www.ildirittoamministrativo.it LE FONTI NEL SISTEMA MULTILIVELLO EUROPEO: VERSO UNA NUOVA UNIONE EUROPEA NELLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI? Donatella Torregrossa 1. Premessa; 2. Abolizione struttura a pilastri; 3. Riparto di competenze; 4. Diritto derivato; 5. Innovazioni volte a superare il deficit democratico; 6. Primautè del diritto dell‟Unione europea; 7. La Carta dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti dopo il trattato di Lisbona.; 8. La Convenzione europea dei diritti dell‟uomo nel sistema delle fonti dopo il trattato di Lisbona; 9. Un nuovo protagonismo della Corte di giustizia nella tutela multilivello dei diritti fondamentali? 1. PREMESSA Il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha segnato la ripresa del processo di integrazione europea, confermando alcune novità prospettate dal Trattato che adotta una Costituzione per l‟Europa e rinunciando ad altre. In particolare, è stato abbandonato l‟ambizioso progetto di una Costituzione europea, optando per la soluzione più moderata di una normale revisione dei Trattati esistenti funzionale ad una costruzione a piccoli passi di un‟unione sempre più stretta tra i popoli europei. È stato, pertanto, eliminato qualsiasi riferimento al termine costituzione, oltreché ai simboli (la bandiera, l‟inno, ecc.) e alle denominazioni (quale ad esempio Ministero degli Esteri dell‟Unione europea), che potevano in qualche modo evocarla. Ciò, peraltro, non deve condurre ad una lettura minimalista e riduttiva del trattato di Lisbona, in quanto esso ha comunque apportato rilevanti novità sul piano del fonti del diritto, disegnando un assetto complessivo più efficace e funzionale. Tali modifiche al sistema delle fonti si pongono nel solco del processo, portato avanti in particolar modo dalla Corte di giustizia, volto a riconoscere all‟interno di ciascuno Stato membro un rilievo sempre più preponderante alle norme di derivazione europea, al fine di spianare la strada ad un sistema normativo multilivello sempre più integrato. Obiettivo di questo lavoro è, dunque, una ricostruzione del quadro attuale del sistema delle fonti di derivazione comunitaria e del rapporto tra ordinamento dell‟Unione europea e ordinamenti nazionali. A tal fine si procederà, in via preliminare, ad un inquadramento del nuovo impianto normativo, così come disegnato dal trattato di Lisbona, proseguendo, in seconda battuta, ad allargare il compasso della nostra indagine, prendendo in esame le più recenti sentenze della Corte di giustizia che hanno analizzato il problema del rapporto tra ordinamento dell‟Unione europea ed ordinamenti nazionali e, in particolar modo, gli effetti che discendono dal riconoscimento di un valore giuridico della Carta di Nizza e dalla previsione di una futura adesione dell‟Unione europea alla CEDU. 2. ABOLIZIONE STRUTTURA A PILASTRI 1 www.ildirittoamministrativo.it Le innovazioni politicamente più significative del trattato di Lisbona sono l‟abolizione della struttura a pilastri e della tradizionale distinzione tra Unione e Comunità e la previsione espressa e diretta di un riparto di competenza tra l‟Unione e gli Stati membri. L‟Unione diventa un ordinamento unitario, assorbe la Comunità e acquista la personalità giuridica. Questa radicale innovazione dà luogo ad una duplice conseguenza. Per quanto riguarda i rapporti con l‟esterno, l‟attribuzione all‟Unione europea, ai sensi dell‟art. 47 TUE, della personalità giuridica comporta una semplificazione dell‟architettura istituzionale, in quanto le dà un volto unitario (nello specifico costituito dall‟Alto rappresentante per gli Affari esteri) e può concludere accordi internazionali vincolanti senza dover ricorrere alla prassi degli accordi misti (art. 216 TFUE). Sul piano interno, viene superata la tradizionale architettura “per pilastri”, risalente al trattato di Maastricht, con effetti innovativi, sul piano delle funzioni, proprio per quanto riguarda i due ex pilastri intergovernativi, ossia la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Occorre, tuttavia, una precisazione al riguardo. Difatti, per quanto riguarda la PESC, permane la specialità di tale materia, in quanto mantiene il suo carattere intergovernativo (essa, infatti, non è prevista nell‟ambito delle tre competenze generali dell‟Unione europea: esclusiva, concorrente e di sostegno), e, tuttavia, è proiettata nel futuro verso una regolamentazione sovranazionale da realizzarsi mediante lo strumento delle passerelle e delle cooperazioni rafforzate. Tale persistente specialità della PESC si deduce immediatamente dall‟art. 2 TFUE, che, nel distinguere le categorie generali di competenze europee, non vi riconduce la materia in esame, per la quale è prevista una disciplina specifica contenuta nel Capo II del TUE, da cui si ricava che la PESC è definita ed attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio, che deliberano all‟unanimità su iniziativa dello Stato membro o dell‟Alto rappresentante (ma non della Commissione). In materia di PESC è esclusa l‟adozione di atti legislativi e non è prevista la giurisdizione della Corte di giustizia, salvo per le questioni riguardanti la definizione del confine tra la PESC e le altre politiche europee e la legittimità delle misure restrittive eventualmente adottate in tale ambito. In deroga alla regola dell‟unanimità, il Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata quando la sua decisione sia sollecitata dal Consiglio europeo, salvo che un membro del Consiglio dichiara di opporsi per specificati e vitali motivi di politica nazionale. La regola dell‟unanimità, tuttavia, può essere superata attraverso l‟utilizzo delle cd passerelle. Una, di carattere speciale, prevista dall‟art. 31 pgf. 3 TUE, che consente al Consiglio di transitare al voto a maggioranza qualificata in specifici ambiti della PESC; l‟altra, di carattere generale, prevista dall‟art. 48 pgf. 7 TUE, che consentirebbe di “normalizzare” l‟intera politica di settore. 2 www.ildirittoamministrativo.it L‟utilizzo di questa seconda passerella, peraltro, è esclusa per il settore della difesa, che pure rientra nella PESC. In ordine alle cooperazioni rafforzate, vale a dire azioni a cui partecipano solo alcuni Stati, l‟art. 20 TUE dispone che gli Stati membri possono realizzarle nel quadro delle competenze non esclusive dell‟Unione. La decisione che autorizza una cooperazione rafforzata è adottata dal Consiglio in ultima istanza, qualora esso stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole dall‟Unione nel suo insieme e a condizione che vi partecipino almeno nove Stati membri. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata in tutte le politiche, con l‟eccezione della PESC, dove è richiesta l‟unanimità. Peraltro, in quest‟ultimo caso, l‟art. 333 TFUE prevede la possibilità per il Consiglio di deliberare all‟unanimità una decisione con cui si consente di passare al voto a maggioranza qualificata; questa facoltà è, però, anche essa inapplicabile al settore della difesa. La costruzione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, reso necessario dalla sempre più concreta attuazione della libertà di circolazione sull‟intero territorio dell‟Unione europea e dal conseguente abbattimento delle frontiere interne fra gli Stati membri, ha determinato la nascita nel 1993, con l‟entrata in vigore del trattato di Maastricht, del terzo pilastro della giustizia e degli affari interni, comprendente quattro materie: il controllo delle frontiere, l‟asilo e l‟immigrazione, la cooperazione giudiziaria in materia civile e la cooperazione giudiziaria in materia penale. A seguito del trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, le materie della cooperazione giudiziaria in materia civile e l‟immigrazione sono transitate nel primo pilastro, ossia quello comunitario. Permaneva, invece, l‟applicabilità del paradigma intergovernativo con riferimento alle altre due materie, ossia la cooperazione giudiziaria in materia penale e il controllo delle frontiere, le quali sono state “comunitarizzate” con il trattato di Lisbona. Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia è adesso collocato nell‟alveo delle politiche comuni ed incluso, ai sensi dell‟art. 4 TFUE, tra le materie di competenza concorrente dell‟Unione. La riconduzione ad un‟unità del terzo pilastro nell‟ambito delle politiche comuni ha conseguenze rilevanti. Difatti, le misure adottate dall‟Unione europea in materia di diritto penale e di polizia sono ormai adottate, ai sensi dell‟art. 79 TFUE, su proposta della Commissione (o di un quarto degli Stati membri), assumono la forma di direttive e regolamenti e sono sottoposte alla giurisdizione della Corte di giustizia e, se non sono attuate, danno luogo a procedura di infrazione nei confronti degli Stati membri inadempienti. Peraltro, la specialità di siffatta materia, ha comportato la previsione di alcune eccezioni. Innanzitutto, sotto il profilo normativo, il trattato riconduce taluni ambiti specifici della materia in questione nell‟ambito della competenza primaria o esclusiva statale. Così, in tema di integrazione degli immigrati e di prevenzione della criminalità, gli artt. 79, pgf. 4, e 84 TFUE prevedono una competenza di sostegno dell‟Unione europea, in quanto consentono un intervento del Parlamento e del Consiglio solo mediante provvedimenti, da adottare secondo la procedura ordinaria, che incentivano o sostengano l‟azione degli Stati. 3 www.ildirittoamministrativo.it Più radicale è, invece, la previsione di cui all‟art. 79 pgf. 5, a tenore del quale è riservata in via assoluta agli Stati membri la competenza a determinare il volume di ingresso nel loro territorio di immigrati da paesi terzi per ragioni di lavoro. In terzo luogo, sono previste due fattispecie del cd freno di emergenza. Esse sono previste dagli art. 82, pgf. 3, e 83, pgf. 3, TFUE, entrambe in materia di cooperazione giudiziaria penale, e consentono ad un membro del Consiglio di sospendere la procedura legislativa ordinaria quando ritenga che un progetto di direttiva incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale”. Infine, sono previste all‟interno di tutti quattro i settori dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia degli ambiti specifici in cui gli Stati membri deliberano all‟unanimità, finendo inevitabilmente per assegnare a questi ultimi un potere di veto. Per evitare delle situazioni di stasi, determinate dalla previsione di siffatte eccezioni, è prevista la possibilità di avviare anche nell‟ambito di siffatta materia la cooperazione rafforzata, sempre che vi siano almeno nove Stati membri interessati. Occorre, peraltro, tener presente che siffatto meccanismo della cooperazione rafforzata rischia di incrementare le asimmetrie che da sempre connotano il terzo pilastro. Per quanto riguarda, invece, le deroghe sotto il profilo giurisdizionale, l‟art. 276 TFUE esclude la competenza della Corte di giustizia ad esaminare la validità e la proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati all‟interno di uno Stato membro per il mantenimento dell‟ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna. 3. RIPARTO DI COMPETENZE Altra innovazione radicale, come sopra evidenziato, riguarda la previsione di una espressa disciplina dei confini di competenza dell‟Unione e degli Stati membri. Gli originari trattati istitutivi, infatti, non contenevano una disciplina generale dei confini di competenza tra le Comunità e gli Stati membri. Erano le stesse norme materiali ad indicare se nel settore da esse disciplinato la Comunità godeva di una competenza esclusiva, tale da precludere gli interventi degli Stati membri, ovvero di una competenza concorrente. Il trattato di Lisbona, invece, pone un‟importante distinzione, sia pure non esaustiva, tra competenza esclusiva, concorrente e di sostegno, e regola i criteri di competenza. In particolare, l‟art. 1 TUE pone in luce il principio di attribuzione (che ai sensi dell‟art. 5 TUE costituisce il criterio di delimitazione delle competenze dell‟Unione) e lo stretto collegamento tra obiettivi e competenze conferite all‟Unione dagli Stati, statuendo che le competenze sono devolute per conseguire obiettivi comuni. Inoltre, l‟art. 2 TFUE distingue tra: competenze esclusive (art. 3 TFUE: le materie indicate sono tendenzialmente esaustive e non ampliabili per interpretazione), nell‟ambito delle quali l‟Unione europea può emanare atti giuridicamente vincolanti; 4 www.ildirittoamministrativo.it competenze concorrenti (art. 4 TFUE: le materie indicate hanno carattere esemplificativo, ben potendo l‟elenco essere modificato o integrato alla luce di nuove e diverse esigenze), le quali possono essere oggetto di attività legislativa sia da parte dell‟Unione sia da parte degli Stati. Peraltro, l‟art. 2 TFUE costruisce la competenza statuale in termini residuali, potendo essere esercitata solo qualora le istituzioni dell‟Unione europea non abbiano fatto uso della propria oppure abbiano deciso di cessare di esercitare la propria; competenze di ausilio e di coordinamento di politiche nazionali (art. 5 TFUE) e competenze complementari, ossia di sostegno e di completamento dell‟azione degli Stati membri (art. 6 TFUE). Relativamente ai criteri che regolano il riparto di competenze dell‟Unione, il trattato di Lisbona non ha stravolto il meccanismo introdotto dal trattato di Maastricht. In particolare, viene in rilievo il già menzionato principio di attribuzione, che, redatto in termini negativi, opera quale criterio di delimitazione delle competenze dell‟Unione. Statuisce, infatti, l‟art. 5, pgf. 2, TUE che “in virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri”. Il principio di attribuzione è costantemente richiamato nell‟ambito dei trattati dell‟Unione europea. Esemplificativo, in tal senso, è l‟art. 6 TUE, a tenore del quale le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali “non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni”. Tale previsione si pone nel solco di quanto già espressamente previsto nell‟art.51 della Carta di Nizza (gli sviluppi interpretativi di tali disposizioni costituiranno oggetto di analisi nel prosieguo della trattazione, nella parte in cui verranno presa in esame le fonti del diritto dell‟Unione europea sotto il profilo dei diritti fondamentali). Inoltre, l‟art. 4 TUE – relativo ai rapporti tra Unione europea e Stati membri – afferma ab initio che qualsiasi competenza non attribuita all‟Unione nei trattati appartiene agli Stati membri, precisando al pgf. 2 che “la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro”. Tale delimitazione delle competenze dell‟Unione europea trova un espresso riconoscimento anche nell‟ambito della nuova clausola di flessibilità, disciplinata dall‟art. 352 TFUE, in cui ha trovato una traduzione normativa la teoria dei poteri impliciti, che a partire dagli anni settanta, è stato il mezzo per estendere l‟area dell‟intervento dell‟Unione europea. Stabilisce, infatti, l‟art. 352 TFUE che “se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate”. Ove si intenda procedere in tal senso, la Commissione ha l‟onere di richiamare l‟attenzione dei parlamenti nazionali sulle proposte formulate. 