1 TEMI, PROBLEMI E FIGURE DELL’ETA’ MEDIOEVALE I-Filosofia e religione nel tardo impero I.1-Il contesto storico a)Società, politica e religione alla fine del mondo antico b)La separazione economica, politica e culturale fra Oriente ed Occidente c)Le strutture della società tardo imperiale d)La diffusione del cristianesimo e)L’evoluzione del cristianesimo I.2-Religione e filosofia nel tardo impero a)La dimensione religiosa negli ultimi secoli dell’età antica b)La filosofia giudaico- ellenistica c)Apologisti cristiani e pagani d)La gnosi e il manicheismo e)Neoplatonismo e Patristica f)Da Origene ad Agostino II- La filosofia nell’epoca medioevale II.1- Il contesto storico a)I fondamenti della società feudale b)La società urbana e i nuovi ceti c)La crisi del XIV secolo e il tramonto del Medio Evo II.2- Cultura e filosofia nell’età medioevale a)Clericus e laicus b)Diffusione e laicizzazione della cultura c)Il ruolo culturale dell’Islam e dell’ebraismo d)La filosofia medioevale come filosofia scolastica e)Periodi e problemi della filosofia medioevale II.3- Il pensiero filosofico e teologico da Boezio ad Anselmo d’Aosta a) Fede e ragione 2 b)Boezio e la tarda patristica c)Dionigi l’Areopagita e Giovanni Scoto Eriugena d)Pier Damiani antidialettico e)La sintesi di Anselmo d’Aosta II.4- Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo a)Scienza e teologia b)I maestri di Chartres c)La filosofia della luce dei maestri di Oxford 3 IFilosofia e religione nel tardo impero IILa filosofia nell’epoca medioevale a.a. 2004-‘05 TEMI,PROBLEMI E FIGURE DELL’ETA’ MEDIOEVALE 4 I.1 Il contesto storico I.2 Religione e filosofia nel tardo impero I Filosofia e religione nel tardo impero I.3 Agostino 5 a) Società, politica e religione alla fine del mondo antico b) La separazione economica, politica e culturale fra Oriente ed Occidente c) Le strutture della società tardo imperiale d) La diffusione del cristianesimo I.1) Il contesto storico I-Filosofia e religione nel tardo impero I.1-Il contesto storico e) L’evoluzione del cristianesimo 6 a) Società,politica e religione alla fine del mondo antico Nel tracciare le coordinate storiche del periodo, si deve considerare che non si tratta di un’epoca unitaria, contrassegnata da un continuo declino, bensì di un intreccio di momenti in cui le crisi si alternano con le riprese. I decenni centrali del III secolo fino al regno di Diocleziano, 284, furono quelli della massima crisi politico- militare. Con l’assassinio di Alessandro Severo da parte dei soldati (235) si aprì una lunga fase di anarchia militare: nell’arco di mezzo secolo si susseguirono trentacinque sovrani, imposti e successivamente deposti dai militari. Contemporaneamente, in più punti cominciarono a cedere le frontiere, che erano in pericolo già durante il regno di Marco Aurelio. A Oriente Roma perdette la Mesopotamia, l’Armenia, la Siria, la Cilicia e la Cappadocia; in Europa Goti, Franchi, Svevi e Alemanni si spinsero fino alla penisola iberica, alla Gallia cisalpina e a Ravenna; Atene venne saccheggiata nel 268; l’imperatore Decio rimase ucciso in battaglia nel 251. Tra il 270 e il 275, durante il regno di Aureliano, Roma, per la prima volta dopo sette secoli, fu costretta a circondarsi di mura difensive. Con Diocleziano (284-305) ebbe inizio una fase di riorganizzazione politico- amministrativa e militare: al fine di garantire il controllo e la difesa di tutto il territorio imperiale, egli lo divise in quattro zone governate da due Augusti e due Cesari, designati come successori degli Augusti; la dimensione delle province venne ridotta ed esse vennero ripartite in diocesi e prefetture; anche l’esercito fu riformato ed aumentata la sua dipendenza dal potere imperiale; fu istituito un catasto generale al fine di garantire un capillare prelievo fiscale; si pervenne, infine, ad una riforma monetaria e ad un tentativo, poi fallito, di bloccare l’inflazione calmierando prezzi e salari. L’opera di Diocleziano fu continuata da Costantino (306-337), il quale realizzò un programma di unità e pacificazione della compagine imperiale, fondato sullo stretto controllo delle province orientali e sulla progressiva alleanza fra impero e chiesa cattolica, a partire dall’editto del 313 con cui si riconosceva libertà di culto ai cristiani. 7 Questa linea venne proseguita dai successori di Costantino, ad eccezione di Giuliano l’Apostata(355-363), culminando con l’editto di Teodosio, che proclamava il cristianesimo unica religione lecita. Grazie a queste iniziative, nei decenni centrali del IV secolo si ebbe nell’impero una fase di relativo ordine. Ben presto, però, in seguito all’espansione delle popolazioni barbariche, in particolare dei Goti, la situazione divenne nuovamente critica. Allorquando nel 381 questi si stabilirono in Tracia, ebbe inizio un processo di infiltrazione che portò, infine, alla creazione dei regni romano-barbarici. Allorquando, dopo la morte di Teodosio (395), l’impero venne diviso in due parti, il destino storico dell’Oriente e dell’Occidente subì un diverso andamento. In Occidente, tra il 400 e il 425, le frontiere crollarono irreparabilmente; la Britannia venne abbandonata agli Angli e ai Sassoni; Roma fu saccheggiata dai Visigoti(410); i vandali iniziarono il lungo percorso che dalla Gallia li porterà in Spagna e in Africa; gli Unni tra il 440 e il 453 devastarono prima la Gallia e poi l’Italia. Nel 476 l’imperatore bambino Romolo Augustolo fu deposto dal generale germano Odoacre e così l’impero d’Occidente cessò di esistere come realtà politica. Nel 495 il re degli ostrogoti Teodorico si installò nella reggia imperiale di Ravenna e governò con il titolo di patrizio romano conferitogli dall’imperatore di Costantinopoli. b) La separazione economica, politica e culturale fra Oriente e Occidente Nel suddetto quadro storico è rilevante lo spostamento del baricentro della vita imperiale da Roma alle province e dall’Occidente all’Oriente. La diminuzione dell’importanza politica di Roma è un fenomeno che risale al II secolo ma divenne definitiva tra il III e il IV, tanto che Roma fu abbandonata come capitale già nel III secolo. La scelta delle quattro capitali effettuata da Diocleziano (Nicomedia in Bitinia, Sirmio sul Danubio, Milano e infine Treviri) è sintomatica di questo fenomeno, e la fondazione di Costantinopoli, la nuova capitale, da parte di Costantino, tra il 326 e il 330, non è altro che una tappa della progressiva separazione fra Oriente ed Occidente, formalizzata alla fine del IV secolo. 8 In questa divisione l’Oriente rappresenta il polo progressivo: l’economia è in crescita, la conflittualità sociale è più contenuta e l’autorità imperiale riesce ad integrare nell’apparato statale due grandi forze, la Chiesa e l’aristocrazia urbana. Ciò ha dei riflessi anche in campo culturale e filosofico, poiché dall’Oriente greco provengono le maggiori elaborazioni di questo periodo. Qui, infatti, il cristianesimo si afferma in modo rapido e compiuto; qui si diffonde l’ultima filosofia pagana, cioè il neoplatonismo; qui, infine, maturano le grandi controversie teologiche e dottrinali,e qui si compie la fusione tra pensiero greco e pensiero cristiano. c) Le strutture della società tardo- imperiale A partire dal III secolo l’impero viene investito da una serie di fenomeni dovuti alla crisi economica, fiscale e politico- militare. In primo luogo si approfondisce il divario fra ricchi e poveri: le ricchezze vengono concentrate nelle mani delle classi superiori, i potentiores, mentre le classi medie vengono schiacciate ed i ceti inferiori, gli humiliores, impoveriti; un fenomeno, questo, dovuto in gran parte al continuo aumento del prelievo fiscale, reso necessario dalla dilatazione del debito pubblico. Soprattutto nelle province occidentali, l’esosità fiscale determina un vero e proprio strangolamento della media e piccola proprietà contadina. Nel complesso si determina un’ampia ristrutturazione nella gerarchia delle classi: l’aristocrazia senatoria romana, pur conservando un potere economico basato sul latifondo e sulle concezioni fiscali perde ogni importanza politica e al suo posto emergono due nuove aristocrazie: quella militare e quella burocratico- amministrativa, entrambe aperte a quadri di provenienza non romana. Contemporaneamente, nelle campagne si instaurano nuovi rapporti di produzione e di dipendenza ed alla gestione del latifondo attraverso manodopera servile si affianca o, addirittura, si sostituisce un rapporto di “colonato”: il colono è legato alla terra, per cui paga un fitto, ed è vincolato al proprietario terriero, il quale assume funzioni pubbliche di crescente importanza, come,per esempio, la riscossione dei tributi. 9 Man mano che il potere centrale va perdendo sempre più autorità, emerge la figura del grande proprietario come titolare di poteri locali e garanzia di protezione per i soggetti sociali più deboli. Si tratta del patronus, il protettore, il quale, in un’epoca di instabilità, può costituire una figura di riferimento talmente importante da indurre i contadini di interi villaggi a rinunciare ai loro campi per farsi coloni del signore locale, in condizioni di semilibertà. d) La diffusione del cristianesimo In questo contesto va collocato il fenomeno che più di ogni altro caratterizza gli ultimi secoli del mondo antico, vale a dire l’affermazione del cristianesimo. La nuova religione, nata dalla predicazione di Gesù Cristo, il Messia, aveva incominciato a diffondersi nell’età di Tiberio, a partire dalla Palestina, prima in Asia Minore e nelle regioni orientali dell’impero, poi in Occidente; prima all’interno delle comunità giudaiche disperse nella Diaspora, poi anche all’esterno di esse, in un movimento di crescente differenziazione dall’ebraismo, dal cui seno era nata. Decisiva fu l’opera di Paolo di Tarso, sia per l’instancabile predicazione per tutto il Mediterraneo, sia per avere fissato il primo nucleo della teologia cristiana. Egli, infatti, intese la nuova religione in senso universalistico, rivolto, cioè, a tutti i “gentili” e non solo ai giudei1. 1 Cittadino romano di famiglia giudaica della tribù di Beniamino (il suo nome ebraico era Sha’ûl), Paolo di Tarso frequentò nella giovinezza la scuola di rabbi Gamaliele il Vecchio a Gerusalemme e fu educato a profonda religiosità nella “setta” dei farisei. Il suo temperamento appassionato ed irruente lo indusse a farsi persecutore del nascente cristianesimo e, secondo quanto si legge in Atti 7, 58, fu presente al martirio di Stefano. Proprio nell’esercizio di questa attività di persecutore della Chiesa, improvvisamente nel 38 ca., sulla via verso Damasco, una esperienza straordinaria (Atti 9,4), che egli interpretò come apparizione del Cristo risorto glorioso, lo indusse alla conversione al cristianesimo, del quale divenne missionario sommo, soprattutto come apostolo dei pagani. L’avvenimento di Damasco fu decisivo nella biografia di Paolo, e segnò definitivamente l’impostazione del suo pensiero e della sua visione del cristianesimo, che egli sviluppò con originalità profonda, al punto da poter essere indicato come il vero creatore. Paolo considerò il suo apostolato come missione sostanzialmente autonoma, ricevuta “non da parte di uomini…ma per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre”(Galati 1,1). Ciò non esclude un confronto con la chiesa- madre, Gerusalemme, e con le sue autorità,Pietro, Giacomo e Giovanni: furono queste, anzi, a riconoscere che l’apostolato di Paolo avrebbe avuto il mondo pagano come proprio terreno (Galati 10 Religione “ soteriologica” (dal greco soteria= salvezza), cioè fondata sull’annuncio e sulla speranza della salvezza individuale, il cristianesimo si sviluppò in un clima culturale caratterizzato da una crescente sfiducia nei confronti dei culti tradizionali dai quali si differenziò per il suo rigido monoteismo, per il carattere storico e non mitologico del suo fondatore Gesù Cristo e soprattutto perché concepiva la salvezza ultraterrena come una prospettiva che informa di sé anche la vita terrena; proprio la passione e il sacrificio del Figlio di Dio fatto uomo esigono dal credente una conversione che comporta l’accettazione dell’insegnamento di Cristo e l’impegno a realizzare il 2,9). Tale riconoscimento avvenne dopo il cosiddetto primo viaggio missionario(Atti 13-14) in cui Paolo da Antiochia, insieme con Barnaba e Marco, si era spinto nell’Asia minore, fondando chiese aperte a