TEMI, PROBLEMI E FIGURE DELL`ETA` MEDIOEVALE

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TEMI, PROBLEMI E FIGURE DELL’ETA’
MEDIOEVALE
I-Filosofia e religione nel tardo impero
I.1-Il contesto storico
a)Società, politica e religione alla fine del mondo antico
b)La separazione economica, politica e culturale fra Oriente ed
Occidente
c)Le strutture della società tardo imperiale
d)La diffusione del cristianesimo
e)L’evoluzione del cristianesimo
I.2-Religione e filosofia nel tardo impero
a)La dimensione religiosa negli ultimi secoli dell’età antica
b)La filosofia giudaico- ellenistica
c)Apologisti cristiani e pagani
d)La gnosi e il manicheismo
e)Neoplatonismo e Patristica
f)Da Origene ad Agostino
II- La filosofia nell’epoca medioevale
II.1- Il contesto storico
a)I fondamenti della società feudale
b)La società urbana e i nuovi ceti
c)La crisi del XIV secolo e il tramonto del Medio Evo
II.2- Cultura e filosofia nell’età medioevale
a)Clericus e laicus
b)Diffusione e laicizzazione della cultura
c)Il ruolo culturale dell’Islam e dell’ebraismo
d)La filosofia medioevale come filosofia scolastica
e)Periodi e problemi della filosofia medioevale
II.3- Il pensiero filosofico e teologico da Boezio ad Anselmo
d’Aosta
a) Fede e ragione
2
b)Boezio e la tarda patristica
c)Dionigi l’Areopagita e Giovanni Scoto Eriugena
d)Pier Damiani antidialettico
e)La sintesi di Anselmo d’Aosta
II.4- Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo
a)Scienza e teologia
b)I maestri di Chartres
c)La filosofia della luce dei maestri di Oxford
3
IFilosofia e religione nel
tardo impero
IILa filosofia nell’epoca
medioevale
a.a. 2004-‘05
TEMI,PROBLEMI E FIGURE
DELL’ETA’ MEDIOEVALE
4
I.1
Il contesto
storico
I.2
Religione e filosofia nel
tardo impero
I
Filosofia e religione nel tardo
impero
I.3
Agostino
5
a)
Società,
politica e
religione alla
fine del
mondo antico
b)
La separazione
economica, politica e
culturale fra Oriente ed
Occidente
c)
Le strutture della società
tardo imperiale
d)
La diffusione del cristianesimo
I.1)
Il contesto storico
I-Filosofia e religione nel tardo impero
I.1-Il contesto storico
e)
L’evoluzione del
cristianesimo
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a) Società,politica e religione alla fine del mondo antico
Nel tracciare le coordinate storiche del periodo, si deve considerare
che non si tratta di un’epoca unitaria, contrassegnata da un continuo
declino, bensì di un intreccio di momenti in cui le crisi si alternano
con le riprese.
I decenni centrali del III secolo fino al regno di Diocleziano, 284,
furono quelli della massima crisi politico- militare.
Con l’assassinio di Alessandro Severo da parte dei soldati (235) si
aprì una lunga fase di anarchia militare: nell’arco di mezzo secolo si
susseguirono trentacinque sovrani, imposti e successivamente deposti
dai militari.
Contemporaneamente, in più punti cominciarono a cedere le
frontiere, che erano in pericolo già durante il regno di Marco Aurelio.
A Oriente Roma perdette la Mesopotamia, l’Armenia, la Siria, la
Cilicia e la Cappadocia; in Europa Goti, Franchi, Svevi e Alemanni si
spinsero fino alla penisola iberica, alla Gallia cisalpina e a Ravenna;
Atene venne saccheggiata nel 268; l’imperatore Decio rimase ucciso
in battaglia nel 251.
Tra il 270 e il 275, durante il regno di Aureliano, Roma, per la
prima volta dopo sette secoli, fu costretta a circondarsi di mura
difensive.
Con Diocleziano (284-305) ebbe inizio una fase
di
riorganizzazione politico- amministrativa e militare: al fine di
garantire il controllo e la difesa di tutto il territorio imperiale, egli lo
divise in quattro zone governate da due Augusti e due Cesari,
designati come successori degli Augusti; la dimensione delle
province venne ridotta ed esse vennero ripartite in diocesi e
prefetture; anche l’esercito fu riformato ed aumentata la sua
dipendenza dal potere imperiale; fu istituito un catasto generale al
fine di garantire un capillare prelievo fiscale; si pervenne, infine, ad
una riforma monetaria e ad un tentativo, poi fallito, di bloccare
l’inflazione calmierando prezzi e salari.
L’opera di Diocleziano fu continuata da Costantino (306-337), il
quale realizzò un programma di unità e pacificazione della compagine
imperiale, fondato sullo stretto controllo delle province orientali e
sulla progressiva alleanza fra impero e chiesa cattolica, a partire
dall’editto del 313 con cui si riconosceva libertà di culto ai cristiani.
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Questa linea venne proseguita dai successori di Costantino, ad
eccezione di Giuliano l’Apostata(355-363), culminando con l’editto
di Teodosio, che proclamava il cristianesimo unica religione lecita.
Grazie a queste iniziative, nei decenni centrali
del IV secolo si
ebbe nell’impero una fase di relativo ordine.
Ben presto, però, in seguito all’espansione delle popolazioni
barbariche, in particolare dei Goti, la situazione divenne nuovamente
critica.
Allorquando nel 381 questi si stabilirono in Tracia, ebbe inizio un
processo di infiltrazione che portò, infine, alla creazione dei regni
romano-barbarici.
Allorquando, dopo la morte di Teodosio (395), l’impero
venne
diviso in due parti, il destino storico dell’Oriente e dell’Occidente
subì un diverso andamento.
In Occidente, tra il 400 e il 425, le frontiere crollarono
irreparabilmente; la Britannia venne abbandonata agli Angli e ai
Sassoni; Roma fu saccheggiata dai Visigoti(410); i vandali iniziarono
il lungo percorso che dalla Gallia li porterà in Spagna e in Africa; gli
Unni tra il 440 e il 453 devastarono prima la Gallia e poi l’Italia.
Nel 476 l’imperatore bambino Romolo Augustolo fu deposto dal
generale germano Odoacre e così l’impero d’Occidente cessò di
esistere come realtà politica.
Nel 495 il re degli ostrogoti Teodorico si installò nella reggia
imperiale di Ravenna e governò con il titolo di patrizio romano
conferitogli dall’imperatore di Costantinopoli.
b) La separazione economica, politica e culturale fra Oriente e
Occidente
Nel suddetto quadro storico è rilevante lo spostamento del
baricentro della vita imperiale da Roma alle province e
dall’Occidente all’Oriente.
La diminuzione dell’importanza politica di Roma è un fenomeno
che risale al II secolo ma divenne definitiva tra il III e il IV, tanto che
Roma fu abbandonata come capitale già nel III secolo.
La scelta delle quattro capitali effettuata da Diocleziano
(Nicomedia in Bitinia, Sirmio sul Danubio, Milano e infine Treviri) è
sintomatica di questo fenomeno, e la fondazione di Costantinopoli, la
nuova capitale, da parte di Costantino, tra il 326 e il 330, non è altro
che una tappa della progressiva separazione fra Oriente ed Occidente,
formalizzata alla fine del IV secolo.
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In questa divisione l’Oriente rappresenta il polo progressivo:
l’economia è in crescita, la conflittualità sociale è più contenuta e
l’autorità imperiale riesce ad integrare nell’apparato statale due
grandi forze, la Chiesa e l’aristocrazia urbana.