5 www.ildirittoamministrativo.it Inoltre, ed è qui che viene in rilievo il punto centrale della presente analisi, il pgf. 3 dell‟art. 352 TFUE precisa che la clausola di flessibilità non può comportare un‟armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono. Nella dichiarazione della Conferenza n. 41 sul funzionamento della clausola di flessibilità si ricorda che, per la Corte di giustizia, tale istituto, in quanto “parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio dei poteri attribuiti”, non può costituire il fondamento per ampliare le competenze dell‟Unione, modificando i trattati in deroga alla procedura specifica. Tratteggiato il quadro normativo di riferimento nella delimitazione delle competenze dell‟Unione europea, occorre adesso fare un passo avanti e procedere nella definizione dei criteri che regolamentano l‟esercizio di dette competenze. A tal proposito, vengono in rilievo i principi di sussidiarietà e proporzionalità, entrambi previsti dall‟art. 5 TUE. In particolare, il principio di sussidiarietà opera quale criterio flessibile, subordinando l‟intervento dell‟Unione europea nelle materie che non sono di sua competenza esclusiva ad una duplice condizione: a) che gli obiettivi dell‟azione prevista non possono essere conseguiti in maniera sufficiente dagli Stati membri; b) che l‟azione dell‟Unione per la sua portata e gli effetti sia più idonea rispetto a quella statale. In altri e più chiari termini, l‟intervento dell‟Unione europea è subordinato non tanto al carattere transfrontaliero dell‟azione da porre in essere, quanto agli effetti che siffatta azione deve produrre. La portata e l‟intensità dell‟azione dell‟Unione devono essere valutate in base al principio di proporzionalità, che impone di graduare l‟esercizio delle competenze dell‟Unione europea, tanto esclusiva quanto concorrente, alle caratteristiche degli obiettivi da conseguire. Più nello specifico, il principio di proporzionalità impone che l‟esercizio di una determinata competenza corrisponda a tre requisiti sostanziali: in primo luogo, deve essere utile e pertinente per la realizzazione dell‟obiettivo per il quale la competenza è stata conferita; in secondo luogo, deve essere necessario ed indispensabile, ovvero, qualora per il raggiungimento possano essere impiegati vari mezzi, deve essere quello che arreca meno pregiudizio ad altri obiettivi o interessi degni di protezione (criterio di sostituibilità); in terzo luogo, occorrerà provare l‟esistenza di un nesso tra l‟azione e l‟obiettivo (criterio di causalità). Nei protocolli, infine, è regolata la procedura sull‟applicazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità e sull‟esercizio della competenza concorrente. 4. DIRITTO DERIVATO In relazione al diritto derivato, il trattato di Lisbona interviene al fine risolvere il problema dell‟asistematicità del regime delle fonti. 6 www.ildirittoamministrativo.it Difatti, è solamente con il nuovo trattato che ha trovato attuazione concreta la Dichiarazione n. 16 allegata al trattato di Maastricht, che aveva evidenziato l‟esigenza di riconsiderare la classificazione degli atti comunitari per stabilire un‟appropriata gerarchia tra le diverse categorie di norme e, conseguentemente, per realizzare una migliore separazione dei poteri. Tale obiettivo è stato realizzato con il trattato di Lisbona senza stravolgimenti degli attuali strumenti giuridici, preservando la loro denominazione e soprattutto la distinzione tra atti vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni) e atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Si è, pertanto, evitato di sostituire i “regolamenti” con “leggi dell‟Unione europea” e le “direttive” con “leggi quadro dell‟Unione europea”. Il trattato di Lisbona introduce all‟art. 289 TFUE, per i regolamenti, le direttive e le decisioni, una distinzione formale tra atti legislativi e atti non legislativi, che dipende esclusivamente dalla procedura con la quale sono adottati. In altri termini, la procedura adottata si riflette sulla collocazione giuridica dell‟atto nella gerarchia delle fonti derivate. Tale gerarchia, derivante dalla procedura adoperata, si articola essenzialmente su tre livelli: atti legislativi: atti (regolamenti, direttive, decisioni) adottati in base alla procedura legislativa, ordinaria o speciale, per mezzo dei quali sono assunte le responsabilità sul piano politico e, quindi, compiute le scelte fondamentali (art. 289, pgf. 3, TFUE); atti delegati: atti non legislativi, adottati, ai sensi dell‟art. 290, pgf. 1, TFUE, dalla Commissione sulla base di una delega contenuta in un atto legislativo, di portata generale, che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell‟atto legislativo. Gli atti delegati devono essere definiti tali nel loro titolo e, pertanto, assumono la denominazione di regolamenti, direttive e decisioni “delegate”. L‟esercizio da parte della Commissione dei poteri normativi delegati è soggetto al controllo da parte del Parlamento e del Consiglio, che possono revocare la delega e fissare le condizioni (art. 290, pgf. 2, TFUE); atti esecutivi: atti di attuazione degli atti legislativi, degli atti delegati e degli atti previsti nel trattato, adottati dalla Commissione o, in casi eccezionali, dal Consiglio. Si tratta anche in questa ipotesi di atti non legislativi, che si distinguono dagli atti delegati perché sono destinati ad operare all‟interno degli Stati membri, a cui è affidato il controllo secondo modalità stabilite dal Parlamento europeo e dal Consiglio attraverso regolamenti adottati con procedura legislativa ordinaria (art. 291, pgf. 3, TFUE). Per quanto riguarda le decisioni, l‟art. 288, pgf. 4, TFUE ha emendato l‟art. 249, pgf. 4, TCE, chiarendo che se la decisione designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Si tratta, peraltro, di un chiarimento più formale che sostanziale, considerato che nella prassi sono ormai diffuse le decisioni di portata generale. Gli atti previsti nell‟art. 288 TFUE non esauriscono il panorama degli atti di diritto derivato dell‟Unione europea, sia perché all‟interno del trattato è prevista l‟adozione di atti diversamente qualificati in relazione a specifici settori, sia in quanto la prassi delle istituzioni ha elaborato una serie di atti, convenzionalmente definiti come “atipici”, di incerta qualificazione giuridica. 7 www.ildirittoamministrativo.it Peraltro, con il trattato di Lisbona, la proliferazione di tali atti dovrebbe subire un arresto, in quanto l‟art. 296, pgf.1, TFUE, stabilisce che “qualora i trattati non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità”, introducendo, altresì, all‟ultimo paragrafo una sorta di norma di chiusura, a tenore del quale “in presenza di un progetto di atto legislativo, il Parlamento europeo e il Consiglio si astengono dall’adottare atti non previsti dalla procedura legislativa applicabile al settore interessato”. In definitiva, il ricorso a tali atti atipici sembra limitato a ipotesi eccezionali, in cui le istituzioni comunitarie hanno una piena discrezionalità nella scelta del tipo di atto da adottare, e comunque non nei settori in cui opera una riserva di legge. In ultimo, preme porre in rilievo la modifica dell‟art. 230 TCE, introdotta dall‟art. 263, pgf. 4, TFUE, che amplia la tutela dei singoli, persone fisiche o giuridiche, consentendo loro di proporre un ricorso di annullamento, sia contro gli atti adottati nei loro confronti o che li riguardano direttamente ed individualmente, sia contro gli atti regolamentari che li riguardano direttamente, purché non comportino alcuna misura di esecuzione, e ciò indipendentemente dalla specifica denominazione che ad essi abbia dato l‟istituzione che li ha adottati. Difatti, la natura dell‟atto deve essere individuata in base alla sua sostanza e non alla sua forma, cioè con riguardo agli effetti che mira a produrre e che effettivamente produce. 5. INNOVAZIONI VOLTE A SUPERARE IL DEFICIT DEMOCRATICO Nell‟ottica di promuovere una maggiore legittimazione democratica del sistema europeo si collocano una serie di innovazioni intervenute con il trattato di Lisbona, tra le quali un particolare rilievo deve essere riconosciuta alla riforma della procedura di formazione degli atti legislativi. L‟obiettivo di colmare il deficit democratico è stato, infatti, perseguito attraverso la previsione della procedura di codecisione quale procedura legislativa ordinaria, estendendola a numerosi settori, come la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e l‟immigrazione. Tale procedura prevista dall‟art. 294 TFUE accentua il dialogo tra il Parlamento e il Consiglio, ponendole in una posizione di sostanziale parità, atteso che gli atti legislativi dell‟Unione verranno adottati congiuntamente dalle due istituzioni, su proposta della Commissione. Nel nuovo quadro delle procedure decisionali, sono altresì previste le procedure legislative speciali in cui la partecipazione del Parlamento e del Consiglio al procedimento di formazione delle norme non avviene in modo paritario, prevedendo l‟art. 289, pgf. 2, TFUE che, in siffatte specifiche ipotesi previste dai trattati, “l’adozione di un regolamento, di una direttiva, di una decisione avviene da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del Parlamento europeo”. Ulteriori novità riscontrabili nel processo di formazione degli atti riguardano l‟estensione del voto a maggioranza qualificata del Consiglio in numerosi settori (e non più all‟unanimità), il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo in tema di accordi internazionali, il 8 www.ildirittoamministrativo.it riequilibrio dei ruoli delle due istituzioni in relazione all‟approvazione del bilancio e del quadro finanziario pluriennale. In relazione all‟incremento del tasso di democraticità del sistema europeo occorre prendere in esame il reticolo di norme contenuto nel Titolo II del TUE, rubricato “disposizioni relative ai principi democratici”, tra le quali una particolare importanza deve essere riconosciuta alla previsione di cui all‟art. 11, pgf. 4, TUE, a tenore del quale “cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l’iniziativa di invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei trattati”. Si tratta di una novità ricca di valore simbolico, in quanto pone i cittadini in prima linea nella costruzione dell‟apparato legislativo europeo. Occorre, tuttavia, attendere gli sviluppi che tale meccanismo di partecipazione avrà nella pratica, in quanto non sembra che la Commissione sia obbligata a dare seguito a tale richieste. Peraltro, al di là degli effetti che sul piano pratico tale previsione del trattato potrà avere, rimane comunque una novità di assoluto rilievo che si inserisce in quel reticolo di norme volte alla realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi (art. 9 TUE). Inoltre, l‟art. 10 TUE stabilisce che il funzionamento dell‟Unione europea si fonda sulla democrazia rappresentativa e che i cittadini sono direttamente rappresentati nel Parlamento europeo, per mezzo di elezioni a suffragio universale, e in seno al Consiglio europeo e al Consiglio tramite i propri Governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini. Sempre nell‟ottica di innalzare il tasso di democraticità del sistema europeo si colloca la previsione di cui all‟art. 12 TUE, che valorizza in misura significativa il ruolo dei parlamenti nazionali nell‟ordinamento dell‟Unione, elencandone i compiti e rafforzandone le funzioni sotto molti profili. In particolare, la disposizione in esame prevede che i parlamenti nazionali sono direttamente informati dalle istituzioni dell‟Unione e ricevono i progetti di atti legislativi dell‟Unione; inoltre, vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni europee nell‟ambito delle competenze concorrenti. Con particolare riguardo a tale meccanismo di controllo, il protocollo sull‟applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità prevede un termine di otto settimane, decorrenti dalla ricezione dei progetti di atti legislativi, entro cui ciascun Parlamento nazionale può sollevare un‟obiezione di difformità del progetto al principio di sussidiarietà, di cui le istituzioni devono tenerne conto, e ciò dovrebbe risultare dalla motivazione dell‟atto. Se una proposta legislativa (speciale o ordinaria) non è conforme al principio di sussidiarietà per un numero sufficienti di parlamenti nazionali, idonei a rappresentate un terzo dei voti loro attribuiti, la Commissione (ovvero il proponente) riesaminerà il progetto dell‟atto. La 9 www.ildirittoamministrativo.it Commissione potrà, però, decidere in alternativa di ritirare l‟atto ovvero di mantenerlo. In siffatte ipotesi dovrà fornire una idonea motivazione, atta a spiegare le ragioni della sua scelta. Nella successiva fase di adozione dell‟atto legislativo, il legislatore (Parlamento e Consiglio) dovrà tenere in considerazione le ragioni espresse dai parlamenti nazionali circa la compatibilità della proposta al principio di sussidiarietà, oltreché del parere motivato espresso dalla Commissione. I parlamenti nazionali diventano, dunque, i “controllori” della procedura legislativa, influendo nel processo di formazione dei relativi atti, sebbene – è bene chiarire – l‟ultima decisione spetta in ogni caso al legislatore dell‟Unione europea, fermo restando il controllo giurisdizionale ex post della Corte di giustizia. 