cristiani di estrazione pagana(45-48 ca.). L’indipendenza di Paolo si manifestò anche nei confronti di Pietro, cui egli rinfacciava di discriminare tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani (Galati 2, 1114).L’attività missionaria di Paolo proseguì con un secondo viaggio (Atti 15,3618,22) che, muovendo da Gerusalemme, lo portò in Macedonia e quindi in Grecia, con una lunga sosta tra il 50 e il 52. Dopo il ritorno a Gerusalemme, la missione di Paolo proseguì (terzo viaggio missionario, Atti 18, 23-21, 16) con un nuovo passaggio in Asia Minore e una permanenza di tre anni a Efeso, donde probabilmente egli visitò Corinto; è pure probabile che patisse una prigionia ad Efeso. Da Efeso Paolo si recò nuovamente in Macedonia, poi sostò a Corinto donde scrisse ai Romani (tra il 56 e il 58). Tornato a Gerusalemme via mare, venne arrestato dal comandante del presidio romano, trasferito a Cesarea e ivi detenuto per due anni; quindi si appellò al tribunale dell’imperatore e fu inviato a Roma, dove giunse dopo una fortunosa navigazione e un naufragio a Malta. Prosciolto nel 63, si recò forse ancora in Grecia e in Spagna. Secondo l’unanime tradizione antica, morì martire a Roma. Non è possibile tracciare una sintesi della dottrina che Paolo propone nelle sue epistole; vi appaiono i principali temi della riflessione cristiana primitiva, straordinariamente approfonditi e spesso presentati secondo prospettive innovatrici, così che la dottrina paolina merita un richiamo specifico pressoché in ogni voce di una teologia neotestamentaria. Particolarmente originale è la sua cristologia, nella quale il messaggio cristiano primitivo si sviluppa in un fecondo contatto con le concezioni ellenistiche. Emerge in Paolo soprattutto il valore salvifico dell’evento di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione, attorno al quale si unificano i temi più specifici della dottrina:la giustificazione mediante la fede; la scansione della storia della salvezza- col problema del rapporto Antico e Nuovo Testamento, tra Legge e grazia-la quale si sviluppa all’interno di una prospettiva ove Cristo è non solo il mediatore della redenzione, ma il “primogenito” della stessa creazione, il Krios o Signore glorioso, il “nuovo Adamo” e il “capo della chiesa”; la dimensione ecclesiologica della salvezza, e della testimonianza resa a Cristo nella storia; e infine le forme e le norme della vita cristiana ed ecclesiale, che Paolo sviluppa come nessun altro autore del Nuovo Testamento. 11 messaggio d’amore e di fratellanza, i due capisaldi morali e sociali della vita cristiana. La fede in un Dio personale, che ha creato il mondo con un atto volontario e libero e ha inviato il Figlio per la redenzione e la salvezza dell’umanità; la proposta di un impegno di vita caratterizzato dalla pratica attuazione del precetto evangelico dell’amore e della carità; l’affermazione dell’assoluta uguaglianza di tutti gli uomini; infine, la costruzione di una chiesa come comunità dei credenti, unificata dalla partecipazione ai doni divini del battesimo e dell’eucarestia; sono questi i temi con i quali il cristianesimo si propose alla sua epoca, interpretandone i bisogni spirituali, le insicurezze e i turbamenti. Tutte queste esigenze spirituali non potevano essere soddisfatte dai culti politeisti tradizionali. All’interno della sua azione politico- istituzionale volta a garantire l’unità del mondo romano, l’imperatore Augusto aveva promosso anche una riforma religiosa, basata sulla restaurazione degli antichi culti e sulla venerazione del Genius (non della persona) dell’imperatore, il quale assumeva anche la carica di Pontifex maximus. Era questo il primo passo di un processo che avrebbe portato alla sacralizzazione della figura del monarca, posta al centro di una religione fondata sul rispetto di riti, tradizioni e ossequi formali, e soprattutto politica. e)L’evoluzione del cristianesimo L’atteggiamento del potere politico nei confronti delle comunità cristiane rimase tollerante fino a Nerone, il quale addossò ai cristiani la colpa dell’incendio che nel 64 distrusse Roma. In seguito, periodi di tolleranza si alternarono a periodi di repressione fino a tutto il II secolo, finché si giunse alle ultime grandi persecuzioni di Decio nel 250, di Valeriano nel 257-58 e di Diocleziano nel 303. Queste persecuzioni furono organizzate e gestite dallo Stato con il preciso intento di ottenere l’obbedienza religiosa da parte di tutti i sudditi nonché il culto della persona dell’imperatore. Da questa vera e propria guerra di religione il cristianesimo uscì vincitore, soprattutto perché ormai si era radicato in tutte le classi sociali. 12 Infatti, inizialmente la nuova religione si era diffusa presso il popolo minuto delle città, ma ben presto aveva incominciato ad attecchire presso i ceti medio- alti, presso l’aristocrazia romana, l’esercito e la stessa domus imperiale, mentre, dal punto di vista geografico si era propagata dal bacino orientale del Mediterraneo fino alla Gallia e all’Africa. Al tempo stesso si era venuta creando una struttura organizzativa capace di riunire in una Chiesa, secondo l’insegnamento paolino, le comunità religiose originariamente autonome. Queste erano rette dagli anziani o presb_teroi (=preti) coadiuvati dagli epìskopoi (=vescovi), mentre i diàkonoi (=inservienti) si occupavano delle opere di carità e di assistenza. In seguito alle persecuzioni si rese necessario trasformare questa divisione dei compiti in una struttura organizzativa permanente e gerarchica. Si pervenne, così, ad una gerarchia che aveva al suo centro il vescovo, subentrato come organo di direzione spirituale, disciplinare e amministrativa al collegio degli anziani. La base territoriale di questa organizzazione era la città, il cui territorio costituiva la diocesi episcopale; ad un livello superiore stava la diocesi del metropolita, la quale ricalcava la ripartizione in province dello Stato. Al centro, il vescovo di Roma assunse gradatamente, anche se non pacificamente, sempre maggiore dignità. In questo quadro va collocata la “conversione” dello Stato al cristianesimo, simboleggiata dalla conversione personale di Costantino e avviata dall’editto di Milano nel 313, che dava ai cristiani libertà di culto, restituiva loro i beni conquistati e li indennizzava di quanto perduto. Il secolo IV fu, dunque, un periodo di intensa cristianizzazione e quando Teodosio, nel 380, dichiarò il cristianesimo religione ufficiale dello Stato, non fece che sanzionare una realtà già stabilita nei fatti. 13 b) La filosofia giudaico ellenistica a) La dimensione religiosa egli ultimi secoli dell’età antica c) Apologisti cristiani e pagani I.2 Religione e filosofia nel tardo impero f) Da Origene ad Agostino d) La gnosi e il manicheismo e) Neoplatonismo e Patristica 14 I.2-Religione e filosofia nel tardo-impero a)La dimensione religiosa negli ultimi secoli dell’età antica Il profondo mutamento del clima spirituale intervenuto con l’età tardo imperiale è segnalato dal ruolo nuovo assunto dalla religiosità nella vita sociale, culturale e politica. Presso i Greci la religione non assurse mai al rango di autonomo valore culturale; essa costituì un elemento essenziale della paideìa tradizionale, ma fu ben presto superata dalla filosofia nel suo ruolo di indirizzo etico- morale. I Romani si consideravano il popolo più religioso e posero le credenze religiose alla base della propria organizzazione sociale. Essi si mostrarono sempre interessati alle credenze religiose delle altre nazioni, che cercarono di assimilare, accogliendo nel proprio pantheon religioso le divinità dei popoli stranieri sottomessi. Accanto al proliferare di nuovi culti a sfondo salvifico provenienti dall’Oriente, il fenomeno che caratterizzò maggiormente la religione negli ultimi secoli del mondo antico fu il contenuto teologico di tali culti, che da un lato fa appello ad una più viva fede del credente, dall’altro richiama l’intervento della filosofia. Questi mutamenti dell’ethos tradizionale sono evidenziati dalla politica degli imperatori romani, i quali si sforzano di incanalare il sentimento religioso popolare nei quadri istituzionali di una teocrazia, che vede per la prima volta le istituzioni statali impegnate in un intervento diretto nella politica religiosa ed ecclesiastica. Un ruolo di primo piano in questa rinascita religiosa è svolto dall’Oriente. La vicenda della lenta ma vittoriosa penetrazione religiosa del cristianesimo seguirà da vicino lo spostarsi del baricentro politico, economico e culturale dell’Impero romano da Occidente ad Oriente, da Roma a Costantinopoli, ed il sincretismo (ossia la fusione di elementi culturali eterogenei), che è la forma più tipica della mentalità religiosa dell’Oriente, caratterizzerà tutte le forme della cultura tardo antica e la stessa filosofia. b) La filosofia giudaico- ellenistica 15 Una delle prime manifestazioni dell’ondata orientale nel mondo ellenistico è rappresentata dall’espansione dell’ebraismo e dal sorgere della filosofia giudaico- alessandrina. Legati ad un rigido monoteismo e refrattari alle influenze delle culture straniere di volta in volta egemoni sulla Palestina, gli Ebrei difesero per secoli la propria identità linguistica, etnica e religiosa, mostrandosi alieni da ogni sincretismo. Ciononostante, il giudaismo degli ultimi secoli dell’età antica subì l’influsso della cultura ellenistica. Dopo le vittorie di Alessandro, la lingua, la cultura e le istituzioni greche si diffusero ovunque non solo tra gli ebrei della Diaspora (quelli che vivevano al di fuori della Palestina) ma anche in Palestina, governata dopo la morte di Alessandro dai Seleucidi. E’ soprattutto ad Alessandria, culla dell’ellenismo, che l’incontro tra ebraismo e cultura greca produsse i frutti più significativi e proprio ad Alessandria si manifestò anche il tentativo di conciliare la filosofia greca con la teologia ebraica. Questa tendenza è particolarmente evidente nell’opera di Filone d’Alessandria2. c) Apologisti cristiani e pagani 2 Filone visse ad Alessandria d’Egitto fra il 20 ca. a.C. e il 50 ca. d.C. Iniziatore della tradizione esegetica di Alessandria, espose le sue concezioni dottrinali nel Commento allegorico sulle Sante Leggi, dedicato ai capitoli 2 e 3 della Genesi, nei trattati Sul decalogo, Sulle leggi particolari, Sulla migrazione di Abramo, e in numerosi altri commenti biblici. Egli adotta un metodo esegetico fortemente allegorico, che gli permette di interpretare la Bibbia alla luce di convinzioni filosofiche accolte dal platonismo e dal pitagorismo, in una originale sintesi tra fede giudaica e filosofia greca. Combinando elementi tratti dalla Genesi e dal dialogo platonico Timeo, Filone afferma che Dio è incorporeo, unico e creatore del mondo. La creazione è specificamente opera del Logos, e questi è considerato ora come l’espressione dell’attività intellettiva dell’Uno, pienamente coincidente con esso, ora come la prima ipostasi divina distinta dall’Uno, secondo una concezione che troverà pieno sviluppo in Plotino. Il Logos è il luogo delle idee divine, che sono gli archetipi sui quali è modellata la creazione. Al di sotto del Logos si trovano le Potenze (attributi o virtualità divine), per mezzo delle quali Dio agisce sul mondo. L’orientamento allegorico – religioso proprio della filosofia di Filone è riconoscibile anche nella sua antropologia. Distaccandosi dalla tradizionale concezione dualistica greca, egli individua in ciascun uomo tre parti corrispondenti ad altrettanti principi: il principio materiale, il corpo; il principio intellettuale, l’anima o mente; il principio spirituale, lo spirito. Solo quest’ultimo, infuso direttamente da Dio, è immortale. 