule si organizzi nella coscienza. In particolare, la scienza non risponde alle questioni sollevate sin dall'inizio da George Coyne: la vita, nel quadro dell'evoluzione dell'Universo fisico, doveva necessariamente apparire? O è apparsa per caso? La sua comparsa può essere spiegata? Inoltre, esiste soltanto sul nostro pianeta? A livello dell'intelligenza e della coscienza, rappresenta un fattore significativo per l'evoluzione futura dell'Universo? Infine, noi esistiamo unicamente per riciclare energia, oppure siamo esseri speciali nei quali l'Universo trova la possibilità di passare dalla materia allo spirito? Qui la scienza, a mio avviso, incontra i suoi limiti più estremi, e tuttavia le è chiesto di non considerare tali domande insensate e vuote. Sono domande cui essa non può oggi, e non potrà forse neppure domani, dare risposta con gli strumenti di cui dispone, ossia con l'osservazione e il controllo sperimentale, con il dialogo tra teoria ed esperimento. Ciò significa, per usare le parole di Julian Chela-Flores, che non si deve andare al di là della pratica scientifica, assumendo tacitamente una posizione filosofica riduttiva, come ha fatto, a suo tempo, il neopositivismo. Abbiamo, dunque, individuato limiti etici e cognitivi della scienza. In tal modo risultano definiti anche i limiti della teologia, che non deve pretendere di colmare i «buchi neri» con ipotesi che introducano soluzioni trascendenti in problemi che vanno invece lasciati al controllo empirico, mediante osservazioni ed esperimenti. 2. Ma la questione che si pone con urgenza è quale sia il compito della teologia, e della fede da essa espressa, circa le domande di tipo esistenziale che non trovano risposta nell'ambito della ricerca scientifica - e, finalmente, la domanda prioritaria, quella su Dio. E' qui che l'uomo in ricerca, affascinato e stupito da quanto gli rivelano i suoi strumenti di osservazione, intimorito e sbigottito dalla sua piccolezza rispetto alle dimensioni dell'Universo, ritrovandosi come Newton con in mano una conchiglia di fronte a un mare senza fine, lascia emergere quegli interrogativi che si estendono al perché, al significato ultimo di tutto ciò e, in particolare, al senso del suo essere in questo mondo con la curiosità e l'avidità di sapere, e con l'angoscia di fronte all'ignoto. Qui avviene il passaggio dallo scienziato in dialogo tra osservazione e teoria a una ricerca di senso. E' qui che la dimensione etica, inerente alla scienza, si domanda perché sia necessario rispettare il mistero dell'altro e cosa si nasconda dietro all'intangibilità e dignità di ogni volto. Anzitutto, su tale terreno si avvertono le distinzioni di compiti tra scritture umane e Scrittura divina, e insieme si coglie il fascino che la Scrittura divina continua a esercitare sull'"Homo sapiens" in cerca di conoscenza del mondo e di sé, del suo destino ultimo. A questo punto, infatti, non bastano più i linguaggi umani della misurazione e del calcolo matematico. Occorre un linguaggio che, non avendo paura di esprimersi in simboli e in parabole, abbia il coraggio, l'ardire di assumere le forme della poesia; che risvegli nel cuore dell'uomo quella speranza che come scintilla primordiale attende di poter riscaldare con il suo fuoco il gelo di un Universo senza senso, e come goccia di rugiada può difendere dall'angoscia di masse infuocate che sembrano espandersi minacciose in un cosmo senza destino. Ricordo la parola poetica di Giobbe, che interroga spaventato colui che ritiene essere il suo giudice ingiusto e si sente dire: «Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura?». E Giobbe, alla fine, esclama: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te [...]. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 3 8, 4-5; 42, 1.5). Il cristiano ritiene che il «vedere con gli occhi» qualcosa del mistero invisibile gli sia donato dalla presenza tra noi di quel Signore che le Scritture dell'ultima Alleanza pongono al centro del loro messaggio. Le Scritture divine ci diranno pochissimo sul divenire fisico del mondo e dell'uomo, e per di più mescolandolo a opinioni fisiche e biologiche legate al passato, e dunque in parte superate. Tuttavia, ci hanno detto, ci dicono e continueranno a dirci cose decisive sul senso del cammino umano sulla Terra, sul primato della persona, sul carattere definitivo di ogni gesto d'amore e su Colui che dà a ogni gesto d'amore un significato eterno, superando tutti i mali e le assurdità di questo mondo con una dedizione - quella della Croce - che riscatta le malvagità e può suscitare in ogni essere umano germi di autentica speranza, di sincera cura dell'altro, di fraternità e di solidarietà. In altre