6. PRIMAUTÈ DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Il trattato di Lisbona interviene, altresì, sui rapporti tra Unione europea e Stati membri, di cui occorre evidenziare i profili più interessanti. Punto di partenza, al riguardo, è la Dichiarazione n. 17 allegata al trattato di Lisbona, ove si afferma che “la conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza”. In definitiva, è stato cristallizzato il principio della primauté del diritto dell‟Unione europea, conformemente alle condizioni stabilite dalla Corte di giustizia. La consacrazione di tale primato, che rappresenta uno dei principi fondamentali che maggiormente qualificano il rapporto dell‟Unione con gli ordinamenti nazionali, ha subito un declassamento rispetto all‟originaria previsione contenuta nell‟art. I-6 del trattato costituzionale, essendo stata degradata a mera enunciazione priva di alcuna valenza giuridica, così come si desume dall‟art. 51 TUE, che, nell‟attribuire ai protocolli e allegati lo stesso valore giuridico dei trattati, implicitamente esclude le dichiarazioni. Peraltro, nonostante la mancanza di forza giuridica, l‟enunciato presenta comunque un indubbio significato politico, come si desume del resto dal parere del Servizio giuridico del Consiglio allegato alla dichiarazione sulla primazia, ove si legge: “dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All’epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa c. Enel, 15 luglio 1964, causa C-6/64) non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt’oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia”. Si può, pertanto, affermare che la primazia del diritto comunitario assurge, alla luce dell‟attuale scenario europeo, a principio fondamentale nella regolamentazione dei rapporti tra Unione europea e Stati membri, da interpretarsi alla stregua delle coordinate fornite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. 10 www.ildirittoamministrativo.it Tali considerazioni conducono, inevitabilmente, a volgere uno sguardo indietro, ripercorrendo in breve il contenuto ermeneutico che la Corte di giustizia ha dato al principio della primazia del diritto comunitario, tenendo conto in particolare delle recentissime sentenze della giurisprudenza appena menzionata, che sembrano aprire nuovi orizzonti di tutela delle posizioni giuridiche riconosciute dalla normativa dell‟Unione europea. La Corte di giustizia, fin dalla sentenza Costa c. Enel del 15 luglio 1964, ha precisato che la primazia del diritto comunitario trova conferma nella disposizione di cui all‟art. 189 TCE (oggi art. 288 TFUE), disciplinante gli atti giuridici dell‟Unione, la quale sarebbe priva di significato se uno Stato potesse annullarne gli effetti con un provvedimento nazionale che prevalesse sulle norme comunitarie: “il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risulti scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”. Il riconoscimento del principio della primazia del diritto comunitario ha comportato una serie di interventi della Corte di giustizia volti a dargli un contenuto effettivo con particolare riguardo alla regolamentazione del rapporto tra norme comunitarie e norme interne, individuando, in particolare, gli effetti che discendono da tale supremazia del diritto dell‟Unione europea e che si esplicano essenzialmente nell‟obbligo di disapplicazione e di interpretazione conforme. Vediamo più attentamente come si atteggiano nel concreto tali differenti profili. Con particolare riguardo al profilo della disapplicazione, occorre richiamare la celeberrima sentenza Simmenthal (Corte di giustizia 9 marzo 1978 C- 106/77), in cui è stato esplicitamente affermato l‟obbligo del giudice nazionale di disapplicare qualsiasi disposizione interna contrastante con le norme europee, prescindendo da qualsiasi intervento normativo o costituzionale, “posto che, ai sensi dell’art. 189 TCE e della costante giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, le disposizioni comunitarie direttamente applicabili devono esplicare, a dispetto di qualsivoglia norma o prassi interna degli stati membri, piena, integrale ed uniforme efficacia negli ordinamenti di questi ultimi, anche al fine della garanzia delle situazioni giuridiche soggettive create in capo ai privati”. La portata di tali norme impone, pertanto, che “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro provvedimento costituzionale”. La sentenza in esame ha fornito la stura per il consolidamento a livello della giurisprudenza europea del principio della primazia del diritto comunitario, con il conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la norma di diritto interno con esso contrastante. Questa impostazione è stata ribadita dalla Corte di giustizia nella sentenza Factortame (Corte di Giustizia 19 giugno 1990, causa C 213/89) e nella sentenza Lucchini (Corte di giustizia, 18 luglio 2007, C- 119/05). In particolare, in quest‟ultima, il giudice dell‟Unione europea ha precisato che il principio della preminenza del diritto comunitario impone l‟obbligo di disapplicazione di qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche 11 www.ildirittoamministrativo.it quando ciò comporta la disapplicazione di “una disposizione di diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”. La diretta applicabilità del diritto comunitario, con il conseguente obbligo della disapplicazione della norma interna contrastante, è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia con riferimento alle disposizioni dei Trattati, con effetti diretti, sia in senso verticale, sia in senso orizzontale, ai regolamenti, che per loro natura comportano effetti diretti, alle direttive alla scadenza del termine di recepimento, nelle parti concretamente applicabili (self-executing), sia pure limitatamente agli effetti diretti verticali, e alle decisioni, purché impongano al proprio destinatario un obbligo incondizionato e sufficientemente chiaro e preciso a favore dell‟interessato. La Corte di giustizia ha, di contro, escluso l‟efficacia orizzontale delle direttive inattuate, facendo leva su due considerazioni. In primo luogo, sulla natura degli obblighi discendenti dalle direttive, che sono solo di risultato nei confronti degli Stati nazionali e, quindi, non fanno sorgere obblighi nei confronti dei singoli. In secondo luogo, in ragione del fatto che la mancata o errata attuazione di una direttiva non è imputabile al cittadino. In siffatte ipotesi, la Corte di giustizia, al fine di porre rimedio al vuoto di tutela delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dal diritto comunitario, conseguente alla mancanza di effetti diretti orizzontali delle direttive, ha statuito l‟obbligo per il giudice nazionale di interpretare il diritto interno in modo conforme al contenuto precettivo della direttiva, sulla base dell‟assunto per cui “l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo loro imposto dall’art. 5 del Trattato, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali”. Il fondamento dell‟obbligo di esegesi conforme è stato ravvisato nel principio di leale collaborazione, che deve presiedere i rapporti tra Unione europea e Stati membri ed ha come i destinatari anche i giudici nazionali, i quali sono obbligati ad adottare i provvedimenti atti ad assicurare un‟applicazione del diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato contemplato nell‟art. 249, terzo comma, TCE, oggi art. 288 TFUE. Detta norma, infatti, nel prescrivere che la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli Stati membri per quanto riguarda la forma e i mezzi, impone a ciascun organo nazionale, incluso quella giudiziario, il perseguimento di detto risultato anche tramite lo strumento interpretativo. Ne consegue per la direttiva non attuata la possibilità di conseguire effetti orizzontali indiretti, estesi – in forza della sentenza Marleasing (CGUE, 13 novembre 1990, causa C-106/89) – anche alle disposizioni nazionali preesistenti rispetto alla direttiva, dovendo il giudice interpretare il diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla medesima 12 www.ildirittoamministrativo.it Il vincolo di risultato, che discende dall‟obbligo di interpretazione conforme, è stato altresì riconosciuto con riferimento al periodo compreso tra la data di entrata in vigore della direttiva e quella di scadenza del termine di recepimento, in quanto, per i principi che essa esprime, è ormai entrata in vigore nell‟ordinamento dell‟Unione europea, obbligando ad un‟applicazione della normativa nazionale conforme ad essi1. All‟obbligo di interpretazione conforme è stata riconosciuta una portata generale, operante con riguardo a tutte le norme del diritto dell‟Unione europea prive di un effetto diretto, le quali sono state chiamate, nella risoluzione delle controversie, a rivestire un ruolo precettivo, imponendo al giudice di prediligere le interpretazioni del diritto interno conformi alle prescrizioni in esse statuite. In tale processo di evoluzione interpretativa, tesa a neutralizzare gli effetti negativi scaturenti dalla mancato recepimento del diritto dell‟Unione europea nell‟ordinamento nazionale, un momento importante è rappresentato dalla sentenza Mangold (CGUE, 22 novembre 2002, causa C-144/04), con cui la Corte di giustizia lascia intravedere l‟intenzione di rivedere l‟originaria impostazione in tema di efficacia orizzontale delle direttive, superando i confini dell‟interpretazione conforme a favore di una disapplicazione della norma interna anche nelle ipotesi di direttive non attuate. La fattispecie oggetto di esame della sentenza in questione concerneva, in particolare, una direttiva, il cui termine di trasposizione non era ancora scaduto, la quale costituiva la traduzione normativa del principio di non discriminazione, quale principio generale del diritto comunitario, che deve essere rispettato indipendentemente dalla scadenza del termine concesso per il recepimento della direttiva medesima. Da qui la Corte di giustizia ha fatto discendere il principio per cui è compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non discriminazione in ragione dell‟età, disapplicando la norma interna che si pone in contrasto con esso, e ciò anche nelle ipotesi in cui non sia scaduto il termine di trasposizione della direttiva. Sulla stessa lunghezza d‟onda si colloca la successiva sentenza Kucukdeveci (CGUE, 19 gennaio 2010, causa C-555/07), con la quale la Corte di giustizia ha ribadito, rafforzandolo, l‟assunto espresso nella sentenza Mangold. In particolare, la Corte di giustizia ha affermato che è obbligo del giudice nazionale disapplicare la norma interna contrastante con il principio di non discriminazione in ragione dell‟età, quale 1 Un‟interessante applicazione di tale principio all‟interno dell‟ordinamento italiano si è avuto con la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 10 febbraio 2010, n. 2906, ove si è affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulla sorte del contratto, facendo leva – tra le altre argomentazioni - sul principio che impone al giudice di procedere ad una esegesi delle norme di diritto interno compatibile con i principi espressi da una direttiva entrata in vigore ed anche prima del termine per la trasposizione di essa nell'ordinamento interno. Pertanto, hanno affermato le Sezioni Unite, la direttiva comunitaria CE n. 2007/66 incide nel sistema giurisdizionale interno anche retroattivamente, “esigendo la trattazione unitaria delle domande di annullamento del procedimento di affidamento dell'appalto e di caducazione del contratto stipulato per effetto dell'illegittima aggiudicazione”. 