16 Tra la fine del I secolo e il II d. C. vi fu il primo incontro del cristianesimo con la cultura pagana. In alcuni aspetti della filosofia profana si manifesta la tendenza all’assimilazione di elementi tratti dal cristianesimo con le credenze filosofico- religiose proprie del paganesimo. Viceversa, la coscienza delle rispettive identità religiose di pagani e cristiani sarà frutto della polemica che, verso la metà del II secolo, vede contrapposti da una parte i cosiddetti apologisti cristiani, dall’altra gli esponenti della filosofia medioplatonica ostili alla nuova dottrina, come, ad esempio, Celso. Esponente di questa letteratura apologetica è Giustino 3, autore di due Apologie indirizzate agli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio, nonché di un Dialogo con Trifone, violentemente antiebraico. Al fine di convincere gli imperatori della superiorità spirituale del cristianesimo egli riprende la tesi del “plagio” commesso dai filosofi pagani ai danni della Bibbia. Ciò che di buono si trova nei loro libri, come, ad esempio, l’immortalità dell’anima, la necessità dei castighi dopo la morte, ecc., è stato tratto dai libri di Mosè. Ma accanto a questi argomenti in Giustino è presente anche un motivo molto interessante, secondo cui la convergenza su alcune verità di cristianesimo e filosofia pagana deriverebbe dalla presenza in tutti gli uomini di un identico logos divino, che si è espresso nella sua forma più alta in Cristo, ma che era all’opera già prima della sua venuta. “Quelli che hanno vissuto secondo il Verbo, egli scrive, sono cristiani, anche se furono credenti atei, come, fra i greci, Socrate, Eraclito e altri simili”. Sembra, così, che si apra la strada per un dialogo più maturo tra cristianesimo e filosofia, che verrà sviluppato dalla posteriore patristica. Di poco posteriore a Giustino è il pagano Celso, il cui Discorso vero può essere letto anche come una risposta indiretta all’apologetica ebraica e cristiana. Quest’opera può essere considerata la testimonianza di quell’atteggiamento di estraneità e diffidenza nei confronti del cristianesimo, che dominò la società romana per oltre due secoli. Le accuse che Celso rivolge ai cristiani sono di due tipi: quella di formare una setta segreta ostile all’impero e pericolosa per la sua sopravvivenza; e quella di non professare alcuna novità dottrinale, ma di 3 Nato in Palestina nei primi anni del II secolo e fondatore di una scuola filosofica a Roma, dove subì il martirio verso il 165 d.C. 17 avere mescolato in modo “barbaro” le credenze religiose degli altri popoli e alcune dottrine dei filosofi pagani. Così, la dottrina evangelica dell’amore sarebbe assunta da Platone; l’idea della resurrezione dall’antica dottrina della metempsicosi; molti particolari dell’Antico e Nuovo Testamento sarebbero ispirati da vecchie leggende pagane. In generale, secondo Celso, la figura e l’opera di Gesù, quali emergono dai Vangeli, non sembrano allontanarsi da quelle di uno dei numerosi maghi o stregoni che cercano di ingannare il popolino con i loro trucchi. Sul piano prettamente dottrinale Celso respinge l’idea cristiana di incarnazione. La filosofia platonica, accanto alla trascendenza di Dio, concepisce l’esistenza di demoni intermediari tra Dio e gli uomini; ma l’idea di un Dio che rinuncia alla propria autosufficienza e sublimità per assumere la carne dell’uomo sembra a Celso quanto di più barbaro sia stato prodotto dalla fantasia religiosa degli ebrei e di più estraneo alla mentalità ellenica. In definitiva, con Celso il paganesimo assume la consapevolezza della propria superiorità. d) La gnosi e il manicheismo Il cristianesimo contro cui si rivolgeva Celso non aveva ancora trovato una unità dogmatica e lo si poteva a stento distinguere dall’insieme delle correnti gnostiche, che costituivano uno dei fenomeni religiosi più diffusi nei primi due secoli dell’era cristiana. Fino agli inizi del secolo scorso la gnosi era erroneamente considerata come un’eresia cristiana e conosciuta quasi esclusivamente attraverso le confutazioni lasciate dagli scrittori ortodossi. In realtà si trattò di un movimento molto più vasto che coinvolse anche religioni affini al cristianesimo e alcune correnti del paganesimo. Dal punto di vista etimologico, gnosi, dal greco gnòsis, significa conoscenza e in un contesto religioso è la conoscenza che porta alla salvezza. Ciò ha fatto pensare ad una influenza preponderante sulla gnosi della filosofia ellenistica; in realtà la conoscenza cui si fa riferimento negli scritti gnostici, più che un sapere razionale e controllabile, sta ad indicare un sapere “rivelato” mediante l’ispirazione profetica e garantito da una “tradizione” più o meno antica. 18 Piuttosto che alla evidenza della verità, ci si affida all’autorità di una tradizione. Tra le manifestazioni più interessanti di gnosi pagana vanno annoverati gli Oracoli caldaici e l’ermetismo. I primi sono una raccolta di riti magici ed esoterici, formatasi all’epoca di Marco Aurelio e attribuita a Giuliano il Teurgo detto il Caldeo. Essi testimoniano la crescente diffusione dell’astrologia babilonese e della magia, che coincise con un generale aumento del fatalismo nel mondo occidentale. Se gli oracoli caldaici si rifanno alla religione babilonese, un’altra importante raccolta di scritti, il Corpus hermeticum, si rifà alle antiche tradizioni religiose dell’Egitto. L’ermetismo conobbe una straordinaria fortuna sia nell’antichità sia nel Medio Evo e nel Rinascimento. Bisogna distinguere un ermetismo popolare , riguardante soprattutto l’astrologia, la magia e le scienze occulte, da un ermetismo dotto o filosofico, i cui scritti contengono la rivelazione di Ermete Trimegisto (=tre volte grande), un personaggio leggendario che si vuole identificare con Toth, il dio egizio inventore della scrittura ed accompagnatore delle anime nel viaggio dopo la morte. L’ermetismo introduce nella filosofia occidentale l’idea di una filosofia sacra, in cui si incontrano tutte le principali forme di gnosi filosofica e religiosa. La gnosi cristiana o gnosticismo è rappresentata da autori del I e II secolo d.C. che i Padri della Chiesa considerano eretici. I tratti distintivi del pensiero gnostico sono: il netto dualismo di anima e corpo o spirito e materia, rispettivamente identificati come bene e male; l’acosmismo, cioè la negazione o il rifiuto del mondo, che non è considerato opera di Dio ma creazione di un demiurgo inferiore a Dio, autore della materia che è causa del male; l’atteggiamento “pneumatico”, ossia spirituale, cioè la tendenza a considerare la salvezza come frutto di un atto di conoscenza e di ispirazione mistica, anziché della fede in Cristo; il rigetto dell’incarnazione e la tendenza a ritenere Gesù un essere divino o un angelo, dotato solo di un corpo apparente ed erroneamente ritenuto un uomo in carne ed ossa; infine, l’ostilità nei confronti dell’Antico Testamento e dell’ebraismo. Queste tendenze gnostiche costituirono una minaccia per l’unità dogmatica del cristianesimo poiché l’elemento dottrinale centrale, cioè la 19 fede in Cristo inteso come evento storico irripetibile, tendeva a sfumare in una vaga atmosfera esoterica e mistica. Affine per contenuto allo gnosticismo ma da esso distinto è il manicheismo, fondato dal profeta Mani nel III secolo d.C. Il suo nucleo dottrinale è dato dalla contrapposizione fra due principi o nature concepiti come realtà positive: il bene o luce e il male o tenebre. Originariamente distinti, bene e male sono ora in una fase intermedia di conflitto e di reciproca compenetrazione. In ogni cosa e persona si trovano entrambi i principi e la loro tensione è destinata a durare fino all’avvento di un terzo momento, che vedrà una nuova separazione dei due principi e il trionfo della luce. Sul piano dei comportamenti e delle pratiche religiose questo dualismo conduceva al rigetto, da parte dell’individuo, della sua parte demoniaca, rigetto reso possibile soprattutto dalla conoscenza vera dell’universo, della natura e di Dio. In nome di questa gnosi i manichei si opponevano alle Scritture dell’Antico Testamento, considerate false e contraddittorie. A ciò si connetteva, almeno per gli eletti, un codice di comportamento che prevedeva il rifiuto radicale del corpo e della sessualità, il rigido ascetismo e vegetarianesimo, l’aspirazione ad una liberazione definitiva dello spirito dalla materia, la fede nel trionfo finale del bene sul male. e) Neoplatonismo e patristica A partire dal III secolo d. C. per il cristianesimo ed il paganesimo si delinea una tendenza culturale che si concretizza nella nascita di una vera e propria filosofia religiosa. 4 rappresenta per il Da questo punto di vista il neoplatonismo paganesimo ciò che la patristica è stata per il cristianesimo, cioè la prima delineazione di una dottrina filosofica ispirata ai dogmi della fede religiosa. I temi essenziali del neoplatonismo sono: il superamento del dualismo di spirito e materia, con la conseguente riduzione di quest’ultima a non essere o privazione; la definizione della trascendenza divina, con la netta distinzione dell’Uno dall’essere, e l’esplicazione dei rapporti tra Dio e il mondo nei termini di una derivazione necessaria del secondo dal primo; la centralità assunta dalla nozione di anima; infine, la rivalutazione dell’intuizione mistica, concepita non come una forma inferiore, di 4 Fondato da Ammonio Sacca e da Plotino tra la fine del II e i primi del III secolo, conoscerà importanti sviluppi fino agli inizi del IV 20 natura sentimentale e irrazionale, ma come coronamento dell’atto razionale intellettivo. Questi elementi si ritrovano in tutte le forme di neoplatonismo che testimoniano della originalità e persistenza dell’ultima grande espressione originale del pensiero antico. La fusione di neoplatonismo e pensiero religioso cristiano, realizzatasi a partire dalla scuola teologica di Alessandria, eserciterà anch’essa un influsso duraturo sul pensiero posteriore. In realtà, nella patristica cristiana si possono individuare due tendenze opposte: la prima, o patristica latina, tendenzialmente ostile alla filosofia e tesa ad affermare la supremazia del cristianesimo sul paganesimo; la seconda, o patristica greca, favorevole all’uso della ragione e degli strumenti della filosofia per convalidare i dati della fede. f) Da Origene ad Agostino Il problema che impegnò maggiormente i Padri della Chiesa fra III e IV secolo fu quello trinitario, vale a dire quello della natura e dei rapporti intercorrenti fra le tre Persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. In una lunga fase si incrociarono e si mescolarono diverse tendenze, come l’adozionismo, che vedeva in Cristo un uomo divinamente ispirato e solo in un secondo tempo assunto dal Padre alla divinità; il docetismo, che negava la natura umana di Cristo e considerava fittizia la passione e il sacrificio; il modalismo, che concepiva le tre Persone come modi di essere di un’unica divinità; il subordinazionismo, che affermava la distinzione fra le Persone e un rapporto gerarchico fra esse. Questa posizione si ritrova in Origene, il quale vedeva nella Trinità tre Persone legate da rapporti di reciproca generazione, e quindi consustanziali, distinte in base alle funzioni subordinate da esse svolte. Infine, Ario riprese da Origene il concetto della distinzione delle Persone ma, concependo la generazione come vera e propria “produzione” di una nuova realtà, finì per depotenziare il carattere divino della natura del Figlio, subordinato al Padre, prima creatura di Dio, ma non Dio egli stesso. La controversia trinitaria proseguì lungo tutto il IV secolo. I difensori dell’ortodossia furono gli autori della Nuova scuola alessandrina del IV secolo, che compongono il gruppo dei Padri cappadoci, ossia Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. 21 Il loro contributo alla lotta antiariana, ripresa anche dopo la condanna di Ario al concilio di Nicea, sarà fondamentale per la precisa formulazione del dogma. La loro dottrina cristologia e trinitaria si rifà ad Origene nell’intento di mostrare la superiorità delle concezioni ortodosse su quelle ereticali. Così Basilio dimostra che le tre ipostasi (Persone) non intaccano l’unità della natura divina e Gregorio di Nazianzo spiega che Cristo ha avuto il corpo (soma), l’anima (psychè) e l’intelligenza (nous) per potere operare la redenzione dell’uomo nella sua interezza. L’intreccio di elementi filosofici e religiosi fin qui delineato trova in Agostino di Ippona, vescovo di Tagaste (354-430), una sintesi destinata a costituire il momento conclusivo del pensiero antico per proporsi come eredità fondamentale per il pensiero medioevale. 