Ciò ha dei riflessi anche in campo culturale e filosofico, poiché
dall’Oriente greco provengono le maggiori elaborazioni di questo
periodo.
Qui, infatti, il cristianesimo si afferma in modo rapido e compiuto;
qui si diffonde l’ultima filosofia pagana, cioè il neoplatonismo; qui,
infine, maturano le grandi controversie teologiche e dottrinali,e qui si
compie la fusione tra pensiero greco e pensiero cristiano.
c) Le strutture della società tardo- imperiale
A partire dal III secolo l’impero viene investito da una serie di
fenomeni dovuti alla crisi economica, fiscale e politico- militare.
In primo luogo si approfondisce il divario fra ricchi e poveri: le
ricchezze vengono concentrate nelle mani delle classi superiori, i
potentiores, mentre le classi medie vengono schiacciate ed i ceti
inferiori, gli humiliores, impoveriti; un fenomeno, questo, dovuto in
gran parte al continuo aumento del prelievo fiscale, reso necessario
dalla dilatazione del debito pubblico.
Soprattutto nelle province occidentali, l’esosità fiscale determina
un vero e proprio strangolamento della media e piccola proprietà
contadina.
Nel complesso si determina un’ampia ristrutturazione nella
gerarchia delle classi: l’aristocrazia senatoria romana, pur
conservando un potere economico basato sul latifondo e sulle
concezioni fiscali perde ogni importanza politica e al suo posto
emergono due nuove aristocrazie: quella militare e quella
burocratico- amministrativa, entrambe aperte a quadri di provenienza
non romana.
Contemporaneamente, nelle campagne si instaurano nuovi rapporti
di produzione e di dipendenza ed alla gestione del latifondo attraverso
manodopera servile si affianca o, addirittura, si sostituisce un
rapporto di “colonato”: il colono è legato alla terra, per cui paga un
fitto, ed è vincolato al proprietario terriero, il quale assume funzioni
pubbliche di crescente importanza, come,per esempio, la riscossione
dei tributi.
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Man mano che il potere centrale va perdendo sempre più autorità,
emerge la figura del grande proprietario come titolare di poteri locali
e garanzia di protezione per i soggetti sociali più deboli.
Si tratta del patronus, il protettore, il quale, in un’epoca
di
instabilità, può costituire una figura di riferimento talmente
importante da indurre i contadini di interi villaggi a rinunciare ai loro
campi per farsi coloni del signore locale, in condizioni di semilibertà.
d) La diffusione del cristianesimo
In questo contesto va collocato il fenomeno che più di ogni altro
caratterizza gli ultimi secoli del mondo antico, vale a dire
l’affermazione del cristianesimo.
La nuova religione, nata dalla predicazione di
Gesù Cristo, il
Messia, aveva incominciato a diffondersi nell’età di Tiberio, a partire
dalla Palestina, prima in Asia Minore e nelle regioni orientali
dell’impero, poi in Occidente; prima all’interno delle comunità
giudaiche disperse nella Diaspora, poi anche all’esterno di esse, in un
movimento di crescente differenziazione dall’ebraismo, dal cui seno
era nata.
Decisiva fu l’opera di Paolo di Tarso, sia per l’instancabile
predicazione per tutto il Mediterraneo, sia per avere fissato il primo
nucleo della teologia cristiana.
Egli, infatti, intese la nuova religione in senso universalistico,
rivolto, cioè, a tutti i “gentili” e non solo ai giudei1.
1
Cittadino romano di famiglia giudaica della tribù di Beniamino (il suo nome
ebraico era Sha’ûl), Paolo di Tarso frequentò nella giovinezza la scuola di rabbi
Gamaliele il Vecchio a Gerusalemme e fu educato a profonda religiosità nella “setta”
dei farisei. Il suo temperamento appassionato ed irruente lo indusse a farsi
persecutore del nascente cristianesimo e, secondo quanto si legge in Atti 7, 58, fu
presente al martirio di Stefano. Proprio nell’esercizio di questa attività di persecutore
della Chiesa, improvvisamente nel 38 ca., sulla via verso Damasco, una esperienza
straordinaria (Atti 9,4), che egli interpretò come apparizione del Cristo risorto
glorioso, lo indusse alla conversione al cristianesimo, del quale divenne missionario
sommo, soprattutto come apostolo dei pagani. L’avvenimento di Damasco fu
decisivo nella biografia di Paolo, e segnò definitivamente l’impostazione del suo
pensiero e della sua visione del cristianesimo, che egli sviluppò con originalità
profonda, al punto da poter essere indicato come il vero creatore. Paolo considerò il
suo apostolato come missione sostanzialmente autonoma, ricevuta “non da parte di
uomini…ma per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre”(Galati 1,1). Ciò non
esclude un confronto con la chiesa- madre, Gerusalemme, e con le sue
autorità,Pietro, Giacomo e Giovanni: furono queste, anzi, a riconoscere che
l’apostolato di Paolo avrebbe avuto il mondo pagano come proprio terreno (Galati
10
Religione “ soteriologica” (dal greco
soteria= salvezza), cioè
fondata sull’annuncio e sulla speranza della salvezza individuale, il
cristianesimo si sviluppò in un clima culturale caratterizzato da una
crescente sfiducia nei confronti dei culti tradizionali dai quali si
differenziò per il suo rigido monoteismo, per il carattere storico e non
mitologico del suo fondatore Gesù Cristo e soprattutto perché
concepiva la salvezza ultraterrena come una prospettiva che informa
di sé anche la vita terrena; proprio la passione e il sacrificio del Figlio
di Dio fatto uomo esigono dal credente una conversione che comporta
l’accettazione dell’insegnamento di Cristo e l’impegno a realizzare il
2,9). Tale riconoscimento avvenne dopo il cosiddetto primo viaggio missionario(Atti
13-14) in cui Paolo da Antiochia, insieme con Barnaba e Marco, si era spinto
nell’Asia minore, fondando chiese aperte a cristiani di estrazione pagana(45-48 ca.).
L’indipendenza di Paolo si manifestò anche nei confronti di Pietro, cui egli
rinfacciava di discriminare tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani (Galati 2, 1114).L’attività missionaria di Paolo proseguì con un secondo viaggio (Atti 15,3618,22) che, muovendo da Gerusalemme, lo portò in Macedonia e quindi in Grecia,
con una lunga sosta tra il 50 e il 52. Dopo il ritorno a Gerusalemme, la missione di
Paolo proseguì (terzo viaggio missionario, Atti 18, 23-21, 16) con un nuovo
passaggio in Asia Minore e una permanenza di tre anni a Efeso, donde probabilmente
egli visitò Corinto; è pure probabile che patisse una prigionia ad Efeso. Da Efeso
Paolo si recò nuovamente in Macedonia, poi sostò a Corinto donde scrisse ai Romani
(tra il 56 e il 58). Tornato a Gerusalemme via mare, venne arrestato dal comandante
del presidio romano, trasferito a Cesarea e ivi detenuto per due anni; quindi si
appellò al tribunale dell’imperatore e fu inviato a Roma, dove giunse dopo una
fortunosa navigazione e un naufragio a Malta. Prosciolto nel 63, si recò forse ancora
in Grecia e in Spagna. Secondo l’unanime tradizione antica, morì martire a Roma.