parole, per un credente le due realtà, scritture umane e Scrittura divina, e di conseguenza riflessione scientifico-filosofica e riflessione teologica, si riferiscono a un dato comune, a un unico mondo. In concreto, all'opera di Dio creatore e redentore, opera scritta nella storia del cosmo e nel divenire dell'uomo e dei popoli, quindi leggibile dalle scienze fisiche e storiche; e scritta, invece, su pergamena e papiro a seguito della rivelazione dei profeti e degli uomini di Dio, quindi leggibile dalla teologia alla luce della fede. Certo, gli errori nella lettura sono in agguato in "ogni" attività speculativa, e pertanto brandire un "credo", sia esso scientifico, filosofico o teologico, per far quadrare i conti imponendo una soluzione, è dolorosa premessa per un'ideologia fonte di violenza. Ma altro è lo sforzo sincero di lettura che ognuno fa nella comunità scientifica o nella comunità di fede. Scienza e fede non sono, dunque, un unico binario su cui corre la vita dell'uomo, e neppure strade divergenti o in collisione. Le vedo piuttosto quali binari paralleli, tenuti in connessione dalla filosofia e dalla teologia, che come traversine permettono ai binari di rimanere affiancati, così che possa correre il grande treno della vita. Scienza e fede sono anche le due ali che consentono di volare verso orizzonti sempre più lontani. Procedere su binari, soprattutto con la velocità delle odierne tecnologie, o volare con le ali a velocità supersonica vuol dire spostare più rapidamente il nostro orizzonte, in modo che quando sembra a portata di mano, di nuovo esso ci sfugge. L'uomo pensante accetta volentieri un orizzonte continuamente mutevole. Non vive di sole certezze, senza porsi dubbi, bensì, stupito e meravigliato, si rimette ogni volta in gioco, facendo della domanda e del dubbio la molla vitale per una ricerca onesta, animata da interrogativi incessanti, nella speranza di una risposta che apra la porta a nuove domande. Per usare una metafora che traggo dall'intervento di Giulio Giorello, il mondo non può essere visto né in una luce abbagliante, né nel buio completo. La migliore acuità visiva è ottenuta nel contrasto tra luce e ombra che permette agli oggetti di rivelarsi nella loro struttura tridimensionale, anziché piatti e indifferenti. "Conclusione". Per tornare all'icona iniziale, le due scritture, per un credente, soprattutto per un cristiano mistico - come John Donne di cui ho citato una poesia o come Cristina Campo - che legge in unità e trasparenza il cosmo e la storia (il cristianesimo del Duemila, secondo Karl Rahner, o sarà mistico o non sarà), sono momenti dell'unica Parola, la Parola di un Dio che vuole comunicare se stesso e, nascondendosi dietro a caratteri spesso enigmatici, a guisa di geroglifici, ci invita a cercarLo anche tra vicende drammatiche, decifrando il grande libro della natura e della terribile storia umana, per giungere a compiere gesti di amore e di fraternità. Confido che le pagine di "questo volume" abbiano suscitato in qualcuno la voglia e il gusto di leggere più a fondo le scritture dell'uomo e la Scrittura di Dio. FIGURE. FIGURA 1. Il cosmo della "Divina Commedia". Esso non è altro che l'antico Universo della tradizione aristotelica cui è stato aggiunto l'Empireo. La Terra di forma sferica, è « al centro» dell'Universo. Descrizione fisica e connotazione teologico-morale si fondono tra loro. Si noti la corrispondenza tra l'abisso dell'Inferno e la montagna del Purgatorio, entrambi formatisi con la caduta degli angeli ribelli (per dirla con Ezra Pound, "Cantos", LXXIV: «quando Lucifero cadde nel Nord Carolina»). FIGURA 2. a) Epiciclo. Il pianeta P si muove intorno ad A posto sul cerchio deferente A-B-D. Quando l'epiciclo si trova in A il suo moto si somma a quello del deferente, mentre quando si trova in D il suo moto si sottrae a quello del deferente. b) «Salvare i fenomeni». Il moto retrogrado di un pianeta che si muove su un epiciclo posto su un deferente come in (a). FIGURA 3. Eccentrico. Il pianeta P si muove uniformemente intorno a C posto sulla linea che unisce il centro della Terra al Sole. FIGURA 4. Equante. Il pianeta P percorre angoli uguali in tempi uguali rispetto al punto equante E non corrispondente al centro C dell'eccentrico né al centro della Terra, ma tale che EC = CT. Per una chiara ricostruzione di come dall'equante di Tolomeo si sia pervenuti alla legge delle aree di Keplero vedi M. Mamiani, "Storia della scienza moderna", Laterza, Roma-Bari 1998, p.p. 34-35 e p.p. 86-88. FIGURA 5. a) Sistema tolemaico. Se Venere viene fissato a un epiciclo che si muove su un deferente centrato sulla Terra e se il centro dell'epiciclo rimane sempre allineato