22 II.1 Il contesto storico II.2 Cultura e filosofia nell’età medioevale II La filosofia nell’epoca medioevale II.4 Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo II.3 Il pensiero filosofico e teologico da Boezio ad Anselmo d’Aosta 23 a) I fondamenti della società feudale II.1 Il contesto storico b) La società urbana e i nuovi ceti c) La crisi del XIV secolo e il tramonto del Medio Evo II. La filosofia nell’epoca medioevale II.1- Il contesto storico 24 a)I fondamenti della società feudale Dopo la fine dell’impero romano d’ Occidente i popoli che per secoli avevano partecipato della civiltà greco- romana, intrapresero strade diverse e quel mare che per secoli era stato al centro di una civiltà unitaria si trovò diviso: da una parte l’impero bizantino accentuava il suo carattere orientale, mentre ad Occidente le diverse popolazioni barbariche davano vita a regni spesso in lotta fra loro. In questa situazione una sola istituzione riusciva a funzionare come punto di riferimento per tutti: la Chiesa. Essa si orientava come erede dell’Impero e, nello sfascio completo dello Stato romano, faceva valere la sua autorità sul piano politico e su quello religioso. Spesso vescovi e papi assumevano le funzioni che erano state dei governatori romani; l’opera di evangelizzazione della Chiesa di Roma, fondata sulla forza del monachesimo, si estendeva sempre più, imponendosi anche contro le eresie che avevano trovato molti seguaci fra le popolazioni germaniche. L’Occidente diventava cristiano, ricostruendo una unità religiosa e culturale che diveniva sempre più anche unità politica. Intanto in Oriente nel 622 un uomo di nome Muhammad, conosciuto in Occidente con il nome di Maometto, profeta di una nuova religione monoteista, abbandonava con i suoi seguaci la città della Mecca per sottrarsi all’ostilità delle tribù arabe pagane e avere maggiore libertà per diffondere il nuovo culto. Nel suo nome gli arabi conquistarono ben presto un impero che si estendeva dall’oceano Atlantico alla valle dell’Indo. Cessava, così, definitivamente l’unità del mar Mediterraneo e l’Europa cristiana spostava verso nord il proprio baricentro politico. Fra le popolazioni germaniche ,i franchi, stabilitisi nella Gallia a nord delle Alpi, avevano aumentato la loro forza sotto la guida dei carolingi, i quali strinsero con il papa un patto di alleanza mediante il quale, fra l’altro, veniva riconosciuta l’autorità politica del pontefice sul territorio intorno a Roma. Nasceva, così, il potere temporale del papa sanzionato nell’800 dall’incoronazione di Carlo Magno, con il titolo di imperatore romano, per mano del pontefice. Nel gesto del papa che incoronava l’imperatore era racchiuso emblematicamente il vincolo reciproco di dipendenza, che avrebbe caratterizzato i due poteri nel corso del Medio Evo: la Chiesa si faceva 25 garante del potere imperiale e in cambio riceveva prestigio e riconoscimento della propria autorità religiosa. L’impero di Carlo Magno era, però, molto diverso da quello romano. Innanzi tutto non era più fondato sul Mediterraneo ma aveva il suo baricentro nell’Europa continentale; il crollo demografico aveva dimezzato la popolazione che dai trentacinque/ quaranta milioni del II secolo era scesa a venti nel VII; abbandonate le città, i pochi abitanti vivevano concentrati in gruppi isolati, privi di reciproche comunicazioni; la grande proprietà terriera fondata sul lavoro degli schiavi, che era stata il perno dell’economia romana, aveva lasciato il posto ad un sistema di piccoli poderi detti mansi affidato a lavoratori dipendenti che spesso erano schiavi liberati. Al signore andava una quota del raccolto oltre a prestazioni di lavoro gratuito (corvées) sulle terre da lui controllate (pars dominica). Inoltre, pur essendo molto meno esteso di quello romano, l’impero carolingio non disponeva della stessa organizzazione accentrata. Il sovrano esercitava un potere personale sui suoi sudditi e da essi riceveva un giuramento di fedeltà che veniva rispettato per opera di alcuni funzionari detti missi dominici. In questo periodo si pongono le basi della società feudale: ciascuno è “uomo di un altro uomo”; ciascuno ha giurato fedeltà verso qualcuno da cui si aspetta di ottenere protezione. Il feudo, concesso in usufrutto dal signore al vassallo, è base economica e simbolo politico di questa organizzazione sociale. Questo sistema, però, non si dimostrò adatto a mantenere l’unità politica dell’impero carolingio, anzi segnò profondamente i rapporti sociali nell’Occidente medioevale. b)La società urbana e i nuovi ceti Nell’XI secolo ha inizio in Europa un processo di sviluppo economico che si concluderà nel XIV secolo. Migliorano le condizioni di vita della gente, si afferma l’esperienza comunale, la rinnovata forza economica e politica consente all’Occidente di riaffacciarsi dopo secoli sul Mediterraneo, mentre, nel campo dell’arte si assiste alla straordinaria fioritura dell’architettura e delle arti figurative,e, contemporaneamente, nascono le nuove letterature in lingua volgare. Fra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo progressivamente cessarono in Europa le incursioni straniere determinando nelle popolazioni uno stato di tranquillità con crescente incremento demografico. 26 L’aumento della popolazione provocò un forte aumento della produzione agricola, dando luogo ad una eccedenza di beni che costituì la condizione indispensabile perché potesse svilupparsi il commercio. Con la ripresa economica, avvenuta a partire dal Mille, si riattivò la sfera mercantile e monetaria, e si ricostituirono i luoghi di scambio, le fiere e i mercati. Nella società composta da nobili, chierici e contadini, la nuova classe dei mercanti non aveva inizialmente una collocazione ben precisa ma ben presto le città cominciarono gradualmente a sottrarsi ai vincoli feudali fino al sorgere dei Comuni con autonome forme giuridicoamministrative. c)La crisi del XIV secolo e il tramonto del Medio Evo A tale periodo di sviluppo seguì nei primi decenni del XIV secolo una forte crisi. La mancanza di nuove terre da dissodare e l’impoverimento di quelle coltivate, sottoposte ad uno sfruttamento intensivo, provocarono ben presto uno squilibrio fra le disponibilità alimentari e le esigenze di una popolazione in continuo aumento. La crisi si annunciò con una serie di eccezionali carestie che provocarono aumento dei prezzi, fuga dalle campagne e inurbamento massiccio. Insieme al settore agricolo, la crisi ben presto investì anche quello artigianale, manifatturiero ed edilizio, come testimoniano le numerose cattedrali rimaste incomplete in varie città d’Europa. Ad aggravare la situazione nel 1348 si abbatté una epidemia di peste di eccezionale gravità, che uccise un terzo della popolazione europea. Ben presto la scarsità di cibo e la polarizzazione delle ricchezze trasformarono la crisi economica in crisi sociale e in varie regioni d’Europa scoppiarono violente rivolte contadine che si intrecciarono con analoghe sommosse nelle città. Contemporaneamente, cambiamenti avvenivano anche nell’ambito politico e religioso, che portarono al declino del sogno di un Occidente cristiano unito sotto la guida dei suoi sovrani universali. Fallito il progetto di una restaurazione imperiale, anche il papato dovette rinunciare alle proprie pretese universalistiche. Costretto nel 1305 a trasferire la sua sede ad Avignone, il papato restò per più di settanta anni sotto il controllo della corona di Francia5, perdendo, naturalmente, ogni suo prestigio. 5 Questo periodo di esilio è meglio conosciuto con il nome di “cattività avignonese” 27 Negli anni successivi personaggi diversi si contesero il titolo di papa, provocando lo “scisma d’Occidente”. Mentre si consumava la crisi delle grandi istituzioni universalistiche, cominciavano ad affermarsi alcuni regni che, da patrimonio personale dei singoli sovrani, si andavano trasformando in strutture politiche capaci di mettere fine alle rivalità feudali. Queste monarchie anticipano i futuri stati nazionali ma in esse manca ancora una precisa definizione territoriale, un sentimento di appartenenza alla medesima nazione, un potere centrale forte e riconosciuto. Allorquando questi elementi si saranno affermati, nasceranno gli Stati moderni. E’ quanto avverrà, ad esempio, in Inghilterra, in Francia o in Spagna ma non in Italia, dove resteranno molto forti l’autonomia e il particolarismo delle città. Con il tramonto del Medio Evo, la res publica christiana lascia il posto all’Europa delle nazioni, aprendo un nuovo capitolo della storia dell’Occidente. b) Diffusione e laicizzazione della cultura 28 a) Clericus e laicus II.2 Cultura e filosofia nell’età medioevale e) Periodi e problemi della filosofia medioevale d) La filosofia medioevale II.2- Cultura e filosofia come nell’età medioevale filosofia scolastica a) Clericus e laicus c) Il ruolo culturale dell’Islam e dell’ebraismo 29 Nell’alto Medio Evo nessuno era in grado di leggere un testo greco e perfino il latino e la conoscenza della scrittura erano limitati ad una ristretta cerchia di uomini di chiesa. Così clericus divenne sinonimo di alfabetizzato e laicus di analfabeta. Analfabeta era tutta la società altomedioevale per cui la parola scritta andò sempre più perdendo importanza. Di conseguenza, i contratti di vendita, gli atti testamentari e perfino i patti di alleanza furono affidati più alla memoria dei testimoni che non ad un documento scritto che risultava indecifrabile ai contraenti. Nell’alto Medio evo la cultura era, dunque, nelle mani della Chiesa. b) Diffusione e laicizzazione della cultura Questa coincidenza fra chierico e intellettuale sopravvisse anche nel basso Medio Evo; tuttavia, a seguito dello sviluppo della società urbana e della comparsa di nuovi ceti sociali si allargò l’ambito dell’alfabetizzazione e la Chiesa perse il monopolio della cultura scritta. Contemporaneamente, questa cessò di identificarsi esclusivamente con il latino e andarono sempre più affermandosi le lingue volgari, mentre i nuovi ceti cittadini cominciarono a considerare l’istruzione uno strumento di promozione e di prestigio sociale. La cultura altomedioevale aveva il suo centro nel monastero ma a partire dal XII secolo nelle città si moltiplicarono le scuole e, per quanto l’insegnamento rimanesse affidato ai clerici, la componente laica fra gli studenti andò aumentando. Il concilio Laterano del 1179 stabilì che ogni cattedrale avesse una scuola, segno che la richiesta di istruzione andava aumentando sempre più. L’aumento delle scuole comportò l’aumento degli insegnanti e così fra le altre professioni nacque anche quella dei maestri, i veri intellettuali dell’età medioevale, riuniti in una corporazione, le università, che godevano di privilegi, di autonomia giuridica, di un proprio statuto interno. Ora, la società urbana, mentre aprì la strada ad un professionismo della cultura, favorì anche la partecipazione degli intellettuali ai diversi aspetti della vita cittadina, soprattutto all’attività politica. L’intellettuale di questo periodo esprime i sentimenti di una società dinamica che vuole allargare i confini del suo mondo, mentre il vecchio modello feudale appare sempre più inadeguato a dare risposte alle nuove esigenze sociali e politiche. 30 c) Il ruolo culturale dell’Islam e dell’ebraismo Una delineazione dei caratteri fondamentali della cultura medioevale non può ignorare i musulmani e gli ebrei, cioè i seguaci di due religioni estranee alla cultura cristiana medioevale eppure tanto importanti per essa. Fra il mondo cristiano e l’Islam non vi furono mai barriere impenetrabili. La frontiera che li separava veniva varcata da pellegrini e mercanti e vi furono contatti e scambi che si intensificarono nel basso Medio Evo, proprio quando la forza economica e politica dell’Occidente rendeva possibile la grande avventura delle crociate. Sul piano culturale il flusso di quegli scambi fu a senso unico, in quanto la civiltà islamica, abbastanza evoluta, aveva poco da imparare dall’Europa, definita “barbara e infedele”. Quando nei secoli VII ed VIII la loro presenza si estese dalle coste atlantiche del Maghreb alla valle dell’Indo, gli arabi accentuarono il loro ruolo di mediatori. Così, insieme alle sete e alle spezie dell’Oriente, insieme all’oro e agli schiavi dell’Africa, arrivarono nella Spagna e nella Sicilia musulmana, per poi estendersi all’Europa cristiana, i tesori della cultura araba. Grazie alla cultura arabo-islamica fu conservata la tradizione filosofica e scientifica del mondo antico, che era andata in gran parte perduta in seguito al crollo dell’impero d’Occidente. Questa tradizione era stata acquisita dagli arabi all’epoca della loro conquista dei territori bizantini nel Mediterraneo orientale e da lì era approdata in Europa attraverso traduzioni dal greco al siriaco e all’arabo e quindi al latino, passando attraverso la mediazione dell’ebraico. Così, a partire dall’XI secolo a Oxford, Parigi, Firenze e Salerno fu possibile leggere le opere di Aristotele, Platone, Galeno, Tolomeo, Euclide. In Sicilia e in Spagna vennero tradotte in latino le opere di Al-Kindi, Avicenna, Al-Ghazali, oltre agli Analitici posteriori, alla Fisica e al De coelo di Aristotele, nonché l’Almagesto di Tolomeo. Lo studio di questi testi venne approfondito nelle università, dove si discuteva del rapporto fra scienza e fede, fra filosofia e teologia. Così,mentre la separazione fra cristianesimo e Islam rimaneva rigida sul piano politico e religioso, su quello della filosofia i confini erano tenui. 