Non è possibile tracciare una sintesi della dottrina che Paolo propone nelle sue
epistole; vi appaiono i principali temi della riflessione cristiana primitiva,
straordinariamente approfonditi e spesso presentati secondo prospettive innovatrici,
così che la dottrina paolina merita un richiamo specifico pressoché in ogni voce di
una teologia neotestamentaria. Particolarmente originale è la sua cristologia, nella
quale il messaggio cristiano primitivo si sviluppa in un fecondo contatto con le
concezioni ellenistiche. Emerge in Paolo soprattutto il valore salvifico dell’evento di
Cristo, della sua morte e della sua risurrezione, attorno al quale si unificano i temi
più specifici della dottrina:la giustificazione mediante la fede; la scansione della
storia della salvezza- col problema del rapporto Antico e Nuovo Testamento, tra
Legge e grazia-la quale si sviluppa all’interno di una prospettiva ove Cristo è non
solo il mediatore della redenzione, ma il “primogenito” della stessa creazione, il
Krios o Signore glorioso, il “nuovo Adamo” e il “capo della chiesa”; la dimensione
ecclesiologica della salvezza, e della testimonianza resa a Cristo nella storia; e infine
le forme e le norme della vita cristiana ed ecclesiale, che Paolo sviluppa come nessun
altro autore del Nuovo Testamento.
11
messaggio d’amore e di fratellanza, i due capisaldi morali e sociali
della vita cristiana.
La fede in un Dio personale, che ha creato il mondo con un atto
volontario e libero e ha inviato il Figlio per la redenzione e la
salvezza dell’umanità; la proposta di un impegno di vita
caratterizzato dalla pratica attuazione del precetto evangelico
dell’amore e della carità; l’affermazione dell’assoluta uguaglianza di
tutti gli uomini; infine, la costruzione di una chiesa come comunità
dei credenti, unificata dalla partecipazione ai doni divini del
battesimo e dell’eucarestia; sono questi i temi con i quali il
cristianesimo si propose alla sua epoca, interpretandone i bisogni
spirituali, le insicurezze e i turbamenti.
Tutte queste esigenze spirituali non potevano essere soddisfatte dai
culti politeisti tradizionali.
All’interno della sua azione politico- istituzionale volta a garantire
l’unità del mondo romano, l’imperatore Augusto aveva promosso
anche una riforma religiosa, basata sulla restaurazione degli antichi
culti e sulla venerazione del Genius (non della persona)
dell’imperatore, il quale assumeva anche la carica di Pontifex
maximus.
Era questo il primo passo di un processo che avrebbe portato alla
sacralizzazione della figura del monarca, posta al centro di una
religione fondata sul rispetto di riti, tradizioni e ossequi formali, e
soprattutto politica.
e)L’evoluzione del cristianesimo
L’atteggiamento del potere politico nei confronti delle comunità
cristiane rimase tollerante fino a Nerone, il quale addossò ai cristiani
la colpa dell’incendio che nel 64 distrusse Roma.
In seguito, periodi di tolleranza si alternarono a periodi di
repressione fino a tutto il II secolo, finché si giunse alle ultime grandi
persecuzioni di Decio nel 250, di Valeriano nel 257-58 e di
Diocleziano nel 303.
Queste persecuzioni furono organizzate e gestite dallo Stato con il
preciso intento di ottenere l’obbedienza religiosa da parte di tutti i
sudditi nonché il culto della persona dell’imperatore.
Da questa vera e propria guerra di religione il cristianesimo uscì
vincitore, soprattutto perché ormai si era radicato in tutte le classi
sociali.
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Infatti, inizialmente la nuova religione si era diffusa presso il
popolo minuto delle città, ma ben presto aveva incominciato ad
attecchire presso i ceti medio- alti, presso l’aristocrazia romana,
l’esercito e la stessa domus imperiale, mentre, dal punto di vista
geografico si era propagata dal bacino orientale del Mediterraneo fino
alla Gallia e all’Africa.
Al tempo stesso si era venuta creando una struttura organizzativa
capace di riunire in una Chiesa, secondo l’insegnamento paolino, le
comunità religiose originariamente autonome.
Queste erano rette dagli anziani o presb_teroi (=preti) coadiuvati
dagli epìskopoi (=vescovi), mentre i diàkonoi (=inservienti) si
occupavano delle opere di carità e di assistenza.
In seguito alle persecuzioni si rese necessario trasformare questa
divisione dei compiti in una struttura organizzativa permanente e
gerarchica.
Si pervenne, così, ad una gerarchia che aveva al suo centro il
vescovo, subentrato come organo di direzione spirituale, disciplinare
e amministrativa al collegio degli anziani.
La base territoriale di questa organizzazione era la città, il cui
territorio costituiva la diocesi episcopale; ad un livello superiore stava
la diocesi del metropolita, la quale ricalcava la ripartizione in
province dello Stato.
Al centro, il vescovo di Roma assunse gradatamente, anche se non
pacificamente, sempre maggiore dignità.
In questo quadro va collocata la “conversione” dello Stato al
cristianesimo, simboleggiata dalla conversione personale di
Costantino e avviata dall’editto di Milano nel 313, che dava ai
cristiani libertà di culto, restituiva loro i beni conquistati e li
indennizzava di quanto perduto.
Il secolo IV fu, dunque, un periodo di intensa cristianizzazione e
quando Teodosio, nel 380, dichiarò il cristianesimo religione ufficiale
dello Stato, non fece che sanzionare una realtà già stabilita nei fatti.
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b)
La filosofia
giudaico ellenistica
a)
La dimensione religiosa
egli ultimi secoli dell’età
antica
c)
Apologisti
cristiani e
pagani
I.2
Religione e filosofia nel
tardo impero
f)
Da Origene ad
Agostino
d)
La gnosi e il
manicheismo
e)
Neoplatonismo e
Patristica
14
I.2-Religione e filosofia nel tardo-impero
a)La dimensione religiosa negli ultimi secoli dell’età antica
Il profondo mutamento del clima spirituale intervenuto con l’età tardo
imperiale è segnalato dal ruolo nuovo assunto dalla religiosità nella vita
sociale, culturale e politica.
Presso i Greci la religione non assurse mai al rango
di autonomo
valore culturale; essa costituì un elemento essenziale della paideìa
tradizionale, ma fu ben presto superata dalla filosofia nel suo ruolo di
indirizzo etico- morale.
I Romani si consideravano il popolo più religioso e posero le credenze
religiose alla base della propria organizzazione sociale.
Essi si mostrarono sempre interessati alle credenze religiose delle altre
nazioni, che cercarono di assimilare, accogliendo nel proprio pantheon
religioso le divinità dei popoli stranieri sottomessi.
Accanto al proliferare di nuovi culti a sfondo salvifico provenienti
dall’Oriente, il fenomeno che caratterizzò maggiormente la religione
negli ultimi secoli del mondo antico fu il contenuto teologico di tali culti,
che da un lato fa appello ad una più viva fede del credente, dall’altro
richiama l’intervento della filosofia.
Questi mutamenti dell’ethos tradizionale sono evidenziati dalla
politica degli imperatori romani, i quali si sforzano di incanalare il
sentimento religioso popolare nei quadri istituzionali di una teocrazia,
che vede per la prima volta le istituzioni statali impegnate in un
intervento diretto nella politica religiosa ed ecclesiastica.
Un ruolo di primo piano in questa rinascita religiosa è svolto
dall’Oriente.
La vicenda della lenta ma vittoriosa penetrazione religiosa del
cristianesimo seguirà da vicino lo spostarsi del baricentro politico,
economico e culturale dell’Impero romano da Occidente ad Oriente, da
Roma a Costantinopoli, ed il sincretismo (ossia la fusione di elementi
culturali eterogenei), che è la forma più tipica della mentalità religiosa
dell’Oriente, caratterizzerà tutte le forme della cultura tardo antica e la
stessa filosofia.
b) La filosofia giudaico- ellenistica
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Una delle prime manifestazioni dell’ondata orientale nel mondo
ellenistico è rappresentata dall’espansione dell’ebraismo e dal sorgere
della filosofia giudaico- alessandrina.