13 www.ildirittoamministrativo.it espresso concretamente nella direttiva, dopo aver constatato l‟impossibilità di procedere ad un‟interpretazione conforme del dato normativo interno: “per quanto riguarda, in primo luogo, il ruolo del giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia tra privati nella quale la normativa nazionale appaia contraria al diritto dell’Unione, la Corte ha statuito che spetta ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia (v., in questo senso, sentenze 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I-8835, punto 111, nonché 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, Racc. pag. I-2483, punto 42). A questo proposito, con riferimento a controversie tra privati, la Corte ha dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 48; 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, Racc. pag. I-3325, punto 20, nonché Pfeiffer e a., cit., punto 108). Tuttavia, l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato previsto da quest’ultima, e il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi di detti Stati, ivi compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali (v., in particolare, in questo senso, sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83, von Colson e Kamann, Racc. pag. 1891, punto 26; 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8; Faccini Dori, cit., punto 26; 18 dicembre 1997, causa C-129/96, InterEnvironnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 40; Pfeiffer e a., cit., punto 110, nonché 23 aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki e a., Racc. pag. I-3071, punto 106). Ne consegue che, nell’applicare il diritto interno, il giudice nazionale chiamato ad interpretare tale diritto deve procedere per quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo di tale direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art 288, terzo comma, TFUE (v., in tal senso, sentenze citate von Colson e Kamann, punto 26; Marleasing, punto 8; Faccini Dori, punto 26, nonché Pfeiffer e a., punto 113). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 114). A tal proposito, occorre ricordare, da un lato, che la direttiva 2000/78 si limita a dare espressione concreta – senza sancirlo – al principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, d’altro lato, che il principio di non discriminazione in base all’età è un principio generale del diritto dell’Unione, in quanto rappresenta un’applicazione specifica del principio generale della parità di trattamento (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punti 74-76). Ciò considerato, è compito del giudice nazionale, investito di una controversia in cui è messo in discussione il principio di non discriminazione in ragione dell’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge nazionale (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punto 77). 14 www.ildirittoamministrativo.it Per quel che riguarda, in secondo luogo, l’obbligo che graverebbe sul giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, di chiedere alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione del diritto dell’Unione prima di poter disapplicare una norma nazionale che ritenga contraria a tale diritto, si deve rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che tale aspetto della questione è motivato dal fatto che, in forza del diritto nazionale, il giudice del rinvio non può disapplicare una disposizione vigente della legislazione nazionale se essa non sia stata previamente dichiarata incostituzionale dal Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale). In proposito, occorre sottolineare che la necessità di garantire piena efficacia al principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, comporta che il giudice nazionale, in presenza di una norma nazionale, rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, che ritenga incompatibile con tale principio e per la quale risulti impossibile un’interpretazione conforme a quest’ultimo, deve disapplicare detta disposizione, senza che gli sia imposto né gli sia vietato di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale. La facoltà così riconosciuta dall’art.267, secondo comma, TFUE di chiedere alla Corte un’interpretazione pregiudiziale prima di disapplicare la norma nazionale contraria al diritto dell’Unione non può tuttavia trasformarsi in obbligo per il fatto che il diritto nazionale non consente a tale giudice di disapplicare una norma interna che egli ritenga contraria alla Costituzione, se tale disposizione non sia stata previamente dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale. Infatti, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, di cui gode anche il principio di non discriminazione in ragione dell’età, una normativa nazionale contraria, rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, deve essere disapplicata (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punto 77). Risulta da queste considerazioni che il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, non è tenuto, ma ha la facoltà di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78, prima di disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria a tale principio. Il carattere facoltativo di tale rinvio è indipendente dalle modalità che si impongono al giudice nazionale, nel diritto interno, per poter disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria alla Costituzione. In considerazione di tutto quel che precede, la seconda questione va risolta dichiarando che è compito del giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall’esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall’art 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione di tale principio. In definitiva, si può affermare che, sul piano delle fonti, la Corte di giustizia nella sentenza Kucukdeveci ha sancito il principio della diretta e piena applicabilità, anche nei rapporti orizzontali, dei principi generali in stretta combinazione con le connesse direttive. Ne consegue, per effetto di tale ricostruzione, che i giudici nazionali si trovano investiti del potere/dovere di disapplicare le disposizioni legislative interne nell‟ipotesi in cui queste 15 www.ildirittoamministrativo.it contrastano con i principi generali del diritto dell‟Unione europea, il cui contenuto precettivo deve essere ricostruito facendo riferimento alle specifiche e concrete previsioni delle direttive. Tale excursus giurisprudenziale evidenzia l‟intento della Corte di giustizia di dare forza e contenuto concreto al principio di primauté del diritto dell‟Unione europea, quale condizione essenziale per la realizzazione di un‟armonia tra gli ordinamenti nel sistema multilivello dell‟Unione europea e, conseguentemente, per una coerenza tra le giurisdizioni nazionali coinvolte nel processo di integrazione europea. Peraltro, gli Stati membri, chiamati a confrontarsi con il principio di primauté del diritto comunitario, si sono mostrati restii ad accogliere tutte le implicazioni derivanti da tale principio e, in particolare, dal riconoscimento dell‟effetto diretto del diritto comunitario. Ne è conseguito, con particolare riguardo all‟ordinamento italiano, la elaborazione da parte della giurisprudenza costituzionale della teoria dei controlimiti, la quale nell‟ambito del rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno pone quali limiti all‟effetto diretto della norme di derivazione comunitaria “i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana”. Sentenza capofila di tale impostazione interpretativa è la pronuncia della Corte costituzionale n. 183 del 1973 (caso Frontini), in cui il Giudice delle leggi ha affermato in modo netto ciò che ripeterà più volte in seguito, e cioè che le limitazioni di sovranità, derivanti dal trattato di Roma, sono state consentite esclusivamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate e non hanno comportato l‟attribuzione alle istituzioni comunitarie del potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. Tale costruzione interpretativa ha costituito un punto fermo, anche a seguito dell‟apertura ad opera della giurisprudenza costituzionale a favore dei principi del primato e della diretta applicabilità del diritto comunitario. Difatti, la Corte costituzionale, superato l‟atteggiamento di iniziale ostilità, con l‟importanza sentenza Granital dell’8 giugno 1984 n. 170 ha fatto un passo avanti verso il principio di primauté del diritto comunitario, senza peraltro rinunciare alla premessa di fondo della separazione tra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale e soprattutto alla teoria dei controlimiti. In particolare, il giudice delle leggi, partendo dalla premessa dell‟effetto diretto delle norme comunitarie, ha affermato che il conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale, non potrebbe neppure ipotizzarsi, essendo applicabile, in base al sistema delle competenze, alla fattispecie concreta solo la norma comunitaria. In altri termini, utilizzando le parole della sentenza, “la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto (il regolamento), la quale è interamente attratta sotto il diritto comunitario”. Unica verifica che la Corte costituzionale riservava a sé stessa, richiamando a tal fine i principi enunciati nella sentenza Frontini del 1973, era quella relativa alla compatibilità della normativa comunitaria con i principi fondamentali e i diritti inalienabili della persona (cd. diritti dei controlimiti). 16 www.ildirittoamministrativo.it La dottrina non ha mancato di evidenziare limiti ed ambiguità dell‟approccio dualista elaborato dalla Corte costituzionale, la quale è stata spesso costretta nelle sue pronunce a vere e proprie acrobazie interpretative al fine di conciliare l‟impianto dualistico, che rimette la tutela dei diritti fondamentali all‟ordinamento nazionale, e gli effetti indiretti che sul piano dei diritti fondamentali l‟applicazione dei diritti fondamentali era suscettibile di applicare. Ne è conseguito a livello della giurisprudenza nazionale un inevitabile passaggio dalla prospettiva della Corte costituzionale della separazione di competenza tra ordinamento interno e comunitario alla diversa prospettiva della Corte di giustizia della gerarchia degli ordinamenti con l‟affermazione implicita della preminenza del diritto comunitario. Peraltro, l‟impossibilità per l‟Unione europea di disporre di un testo di riferimento, giuridicamente vincolante, sui diritti e le libertà fondamentali, che contribuisse alla certezza del diritto e a rendere più chiaro a tutti i cittadini europei che essa riconosce e tutela i diritti e le libertà fondamentali, ha contribuito a mantenere inalterata la problematica del bilanciamento della primazia del diritto comunitario con la teoria dei controlimiti. Difatti, a causa della natura prettamente politica della Carta dei diritti fondamentali, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza e riproclamata sette anni dopo a Strasburgo dai Presidenti delle tre istituzioni europee, fino all‟entrata in vigore del trattato di Lisbona è mancato a livello europeo un decalogo dei diritti fondamentali giuridicamente vincolante a cui ancorare l‟operato delle Istituzioni comunitarie nell‟espletamento delle proprie funzioni legislative, con la conseguenza che poteva ritenersi tutt‟altro che accantonata la tendenza dei Tribunali e delle Corte costituzionali a valutare la compatibilità dei precetti comunitari con i limiti costituzionali nazionali. Emblematica della particolarità del clima, amplificato, tra l‟altro, dall‟esito negativo del referendum sulla ratifica del Trattato costituzionale in Francia ed Olanda è la Sentenza Consiglio di Stato, 8 agosto 2005, n. 4207 (caso Federfarma) in cui per la prima volta in Italia è stata applicata la teoria dei controlimiti senza ricorrere alla Corte costituzionale. In particolare, si chiedeva al giudice amministrativo di ultima istanza la disapplicazione di una norma nazionale che, a seguito dello scrutinio di costituzionalità, si poneva in contrasto con alcune disposizioni del trattato comunitario, ovvero, in subordine, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE). La questione, come rilevato dal Consiglio di Stato, si inseriva nella più ampia e complessa problematica dell‟effettivo ambito di incidenza del diritto comunitario sulle materie che coinvolgono principi e diritti fondamentali secondo l‟ordinamento nazionale e, per conseguenza, dei ruoli rispettivi della Corte di giustizia di Lussemburgo e della Corte costituzionale italiana. In particolare, il Supremo Consesso ha evidenziato come, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984, “i giudici comuni sono stati abilitati ad applicare il diritto comunitario immediatamente e a preferenza delle norme interne che lo contraddicono. Il contrasto non dà più luogo ad una 17 www.ildirittoamministrativo.it questione di legittimità costituzionale per indiretta violazione dell’art 11 Cost.; la norma nazionale confliggente si ritrae e lascia spazio al diritto di fonte comunitaria. Il principio, inizialmente affermato per i regolamenti comunitari, è stato poi esteso con successive pronunce alle statuizioni contenute in sentenze interpretative della Corte del Lussemburgo ex art. 177, oggi art. 234 del Trattato (sent. n. 113 del 1985) e delle sentenze di condanna ex art. 169, oggi art 226 (sent. n. 389 del 1989), ed in fine alle direttive c.d. dettagliate (sent. n. 168 del 1991)”. Peraltro, precisa ulteriormente il Collegio, la stessa Corte costituzionale ha chiarito come il sistema appena delineato non ha comportato che “l’intero settore dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte”, ben potendo la stessa legge di esecuzione del trattato “andare soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana … In tal modo è stato, ed è, concepibile conservare uno spazio giuridico statale del tutto sottratto all’influenza del diritto comunitario, uno spazio nel quale lo Stato continua ad essere interamente sovrano, vale a dire indipendente, e perciò libero di disporre della proprie fonti normative. È appunto l’area dei diritti fondamentali, la cui tutela funge da insopprimibile “controlimite” alle limitazioni spontaneamente accettate con il