31 Nella traduzione delle opere dall’arabo al latino spesso era necessaria la mediazione della lingua ebraica, in quanto gli ebrei conoscevano sia l’arabo che il latino. Essi, quindi, possono essere considerati i mediatori fra Occidente ed Oriente, fra cristianità ed Islam. Provenienti dalla Palestina, da dove erano stati allontanati in seguito alla durissima repressione romana culminata con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., gli ebrei erano riuniti in comunità presenti in varie regioni del Mediterraneo occidentale. Con il passare del tempo, queste comunità si trovarono tanto nell’area di dominazione islamica, quanto in quella cristiana; però la loro situazione fu diversa. Infatti, nel mondo classico, per quanto emarginati, gli ebrei nel Medio Evo non furono oggetto di particolare ostilità, mentre, invece, per il cristianesimo essi rappresentarono sempre dei nemici pericolosi. Indicati come colpevoli della morte di Cristo, gli ebrei del Medio Evo vissero in una condizione di precarietà che poteva facilmente degenerare in persecuzione, come avvenne all’epoca delle crociate. In questa situazione una filosofia ebraica ebbe ben poche possibilità di sviluppo nell’Europa cristiana, mentre fiorì nei paesi islamici, dei quali adottò, generalmente, la lingua. Nonostante la loro marginalità, la presenza degli ebrei nelle terre cristiane offre un contributo prezioso allo sviluppo della cultura, garantendo una possibilità d’incontro fra lingue e tradizioni di pensiero diverse. d) La filosofia medioevale come filosofia scolastica Il termine “scolastica” è usato come sinonimo di filosofia medioevale e per gli umanisti aveva un valore spregiativo in quanto “scolastici” erano considerati quei filosofi che si perdevano in sottigliezze dialettiche. In realtà, doctores scolastici erano nel Medio Evo coloro i quali, nelle scuole dei conventi e delle cattedrali, insegnavano non solo la filosofia e la teologia, ma anche le cosiddette arti liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica). In ogni caso, per “scolastica” si deve intendere la filosofia insegnata nelle scuole, secondo un preciso metodo didattico in grado di garantire la trasmissione di una tradizione di pensiero. 32 Nel linguaggio medioevale auctoritas era garanzia di verità e quindi eminentissima auctoritas erano i libri dell’Antico e Nuovo Testamento;però, l’area delle auctoritates si estendeva a tutta la tradizione ecclesiastica (Ecclesiae auctoritas) e infine a tutte le opere che contenevano elementi della rivelazione divina. Da parte sua,l’auctor era il depositario dell’auctoritas. Di conseguenza, legere auctorem era il punto di partenza del metodo scolastico, il primo atto del maestro di filosofia che compiva la sua lectio davanti ai discepoli, invitandoli, prima di tutto, ad imprimersi nella memoria la lettera del testo e quindi a ripensarla personalmente (meditatio). A questi due gradini, lectio e meditatio, se ne aggiunse, con lo sviluppo della scolastica, nel XII-XIII secolo, un terzo, la quaestio, cioè la ricerca di una comprensione profonda del testo studiato, che avveniva nel modo seguente: davanti al maestro compariva un interlocutore che cominciava a ponere quaestiones, avanzando obiezioni sulle proposizioni dell’autore. Successivamente (quindi dopo la lectio e le quaestiones), gli studenti si esercitavano nell’uso dell’arte dialettica. Era questo il momento della disputatio, in cui gli “apprendisti maestri” si confrontavano fra loro sotto lo sguardo imparziale del maestro, e prendevano il nome di opponens e di respondens. Lectio, quaestio e disputatio sono, quindi, i momenti fondamentali dello studio che si effettuava nelle scuole filosofiche del XIII secolo. Le dispute più interessanti si svolgevano nelle facoltà di teologia ed erano di due tipi: disputationes ordinariae e disputationes generales, de quodlibet. Nel primo caso era il maestro che proponeva e risolveva questioni tecniche, in diretto rapporto con l’insegnamento; nel secondo erano gli assistenti che proponevano le questioni al maestro. Le dispute quodlibetali erano le più significative e si svolgevano due volte l’anno nel periodo antecedente la Pasqua ed il Natale. Vi si affrontavano argomenti vari che andavano dalla teologia alla filosofia, dalla morale al diritto canonico fino ai temi scottanti del giorno. In una prima seduta, la disputatio vera e propria, la schermaglia avveniva tra uno o più obiettanti e un rispondente, mentre il maestro interveniva soltanto per correggere o completare l’esposizione del rispondente. 33 Durante la seduta successiva o determinatio entrava in campo il maestro, il quale riprendeva le questioni, riassumeva e ordinava obiezioni e risposte fin lì avanzate, per proporre, infine, la propria soluzione definitiva, detta determinatio magistralis, che cominciava con le parole respondeo dicendum. In questo modo il maestro definiva il proprio Quodlibet (il complesso delle questioni determinate in una delle due date di Pasqua e Natale), che veniva successivamente pubblicato. Ma com’era costituita la biblioteca del Medio Evo? Occorre premettere che all’epoca pochi leggevano il greco, per cui occorreva fare ricorso alle traduzioni latine. L’attività di traduzione condizionò in maniera determinante la conoscenza di Aristotele, del quale nella seconda metà del XII secolo si possedeva soltanto tutto l’ Organon nella traduzione di Boezio e Mario Vittorino (logica vetus) e nella versione più recente ed integrale di Giacomo da Verona e Gerardo da Cremona (logica nova). I grandi trattati dello Stagirita, sconosciuti nell’alto Medio Evo, saranno resi noti soltanto nei secoli XII e XIII attraverso le versioni arabo- latine e greco- latine. Di Platone si leggeva soltanto il Timeo nella traduzione di Cicerone e nel commento di Calcidio; mentre soltanto nel XII secolo iniziarono a circolare alcune copie del Fedone e del Menone, tradotte in Sicilia da Enrico Aristippo. Solo nel secolo successivo Guglielmo di Moerbeke rese disponibili i commenti di Proclo al Timeo ed al Parmenide. Degli autori latini si conoscevano soltanto alcune opere o frammenti di Cicerone e Seneca, mentre quasi del tutto ignorato fu Lucrezio. Fra i Padri della Chiesa, detti sancti in opposizione ai semplici philosophi pagani, il primo posto spettava ad Agostino seguito da Origene, Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa, Lattanzio, san Gerolamo e sant’Ambrogio. Di particolare interesse furono in età carolingia gli scritti di Dionigi l’Areopagita e di Massimo il Confessore. Una collocazione particolare occupavano gli scritti degli autori arabi ed ebrei che contribuirono in maniera decisiva allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico. e) Periodi e problemi della filosofia medioevale 34 Esaminiamo, adesso, il rapporto intercorrente fra cristianesimo e cultura pagana, un rapporto conflittuale che si consumò contemporaneamente al crollo della società antica. Gli dei che avevano reso grande la società pagana erano tramontati con l’Impero romano e la nuova religione si era ben presto trovata padrona del campo. Si trattava, però, di una Chiesa molto giovane, ancora impegnata a definire la propria fisionomia e preoccupata tanto a difendersi da ogni influenza estranea, quanto a fondare una propria tradizione appropriandosi del pensiero antico e adattandolo al proprio modello. A riprova di ciò è sufficiente riportare le parole di Agostino, il quale così scriveva: “Non solo non dobbiamo temere ciò che hanno detto i filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti sono veri e congeniali alla nostra fede, ma dobbiamo rivendicarli da loro come da ingiusti possessori”. Riletti alla luce della religione, i testi degli antichi entrarono a far parte della filosofia medioevale ma molti di essi andarono perduti e per secoli l’Occidente li conobbe soltanto attraverso sintesi enciclopediche e commenti redatti dagli studiosi della tarda antichità che li avevano letti. Una prima inversione di tendenza rispetto a questa situazione si ebbe quando il Sacro Romano Impero, fondato da Carlo Magno, ricostituì l’unità politica dell’Europa occidentale. L’imperatore chiamò presso di sé i migliori ingegni del tempo e in particolare Alcuino di York, il quale organizzò la cosiddetta Scuola palatina, dove si avvicendarono almeno tre generazioni di intellettuali, che diedero vita alla “rinascenza carolingia”. La vera grande rinascita culturale, però, doveva ancora attendere un paio di secoli e sarebbe avvenuta sulla spinta della ripresa economica che segnò l’anno mille. Con il XII secolo si sviluppò un nuovo interesse per il sapere, mentre si andò sempre più diffondendo la convinzione che non tutto fosse stato detto ma che la scienza potesse ancora progredire. Con la ripresa degli studi si riaprì la disputa fra cultura filosofica e rivelazione religiosa: da una parte i cosiddetti dialettici, i quali affermavano la validità delle dimostrazioni razionali applicabili anche ai problemi della teologia cristiana, dall’altra gli antidialettici, secondo i quali il potere profano non poteva limitare il primato della fede. In altre parole, il problema è quello intercorrente fra fede e ragione, fra credere e intelligere, un problema che sarà specifico di tutta la speculazione medioevale. 35 Nella disputa fra filosofia e religione, fra ragione e fede, influì non solo l’opera degli antichi maestri, Platone e Aristotele, ma anche il parere dei commentatori musulmani che l’avevano trasmessa in Occidente come il persiano Avicenna, vissuto fra il 980 e il 1037, e l’arabo Averroè (1126-1198). Soprattutto il secondo fu l’ispiratore di un indirizzo filosofico, detto “averroismo”, che fece numerosi proseliti. Accogliendo letteralmente le tesi aristoteliche, gli averroisti sostenevano l’eternità della materia e del mondo e risolvevano la contraddizione che ciò comportava con il concetto di creazione, suggerendo l’esistenza di una doppia verità differentemente valida per l’ambito della fede e per quello della ragione. Le tesi averroiste, sostenute nell’università di Parigi da Sigieri di Brabante suscitarono varie reazioni, fra cui l’opposizione del ministro generale dell’Ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio, il quale sosteneva la svalutazione del pensiero filosofico, indicando nella teologia l’unica scienza a cui tutte le altre dovevano essere ricondotte. I tempi, però, andavano cambiando e non si poteva più sostenere la totale chiusura nei confronti del sapere profano; la società si andava sempre più laicizzando e gli intellettuali si rendevano conto del fatto che la cultura religiosa avrebbe potuto conservare il proprio prestigio soltanto se si fosse dimostrata capace di accogliere i prodotti della tradizione filosofica. A questo obiettivo si dedicò il domenicano Tommaso d’ Aquino (1221-1274) abbandonando l’impostazione agostiniana, che voleva recuperare al cristianesimo il pensiero platonico e neoplatonico, e rivolgendosi ad Aristotele. Con Tommaso la teologia assume il carattere di una scienza che ha i suoi fondamenti nella Rivelazione e, quindi, nella mente divina. Anche la filosofia, però, gode di un suo autonomo statuto scientifico; essa è garantita dalla ragione umana creata da Dio perché possa accedere alla verità. Così la filosofia aristotelica, massimo prodotto della ragione naturale, se pure non può farci giungere alla conoscenza di Dio, può, tuttavia, condurci fino alle soglie della Rivelazione. Il pensiero di Tommaso, sostenuto dal potente Ordine domenicano, fu egemone nella scolastica del tardo Medio Evo; tuttavia fu contrastato dai francescani fedeli all’impostazione del loro generale Bonaventura. Soprattutto nell’università di Oxford, dove essi erano molto influenti, si sviluppò una scuola di pensiero che ribadiva