Legati ad un rigido monoteismo e refrattari alle influenze delle culture
straniere di volta in volta egemoni sulla Palestina, gli Ebrei difesero per
secoli la propria identità linguistica, etnica e religiosa, mostrandosi alieni
da ogni sincretismo.
Ciononostante, il giudaismo degli ultimi secoli dell’età antica subì
l’influsso della cultura ellenistica.
Dopo le vittorie di Alessandro, la lingua, la cultura e le istituzioni
greche si diffusero ovunque non solo tra gli ebrei della Diaspora (quelli
che vivevano al di fuori della Palestina) ma anche in Palestina, governata
dopo la morte di Alessandro dai Seleucidi.
E’ soprattutto ad Alessandria, culla dell’ellenismo, che l’incontro tra
ebraismo e cultura greca produsse i frutti più significativi e proprio ad
Alessandria si manifestò anche il tentativo di conciliare la filosofia greca
con la teologia ebraica.
Questa tendenza è particolarmente evidente nell’opera di Filone
d’Alessandria2.
c) Apologisti cristiani e pagani
2
Filone visse ad Alessandria d’Egitto fra il 20 ca. a.C. e il 50 ca. d.C. Iniziatore della
tradizione esegetica di Alessandria, espose le sue concezioni dottrinali nel Commento
allegorico sulle Sante Leggi, dedicato ai capitoli 2 e 3 della Genesi, nei trattati Sul
decalogo, Sulle leggi particolari, Sulla migrazione di Abramo, e in numerosi altri
commenti biblici. Egli adotta un metodo esegetico fortemente allegorico, che gli
permette di interpretare la Bibbia alla luce di convinzioni filosofiche accolte dal
platonismo e dal pitagorismo, in una originale sintesi tra fede giudaica e filosofia
greca. Combinando elementi tratti dalla Genesi e dal dialogo platonico Timeo, Filone
afferma che Dio è incorporeo, unico e creatore del mondo. La creazione è
specificamente opera del Logos, e questi è considerato ora come l’espressione
dell’attività intellettiva dell’Uno, pienamente coincidente con esso, ora come la
prima ipostasi divina distinta dall’Uno, secondo una concezione che troverà pieno
sviluppo in Plotino. Il Logos è il luogo delle idee divine, che sono gli archetipi sui
quali è modellata la creazione. Al di sotto del Logos si trovano le Potenze (attributi o
virtualità divine), per mezzo delle quali Dio agisce sul mondo. L’orientamento
allegorico – religioso proprio della filosofia di Filone è riconoscibile anche nella sua
antropologia. Distaccandosi dalla tradizionale concezione dualistica greca, egli
individua in ciascun uomo tre parti corrispondenti ad altrettanti principi: il principio
materiale, il corpo; il principio intellettuale, l’anima o mente; il principio spirituale,
lo spirito. Solo quest’ultimo, infuso direttamente da Dio, è immortale.
16
Tra la fine del I secolo e il II d. C. vi fu il primo incontro del
cristianesimo con la cultura pagana.
In alcuni aspetti della filosofia profana si manifesta la tendenza
all’assimilazione di elementi tratti dal cristianesimo con le credenze
filosofico- religiose proprie del paganesimo.
Viceversa, la coscienza delle rispettive identità religiose di pagani e
cristiani sarà frutto della polemica che, verso la metà del II secolo, vede
contrapposti da una parte i cosiddetti apologisti cristiani, dall’altra gli
esponenti della filosofia medioplatonica ostili alla nuova dottrina, come,
ad esempio, Celso.
Esponente di questa letteratura apologetica è Giustino 3, autore di due
Apologie indirizzate agli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio,
nonché di un Dialogo con Trifone, violentemente antiebraico.
Al fine di convincere gli imperatori della superiorità spirituale del
cristianesimo egli riprende la tesi del “plagio” commesso dai filosofi
pagani ai danni della Bibbia.
Ciò che di buono si trova nei loro libri, come, ad esempio,
l’immortalità dell’anima, la necessità dei castighi dopo la morte, ecc., è
stato tratto dai libri di Mosè.
Ma accanto a questi argomenti in Giustino è presente anche un motivo
molto interessante, secondo cui la convergenza su alcune verità di
cristianesimo e filosofia pagana deriverebbe dalla presenza in tutti gli
uomini di un identico logos divino, che si è espresso nella sua forma più
alta in Cristo, ma che era all’opera già prima della sua venuta.
“Quelli che hanno vissuto secondo il Verbo, egli scrive, sono cristiani,
anche se furono credenti atei, come, fra i greci, Socrate, Eraclito e altri
simili”.
Sembra, così, che si apra la strada per un dialogo più maturo tra
cristianesimo e filosofia, che verrà sviluppato dalla posteriore patristica.
Di poco posteriore a Giustino è il pagano Celso, il cui Discorso vero
può essere letto anche come una risposta indiretta all’apologetica ebraica
e cristiana.
Quest’opera può essere considerata la testimonianza di
quell’atteggiamento di estraneità e diffidenza nei confronti del
cristianesimo, che dominò la società romana per oltre due secoli.
Le accuse che Celso rivolge ai cristiani sono di due tipi: quella di
formare una setta segreta ostile all’impero e pericolosa per la sua
sopravvivenza; e quella di non professare alcuna novità dottrinale, ma di
3
Nato in Palestina nei primi anni del II secolo e fondatore di una scuola filosofica a
Roma, dove subì il martirio verso il 165 d.C.
17
avere mescolato in modo “barbaro” le credenze religiose degli altri
popoli e alcune dottrine dei filosofi pagani.
Così, la dottrina evangelica dell’amore sarebbe assunta da Platone;
l’idea della resurrezione dall’antica dottrina della metempsicosi; molti
particolari dell’Antico e Nuovo Testamento sarebbero ispirati da vecchie
leggende pagane.
In generale, secondo Celso, la figura e l’opera di
Gesù, quali
emergono dai Vangeli, non sembrano allontanarsi da quelle di uno dei
numerosi maghi o stregoni che cercano di ingannare il popolino con i
loro trucchi.
Sul piano prettamente dottrinale Celso respinge l’idea cristiana
di
incarnazione.
La filosofia platonica, accanto alla trascendenza di Dio, concepisce
l’esistenza di demoni intermediari tra Dio e gli uomini; ma l’idea di un
Dio che rinuncia alla propria autosufficienza e sublimità per assumere la
carne dell’uomo sembra a Celso quanto di più barbaro sia stato prodotto
dalla fantasia religiosa degli ebrei e di più estraneo alla mentalità
ellenica.
In definitiva, con Celso il paganesimo assume la consapevolezza della
propria superiorità.
d) La gnosi e il manicheismo
Il cristianesimo contro cui si rivolgeva Celso non aveva ancora trovato
una unità dogmatica e lo si poteva a stento distinguere dall’insieme delle
correnti gnostiche, che costituivano uno dei fenomeni religiosi più
diffusi nei primi due secoli dell’era cristiana.
Fino agli inizi del secolo scorso la gnosi era erroneamente considerata
come un’eresia cristiana e conosciuta quasi esclusivamente attraverso le
confutazioni lasciate dagli scrittori ortodossi.
In realtà si trattò di un movimento
molto più vasto che coinvolse
anche religioni affini al cristianesimo e alcune correnti del paganesimo.