con il Sole, un osservatore sulla Terra scorge sempre del pianeta solo un bordo semicircolare. b) Sistema copernicano. Se l'orbita di Venere circonda il Sole, un osservatore sulla Terra dovrebbe vedere un ciclo di fasi come nel caso della Luna. Copernico aveva anticipato la cosa nel capitolo decimo del libro primo del "De Revolutionibus" - ma le fasi di Venere non erano osservabili a occhio nudo. Sarà necessario l'«occhiale» di Galileo il quale pretenderà che le sue osservazioni delle fasi di Venere costituiscano un argomento a favore della «opinione copernicana» anche se, come noterà lo stesso Keplero, è possibile dar conto delle fasi di Venere anche in altri sistemi, come in quello di Tycho Brahe e persino in alcune opportune revisioni del sistema tolemaico. FIGURA 6. La celebre immagine di Thomas Digges. FIGURA 7. Il sistema tolemaico e quello copernicano contrapposti l'un l'altro nella figura 7 della "Cena delle ceneri" (1584) di Giordano Bruno. FIGURA 8. La concordanza «nel principio e minimo» di retto e curvo in "De la causa, principio e uno" (1584). FIGURA 9. L'albero della vita e i suoi rami. FIGURA 10. La rottura di simmetria tra le quattro forze fondamentali. In figura l'evoluzione dell'Universo è rappresentata dall'alto verso il basso. Le temperature dell'Universo sono in gradi assoluti (K), i tempi dall'inizio del Big Bang in secondi. FIGURA 11. La struttura del D.N.A. FIGURA 12. a) Così Galvani rappresenta se stesso mentre esegue le sue esperienze con la rana che concepisce come un analogo della bottiglia di Leida (nota del 10 dicembre 1781, archivio dell'Università di Bologna). b) Rappresentazione dell'esperimento di Galvani basata su uno schizzo che il neurofisiologo Emile du Bois Reymond (1818-1896) eseguì durante una visita a Bologna nel 1850. FIGURA 13. Vari tipi di cellule piramidali (A-E) della corteccia frontale di un bambino di un mese. Con "a" è indicato l'assone o fibra nervosa. Disegno autografo da un preparato di Santiago Ramón y Cajal effettuato col metodo di Golgi. Su immagini di questo tipo ottenute da Golgi e Cajal con lo stesso metodo (quello di Golgi), l'uno (Golgi) concludeva per l'esistenza di una rete continua, l'altro (Cajal) sosteneva che i prolungamenti entravano tra loro in stretto contatto senza fondersi. Alla cerimonia di assegnazione del premio Nobel, che condivisero nel 1906, non si strinsero la mano. FIGURA 14. Mappa rilevata da Penfield e Rasmussen (1950) della rappresentazione della sensibilità corporea sulla corteccia parietale umana ("homunculus sensitivus"). La deformazione delle varie parti del corpo corrisponde alla loro diversa importanza funzionale, particolarmente ampia quella delle regioni dotate di una fine sensibilità discriminativa: il volto (e in particolare le labbra) e la mano. FIGURA 15. Immagine ambigua che può essere vista come un profilo di giovane donna o come il volto di una vecchia a seconda del tipo di percezione del rapporto figura/sfondo. FIGURA 16. Alan Turing (1912-1954) concepì una macchina ideale per calcolare funzioni aritmetiche. Data una sequenza finita di cifre in una base specifica (per esempio, nel sistema binario 0, 1), la macchina di Turing computerà un'altra sequenza di cifre in quella base che rappresenta il valore ("output") della funzione per il numero dato in "input". Così concepita, una macchina di Turing può leggere le caselle di un nastro (infinito) su cui sono stati scritti dei numeri. La macchina ha una lista finita di istruzioni che le dicono, quando è in uno stato particolare e legge una casella particolare sul nastro, di cancellare il simbolo nella casella e di scriverne qualche altro al suo posto, di spostarsi verso la casella successiva sulla sinistra o sulla destra del nastro e di cambiare il suo stato. La figura illustra una particolare macchina di Turing che opera sul vocabolario (B, 0, 1) - dove B rappresenta una casella vuota ("blank") sul nastro - e che cambia qualsiasi simbolo in 1. La macchina parte nello stato 1 alla casella 1 che per convenzione è vuota. Poi si muove di una casella sulla destra e va nello stato 2. Se la casella sulla destra della casella 1 è vuota (nessun input), la macchina si ferma. Se la casella contiene uno 0, la macchina scrive un 1 al suo posto e resta nello stato 2. Se la casella ha un 1, la macchina si muove verso destra di una casella e resta nello stato 2. La macchina descritta esegue il "particolare" programma qui specificato. Si può definire una macchina di Turing "universale" in grado di eseguire qualsiasi programma incorporandone sul nastro la rappresentazione (dal momento che qualsiasi programma può essere codificato come una sequenza "finita" di simboli).