l’importanza della 36 ragione sia per la chiarificazione dei dogmi di fede, sia per la dimostrazione della loro credibilità. I maestri di Oxford, che in questo modo stabilivano la completa indipendenza della fede dalla ragione, però, sostenevano che anche quest’ultima avesse un ambito dove sviluppare autonomamente la propria ricerca. In altre parole, se la teologia non può essere considerata come una scienza empirica, sottoposta alle verifiche del procedimento logico e razionale, anche le scienze devono essere svincolate dalla teologia, libere di indagare nei propri ambiti con gli strumenti che posseggono. A quanto detto fin qui occorre aggiungere la comune periodizzazione della filosofia medioevale. In essa si è soliti distinguere tre fasi principali, che corrispondono quasi al ciclo di evoluzione naturale della civiltà del Medio Evo. Si parla, così, di una primavera della filosofia scolastica, che va dalla rinascenza carolingia al secolo XI, di una estate o età d’oro, secoli XIIXIII, e del suo autunno, che va dal secolo XIV ai primi del XV. a) Fede e ragione c) Dionigi l’Areopagita e Giovanni Scoto Eriugena 37 II.3- Il pensiero filosofico e teologico da Boezio ad Anselmo d’Aosta a) Fede e ragione 38 La filosofia cristiana è caratterizzata dal problema intercorrente fra fede e ragione o, per meglio dire, fra rivelazione e dialettica. Questo prevalente orientamento “teologico” della indagine filosofica non è esclusivo del Medio evo cristiano ma accomuna le tre maggiori tradizioni religiose del mondo occidentale, ebraismo, cristianesimo e islamismo, le quali hanno attribuito alla filosofia il ruolo di ancella della teologia. Il grado di asservimento è stato diverso a seconda dei periodi storici e delle differenti tradizioni religiose ma in generale si può affermare che alle indagini filosofiche non fosse consentito oltrepassare i limiti dei presupposti religiosi. Tuttavia, occorre ricordare che per l’uomo del Medio Evo e, quindi, anche per il filosofo, il cristianesimo non è soltanto una religione o una posizione culturale; esso, piuttosto, è un’atmosfera vitale che pervade tutte le manifestazioni sociali, culturali ed artistiche del tempo. Posto di fronte alle ragioni della sua fede, egli si chiederà non tanto se quella fede sia vera, quanto come sia possibile tradurre le “evidenze vissute” della fede nei termini comprensibili della logica e del linguaggio. Interrogato sul valore della Rivelazione e delle Sacre Scritture, che stanno alla base della fede, non si domanderà se tale rivelazione costituisca un presupposto accettabile oppure un ostacolo per il libero esercizio del proprio giudizio, ma come sia possibile dimostrare la superiorità razionale di tale rivelazione. Con l’emergere, a partire dal XII secolo, di una più complessa figura di intellettuale, non più solo teologo e chierico ma detentore di un sapere magistrale tecnicamente e filosoficamente elaborato, il problema dei rapporti fra rivelazione e dialettica verrà risolto entro i rispettivi ambiti disciplinari della teologia e della filosofia, finalmente riconosciute nella loro autonomia relativa e necessaria collaborazione. Esso verrà, inoltre, concepito in una gamma così varia di sfumature e soluzioni, che si possono cogliere solo all’interno dell’esame specifico delle diverse scuole e tradizioni. b) Boezio e la tarda patristica 39 Tra gli autori della tarda patristica Boezio è probabilmente colui nei cui confronti la cultura medioevale ha contratto il debito maggiore6. La sua opera di traduzione e commento dei principali scritti di logica di Aristotele è rimasta per secoli la fonte principale per la conoscenza del pensiero dello Stagirita nell’Occidente latino. I suoi trattati di aritmetica, geometria e musica saranno nel Medio Evo alla base dell’insegnamento delle materie del quadrivio. Anche i suoi scritti teologici ebbero grande fortuna, in particolare il trattato sulla Trinità, commentato anche da Tommaso d’Aquino. La sua fama maggiore è legata ad un’opera personalissima, composta in carcere nell’ultimo anno di vita, il celebre De consolatione philosophiae, destinato a rimanere un classico della letteratura europea di tutti i tempi. In esso l’eredità culturale della Grecia (Platone, Aristotele, lo stoicismo) e di Roma (Cicerone) si incontra, fondendosi, con la nuova spiritualità cristiana (Agostino), mostrandoci il suo autore come l’ultimo degli antichi e il primo rappresentante del Medio Evo. Per alcuni critici Boezio sarebbe addirittura l’iniziatore della scolastica, non solo per il fatto di avere enucleato dal pensiero antico tutti quei problemi di ordine logico- ontologico che saranno tipici del realismo medioevale, ma per lo spazio maggiore lasciato alla filosofia e all’indagine razionale anche in materia teologica. L’opera sua maggiore, il De consolatione philosophiae, è importante per la tematica fede-ragione e si muove all’interno di una consapevolezza culturale e religiosa cristiana7. 6 Nato a Roma nel 480 ca. e morto a Pavia nel 526, Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, filosofo e letterato latino, fu educato a Roma secondo il modello retorico- filosofico della classicità; completò gli studi ad Atene e ricoprì importanti cariche alla corte di Teodorico. Console nel 510 e maestro di palazzo nel 523, fu l’ispiratore di una politica di sintesi fra romanesimo e germanismo. Accusato di tradimento, venne imprigionato nel 525 e giustiziato l’anno seguente 7 Il De consolatione philosophiae, concepito in carcere nell’ultimo anno di vita, è un’opera complessa sia nella forma che nella stratificazione delle influenze: oltre a Cicerone, il Timeo platonico e forse il Protrettico di Aristotele, è presente anche la contemporanea filosofia neoplatonica di Proclo, Ammonio e i suoi allievi accostata probabilmente nei circoli del neoplatonismo alessandrino. L’opera è costruita come un dialogo e divisa in cinque libri. Nel primo la filosofia, personificata in una “donna di aspetto venerando”, che appare nel carcere per consolarlo delle sue disgrazie, esorta il filosofo a ricordarsi delle dottrine da lui un tempo professate e che ora, colto da una sorta di malattia letargica che lo ha condotto alla disperazione, ha come dimenticato. Nel secondo la filosofia dimostra a Boezio quale sia la vera natura della fortuna e dei beni che sono ad essa legati. Egli non può accusare la fortuna delle 40 In essa, tuttavia, sembra assente il primo dei due termini del rapporto, vale a dire la Rivelazione, e ciò può in parte essere spiegato se ci si rifà al mutato clima spirituale dell’epoca in cui visse Boezio, rispetto a quello dei Padri altomedievali. Benché le dispute teologiche non si fossero sopite nel mondo cristiano e coinvolgessero sempre più il potere politico, tanto in Occidente quanto in Oriente, esse, da tempo, non assumevano più le forme apologetiche di una lotta contro la filosofia e la religione del paganesimo. Ciò spiega il tono quasi razionalista con cui Boezio affronta i concetti filosofico- morali di Dio, del bene e del male, della provvidenza, della libertà. Coniugando tra loro Platone e gli stoici, il Protrettico di Aristotele e Agostino, Cicerone e il neoplatonismo, Boezio fa convergere fede e ragione, saggezza filosofica e cristianesimo, lasciando sullo sfondo il piano specifico del soprannaturale e della Rivelazione. La quasi totale assenza di misticismo e la predilezione per il rigore logico delle dimostrazioni spiegano a sufficienza la fortuna di Boezio presso i posteriori maestri, che porranno maggiormente l’accento sullo studio della dialettica, ma anche l’interesse per i suoi procedimenti argomentativi dimostrato da teologi come Anselmo d’Aosta e Duns Scoto. proprie disgrazie, giacché essa è stata larga di beni con lui nel momento “ascendente” della sua vita, ed è ingiusto accusarla del fatto che, nel momento “discendente” della sua vita quei beni abbiano lasciato il posto ad altrettanti mali: il carcere, la malattia, la povertà, il disonore. Nel terzo libro la filosofia, con la crescente collaborazione di Boezio che sta guarendo dalla sua malattia, mostra quale sia la natura della vera e falsa felicità e identifica la seconda con il possesso del sommo bene coincidente con Dio. Il quarto libro affronta il problema del male e si chiede se la sua presenza nel mondo non sia una obiezione contro la convinzione filosofica in una provvidenza divina. Pur senza negare l’evidenza del male, la filosofia dimostra che è comunque meglio imitare i buoni anziché i malvagi, e sottolinea la difficoltà e oscurità dei nostri concetti di bene e di male. Nel quinto libro, infine, viene affrontato il problema del rapporto tra prescienza divina e libertà umana, e risolto nei termini del gradualismo metafisico neoplatonico. Ogni natura ha un suo modo specifico di conoscere che è determinato non dall’oggetto conosciuto, ma dalla stessa natura del conoscente. L’intelligenza divina conosce le cose in modo diverso dalla ragione umana. Non bisogna stupirsi, quindi, se Dio, alla cui eterna presenzialità è estranea ogni nozione di successione temporale, può contemplare tutte le cose in un eterno presente. Questa conoscenza degli eventi futuri non ne modifica peraltro la natura. Dio conosce gli eventi necessari (i fenomeni naturali) come necessari e quelli liberi e contingenti(le azioni umane) come liberi. In tal modo viene difeso e salvaguardato, accanto alla provvidenza divina, il libero arbitrio, fondamento e presupposto della moralità 41 Prima, però, che questo indirizzo razionalistico cominci ad affacciarsi sulla scena filosofica del Medio Evo, dovranno passare diversi secoli (cioè non prima della seconda metà dell’XI secolo). Nel frattempo, la riflessione teologica sembrerà imboccare la via opposta del misticismo, che troverà nei testi di Dionigi Areopagita una delle principali fonti d’ispirazione. c) Dionigi l’Areopagita e Giovanni Scoto Eriugena Giovanni Scoto Eriugena è considerato il primo grande filosofo del Medioevo. La sua opera maggiore, il trattato De divisione naturae, rappresenta la prima summa teologico- dottrinale in cui prevale l’impronta neoplatonica. Egli vuole armonizzare il pensiero di Agostino con quello dei neoplatonici greci, la patristica occidentale con quella orientale. Specialmente la sua opera di traduttore e commentatore del Corpus 8 areopagiticum eserciterà un profondo influsso sul posteriore pensiero teologico e mistico. Con gli scritti di Dionigi e di Massimo il Confessore, la teologia mistica fa il suo ingresso nell’Occidente cristiano. La tesi fondamentale di Dionigi è l’assoluta incomprensibilità e trascendenza di Dio. Noi tendiamo ad accostarci alla natura divina per mezzo della teologia affermativa o catafatica, che attribuisce a Dio i nomi tratti dalle Sacre Scritture, definendolo uno, buono, vivente, e così via. Quando, però, ci rendiamo conto che Dio supera ogni nostra capacità di predicazione, siamo costretti a ricorrere all’opposto procedimento della teologia negativa o apofatica, che nega, cioè, tutti i predicati attribuiti precedentemente a Dio dalla teologia affermativa. 