Dal punto di vista etimologico,
gnosi, dal greco gnòsis, significa
conoscenza e in un contesto religioso è la conoscenza che porta alla
salvezza.
Ciò ha fatto pensare ad una influenza preponderante sulla gnosi della
filosofia ellenistica; in realtà la conoscenza cui si fa riferimento negli
scritti gnostici, più che un sapere razionale e controllabile, sta ad indicare
un sapere “rivelato” mediante l’ispirazione profetica e garantito da una
“tradizione” più o meno antica.
18
Piuttosto che alla evidenza della verità, ci si affida all’autorità di una
tradizione.
Tra le manifestazioni più interessanti di gnosi pagana vanno
annoverati gli Oracoli caldaici e l’ermetismo.
I primi sono una raccolta di riti magici ed esoterici, formatasi
all’epoca di Marco Aurelio e attribuita a Giuliano il Teurgo detto il
Caldeo.
Essi testimoniano la crescente diffusione dell’astrologia babilonese e
della magia, che coincise con un generale aumento del fatalismo nel
mondo occidentale.
Se gli oracoli caldaici si rifanno alla religione babilonese, un’altra
importante raccolta di scritti, il Corpus hermeticum, si rifà alle antiche
tradizioni religiose dell’Egitto.
L’ermetismo conobbe una straordinaria fortuna sia nell’antichità sia
nel Medio Evo e nel Rinascimento.
Bisogna distinguere un ermetismo popolare , riguardante soprattutto
l’astrologia, la magia e le scienze occulte, da un ermetismo dotto o
filosofico, i cui scritti contengono la rivelazione di Ermete Trimegisto
(=tre volte grande), un personaggio leggendario che si vuole identificare
con Toth, il dio egizio inventore della scrittura ed accompagnatore delle
anime nel viaggio dopo la morte.
L’ermetismo introduce nella filosofia occidentale l’idea di una
filosofia sacra, in cui si incontrano tutte le principali forme di gnosi
filosofica e religiosa.
La gnosi cristiana o gnosticismo è rappresentata da autori del I e II
secolo d.C. che i Padri della Chiesa considerano eretici.
I tratti distintivi del pensiero gnostico sono: il netto dualismo di anima
e corpo o spirito e materia, rispettivamente identificati come bene e
male; l’acosmismo, cioè la negazione o il rifiuto del mondo, che non è
considerato opera di Dio ma creazione di un demiurgo inferiore a Dio,
autore della materia che è causa del male; l’atteggiamento “pneumatico”,
ossia spirituale, cioè la tendenza a considerare la salvezza come frutto di
un atto di conoscenza e di ispirazione mistica, anziché della fede in
Cristo; il rigetto dell’incarnazione e la tendenza a ritenere Gesù un essere
divino o un angelo, dotato solo di un corpo apparente ed erroneamente
ritenuto un uomo in carne ed ossa; infine, l’ostilità nei confronti
dell’Antico Testamento e dell’ebraismo.
Queste tendenze gnostiche costituirono una minaccia per l’unità
dogmatica del cristianesimo poiché l’elemento dottrinale centrale, cioè la
19
fede in Cristo inteso come evento storico irripetibile, tendeva a sfumare
in una vaga atmosfera esoterica e mistica.
Affine per contenuto allo gnosticismo ma da
esso distinto è il
manicheismo, fondato dal profeta Mani nel III secolo d.C.
Il suo nucleo dottrinale è dato dalla contrapposizione fra due principi o
nature concepiti come realtà positive: il bene o luce e il male o tenebre.
Originariamente distinti, bene e male sono ora in una fase intermedia
di conflitto e di reciproca compenetrazione.
In ogni cosa e persona si trovano entrambi i principi e la loro tensione
è destinata a durare fino all’avvento di un terzo momento, che vedrà una
nuova separazione dei due principi e il trionfo della luce.
Sul piano dei comportamenti e delle pratiche religiose questo
dualismo conduceva al rigetto, da parte dell’individuo, della sua parte
demoniaca, rigetto reso possibile soprattutto dalla conoscenza vera
dell’universo, della natura e di Dio.
In nome di questa gnosi i manichei si opponevano alle Scritture
dell’Antico Testamento, considerate false e contraddittorie.
A ciò si connetteva, almeno per gli eletti, un codice di comportamento
che prevedeva il rifiuto radicale del corpo e della sessualità, il rigido
ascetismo e vegetarianesimo, l’aspirazione ad una liberazione definitiva
dello spirito dalla materia, la fede nel trionfo finale del bene sul male.
e) Neoplatonismo e patristica
A partire dal III secolo d. C. per il cristianesimo ed il paganesimo si
delinea una tendenza culturale che si concretizza nella nascita di una
vera e propria filosofia religiosa.
4
rappresenta per il
Da questo punto di vista il neoplatonismo
paganesimo ciò che la patristica è stata per il cristianesimo, cioè la prima
delineazione di una dottrina filosofica ispirata ai dogmi della fede
religiosa.
I temi essenziali del neoplatonismo sono: il superamento del dualismo
di spirito e materia, con la conseguente riduzione di quest’ultima a non
essere o privazione; la definizione della trascendenza divina, con la netta
distinzione dell’Uno dall’essere, e l’esplicazione dei rapporti tra Dio e il
mondo nei termini di una derivazione necessaria del secondo dal primo;
la centralità assunta dalla nozione di anima; infine, la rivalutazione
dell’intuizione mistica, concepita non come una forma inferiore, di
4
Fondato da Ammonio Sacca e da Plotino tra la fine del II e i primi del III secolo,
conoscerà importanti sviluppi fino agli inizi del IV
20
natura sentimentale e irrazionale, ma come coronamento dell’atto
razionale intellettivo.
Questi elementi si ritrovano in tutte le forme di neoplatonismo che
testimoniano della originalità e persistenza dell’ultima grande
espressione originale del pensiero antico.
La fusione di neoplatonismo e pensiero religioso cristiano, realizzatasi
a partire dalla scuola teologica di Alessandria, eserciterà anch’essa un
influsso duraturo sul pensiero posteriore.
In realtà, nella patristica cristiana si possono individuare due tendenze
opposte: la prima, o patristica latina, tendenzialmente ostile alla filosofia
e tesa ad affermare la supremazia del cristianesimo sul paganesimo; la
seconda, o patristica greca, favorevole all’uso della ragione e degli
strumenti della filosofia per convalidare i dati della fede.
f) Da Origene ad Agostino
Il problema che impegnò maggiormente i Padri della Chiesa fra III e
IV secolo fu quello trinitario, vale a dire quello della natura e dei
rapporti intercorrenti fra le tre Persone della Trinità, Padre, Figlio e
Spirito Santo.
In una lunga fase si incrociarono e si mescolarono diverse tendenze,
come l’adozionismo, che vedeva in Cristo un uomo divinamente ispirato
e solo in un secondo tempo assunto dal Padre alla divinità; il docetismo,
che negava la natura umana di Cristo e considerava fittizia la passione e
il sacrificio; il modalismo, che concepiva le tre Persone come modi di
essere di un’unica divinità; il subordinazionismo, che affermava la
distinzione fra le Persone e un rapporto gerarchico fra esse.
Questa posizione si ritrova in Origene, il quale vedeva nella Trinità tre
Persone legate da rapporti di reciproca generazione, e quindi
consustanziali, distinte in base alle funzioni subordinate da esse svolte.
Infine, Ario riprese da Origene il concetto della distinzione delle
Persone ma, concependo la generazione come vera e propria
“produzione” di una nuova realtà, finì per depotenziare il carattere divino
della natura del Figlio, subordinato al Padre, prima creatura di Dio, ma
non Dio egli stesso.