Trattato”. Orbene, avvalendosi di tali coordinate ermeneutiche, il Consiglio di Stato è pervenuto alla conclusione per cui non è consentito che il giudice nazionale, in presenza di una statuizione della Corte costituzionale che lo vincola all‟applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, possa prospettare alla Corte di Lussemburgo un quesito pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione della Corte italiana, incidente nell‟area della tutela dei diritti ad essa riservata. In definitiva, con la presente sentenza il Supremo Consesso della giustizia amministrativa ha affermato il principio di diritto per cui, laddove venga in rilievo un diritto fondamentale incomprimibile (nel caso di specie si trattava del diritto alla salute) la cui tutela è affidata ad una disciplina legislativa, la sede privilegiata per il bilanciamento dei valori ed interessi tutelati deve ritenersi la Corte costituzionale2. Nell‟ambito della teoria dei controlimiti merita di essere segnalata la sentenza della Corte costituzionale 13 febbraio 1998 n. 102, con cui è stata dichiarata l‟illegittimità costituzionale delle norme della Regione Sardegna su alcune delle “tasse sul lusso”, disponendo per le altre un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia(per la prima volta ad opera della Corte Costituzionale), affinché ne valuti la compatibilità con le norme del Trattato sul‟Unione Europea: “Come più volte affermato da questa Corte, l’art. 11 Cos t., prevedendo che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 349 e n. 284 del 2007; n. 170 del 1984). Il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – nel disporre che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto del la Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario […]» –, ha ribadito che i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario si impongono al legislatore nazionale (statale, regionale e delle Province autonome). Da tale quadro normati vo costituzionale consegue che, con la ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri, anc he normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme comunitarie vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei princípi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’u omo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007, n. 170 del 1984). 18 2 www.ildirittoamministrativo.it In tale scenario si innesta il trattato di Lisbona, il cui contributo alla protezione dei diritti fondamentali, sebbene inferiore alle aspettative suscitate dal trattato costituzionale, è stato comunque rilevante. In particolare, il trattato di Lisbona reca due importanti modifiche all‟art. 6 del trattato sull‟Unione, attribuendo alla Carta dei diritti fondamentali il medesimo valore giuridico dei Trattati e prevedendo la futura adesione dell‟Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell‟uomo. Tali innovazioni comportano un significativo mutamento di prospettiva nell‟analisi della teoria dei controlimiti, la quale viene ad acquisire una colorazione diversa, per così dire europea rispetto a quella nazionale, per anni portata avanti dalla Corte costituzionale. Ne conseguono sviluppi interpretativi destinati a riflettersi inevitabilmente sugli attuali meccanismi di risoluzione dei conflitti fra disposizioni nazionali e norme europee a tutela dei diritti fondamentali. Difatti, l‟approvazione formale di una Carta, tesa a tutelare i diritti, suggella definitivamente l‟assunto per cui anche l‟Unione europea tutela i diritti fondamentali dell‟uomo, analogamente Con specifico riguardo al caso, che qui interessa, di leggi regionali della cui compatibilità con il diritto comunitario (come interpretato e applicato dalle istituzioni e dagli organi comunitari) si dubita, va rilevato che l’inserimento dell’Italia nell’ordinamento comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale. Nel primo caso, le norme comunitarie, se hanno efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le leggi nazionali (comprese quelle regionali), ove le ritenga non compatibili. Nel secondo caso, le medesime norme «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost.» ( sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004), o, più precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario. Questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi. Davanti al giudice comune la legge regionale deve essere applicata ad un caso concreto e la valutazione della sua conformità all’ordinamento comunitario deve essere da tale giudice preliminarmente effettuata al fine di procedere all’eventuale disapplicazione della suddetta legge, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE – ove necessario – per l’interpretazione del diritto comunitario. Una volta esclusa tale disapplicazione, il giudice potrà bensí adire la Corte costituzionale, ma solo per motivi di non conformità del diritto interno all’ordinamento costituzionale e non per motivi di non conformità all’ordinamento comunitario. Ne conseg ue che, ove il giudice comune dubitasse della conformità della legge nazionale al diritto comunitario, il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE renderebbe non rilevante e, pertanto, inammissibile la questione di legittimità costituzionale da lui sollevata. Davanti alla Corte costituzionale adita in via principale, invece, la valutazione della conformità della legge regionale alle norme comunitarie si risolve, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale; con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma – come già osservato – ne dichiara l’illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes (ex multis, sentenza n. 94 del 1995). In conclusione, alla luce di quanto sopra rilevato, la censura in esame deve ritenersi ammissibile, perché le nor me comunitarie sono state correttamente evocate dal ricorrente nel presente giudizio, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di costituzionalità ”. 19 www.ildirittoamministrativo.it agli Stati nazionali. Inoltre, pone alla ribalta un problema di riparto delle competenze fra Unione europea e Stati membri, paventando la possibilità di un intervento della Corte di giustizia in una sfera tradizionalmente rivendicata dai tribunali costituzionali nazionali, oltreché la possibilità di un sindacato di legittimità diffuso, operato a livello della giurisprudenza di merito, per il tramite dell‟obbligo di interpretazione conforme e di disapplicazione della norma in contrasto con la Carta di Nizza. Si impone a questo punto un‟analisi più specifica di tali problematiche ermeneutiche, consistenti nello specifico nella natura dei controlimiti, nell‟ammissibilità di un sindacato di legittimità diffuso e nel rischio di doppia pregiudizialità. Ai fini dell‟analisi di tali profili, occorre prendere in esame singolarmente le norme del trattato sul funzionamento dell‟Unione europea che richiamano la Carta dei diritti fondamentali e la Convenzione dei diritti dell‟uomo. 7. LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NEL SISTEMA DELLE FONTI DOPO IL TRATTATO DI LISBONA. L‟art. 6, pgf. 1, comma 1, TUE – così come introdotto dal trattato di Lisbona - statuisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Il trattato di Lisbona, pur perseguendo il medesimo obiettivo del trattato costituzionale, realizza un progetto dai toni più modesti rispetto a quest‟ultimo, in quanto la Carta di Nizza non è più incorporata all‟interno del testo costituzionale, di cui avrebbe dovuto costituire la parte II, ma rimane un documento a sé stante, non ricompreso formalmente nei trattati istitutivi, preservando la sua autonomia. La ragione di tale scelta è stata ravvisata nell‟esigenza di evitare qualsiasi elemento all‟interno dei trattati, che possa evocare una loro valenza costituzionale. La circostanza che l‟art. 6 TUE faccia riferimento al testo “adattato” del 2007 è stata intesa da una parte della dottrina come rinvio di produzione giuridica, al fine di non irrigidire troppo i meccanismi di adattamento rispetto all‟ipotesi di evoluzione normativa della Carta. In definitiva, si tratterebbe di un meccanismo di adattamento alla Carta sia nella versione attuale, sia nelle versioni future eventualmente emendate dalle istituzioni politiche. Inoltre, il comma 3, pgf. 1, dell‟art. 6 TUE prescrive che i diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati conformemente alle disposizioni del titolo VII della Carta, che ne disciplina l‟interpretazione e l‟applicazione, ma si dovranno tenere in conto anche le “Spiegazioni”, le quali tendono a circoscrivere il contenuto di taluni diritti sociali. Con la comunitarizzazione della Carta di Nizza il contenuto dei diritti fondamentali garantiti dall‟ordinamento comunitario (e dagli Stati membri quando applicano quest‟ultimo) ha acquistato una maggiore visibilità. 20 www.ildirittoamministrativo.it Si tratta, dunque, di un habeas corpus contro l‟Unione, che, per effetto del trattato di Lisbona, ha acquisito un potente valore giuridico e non più soltanto simbolico, rappresentando al contempo sia un nucleo di identità comune, con la conseguente disapplicazione da parte del giudice nazionale di una legge interna che contrasta con la Carta di Nizza, sia un parametro su cui dovranno misurarsi i provvedimenti dell‟Unione europea. Con particolare riguardo a quest‟ultimo profilo, le istituzioni europee sono adesso chiaramente vincolate al rispetto della Carta, ben potendo chiedersi l‟annullamento di un atto dell‟Unione europea che sia con essa incompatibile. Si delinea all‟orizzonte un nuovo scenario comunitario in cui il futuro della teoria dei controlimiti, così come intesa fino ad adesso, appare oggettivamente incerto. Difatti, per effetto della “comunitarizzazione” della Carta di Nizza i controlimiti acquistano una nuova dimensione europea, con la conseguenza per cui la disapplicazione della normativa dell‟Unione europea non è più frutto della dottrina dei controlimiti interni, bensì dei controlimiti, anche essi di carattere europeo, all‟applicazione o alla validità della norma comunitaria. A supporto di quanto affermato si consideri l‟art. 4 TUE, che proclama il rispetto dell‟identità nazionale e delle strutture politiche e costituzionali degli Stati membri. Dalla lettura combinata dell‟art. 4 TUE con la Dichiarazione n. 17 si ricava che i principi fondamentali dell‟assetto costituzionale degli Stati membri vanno anteposti alla primazia del diritto dell‟Unione europea. Una conferma in tal senso discende dall‟art. 53 della Carta di Nizza, a tenore del quale “nessuna disposizione deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità e tutti gli Stati membri sono contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. L‟art. 53 consente una tutela dinamica dei diritti fondamentali, assicurando il livello di protezione più elevato, a prescindere che questo derivi da fonte comunitaria o nazionale, anche a scapito della primazia del diritto dell‟Unione europea. In questo senso l‟art. 53 della Carta dei diritti fondamentali rappresenta la legittimazione normativa della dottrina dei controlimiti, che acquistano una natura sovranazionale, aprendo un dialogo tra le corti di merito e la Corte di giustizia. Ne consegue, dunque, che i controlimiti – come si è efficacemente affermato – “non costituiscono il rigido muro di confine fra ordinamenti, ma il punto di snodo, la cerniera nei rapporti tra l‟Unione europea e gli Stati membri”3. A. CELOTTO, La primauté nel Trattato di Lisbona, in Dal Trattato costituzionale al Trattato di Lisbona : nuovi studi sulla Costituzione europea, a cura di Alberto Lucarelli, Andrea Patroni Griffi (2009). 