8 Con l’espressione Corpus areopagiticum si intende l’insieme degli scritti di Dionigi l’Areopagita. Secondo alcuni studiosi, esso fu compilato tra il IV e il V secolo in Siria e inviato nell’827 dall’imperatore di Bisanzio Michele a Luigi il Pio. L’autore, a noi ignoto, presenta se stesso come discepolo di san Paolo, per cui venne identificato con Dionigi componente dell’Areopago (=tribunale di Atene), che era diventato cristiano dopo avere seguito la predicazione di Paolo. Per mettere in rilievo il carattere apocrifo di questi scritti, il loro autore venne chiamato pseudoAreopagita. Il Corpus areopagiticum propone un sistema filosofico di ispirazione neoplatonica che delinea tutto il reale nella sua derivazione da Dio. esso consta di quattro trattati: Theologia mystica, De hyerarchia celesti, D e ecclesiastica hyerarchia, De divinis nominibus 42 Il solo atteggiamento possibile di fronte all’assoluta trascendenza di Dio è, infatti, quello della “dotta ignoranza”, secondo la quale noi conosciamo Dio nel migliore dei modi ammettendo la nostra ignoranza a proposito della sua natura. Questa prospettiva consente una conciliazione tra teologia affermativa e teologia negativa per mezzo della teologia simbolica o superlativa, nella quale Dio può essere detto super-essenza, super-bontà, super-vita, ecc. Il prefisso super afferma e contemporaneamente nega la determinazione che segue: per esempio, Dio è buono, ma non nel senso della comune bontà, che è l’opposto della malvagità, perché egli è al di là di ogni opposizione. L’ispirazione mistica, controbilanciata da una opposta esigenza razionale, si ritrova nell’opera maggiore di Giovanni Scoto Eriugena, il De divisione naturae, in cui si sottolinea che fede e ragione non si possono contraddire, in quanto sono ambedue emanazioni dell’unica “scienza” divina. Il punto di partenza di qualunque ricerca della verità non può che essere la Rivelazione, ma l’unico strumento che ci può guidare in tale ricerca è la ratio, la nostra ragione. La ragione è arbitra dell’interpretazione che diamo delle Sacre Scritture, sia nel caso di una contraddizione tra significato letterale o storico e significato spirituale o simbolico delle Scritture, sia in quello di un conflitto tra la ratio e l’auctoritas dei Padri della Chiesa. In una allegoria suggestiva l’autore paragona il senso recondito delle Scritture, che richiede uno sforzo di interpretazione razionale, al niveo candore assunto dalla veste di Cristo nell’episodio evangelico della trasfigurazione. L’aspetto di Cristo prima e dopo la trasfigurazione simboleggia le due “vesti” in cui Dio si manifesta agli uomini: da un lato la “lettera” della Rivelazione biblica, dall’altro l’aspetto “sensibile” della natura creata. Ora, la veste ci separa dal corpo della verità e occorre una ricerca per poter giungere fino alla verità; vale a dire, Dio si rivela agli uomini, ma, data la sua ineffabile trascendenza, al tempo stesso si nasconde nella Rivelazione e chiede di essere “scoperto”. Infiniti sono i significati delle Scritture, perché infinita e inesauribile è la natura divina che esse inadeguatamente esprimono. Da qui discende la sostanziale equivalenza delle varie interpretazioni patristiche, tra cui è arbitra solo la ragione. 43 Il significato letterale delle Scritture non può bastare ma va oltrepassato verso un più profondo significato spirituale. A questi concetti si ispira la teologia scotista, che mira ad attuare, in nome della ratio, una conciliazione di teologia affermativa e negativa. Il concetto cui essa si ispira è di origine neoplatonica: la presenza complementare, nella realtà, di essere e non essere e la conseguente incomprensibilità dell’essenza. Del reale possiamo conoscere soltanto l’esistenza, il quia est , e non l’essenza, il quid est. Così, di Dio possiamo inferire l’esistenza mediante una conclusione analogica dagli effetti (=il mondo creato) alla causa (=il creatore), ma non potremo mai conoscerne l’essenza. E’, dunque, certissimo che Dio (=la causa) esiste, altrimenti non ci sarebbero i suoi effetti, cioè il mondo creato, ma è del tutto incomprensibile che cosa sia questa natura suprema, da cui tutto deriva mediante un movimento di progressivo allontanamento e di ritorno all’unità. Nel De divisione naturae è descritto il processo dialettico di divisione e di riunificazione dell’unica natura in quattro zone distinte: la natura che non è creata e che crea (=Dio padre); la natura che è creata e crea (=le idee archetipe); la natura che è creata e non crea (=le cose sensibili); la natura che non crea e non è creata (=Dio come fine di tutta la creazione). Il processo di creazione o divisione è inteso come una successione di teofanie: Dio, che è la causa prima, tende per necessità intrinseca a manifestarsi; tale necessità non è, però, costrizione, dal momento che è Dio stesso a porre le leggi della propria manifestazione, le quali fondano poi l’essere delle cose molteplici e individuali. Dio, la cui essenza è, come detto, inconoscibile, si manifesta nell’essenza di tutte le cose e ciò avviene perché il conoscere di Dio si identifica con la sua attività creativa, dapprima nella seconda natura, quando Dio conosce tutte le cose nella segreta intimità del Verbo, e successivamente quando appare, obiettivandosi nelle entità finite spazialmente e temporalmente circoscritte, pur senza perdere la propria trascendenza. Al processo di divisione segue il ritorno di tutte le cose a Dio, alla base del quale c’è l’istanza di unità che spinge gli esseri a desiderare il proprio completamento nell’unione definitiva con Dio. La morte, che rappresenta la massima dispersione, coincide con la prima tappa del ritorno, cui segue la resurrezione dei corpi e la perfetta intellezione nella vita beata. 44 d) Pier Damiani antidialettico La mistica dionisiaca dà luogo in Giovanni Scoto Eriugena ad una delle più potenti sintesi filosofiche di tutto il Medio Evo, ma due secoli dopo ben diversa sarà la sua influenza su Pier Damiani. Questi è stato considerato l’esponente più rappresentativo di quella tendenza antidialettica che si richiama, in teologia, alla interpretazione letterale delle Sacre Scritture e, in filosofia, svaluta la logica a favore della semplice fede e della morale. Con lo scritto De divina omnipotentia egli si inserisce nel dibattito teologico del tempo, discutendo del rapporto tra libertà e onnipotenza in Dio. Pier Damiani si domanda se Dio possa far sì che una cosa avvenuta non sia avvenuta e, prima di dare una risposta al quesito, prende in esame le caratteristiche dell’agire divino; mostra, così, come in Dio non ci sia successione di passato e di futuro, perché tutto gli è eternamente presente. Sostiene, inoltre, che l’esistenza di una cosa dipende strettamente dall’essere pensata e voluta da Dio e che Dio, oltre a non poter fare il male, non può nemmeno volere il contraddittorio. All’interrogativo se Dio possa far non essere ciò che ha fatto, Pier Damiani risponde, perciò, negativamente: facendo non essere una cosa da lui voluta, Dio annullerebbe il volere precedente. Una eventuale risposta affermativa, cioè, finirebbe con il porre l’assurda ipotesi che Dio possa contemporaneamente volere e non volere la stessa cosa. e)La sintesi di Anselmo d’Aosta Vissuto fra il 1033 e il 1109, Anselmo d’Aosta riprende il tema tipico di tutta la speculazione medioevale, quello del rapporto fra fede e ragione, e sostiene che la prima è il presupposto della seconda perché la mente umana non può, da sola, raggiungere le verità divine. Il suo motto, perciò, è credo ut intelligam, cioè credo per capire. Però, anche se la fede è l’inizio della ricerca filosofica, la ragione non deve rimanere inerte; anzi, essa ha il compito di scoprire e di spiegare le verità divine, quando queste sono accessibili alla mente umana. Naturalmente, la ragione non può arrogarsi il diritto di giudicare e discutere le verità di fede e quando le sue conclusioni contrastano con i dogmi, essa è sicuramente nell’errore. 45 Particolarmente importanti sono in Anselmo le prove che egli adduce per dimostrare l’esistenza di Dio, tre a posteriori nel Monologion, una a priori nel Proslogion. Quelle a posteriori sono argomentazioni che muovono dagli effetti, dalle conseguenze, sempre particolari, per risalire alla causa che è universale; si va, cioè, dalle cose create a Dio; la prova a priori, invece, è un argomento che trascura l’esperienza sensibile e trova nello stesso concetto di Dio l’evidente certezza della sua esistenza, in modo che lo stesso ateo ne rimanga convinto. In questo caso l’esistenza di Dio è dedotta dalla stessa idea di Dio. Questa prova è detta anche argomentazione ontologica perché conduce alla conoscenza dell’Ente assoluto. Esaminiamo dapprima le prove a posteriori riportate nel Monologion. Esse sono tre: - Le cose del mondo sono beni limitati e perciò, in quanto tali, rimandano ad un Bene assoluto, che è Dio, del quale partecipano in diverso grado. - Le cose del mondo esistono ma non per virtù propria perché non hanno in sé il principio, la causa, della loro esistenza. Esse sono, perciò, contingenti, cioè sono ma potrebbero non essere; hanno quelle particolari caratteristiche ma potrebbero averne diverse perché quelle qualità sono accidentali e non sostanziali. La contingenza delle cose implica l’esistenza di un Essere necessario, che sia la causa della loro esistenza. - Le cose del mondo possiedono una maggiore o minore perfezione a seconda della loro realtà e possono essere disposte gerarchicamente in una classificazione alla cui sommità c’è l’Essere perfettissimo, che, in diverso grado, partecipa la sua perfezione alle cose stesse. E veniamo, adesso, all’ argomentazione a priori riportata nel Proslogion. Prendendo lo spunto dal XIII Salmo, dove lo stolto disse in cuor suo che Dio non c’è, Anselmo sostiene che anche l’ateo nel momento in cui dice “Dio non è esistente”, possiede la nozione di Dio, perché egli esprime un giudizio, anche se negativo (Dio = soggetto, è = copula, non esistente = predicato), del quale ha, senza dubbio, nella mente i concetti. Ciò significa che egli sa che cosa è Dio e che cosa significa non esistere. E qual è l’idea di Dio? L’idea di Dio, risponde Anselmo, è quella dell’Essere del quale nulla di maggiore può essere pensato. 46 Perciò, egli conclude, l’ateo si contraddice quando afferma che Dio non esiste perché l’Essere, del quale nulla di maggiore può essere pensato, in quanto perfettissimo, non può non avere, fra le altre perfezioni, anche quella dell’esistenza. In caso contrario, qualunque altra cosa che potesse essere pensata esistente nella mente e nella realtà sarebbe più perfetta di Dio. Di conseguenza, nell’Essere perfettissimo l’essenza non si distingue dall’esistenza, vale a dire, l’idea di Dio coincide con l’esistenza di Dio stesso. L’argomentazione ontologica viene criticata da un contemporaneo di Anselmo, il monaco Gaunilone, il quale afferma che pensiero e realtà sono due cose distinte. Infatti, egli sostiene, io posso pensare un’isola meravigliosa per fertilità e ricchezza, la più perfetta fra tutte, ma non è detto che essa debba esistere per il fatto che io la pensi. Anselmo a questa obiezione risponde dicendo che le cose, e quindi anche l’isola immaginaria, non possono essere perfettissime perché non esistono cose di cui non si possa pensare qualcosa di maggiore. Soltanto Dio è perfettissimo e quindi solo l’idea di Dio coincide con l’esistenza di Dio stesso. 47 a) Scienza e teologia b) I maestri di Chartres II. 4 Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo c) La filosofia della luce dei maestri di Oxford II.4- Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo a) Scienza e teologia 48 A partire dalla riflessione dei Padri della Chiesa il pensiero medioevale fa riferimento ad un ideale di sapere basato sulla centralità della visione complessiva di Dio e del mondo fornita dalle Sacre Scritture. In questa prospettiva le scienze profane hanno una funzione semplicemente propedeutica e non costituiscono la philosophia, che deve fondarsi essenzialmente sul testo sacro. Però, se il sapere nel suo complesso ha come nucleo centrale la verità delle Sacre Scritture, risulta essenziale chiarire il rapporto tra la nuova saggezza cristiana e il patrimonio teorico e scientifico della filosofia classica. Agostino introduce a questo proposito una similitudine destinata ad avere molta fortuna nella cultura medioevale: il cristiano deve appropriarsi del sapere elaborato dal mondo pagano in funzione di una migliore comprensione delle Scritture, così come nel racconto biblico il popolo eletto, obbedendo ad un comando divino, ha sottratto agli egiziani l’oro e l’argento. Tale ideale di cultura, inteso soprattutto come appropriazione in una prospettiva cristiana di un patrimonio di conoscenze appartenente ad un’altra civiltà, troverà espressione nel mito della translatio studii (=trasferimento della cultura) tipico del pensiero medioevale: il sapere greco e latino va trasferito nel contesto del modello di razionalità medioevale e rielaborato al fine di meglio interpretare e comprendere il testo sacro. Si verifica, pertanto, un rovesciamento della concezione classica di sapere considerato come fine a se stesso, indipendentemente da riferimenti estrinseci. L’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti del mondo naturale è variamente articolato, in quanto la centralità delle Scritture pone in discussione tutto il rapporto del cristiano con la realtà. L’autorità delle Scritture trasforma la finalità dell’indagine sul mondo, che non è più, esclusivamente, l’interpretazione razionale dei fenomeni e la ricostruzione delle cause e della struttura del reale, dal momento che la causa prima e il termine finale sono già