La controversia trinitaria proseguì lungo tutto il IV secolo.
I difensori dell’ortodossia furono gli autori della Nuova scuola
alessandrina del IV secolo, che compongono il gruppo dei Padri
cappadoci, ossia Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
21
Il loro contributo alla lotta antiariana, ripresa anche dopo la condanna
di Ario al concilio di Nicea, sarà fondamentale per la precisa
formulazione del dogma.
La loro dottrina cristologia e trinitaria si rifà ad Origene nell’intento di
mostrare la superiorità delle concezioni ortodosse su quelle ereticali.
Così Basilio dimostra che le tre ipostasi (Persone) non intaccano
l’unità della natura divina e Gregorio di Nazianzo spiega che Cristo ha
avuto il corpo (soma), l’anima (psychè) e l’intelligenza (nous) per potere
operare la redenzione dell’uomo nella sua interezza.
L’intreccio di elementi filosofici e religiosi fin qui delineato trova in
Agostino di Ippona, vescovo di Tagaste (354-430), una sintesi destinata
a costituire il momento conclusivo del pensiero antico per proporsi come
eredità fondamentale per il pensiero medioevale.
22
II.1
Il contesto storico
II.2
Cultura e filosofia
nell’età medioevale
II
La filosofia nell’epoca
medioevale
II.4
Teologia e filosofia
naturale nel Medio
Evo
II.3
Il pensiero filosofico e teologico
da Boezio ad Anselmo d’Aosta
23
a)
I fondamenti della
società feudale
II.1
Il contesto storico
b)
La società urbana e
i nuovi ceti
c)
La crisi del XIV secolo
e il tramonto del Medio
Evo
II. La filosofia nell’epoca medioevale
II.1- Il contesto storico
24
a)I fondamenti della società feudale
Dopo la fine dell’impero romano d’ Occidente i popoli che per secoli
avevano partecipato della civiltà greco- romana, intrapresero strade
diverse e quel mare che per secoli era stato al centro di una civiltà
unitaria si trovò diviso: da una parte l’impero bizantino accentuava il suo
carattere orientale, mentre ad Occidente le diverse popolazioni
barbariche davano vita a regni spesso in lotta fra loro.
In questa situazione una sola istituzione riusciva a funzionare come
punto di riferimento per tutti: la Chiesa.
Essa si orientava come erede dell’Impero e, nello sfascio completo
dello Stato romano, faceva valere la sua autorità sul piano politico e su
quello religioso.
Spesso vescovi e papi assumevano le funzioni che erano state dei
governatori romani; l’opera di evangelizzazione della Chiesa di Roma,
fondata sulla forza del monachesimo, si estendeva sempre più,
imponendosi anche contro le eresie che avevano trovato molti seguaci
fra le popolazioni germaniche.
L’Occidente diventava cristiano, ricostruendo una unità religiosa e
culturale che diveniva sempre più anche unità politica.
Intanto in Oriente nel 622 un uomo di nome Muhammad, conosciuto
in Occidente con il nome di Maometto, profeta di una nuova religione
monoteista, abbandonava con i suoi seguaci la città della Mecca per
sottrarsi all’ostilità delle tribù arabe pagane e avere maggiore libertà per
diffondere il nuovo culto.
Nel suo nome gli arabi conquistarono ben presto un impero che si
estendeva dall’oceano Atlantico alla valle dell’Indo.
Cessava, così, definitivamente l’unità del mar Mediterraneo e
l’Europa cristiana spostava verso nord il proprio baricentro politico.
Fra le popolazioni germaniche ,i franchi, stabilitisi nella Gallia a nord
delle Alpi, avevano aumentato la loro forza sotto la guida dei carolingi, i
quali strinsero con il papa un patto di alleanza mediante il quale, fra
l’altro, veniva riconosciuta l’autorità politica del pontefice sul territorio
intorno a Roma.
Nasceva, così, il potere temporale del papa sanzionato nell’800
dall’incoronazione di Carlo Magno, con il titolo di imperatore romano,
per mano del pontefice.
Nel gesto del papa che incoronava l’imperatore era racchiuso
emblematicamente il vincolo reciproco di dipendenza, che avrebbe
caratterizzato i due poteri nel corso del Medio Evo: la Chiesa si faceva
25
garante del potere imperiale e in cambio riceveva prestigio e
riconoscimento della propria autorità religiosa.
L’impero di Carlo Magno era, però, molto diverso da quello romano.
Innanzi tutto non era più fondato sul Mediterraneo ma aveva il suo
baricentro nell’Europa continentale; il crollo demografico aveva
dimezzato la popolazione che dai trentacinque/ quaranta milioni del II
secolo era scesa a venti nel VII; abbandonate le città, i pochi abitanti
vivevano concentrati in gruppi isolati, privi di reciproche comunicazioni;
la grande proprietà terriera fondata sul lavoro degli schiavi, che era stata
il perno dell’economia romana, aveva lasciato il posto ad un sistema di
piccoli poderi detti mansi affidato a lavoratori dipendenti che spesso
erano schiavi liberati.
Al signore andava una quota del raccolto oltre a prestazioni di lavoro
gratuito (corvées) sulle terre da lui controllate (pars dominica).
Inoltre, pur essendo molto meno esteso di quello romano, l’impero
carolingio non disponeva della stessa organizzazione accentrata.
Il sovrano esercitava un potere personale sui suoi sudditi e da
essi
riceveva un giuramento di fedeltà che veniva rispettato per opera di
alcuni funzionari detti missi dominici.
In questo periodo si pongono le basi della società feudale: ciascuno è
“uomo di un altro uomo”; ciascuno ha giurato fedeltà verso qualcuno da
cui si aspetta di ottenere protezione.
Il feudo, concesso in usufrutto dal signore al vassallo, è base
economica e simbolo politico di questa organizzazione sociale.
Questo sistema, però, non si dimostrò adatto a mantenere l’unità
politica dell’impero carolingio, anzi segnò profondamente i rapporti
sociali nell’Occidente medioevale.
b)La società urbana e i nuovi ceti
Nell’XI secolo ha inizio in Europa un processo di sviluppo economico
che si concluderà nel XIV secolo.
Migliorano le condizioni di vita della gente, si afferma l’esperienza
comunale, la rinnovata forza economica e politica consente all’Occidente
di riaffacciarsi dopo secoli sul Mediterraneo, mentre, nel campo dell’arte
si assiste alla straordinaria fioritura dell’architettura e delle arti
figurative,e, contemporaneamente, nascono le nuove letterature in lingua
volgare.
Fra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo progressivamente cessarono
in Europa le incursioni straniere determinando nelle popolazioni uno
stato di tranquillità con crescente incremento demografico.
26
L’aumento della popolazione provocò un forte aumento della
produzione agricola, dando luogo ad una eccedenza di beni che costituì
la condizione indispensabile perché potesse svilupparsi il commercio.
Con la ripresa economica, avvenuta a partire dal Mille, si riattivò
la
sfera mercantile e monetaria, e si ricostituirono i luoghi di scambio, le
fiere e i mercati.
Nella società composta da nobili, chierici e contadini, la nuova classe
dei mercanti non aveva inizialmente una collocazione ben precisa ma
ben presto le città cominciarono gradualmente a sottrarsi ai vincoli
feudali fino al sorgere dei Comuni con autonome forme giuridicoamministrative.
c)La crisi del XIV secolo e il tramonto del Medio Evo
A tale periodo di sviluppo seguì nei primi decenni del XIV secolo una
forte crisi.