3 21 www.ildirittoamministrativo.it I controlimiti diventano elemento di integrazione tra gli ordinamenti, privilegiando l‟applicazione del diritto nazionale, in deroga al principio di primazia del diritto dell‟Unione europea, laddove consenta livelli di protezione più elevati. In questo quadro, all‟originaria contrapposizione primaia versus controlimiti si sostituisce l‟integrazione primazia e contro limiti. In definitiva, il sistema multilivello europeo, discendente dal trattato di Lisbona, da un lato, assicura il massimo livello di protezione dei diritti fondamentali, prevedendo l‟applicazione delle norme nazionali laddove prevedano livelli di tutela più elevati, in deroga alla primazia del diritto dell‟Unione europea, dall‟altro lato, garantisce che i principi supremi dell‟ordinamento costituzionale degli Stati membri non possano essere intaccati dal principio di primauté, dovendo essere ad esso preposti. Rilevanti gli effetti che sul piano processuale potrebbero discendere da tale canonizzazione a livello europeo. Difatti, la mutazione genetica che i controlimiti vengono a subire per effetto del trattato di Lisbona comporta che questi da misure meramente difensive diventano misure di natura propulsiva di integrazione fra gli ordinamenti, la cui applicazione non è più rimessa al monopolio esclusivo della giurisprudenza costituzionale, ma viene affidata ai giudici nazionali nel dialogo con la Corte di giustizia. Ne segue, in altri e più chiari termini, che la sede abilitata alla valutazione del rispetto dei diritti fondamentali da parte della normativa comunitaria non è più in via esclusiva la Corte costituzionale, ben potendo procedere a siffatta ponderazione ogni giudice nazionale, avvalendosi, nelle ipotesi di dubbi interpretativi, del supporto della Corte di giustizia. Tali considerazioni conducono all‟analisi del delicato profilo degli effetti sul piano del rapporto tra diritto dell‟Unione europea e diritto interno a seguito della giuridicizzazione della Carta dei diritti fondamentali. Viene qui in rilievo l‟art. 51 della Carta di Nizza, rubricato “ambito di applicazione, che al, comma 1, dispone che “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze”. Secondo l‟opzione interpretativa, che ha ricevuto i maggiori consensi in dottrina e che appare la più coerente con la giurisprudenza comunitaria, le questioni sindacabili alla luce della Carta di Nizza sono quelle in cui sussiste un collegamento tra la disciplina sopranazionale e la disciplina interna, determinando un‟inevitabile sovrapposizione tra le stesse, in quanto la seconda ricade nel cono d‟ombra della prima. Occorre, peraltro, evidenziare come siffatti confini risultano in continua espansione, come testimoniano, del resto, talune sentenze della Corte di giustizia in cui si riscontra uno sconfinamento in questioni pacificamente rientranti nella sfera decisionale dello Stato anche sotto il profilo dei diritti fondamentali. Si pensi, al riguardo, alla sentenza Kreil (CGCE, 11 22 www.ildirittoamministrativo.it gennaio 200, C-285/98), in cui la Corte di Lussemburgo si è pronunciata nonostante che l‟ordinamento delle forze militari non rientri in nessun modo nella competenza dell‟Unione, ovvero alle sentenze Viking (CGCE, 11 dicembre 2007, C-438/05)e Laval (CGCE, 18 dicembre 2007, C-341/05), in cui la Corte è intervenuta nel merito nonostante l‟art. 137 TCE prevedesse (e prevede ancora al nuovo art. 153 TFUE) l‟impossibilità per l‟Unione di legiferare in materia di sciopero o di retribuzioni. Le due sentenze Viking e Laval presentano, tra l‟altro, un interesse di particolare rilievo nell‟economia della presente trattazione, in quanto attribuiscono un‟efficacia orizzontale e non solo verticale ai diritti fondamentali della Carta, purché non presuppongano un‟attività legislativa di attuazione. In particolare, la Corte, riconoscendo che si era verificata una interferenza tra due fundamental rights (sciopero e diritto di azione collettiva versus libertà comunitarie), ha proceduto ad un bilanciamento tra di essi con effetti diretti sui rapporti tra le parti sociali. Altri riferimenti giurisprudenziali rilevanti ai fini della trattazione in esame sono le sentenze Omega (CGUE, 14 ottobre 2004, C-36/02) e Schmidberger (CGUE, 12 giugno 2003, C112/2000), in cui la tutela della dignità umana e della libertà di espressione e di riunione, in quanto diritti fondamentali, sono assunti a parametro di riferimento per giustificare restrizioni alle libertà fondamentali sancite nei trattati (nei casi di specie, l‟esercizio di un‟attività economica e la libera circolazione delle merci). In particolare, nella sentenza Omega, la Corte di Lussemburgo ricorda che, “secondo una costante giurisprudenza, i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza e che, a tal fine, quest’ultima si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito”. Pertanto, “l’ordinamento giuridico comunitario è diretto innegabilmente ad assicurare il rispetto della dignità umana quale principio generale del diritto. Non vi sono dunque dubbi che l’obiettivo di tutelare la dignità umana è compatibile con il diritto comunitario, non essendo rilevante a tale proposito che, in Germania, il principio del rispetto della dignità umana benefici di uno status particolare in quanto diritto fondamentale autonomo. Poiché il rispetto dei diritti fondamentali si impone, in tal modo, sia alla Comunità sia ai suoi Stati membri, la tutela di tali diritti rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato quale la libera prestazione dei servizi”. Punto focale della presente disamina è, peraltro, il comma 3 dell‟art. 51, a tenore del quale “la presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”. Tale disposizioni è stata ribadita nell‟art. 6 TUE, nella quale con una formulazione più sintetica si statuisce che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione nei trattati”. Sul significato da attribuire a tale statuizione normativa viene in rilievo la recentissima sentenza della Corte costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80, in cui il Giudice delle leggi - superato 23 www.ildirittoamministrativo.it l‟atteggiamento di cautela avuto nella sentenza n. 138 del 2010 ove essa aveva ravvisato nel citato art. 51 della Carta di Nizza un aspetto problematico in ordine all‟applicabilità orizzontale della Carta stessa, riconoscendo come la questione fosse aperta e aveva scelto di non prendere una posizione definita – dissolve ogni dubbio interpretativo ed afferma il principio per cui la Carta di Nizza non può essere considerata né uno strumento applicabile al di fuori dei tradizionali campi di intervento del diritto dell‟Unione europeo né una via per considerare „trattatizzata‟ in modo indiretto la Convenzione EDU (tramite il suo articolo 52, comma 3): L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una in equivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto ora interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce» e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai «principi generali», che – secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e articolato. Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi generali» e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU, si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare, il Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito) – anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta “cristallizzi” i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate. A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti (…). Occorre peraltro osservare come – analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2, secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del 24 www.ildirittoamministrativo.it Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati». A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che «la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati». I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1. Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri). Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto. Un discorso diverso deve, invece, essere fatto con riguardo alla Convenzione europea dei diritti dell‟uomo. 8. LA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO NEL SISTEMA DELLE FONTI DOPO IL TRATTATO DI LISBONA. Come si desume facilmente dalla lettura dell‟art. 6, comma 2, TFUE, il trattato di Lisbona, sebbene apporta un forte tratto di discontinuità con il precedente trattato, ha comportato, non già l‟equiparazione della Convenzione al diritto comunitario, bensì l‟adesione della Unione alla CEDU, che si svolgerà secondo procedure complesse (“l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati”). In tal modo, il legislatore comunitario ha inteso superare la tradizionale querelle, che aveva visto la Corte di giustizia, in occasione del parere 28 marzo 1986 n. 2/94, procedere ad una netta distinzione tra l‟adesione alle disposizioni della CEDU, intesa nel senso del riconoscimento dei diritti in essa contemplati, e l‟adesione al trattato nel senso più propriamente giuridico, ossia in quello di vero e proprio inquadramento dell‟Unione all‟interno 25 www.ildirittoamministrativo.it del sistema convenzionale e di una sua formale incorporazione nel complesso impianto istituzionale di Strasburgo. In tale parere, la Corte di giustizia - sebbene è innegabile che abbia cercato di colmare il vuoto di tutela da parte dell‟ordinamento comunitario in materia di diritti fondamentali, instaurando dei punti di contatto con i principi sanciti nella CEDU e con le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, al fine di assicurare che l‟incalzare del diritto comunitario non si ponesse in una dimensione irriguardosa nei confronti dei diritti dell‟uomo, ma al contrario il rispetto dei diritti dell‟uomo costituisse un requisito di legittimità degli atti comunitari - ha comunque negato che il riconoscimento del sistema convenzionale ad opera del trattato di Maastricht avesse comportato l‟adesione alla Convenzione. Quest‟ultima, infatti, come evidenziato dalla stessa Corte nel parere sopramenzionato, “determinerebbe una modificazione sostanziale dell’attuale regime giuridico di tutela dei diritti dell’uomo, , in quanto comporterebbe l’inserimento della Comunità in un sistema internazionale distinto, nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della Convenzione nell’ordinamento giuridico comunitario. Una siffatta modifica del regime della tutela dei diritti dell’uomo nella Comunità … può quindi essere realizzata unicamente mediante modifica del Trattato”. Alla luce di tali rilievi, emerge che le nuove previsioni del TUE, ad opera del trattato di Lisbona, perseguono il fine di eliminare tali impedimenti all‟adesione. Da tali premesse discendono importanti conseguente giuridiche. Difatti, fermi restando gli obblighi di conformità degli atti comunitari alle disposizioni della CEDU, la diversa terminologia utilizzata nell‟art. 6 TUE rispetto alla Carta di Nizza rileva soprattutto sul piano degli effetti processuali e, in particolare, sul piano dei poteri dei giudici nazionali in ipotesi di contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea. In tal senso si è espressa la Corte costituzionale nella recente sentenza sopramenzionata n. 80 dell’11 marzo 2011: “Occorre ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’«Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario». In base a tale disposizione – che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo – tanto la CEDU quanto le «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a rispettare. Sicché, almeno dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea era unica, risiedendo, per l’appunto, nei «principi generali del diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni costituzionali comuni» svolgevano solo un ruolo “strumentale” all’individuazione di quei principi. Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla «qualificazione […] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario» – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU del 26 www.ildirittoamministrativo.it parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del 2007). L’affermazione per cui l’art. 11 Cost. non può venire in considerazione rispetto alla CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980, già richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per un triplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007). In secondo luogo, perché, i «principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto», ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia […] precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/09, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/05, Kremzow)». In terzo luogo e da ultimo, perché «il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n. 349 del 2007). L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto ora interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (…). Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a 27 www.ildirittoamministrativo.it questa Corte), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29). Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale”. Sulla scorta di tali considerazioni la Corte costituzionale ha escluso che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare le norme interne ritenute incompatibili con l‟art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata. Restano, per converso, pienamente attuali i principi al riguardo affermati dalla stessa Corte costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa anche dopo l‟entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010). Ed ancora: Corte costituzionale, sentenza 7 aprile 2011, n. 113 A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). Prospettiva nella quale, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub28 www.ildirittoamministrativo.it costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. Nella specie, si è già rimarcato (supra, punto 4 del Considerato in diritto) come la Corte di Strasburgo ritenga, con giurisprudenza ormai costante, che l’obbligo di conformarsi alle proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti contraenti dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, comporti anche l’impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo. Tale interpretazione non può ritenersi contrastante con le conferenti tutele offerte dalla Costituzione. In particolare – pur nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata – non può ritenersi contraria a Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel suo complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111 Cost. Alla stregua di tali considerazioni, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l‟art. 630 c.p. nella parte in cui non contempla un “diverso” caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell‟art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo – intesa, quest‟ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell‟art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell‟uomo (cui va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell‟art. 32 della CEDU). In definitiva, nelle sentenze suesposte la Corte costituzionale ha ribadito il principio per cui il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell‟art. 117, primo comma, Costituzione. La CEDU si configura, quindi, quale norma interposta che integra il parametro di cui all‟art. 117 comma 1 Cost., attraendo nella propria sfera di