dati in Dio. La lettura della Genesi, inoltre, pone i Padri della Chiesa di fronte a difficoltà interpretative: la problematicità del testo sacro risultava maggiore per la presenza, nell’orizzonte culturale dell’epoca, di teorie (in particolare il neoplatonismo) sull’origine del reale, che, per molti aspetti, si potevano conciliare con le Sacre Scritture, ma che per il loro 49 carattere filosofico introducevano nuove difficoltà sia a livello di contenuti che di linguaggio. Agostino, infatti, rifacendosi al neoplatonismo, afferma che Dio ha svolto la sua azione creatrice esprimendosi tramite il Verbo (il Figlio e seconda Persona della Trinità), il quale accoglie in sé i modelli archetipi (le Idee di Platone) di tutti gli esseri. La creazione è consistita in una parola e in un atto di volontà dispiegatosi in un solo istante. Anche nei secoli successivi la formazione del cosmo descritta nella Genesi e il concetto di Dio come creatore costituiscono i temi più problematici. La tematica relativa alla nozione di creazione suggerisce riflessioni sul ruolo che la ragione e la philosophia possono svolgere nella lettura del testo sacro. Gran parte della filosofia medioevale si è sempre confrontata con la problematica relativa ai rapporti tra Dio, mondo naturale e ragione, vagliando tutti i nessi e approdando a posizioni diverse a seconda dell’ambito culturale in cui questi temi vennero affrontati. In questo contesto è opportuno evidenziare le posizioni di Giovanni Scoto Eriugena, della Scuola di Chartres e di quella di Oxford. Per la trattazione del pensiero dell’ Eriugena si rinvia a quanto detto in II.3.c: Dionigi l’Arepagita e Giovanni Scoto Eriugena. b) I maestri di Chartres La scuola di Chartres propone una nuova immagine della ragione e della natura. Fu uno dei centri più attivi in Francia, dove si venne sviluppando la nuova cultura. Fondata dal vescovo Fulberto nell’ultima decade del X secolo, si sviluppò durante l’XI soprattutto per opera di Ivo di Chartres, per divenire, sotto la guida di Bernardo, nel XII, un grande punto di incontro internazionale per studiosi e chierici. Le principali fonti della scuola sono costituite, oltre che dalle autorità tradizionali, dal Timeo di Platone nella traduzione latina di Falcidio, dalle opere logiche e teologiche di Boezio, da diversi trattati scientifici arabi che vennero allora tradotti in latino. Il tratto culturale proprio della scuola consistette nel tentativo di applicare alle discipline scientifiche del quadrivio (aritmetica, geometria,musica e astronomia) le arti logiche del trivio (grammatica, 50 retorica e dialettica) in funzione della completezza della ricerca scientifica. Lo studio del Timeo, che spiega la genesi del cosmo in termini diversi da quelli del racconto biblico della Genesi, provocò nei maestri di Chartres il bisogno di tentare una conciliazione tra filosofia e fede, che essi operarono ricorrendo, sulla scia di Giovanni Scoto Eriugena, ad una sorta di platonismo cristiano, secondo cui le forme eterne, gli archetipi delle realtà sensibili, coincidono con le idee presenti da sempre nella mente del Creatore. La natura è vista come la prima creatura, portatrice delle leggi e dell’ordine dell’universo. L’uomo è al centro di essa e viene inteso come microcosmo, come la creatura più perfetta che riassume in sé tutto l’universo in miniatura. L’uomo deve essere studiato integralmente e i vari studi di anatomia insieme con lo sviluppo della medicina e dell’igiene attestano uno specifico interesse anche per il corpo umano. Questo atteggiamento ha preso il nome di “umanesimo chartriano” non soltanto perché la scuola di Chartres studiò gli autori classici ma anche perché, ponendo l’uomo al centro del creato, ne fece il continuatore dell’opera di Dio e della natura. La ragione, vista come desiderio di conoscere, ha, secondo Bernardo di Chartres9, trovato la sua applicazione nei grandi filosofi antichi, rispetto ai quali i dotti contemporanei non sono altro che “nani sopra le spalle dei giganti”. La filosofia classica costituisce, così, il fondamento dell’edificio che i nuovi maestri intendono costruire. Nella conoscenza dell’ordine del mondo la ragione, pur muovendo dal racconto biblico, si serve della filosofia antica ed ha come compito fondamentale non solo la chiarificazione delle Sacre Scritture ma soprattutto l’interpretazione fisica del mondo naturale. Infatti, a Chartres il pensiero medioevale scopre che la natura può essere considerata come una realtà autonoma retta da leggi che le sono proprie e non più, come voleva Scoto, una proiezione del mondo delle essenze e di Dio. Accanto a Bernardo va ricordato il fratello minore Teodorico, il quale nel suo commento alla Genesi, intitolato Hexaemeron o De septem diebus, spiegò la nascita dell’universo facendo ricorso alla causa materiale. 9 Bernardo di Chartres fu il primo grande maestro di filosofia della scuola, vissuto nel XII secolo 51 Da qui la tesi secondo la quale la creazione divina si ferma con la produzione dei quattro elementi; in seguito, la “fabbrica del mondo” procede autonomamente secondo la propria razionale struttura, riducibile al movimento matematico di atomi o particelle elementari. In sede teologica egli, sotto l’influenza di Giovanni Scoto Eriugena e di Boezio, elaborò la tesi dell’”esemplarismo”: Dio è forma essendi di ogni cosa e come tale Egli è in ogni cosa. Dal momento che questa teoria portava direttamente al panteismo, Teodorico fece ricorso alla tesi del carattere “esemplare” dell’unità divina: come la serie dei numeri presuppone l’unità da cui deriva, così la molteplicità delle creature presuppone una unità trascendente in cui essa si ritrova “esemplata” e come “complicata nella semplicità divina”. c) La filosofia della luce dei maestri di Oxford La scuola di Oxford (XIII secolo) riprende l’interesse dei maestri di Chartres per le discipline del quadrivio e prosegue, pur accogliendo anche alcuni elementi della fisica e della logica di Aristotele, la tradizione del platonismo agostiniano coniugandola con lo studio delle discipline matematico-geometriche e con quello delle lingue (greco ed arabo), che permetteva di accedere ai testi filosofico- scientifici dell’antichità. I maestri di Oxford elaborarono una philosophia della natura che, muovendo dalle discipline del quadrivio, si risolve in una serie di ricerche di carattere fisico, ottico ed astronomico. Le loro analisi partono dalle interpretazioni della Genesi, secondo la quale Dio ha creato il mondo secondo “quantità, numero e misura” e considerano la luce come la prima creatura, che è sostanzialmente corporeitas, cioè sostanza corporea. Di conseguenza, il biblico Fiat lux (=sia la luce), che rappresenta il primo atto creativo di Dio, costituisce l’intelaiatura quantitativa di tutto l’universo, anche quello materiale. Come tipico rappresentante della filosofia della luce occorre ricordare Roberto Grossatesta, il quale considera la luce come l’essenza di tutti gli esseri, essenza che costituisce la realtà nel suo complesso. Tutto il reale, ossia quanto è luce, procede secondo leggi geometriche che trovano la loro più completa esplicazione nella geometria di Euclide. Allorquando descrive nel De lineis il costituirsi della natura, Grossatesta introduce una spiegazione geometrizzante del mondo fisico per cui dai punti hanno origine le linee e gli angoli, da questi le superfici e dalle superfici i corpi solidi. 52 In tal modo vengono interpretati tutti i fenomeni naturali. Di conseguenza, la luce è il fondamento fisico di ogni fenomeno e lo studio della diffusione geometrica della luce permette di comprendere l’azione delle “cause seconde” (=leggi razionali di tipo matematico) che regolano il reale. Alla scuola di Oxford risulta, quindi, estranea la descrizione di tipo qualitativo del reale (ossia la fisica) formulata da Aristotele, anche se ampiamente ripresa in questo periodo da maestri parigini come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Grossatesta, infatti, nelle sue opere, pur richiamandosi ad argomentazioni aristoteliche, si allontana da questa filosofia allorquando descrive la struttura matematico- geometrica del reale. La fisica è, infatti, per i maestri di Oxford lo studio delle proprietà delle figure e delle leggi del movimento; si fonda, pertanto, sulla geometria. Dopo la creazione, la luce si propaga per virtù propria in ogni direzione e in modo istantaneo, cosicché il punto luminoso diventa il centro della propagazione di una sfera di luce sempre più ampia e diffusa. In questo “punto” la luce non presenta né dimensioni né grandezza, mentre la sfera che viene formata possiede, invece, estensione e determinazioni quantitative. Nel diffondersi della luminosità si produce anche la materia presente concentrata nel punto luce. Ma come avviene il passaggio da una realtà inestesa ad una realtà che ha dimensione? Grossatesta attribuisce questo passaggio alla moltiplicazione infinita di quanto è simplex,cioè inesteso, vale a dire la luce. Essa, moltiplicata infinite volte, estende la materia in dimensioni di grandezze finite più o meno estese. Secondo Grossatesta, infatti, una realtà inestesa come la luce può generare, se moltiplicata per un numero infinito di volte, l’estensione della materia nello spazio poiché “quanto è prodotto dalla moltiplicazione infinita di una realtà supera come complessità questa entità stessa”. Nella luce è, quindi, presente una vis multiplicativa (=forza di moltiplicazione), un potere naturale di generazione e di propagazione della luce che origina il cosmo costituito da una serie di sfere concentriche. 53 Le sfere periferiche risultano più rarefatte a causa dell’indebolirsi dell’intensità della luce proporzionale alla distanza dal punto originario di luce. Da un punto di vista cosmologico, la luce, continuando nella sua espansione, dà luogo alla formazione delle stelle. La disgregazione della luce porta alla formazione della prima sfera (le stelle fisse) a cui corrisponde la massima rarefazione della materia; successivamente, quando risulta esaurita la possibilità di rarefazione della luce, il limite esterno della sfera così formata costituisce il firmamento che, a sua volta, riflette una luce che dà luogo alle nove sfere celesti, compresa quella della luna. La luce viene vista come creatura divina che ha la funzione di costituire la dimensione dello spazio e della materia, mentre il lumen come luce depotenziata costituisce e illumina le sfere celesti, e quindi la terra. I maestri di Oxford hanno, così, elaborato una filosofia della luce che pone al centro del sapere la matematica e la geometria. Questa teoria che vede leggi matematiche operanti nel mondo fisico, porta Grossatesta e il suo allievo Ruggero Bacone ad elaborare una immagine del sapere destinata ad allontanarsi dalle riflessioni dei maestri parigini del tempo. In particolare, per Bacone il sapere è composto dalla ratio, intesa come argomentazione deduttiva, e dall’experientia, ossia osservazione. L’argomentazione deduttiva viene da lui intesa come deduzione di tipo matematico costruita sul modello degli Elementi di Euclide. L’opera di Euclide è, infatti, elaborata sulla base di una esigenza dimostrativa che si esplica in un processo conoscitivo che muove da proposizioni di carattere generale, cioè gli assiomi, i postulati e le definizioni, dalle quali si snodano lunghe serie di enunciati tra loro concatenati e di dimostrazioni di teoremi, costituendo, così, una catena deduttiva continua e rigorosa. Questo procedimento conoscitivo aveva avuto una scarsa diffusione nella cultura medioevale, che si era orientata, invece, verso la deduzione sillogistica di origine aristotelica. Solo con Bacone il procedimento deduttivo di tipo euclideo viene posto alla base della ratio, mentre il procedimento sillogistico è considerato secondario. La deduzione è, però, soltanto un momento del processo conoscitivo. 54 Infatti, se il fondamento del fenomeno fisico è di tipo geometrico e immanente al fenomeno stesso, l’osservazione dei fenomeni del mondo naturale può integrare il ragionamento. E’ necessario, pertanto, arricchire il piano della ratio con le osservazioni proprie dell’experientia sensibile prodotta dai cinque sensi. L’esperienza sensibile come osservazione è, quindi, in Bacone un momento centrale e può anche essere arricchita dalla introduzione di strumenti, destinati ad estenderla nelle sue capacità di ricezione.