La mancanza di nuove terre da dissodare e l’impoverimento di quelle
coltivate, sottoposte ad uno sfruttamento intensivo, provocarono ben
presto uno squilibrio fra le disponibilità alimentari e le esigenze di una
popolazione in continuo aumento.
La crisi si annunciò con una serie
di eccezionali carestie che
provocarono aumento dei prezzi, fuga dalle campagne e inurbamento
massiccio.
Insieme al settore agricolo, la crisi ben presto investì anche quello
artigianale, manifatturiero ed edilizio, come testimoniano le numerose
cattedrali rimaste incomplete in varie città d’Europa.
Ad aggravare la situazione nel 1348 si abbatté una epidemia di peste
di eccezionale gravità, che uccise un terzo della popolazione europea.
Ben presto la scarsità di cibo e la polarizzazione delle ricchezze
trasformarono la crisi economica in crisi sociale e in varie regioni
d’Europa scoppiarono violente rivolte contadine che si intrecciarono con
analoghe sommosse nelle città.
Contemporaneamente, cambiamenti avvenivano anche nell’ambito
politico e religioso, che portarono al declino del sogno di un Occidente
cristiano unito sotto la guida dei suoi sovrani universali.
Fallito il progetto di una restaurazione imperiale, anche il papato
dovette rinunciare alle proprie pretese universalistiche.
Costretto nel 1305 a trasferire la sua sede ad Avignone, il papato restò
per più di settanta anni sotto il controllo della corona di Francia5,
perdendo, naturalmente, ogni suo prestigio.
5
Questo periodo di esilio è meglio conosciuto con il nome di “cattività avignonese”
27
Negli anni successivi personaggi diversi si contesero il titolo di papa,
provocando lo “scisma d’Occidente”.
Mentre si consumava la crisi delle grandi istituzioni universalistiche,
cominciavano ad affermarsi alcuni regni che, da patrimonio personale
dei singoli sovrani, si andavano trasformando in strutture politiche
capaci di mettere fine alle rivalità feudali.
Queste monarchie anticipano i futuri stati nazionali ma in esse manca
ancora una precisa definizione territoriale, un sentimento di appartenenza
alla medesima nazione, un potere centrale forte e riconosciuto.
Allorquando questi elementi si saranno affermati, nasceranno gli Stati
moderni.
E’ quanto avverrà, ad esempio, in Inghilterra, in Francia o in Spagna
ma non in Italia, dove resteranno molto forti l’autonomia e il
particolarismo delle città.
Con il tramonto del Medio Evo, la
res publica christiana lascia il
posto all’Europa delle nazioni, aprendo un nuovo capitolo della storia
dell’Occidente.
b)
Diffusione e laicizzazione
della cultura
28
a)
Clericus e
laicus
II.2
Cultura e filosofia
nell’età medioevale
e)
Periodi e problemi della filosofia
medioevale
d)
La filosofia medioevale
II.2- Cultura e filosofia come
nell’età
medioevale
filosofia
scolastica
a) Clericus e laicus
c)
Il ruolo culturale dell’Islam e
dell’ebraismo
29
Nell’alto Medio Evo nessuno era in grado di leggere un testo greco e
perfino il latino e la conoscenza della scrittura erano limitati ad una
ristretta cerchia di uomini di chiesa.
Così clericus divenne sinonimo di alfabetizzato e laicus di analfabeta.
Analfabeta era tutta la società altomedioevale per cui la parola scritta
andò sempre più perdendo importanza.
Di conseguenza, i contratti di vendita, gli atti testamentari e perfino i
patti di alleanza furono affidati più alla memoria dei testimoni che non
ad un documento scritto che risultava indecifrabile ai contraenti.
Nell’alto Medio evo la cultura era, dunque, nelle mani della Chiesa.
b) Diffusione e laicizzazione della cultura
Questa coincidenza fra chierico e intellettuale sopravvisse anche nel
basso Medio Evo; tuttavia, a seguito dello sviluppo della società urbana
e della comparsa di nuovi ceti sociali si allargò l’ambito
dell’alfabetizzazione e la Chiesa perse il monopolio della cultura scritta.
Contemporaneamente, questa cessò di identificarsi esclusivamente con
il latino e andarono sempre più affermandosi le lingue volgari, mentre i
nuovi ceti cittadini cominciarono a considerare l’istruzione uno
strumento di promozione e di prestigio sociale.
La cultura altomedioevale aveva il suo centro nel monastero ma a
partire dal XII secolo nelle città si moltiplicarono le scuole e, per quanto
l’insegnamento rimanesse affidato ai clerici, la componente laica fra gli
studenti andò aumentando.
Il concilio Laterano del 1179 stabilì che ogni cattedrale
avesse una
scuola, segno che la richiesta di istruzione andava aumentando sempre
più.
L’aumento delle scuole comportò l’aumento degli insegnanti e così fra
le altre professioni nacque anche quella dei maestri, i veri intellettuali
dell’età medioevale, riuniti in una corporazione, le università, che
godevano di privilegi, di autonomia giuridica, di un proprio statuto
interno.
Ora, la società urbana, mentre aprì la strada ad un professionismo
della cultura, favorì anche la partecipazione degli intellettuali ai diversi
aspetti della vita cittadina, soprattutto all’attività politica.
L’intellettuale di questo periodo esprime i sentimenti di una società
dinamica che vuole allargare i confini del suo mondo, mentre il vecchio
modello feudale appare sempre più inadeguato a dare risposte alle nuove
esigenze sociali e politiche.
30
c) Il ruolo culturale dell’Islam e dell’ebraismo
Una delineazione dei caratteri fondamentali della cultura medioevale
non può ignorare i musulmani e gli ebrei, cioè i seguaci di due religioni
estranee alla cultura cristiana medioevale eppure tanto importanti per
essa.
Fra il mondo cristiano e l’Islam non vi furono mai barriere
impenetrabili.
La frontiera che li separava veniva varcata da pellegrini e mercanti e
vi furono contatti e scambi che si intensificarono nel basso Medio Evo,
proprio quando la forza economica e politica dell’Occidente rendeva
possibile la grande avventura delle crociate.
Sul piano culturale il flusso di quegli scambi fu a senso unico,
in
quanto la civiltà islamica, abbastanza evoluta, aveva poco da imparare
dall’Europa, definita “barbara e infedele”.
Quando nei secoli VII ed VIII la loro presenza si estese dalle coste
atlantiche del Maghreb alla valle dell’Indo, gli arabi accentuarono il loro
ruolo di mediatori.
Così, insieme alle sete e alle spezie dell’Oriente, insieme all’oro e agli
schiavi dell’Africa, arrivarono nella Spagna e nella Sicilia musulmana,
per poi estendersi all’Europa cristiana, i tesori della cultura araba.
Grazie alla cultura arabo-islamica fu conservata la tradizione
filosofica e scientifica del mondo antico, che era andata in gran parte
perduta in seguito al crollo dell’impero d’Occidente.
Questa tradizione era stata acquisita dagli arabi all’epoca della loro
conquista dei territori bizantini nel Mediterraneo orientale e da lì era
approdata in Europa attraverso traduzioni dal greco al siriaco e all’arabo
e quindi al latino, passando attraverso la mediazione dell’ebraico.
Così, a partire dall’XI secolo a Oxford, Parigi, Firenze e Salerno fu
possibile leggere le opere di Aristotele, Platone, Galeno, Tolomeo,
Euclide.
In Sicilia e in Spagna vennero tradotte in latino le opere di Al-Kindi,
Avicenna, Al-Ghazali, oltre agli Analitici posteriori, alla Fisica e al De
coelo di Aristotele, nonché l’Almagesto di Tolomeo.