competenza le cd. questioni di convenzionalità,ossia il contrasto tra norma interna e norma CEDU. In quanto norme interposte, le norme CEDU sono destinate “ad integrare il parametro costituzionale”, collocandosi sempre ad un “livello sub-costituzionale”, con la necessità che siano conformi a tutte le disposizioni della Costituzione. Ne consegue che al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle fonti normative. Qualora ciò non sia possibile ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, non potendo procedere all‟applicazione della 29 www.ildirittoamministrativo.it norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria, priva dell‟effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU e, pertanto, con la Costituzione, deve sollevare una questione di legittimità costituzionale con riferimento al parametro dell‟art. 117 comma 1 Cost. In buona sostanza, la Corte costituzionale, con le sentenze in esame ha chiarito come la previsione di un‟eventuale adesione della Unione europea alla CEDU non ha comportato una diversa modulazione dei rapporti tra norme interne e norme convenzionali, dovendosi ritenere fermo il principio per cui la prevalenza della CEDU sulle leggi interne passa attraverso un tentativo di interpretazione conforme, seguito non dalla disapplicazione, ma dal classico schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta. Peraltro, come la stessa Corte costituzionale esplicitamente sottolinea nelle sentenze in esame, il giudice nazionale non ha solo l‟obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione europea dei diritti dell‟uomo, ma deve fare ciò tenendo conto della norma convenzionale come interpretata dalla Corte di Strasburgo, salvo l‟eventuale scrutinio di costituzionalità. Si tratta di un vincolo interpretativo nei confronti della giurisprudenza della Corte europea già affermato dalla Corte costituzionale e recentemente ribadito nelle sentenze nn. 187 e 196 del 2010. In particolare, la Corte costituzionale nella prima sentenza, dopo aver ripercorso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo con riferimento alla disposizione della CEDU che nel caso di specie veniva in rilievo, ha affermato “lo scrutinio di legittimità costituzionale andrà dunque condotto alla luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo è pervenuta nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione, assunto dall’odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi indicato”. Ne consegue che la Corte di Strasburgo svolge un ruolo preminente sotto il profilo dell‟attività interpretativa, nonostante che per la CEDU non esista un meccanismo analogo al rinvio pregiudiziale di cui all‟art. 267 TFUE, che permetta al giudice di rivolgersi alla Corte in caso di dubbio interpretativo. Peraltro, nonostante tale lacuna si è nel tempo realizzato un vincolo interpretativo del giudice nei confronti della giurisprudenza della Corte EDU, oggi espressamente riconosciuto anche dalla Corte costituzionale. Alla luce di tali considerazioni deve, pertanto, ritenersi disatteso il ragionamento condotto dal TAR Lazio – Roma, 18 maggio 2010, n. 11984, secondo cui “il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell'Unione, osserva il Collegio, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del 30 www.ildirittoamministrativo.it diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”. Sulla stessa lunghezza d‟onda si è posta la quasi coeva sentenza del Consiglio di Stato, 22 maggio 2010, n. 1220, ove si legge “in questa fase del giudizio la Sezione deve fare applicazione dei principi sulla effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009)”. In definitiva, secondo la prospettiva d‟analisi fornita dalla giurisprudenza amministrativa nelle sentenze in commento l‟art. 6, prf. 3, TUE ha comportato la “comunitarizzazione”, sia pure a livello dei principi generali, delle norme della Convenzione europea dei diritti dell‟uomo, con la conseguente diretta ed immediata efficacia all‟interno dell‟ordinamento nazionale. Tesi, come già visto, totalmente sconfessata dalle recentissime sentenze della Corte costituzionale, ove si è acclarato il principio - affermato anche dal Consiglio di Stato, Sezione VI sentenza 15 giugno 2010 n. 3760 - per cui il trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la non diretta applicabilità nell‟ordinamento nazionale della CEDU che rimane, per l‟Italia, un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle ben note sentenze 348 e 349 del 2007, a cui hanno fatto seguito le sentenze n. 239, 311 e 317 del 2009. Peraltro, a chiusura della disamina della posizione della CEDU nel sistema delle fonti dopo Lisbona, non può evidenziarsi come la statuizione di cui all‟art. 6, pgf. 3, TUE, secondo cui “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”, apre un varco alla possibilità per il giudice nazionale di riconoscere un‟efficacia orizzontale ai diritti riconosciuti dalla CEDU, con conseguente possibilità di disapplicare la norma interna contrastante, laddove – secondo quanto affermato nelle sentenze Mangold e Kucukdeveci – tali principi generali del diritto dell‟Unione europea siano specificati e resi applicabili da una direttiva. 9. UN NUOVO PROTAGONISMO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA TUTELA MULTILIVELLO DEI DIRITTI FONDAMENTALI? La piena attribuzione di valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali ad opera del trattato di Lisbona porta in auge un nuovo ruolo di giudice costituzionale della Corte di giustizia. 31 www.ildirittoamministrativo.it Difatti, con l‟entrata in vigore del trattato di Lisbona, la legittimazione della Corte di giustizia a pronunciarsi sui diritti fondamentali trova adesso la sua fonte nel diritto primario dell‟Unione europea. La Corte di Lussemburgo sarà inevitabilmente chiamata a svolgere il delicato compito di garantire i contenuti normativi della Carta dei diritti, che ora diventa pleno iure diritto dell‟Unione europea. Ne consegue, ragionando in tale ottica, la possibilità di riconoscere un nuovo ruolo all‟istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE, il quale risponde alla necessità di garantire l‟uniforme interpretazione dei diritti derivanti dalla normativa dell‟Unione europea e nella prassi viene frequentemente utilizzato al fine di ottenere una valutazione indiretta sulla legittimità costituzionale del diritto interno. Tali considerazioni conducono all‟analisi della questione della “doppia pregiudizialità”, espressione utilizzata per indicare una situazione in cui una norma interna si ponga contemporaneamente in conflitto con una norma del diritto dell‟Unione europea e una norma costituzionale. Qualora tale situazione si verifica all‟interno di un processo, il giudice potrebbe trovarsi nella condizione di dover scegliere se privilegiare il rinvio alla Corte di costituzionalità, al fine di valutare la legittimità costituzionale della norma interna, ovvero alla Corte di giustizia, al fine di valutare la compatibilità comunitaria di detta norma. Si tratta di una situazione che, sebbene nella prassi non ha mai dato luogo a veri e propri conflitti, potrebbe comunque generare l‟eventualità per il giudice di merito di dover applicare due regole concretamente differenti, così come interpretate dalle relative Corti 4. La mancanza di regole di conflitto a livello della normativa europea lascia alle Corti costituzionali e, in particolare, alla Corte di giustizia, l‟arduo compito di regolare i relativi rapporti. Sotto tale profilo, si deve, peraltro, sottolineare come la Corte di giustizia ha assunto posizioni di equilibrio e self-restraint, evitando situazioni di conflitto e rimettendo sostanzialmente ai giudici di merito il compito di assicurare il rispetto della primazia del diritto europeo. In tale ottica, significativa è la sentenza della Corte di giustizia, 22 giugno 2010, cause riunite C- 188/10 e C-189/10 Melki e Abdeli, ove il giudice di Lussemburgo, è stato chiamato a pronunciarsi sulla questione se l‟art. 267 TFUE osti ad una normativa di uno Stato membro, istitutiva di un procedimento incidentale di controllo di legittimità costituzionale delle leggi nazionali, che impone ai giudici di pronunciarsi in via prioritaria sulla trasmissione, all‟organo giurisdizionale nazionale incaricato di effettuare il controllo di costituzionalità delle leggi, di una questione vertente sulla conformità con la Costituzione di una disposizione di Sul punto, esemplificative sono le ordinanze del Tribunale di Milano, una del 6 maggio 2008, l‟altra del 22 maggio 2008, con cui il giudice ha, rispettivamente, richiesto alla Corte costituzionale di verificare la legittimità costituzionale dell‟art. 85 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 con riferimento agli articoli 2, 3, 11, 31, 38, 117 Cost., e alla Corte di giustizia di verificare la compatibilità della medesima disposizione con gli articoli 12 e 13 del Trattato CE. 32 4 www.ildirittoamministrativo.it diritto interno quando, contemporaneamente, è posta in discussione la conformità della medesima con le disposizioni del diritto dell‟Unione. La Corte di giustizia ha sciolto il nodo interpretativo sottoposto alla sua attenzione, pervenendo alla formulazione del seguente principio di diritto: L’art. 267 TFUE osta ad una normativa di uno Stato membro che instaura un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale delle leggi nazionali, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire – tanto prima della trasmissione di una questione di legittimità costituzionale all’organo giurisdizionale nazionale incaricato di esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di siffatto organo giurisdizionale su detta questione – a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte. Per contro, l’art. 267 TFUE non osta a siffatta normativa nazionale, purché gli altri organi giurisdizionali nazionali restino liberi: - di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento che ritengano appropriata, ed anche al termine del procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale, qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria; - di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e - di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere interpretata conformemente a siffatti precetti del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia è pervenuta a tale esito interpretativo, prendendo in esame, in primo luogo, lo scenario giurisprudenziale che fa da sfondo all‟art. 267 TFUE, il quale attribuisce alla Corte la competenza a pronunciarsi, in via pregiudiziale, tanto sull‟interpretazione dei trattati e degli atti adottati dalle istituzioni, organi o organismi dell‟Unione, quanto sulla validità di detti atti: “Questo articolo dispone, al suo secondo comma, che un organo giurisdizionale nazionale può domandare alla Corte di pronunciarsi su siffatte questioni qualora reputi necessaria, per emanare la sua sentenza, una decisione su tale punto, e, al suo terzo comma, che tale organo giurisdizionale è tenuto a farlo se avverso le sue decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno. 33 www.ildirittoamministrativo.it Ne consegue, in primo luogo, che, anche se potrebbe essere vantaggioso, secondo le circostanze, che i problemi di puro diritto nazionale siano risolti al momento del rinvio alla Corte (v. sentenza 10 marzo 1981, cause riunite 36/80 e 71/80, Irish Creamery Milk Suppliers Association e a., Racc. pag. 735, punto 6), gli organi giurisdizionali nazionali godono della più ampia facoltà di adire la Corte se ritengono che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni, essenziali per la pronuncia nel merito, che implicano un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto comunitario (sentenze 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf, Racc. pag. 33, punto 3; 27 giugno 1991, causa C-348/89, Mecanarte, Racc. pag. I-3277, punto 44, e 16 dicembre 2008, causa C-210/06, Cartesio, Racc. pag. I-9641, punto 88). Da ciò la Corte ha concluso che l’esistenza di una norma di diritto interno che vincola i giudici che non giudicano in ultimo grado al rispetto delle valutazioni giuridiche emananti da un giudice di grado superiore non può di per sé privare detti giudici della facoltà di presentare alla Corte, a norma dell’art. 267 TFUE, questioni sull’interpretazione del diritto dell’Unione (v., in questo senso, le sentenze sopra citate Rheinmühlen-Düsseldorf, punti 4 e 5, e Cartesio, punto 94). Il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, segnatamente se ritiene che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre alla Corte le questioni con cui deve confrontarsi (sentenza 9 marzo 2010, causa C-378/08, ERG e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32). In secondo luogo, la Corte ha già dichiarato che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze Simmenthal, sopra citata, punti 21 e 24; 20 marzo 2003, causa C-187/00, Kutz-Bauer, Racc. pag. I-2741, punto 73; 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, causa C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punto 72, e 19 novembre 2009, causa C-314/08, Filipiak, Racc. pag. I-11049, punto 81). Infatti, è incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino, anche temporaneamente, alla piena efficacia delle norme dell’Unione (v. sentenze Simmenthal, citata, punto 22, e 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame e a., Racc. pag. I-2433, punto 20). Ciò si verificherebbe qualora, in caso di conflitto tra una disposizione di diritto dell’Unione ed una legge nazionale, la soluzione di questo conflitto fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui è affidato il compito di garantire l’applicazione del diritto dell’Unione e dotato di un autonomo potere di valutazione, anche se l’ostacolo in tal modo frapposto alla piena efficacia di tale diritto fosse soltanto temporaneo (v., in questo senso, sentenza Simmenthal, citata, punto 23). Infine, la Corte ha dichiarato che un giudice nazionale, adito in una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale consideri che una norma nazionale non solo è contraria al diritto dell’Unione, ma è anche 34 www.ildirittoamministrativo.it inficiata da vizi di incostituzionalità, non è privato della facoltà né dispensato dall’obbligo, di cui all’art. 267 TFUE, di sottoporre alla Corte di giustizia questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto nazionale sia soggetta a ricorso obbligatorio dinanzi alla Corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esistenza di un ricorso obbligatorio dinanzi alla Corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, al quale è stata sottoposta una controversia regolata dal diritto dell’Unione, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’art. 267 TFUE, di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di consentirgli di giudicare se una norma nazionale sia o meno compatibile con quest’ultimo (v. sentenza Mecanarte, citata, punti 39, 45 e 46)”. A conclusione di tali considerazioni la Corte di giustizia ha affermato che l‟art. 267 TFUE osta ad una normativa nazionale (nella specie francese) che avrebbe l‟effetto di impedire ai giudici amministrativi e ordinari nazionali di presentare questioni pregiudiziali alla Corte medesima, tanto prima della trasmissione della questione di legittimità costituzionale, quanto, eventualmente, dopo la pronuncia del Conseil constitutionnel su tale questione. E, tuttavia, la Corte di giustizia, dopo essere approdata a tale soluzione interpretativa così rigorosa, ha aperto uno spiraglio all‟ammissibilità di un sindacato incidentale di legittimità costituzionale, che impedisce al giudice nazionale di disapplicare immediatamente una disposizione legislativa nazionale che ritenga contraria al diritto dell‟Unione, purché “siffatto giudice sia libero, da un lato, di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e, dall’altro, di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale di cui trattasi se egli la ritenga contraria al diritto dell’Unione”. A sostegno di tali considerazioni la Corte di giustizia ha fatto leva sul principio dell‟interpretazione conforme della norma interna alla norma europea, che impone al giudice nazionale di scegliere tra i vari significati attribuibili quello che meglio soddisfa le esigenze espresse a livello europeo: “A questo riguardo, occorre ricordare che spetta al giudice del rinvio determinare, nei procedimenti di cui è investito, quale sia l’interpretazione corretta del diritto nazionale. In virtù di una giurisprudenza costante, spetta al giudice nazionale conferire alla legge nazionale che è chiamato ad applicare un’interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del diritto dell’Unione (sentenze 26 settembre 2000, causa C-262/97, Engelbrecht, Racc. pag. I-7321, punto 39; 27 ottobre 2009, causa C-115/08, ČEZ, Racc. pag. I-10265, punto 138, e 13 aprile 2010, causa C-91/08, Wall, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 70). Alla luce delle decisioni del Conseil constitutionnel e del Conseil d’État sopra menzionate, siffatta interpretazione delle disposizioni nazionali che hanno introdotto il meccanismo di controllo di legittimità costituzionale di cui trattasi nei procedimenti principali non può essere esclusa. L’esame della questione se sia possibile un’interpretazione del meccanismo della questione prioritaria di legittimità costituzionale conforme ai precetti del diritto dell’Unione non può rimettere in discussione le caratteristiche essenziali del sistema di cooperazione tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, instaurato dall’art. 267 TFUE, quali emergono dalla giurisprudenza citata ai punti 41-45 della presente sentenza”. 35 www.ildirittoamministrativo.it Approssimandosi verso la fine della disamina della questione interpretativa sottoposta alla sua attenzione, la Corte di giustizia ha comunque avuto l‟accortezza di precisare che detta soluzione interpretativa non pregiudica in alcun modo la sua competenza esclusiva a dichiarare l‟invalidità di un atto dell‟Unione: “Occorre peraltro sottolineare che il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale di una legge nazionale il cui contenuto si limita a trasporre le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione non può pregiudicare la competenza esclusiva della Corte di giustizia a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione, segnatamente di una direttiva, competenza che ha per oggetto di garantire la certezza del diritto assicurando l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione (v., in questo senso, sentenze 22 ottobre 1987, causa 314/85, Foto-Frost, Racc. pag. 4199, punti 15-20; 10 gennaio 2006, causa C-344/04, IATA e ELFAA, Racc. pag. I-403, punto 27, e 18 luglio 2007, causa C-119/05, Lucchini, Racc. pag. I-6199, punto 53). Qualora, infatti, il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale si concluda con l’abrogazione di una legge nazionale che si limita a recepire le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, a causa della contrarietà di detta legge alla Costituzione nazionale, la Corte potrebbe, in pratica, essere privata della possibilità di procedere, su domanda dei giudici del merito dello Stato membro interessato, al controllo della validità di detta direttiva con riguardo agli stessi motivi relativi alle esigenze del diritto primario, segnatamente dei diritti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale l’art. 6 TFUE conferisce lo stesso valore giuridico che riconosce ai Trattati. Prima che si possa effettuare il controllo di legittimità costituzionale di una legge, il cui contenuto si limita a trasporre le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, con riguardo agli stessi motivi che mettono in discussione la validità della direttiva, gli organi giurisdizionali nazionali, avverso le cui decisioni non possono essere proposti ricorsi giurisdizionali di diritto interno, sono, in linea di principio, tenuti, in virtù dell’art. 267, terzo comma, TFUE, a chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità di detta direttiva e, successivamente, a trarre le conseguenze derivanti dalla sentenza pronunciata dalla Corte a titolo pregiudiziale, a meno che il giudice che dà avvio al controllo incidentale di costituzionalità non abbia esso stesso adito la Corte di giustizia con tale questione in forza del secondo comma di detto articolo. Infatti, nel caso di una legge nazionale di trasposizione avente detto contenuto, la questione se la direttiva sia valida, alla luce dell’obbligo di trasposizione della medesima, riveste un carattere preliminare. Inoltre, la fissazione di un termine rigido per la durata dell’esame da parte dei giudici nazionali non può rendere vano il rinvio pregiudiziale relativo alla validità della direttiva in causa”. L‟impianto argomentativo della sentenza Melky è stato recentemente ribadito dalla Corte di giustizia nell‟ordinanza, 1 marzo 2011, causa C-457/09 Chartry: “Va rammentato che, in ossequio ad una giurisprudenza costante della Corte, al fine di garantire il primato del diritto dell’Unione, il funzionamento del sistema di cooperazione tra la Corte di giustizia ed i giudici nazionali instaurato dall’art. 234 CE esige che il giudice nazionale sia libero, in ogni fase del procedimento che reputi 36 www.ildirittoamministrativo.it appropriata, di sottoporre alla Corte di giustizia qualsiasi questione che ritenga necessaria (v. sentenza 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, punto 52). Più in particolare, la Corte ha dichiarato che l’art. 234 CE osta ad una normativa di uno Stato membro che instauri un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale delle leggi nazionali, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire – tanto prima della trasmissione di una questione di legittimità costituzionale all’organo giurisdizionale nazionale incaricato di esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi quanto, eventualmente, dopo la decisione di tale organo giurisdizionale su detta questione – a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte (sentenza Melki e Abdeli, cit., punto 57). Tuttavia, va altresì rammentato che la Corte, adita in forza dell’art. 234 CE, è competente a pronunciarsi sull’interpretazione del Trattato CE nonché sulla validità e sull’interpretazione degli atti adottati dalle istituzioni dell’Unione europea. In tale ambito, la competenza della Corte è circoscritta all’esame delle sole disposizioni del diritto dell’Unione (v., in particolare, ordinanze 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Polier, punto 9, nonché 12 novembre 2010, causa C-339/10, Asparuhov Estov e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 11). Per quanto riguarda le esigenze derivanti dalla tutela dei diritti fondamentali, in base a giurisprudenza costante esse vincolano gli Stati membri in tutti i casi in cui sono chiamati ad applicare il diritto dell’Unione (v. ordinanza Estov e a., cit., punto 13). Parimenti, l’art. 51, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») sancisce che le disposizioni della stessa si rivolgono «agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Tale limitazione non è stata del resto modificata a seguito dell’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona, a partire dalla quale, in forza del nuovo art. 6, n. 1, UE, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. Tale articolo precisa, infatti, che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati”. Alla stregua di tali principi la Corte di giustizia ha affermato che la causa, in cui un cittadino belga si oppone allo Stato belga in merito alla tassazione di attività esercitate nel territorio di tale Stato membro, non presenta alcun elemento di collegamento con una qualsivoglia delle situazioni previste dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle persone, dei servizi o dei capitali. Inoltre, detta controversia non verte sull‟applicazione di misure nazionali mediante le quali lo Stato membro interessato dia attuazione al diritto dell‟Unione. Dalla disamina di tali pronunce appare evidente come l‟obiettivo della Corte di giustizia è quello di stemperare la questione della “doppia pregiudizialità”, rimettendo al giudice comune la scelta dell‟ordine dei rinvii, il quale finisce per operare come una sorta di arbitro. Si tratta, peraltro, di una soluzione che non mette al riparo da futuri contrasti, in considerazione del fatto che non pone alcuna garanzia dal rischio di indebite invasioni di campo tra le Corti costituzionali e la Corte di giustizia. Rischio che si potrebbe paventare nell‟ipotesi in cui la 37 www.ildirittoamministrativo.it questione di legittimità costituzionale, di cui è investita la Corte nazionale, presenti profili di rilevanza comunitaria non ancora vagliati dalla Corte di giustizia. Peraltro, in mancanza di una compiuta regolamentazione europea al riguardo, una possibile soluzione atta ad evitare simili conseguenze rimane il dialogo tra le Corti, tramite lo strumento del rinvio pregiudiziale, non solo nell‟ambito dei giudizi in via principale, ma anche nell‟ambito dei giudizi in via incidentale. In tal modo, si evita l‟auto-isolamento a cui potrebbero andare incontro le Corti nazionali e soprattutto l‟effetto destabilizzante dei nuovi assetti della giustizia costituzionale, così come stanno venendo a delinearsi per effetto del progressivo emergere della Carta dei diritti fondamentali come parametro di conformità (anche) del diritto nazionale. A favore di un dialogo maggiore tra le Corti nazionali, chiamate a sindacare sulla legittimità costituzionale delle norme nazionali, e la Corte di giustizia, viene in rilievo una ulteriore considerazione. La Corte costituzionale italiana, facendo leva sul principio della separazione degli ordinamenti, ha individuato quale criterio processuale volto a regolamentare i casi di interferenza tra ordine costituzionale e ordine comunitario quello per cui le questioni implicanti problemi relativi al diritto dell‟Unione europea impongono l‟applicazione della norma europea e, conseguentemente, rendono un‟eventuale pronuncia sulla costituzionalità della norma italiana irrilevante ai fini della decisione concreta. In tal modo, la Corte costituzionale italiana è riuscita ad evitare una sovrapposizione tra l‟ordinamento europeo e quello costituzionale, garantendo altresì l‟applicazione del principio del primato del diritto europeo. E, tuttavia, tale strategia processuale non ha potuto trovare applicazione in alcune fattispecie, come nelle ipotesi di contrasto tra una norma interna e una norma comunitaria non direttamente applicabile oppure di controllo diretto di costituzionalità. In situazioni del genere, infatti, la Corte costituzionale non può rimettere la soluzione della controversia alla collaborazione tra il giudice comune e la Corte di giustizia. Diventa, pertanto, fondamentale una pronuncia della Corte costituzionale, senza peraltro prescindere da un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riguardo ai profili implicanti la corretta interpretazione della normativa o dei principi generali di derivazione europea. 38