Lo studio di questi testi venne approfondito nelle università, dove si
discuteva del rapporto fra scienza e fede, fra filosofia e teologia.
Così,mentre la separazione fra cristianesimo e Islam rimaneva rigida
sul piano politico e religioso, su quello della filosofia i confini erano
tenui.
31
Nella traduzione delle opere dall’arabo al latino spesso era necessaria
la mediazione della lingua ebraica, in quanto gli ebrei conoscevano sia
l’arabo che il latino.
Essi, quindi, possono essere considerati i mediatori fra Occidente ed
Oriente, fra cristianità ed Islam.
Provenienti dalla Palestina, da dove erano stati allontanati in seguito
alla durissima repressione romana culminata con la distruzione di
Gerusalemme nel 70 d.C., gli ebrei erano riuniti in comunità presenti in
varie regioni del Mediterraneo occidentale.
Con il passare del tempo, queste comunità si trovarono tanto nell’area
di dominazione islamica, quanto in quella cristiana; però la loro
situazione fu diversa.
Infatti, nel mondo classico, per quanto emarginati, gli ebrei nel Medio
Evo non furono oggetto di particolare ostilità, mentre, invece, per il
cristianesimo essi rappresentarono sempre dei nemici pericolosi.
Indicati come colpevoli della morte di Cristo, gli ebrei del Medio Evo
vissero in una condizione di precarietà che poteva facilmente degenerare
in persecuzione, come avvenne all’epoca delle crociate.
In questa situazione una filosofia ebraica ebbe ben poche possibilità di
sviluppo nell’Europa cristiana, mentre fiorì nei paesi islamici, dei quali
adottò, generalmente, la lingua.
Nonostante la loro marginalità, la presenza degli ebrei nelle terre
cristiane offre un contributo prezioso allo sviluppo della cultura,
garantendo una possibilità d’incontro fra lingue e tradizioni di pensiero
diverse.
d) La filosofia medioevale come filosofia scolastica
Il termine “scolastica” è usato come sinonimo di filosofia medioevale
e per gli umanisti aveva un valore spregiativo in quanto “scolastici”
erano considerati quei filosofi che si perdevano in sottigliezze
dialettiche.
In realtà, doctores scolastici erano nel Medio Evo coloro i quali, nelle
scuole dei conventi e delle cattedrali, insegnavano non solo la filosofia e
la teologia, ma anche le cosiddette arti liberali del trivio (grammatica,
retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e
musica).
In ogni caso, per “scolastica” si deve intendere la filosofia insegnata
nelle scuole, secondo un preciso metodo didattico in grado di garantire la
trasmissione di una tradizione di pensiero.
32
Nel linguaggio medioevale auctoritas era garanzia di verità e quindi
eminentissima auctoritas erano i libri dell’Antico e Nuovo
Testamento;però, l’area delle auctoritates si estendeva a tutta la
tradizione ecclesiastica (Ecclesiae auctoritas) e infine a tutte le opere
che contenevano elementi della rivelazione divina.
Da parte sua,l’auctor era il depositario dell’auctoritas.
Di conseguenza, legere auctorem era il punto di partenza del metodo
scolastico, il primo atto del maestro di filosofia che compiva la sua lectio
davanti ai discepoli, invitandoli, prima di tutto, ad imprimersi nella
memoria la lettera del testo e quindi a ripensarla personalmente
(meditatio).
A questi due gradini,
lectio e meditatio, se ne aggiunse, con lo
sviluppo della scolastica, nel XII-XIII secolo, un terzo, la quaestio, cioè
la ricerca di una comprensione profonda del testo studiato, che avveniva
nel modo seguente: davanti al maestro compariva un interlocutore che
cominciava a ponere quaestiones, avanzando obiezioni sulle
proposizioni dell’autore.
Successivamente (quindi dopo la lectio e le quaestiones), gli studenti
si esercitavano nell’uso dell’arte dialettica.
Era questo il momento della disputatio, in cui gli “apprendisti maestri”
si confrontavano fra loro sotto lo sguardo imparziale del maestro, e
prendevano il nome di opponens e di respondens.
Lectio, quaestio e disputatio sono, quindi, i momenti fondamentali
dello studio che si effettuava nelle scuole filosofiche del XIII secolo.
Le dispute più interessanti si svolgevano nelle facoltà di teologia ed
erano di due tipi: disputationes ordinariae e disputationes generales, de
quodlibet.
Nel primo caso era il maestro che proponeva e risolveva questioni
tecniche, in diretto rapporto con l’insegnamento; nel secondo erano gli
assistenti che proponevano le questioni al maestro.
Le dispute quodlibetali erano le più significative e si svolgevano due
volte l’anno nel periodo antecedente la Pasqua ed il Natale.
Vi si affrontavano argomenti vari che andavano dalla teologia alla
filosofia, dalla morale al diritto canonico fino ai temi scottanti del
giorno.
In una prima seduta, la
disputatio vera e propria, la schermaglia
avveniva tra uno o più obiettanti e un rispondente, mentre il maestro
interveniva soltanto per correggere o completare l’esposizione del
rispondente.
33
Durante la seduta successiva o
determinatio entrava in campo il
maestro, il quale riprendeva le questioni, riassumeva e ordinava
obiezioni e risposte fin lì avanzate, per proporre, infine, la propria
soluzione definitiva, detta determinatio magistralis, che cominciava con
le parole respondeo dicendum.
In questo modo il maestro definiva il proprio Quodlibet (il complesso
delle questioni determinate in una delle due date di Pasqua e Natale), che
veniva successivamente pubblicato.
Ma com’era costituita la biblioteca del Medio Evo?
Occorre premettere che all’epoca pochi leggevano il greco,
per cui
occorreva fare ricorso alle traduzioni latine.
L’attività di traduzione condizionò in maniera
determinante la
conoscenza di Aristotele, del quale nella seconda metà del XII secolo si
possedeva soltanto tutto l’ Organon nella traduzione di Boezio e Mario
Vittorino (logica vetus) e nella versione più recente ed integrale di
Giacomo da Verona e Gerardo da Cremona (logica nova).
I grandi trattati dello Stagirita, sconosciuti nell’alto Medio Evo,
saranno resi noti soltanto nei secoli XII e XIII attraverso le versioni
arabo- latine e greco- latine.
Di Platone si leggeva soltanto il Timeo nella traduzione di Cicerone e
nel commento di Calcidio; mentre soltanto nel XII secolo iniziarono a
circolare alcune copie del Fedone e del Menone, tradotte in Sicilia da
Enrico Aristippo.
Solo nel secolo successivo Guglielmo di Moerbeke rese disponibili i
commenti di Proclo al Timeo ed al Parmenide.
Degli autori latini si conoscevano soltanto alcune opere o frammenti
di Cicerone e Seneca, mentre quasi del tutto ignorato fu Lucrezio.
Fra i Padri della Chiesa, detti
sancti in opposizione ai semplici
philosophi pagani, il primo posto spettava ad Agostino seguito da
Origene, Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa, Lattanzio, san
Gerolamo e sant’Ambrogio.
Di particolare interesse furono in età carolingia gli scritti di Dionigi
l’Areopagita e di Massimo il Confessore.
Una collocazione particolare occupavano gli scritti degli autori arabi
ed ebrei che contribuirono in maniera decisiva allo sviluppo del pensiero
filosofico e scientifico.
e) Periodi e problemi della filosofia medioevale
34
Esaminiamo, adesso, il rapporto intercorrente fra cristianesimo e
cultura pagana, un rapporto conflittuale che si consumò
contemporaneamente al crollo della società antica.
Gli dei che avevano reso grande la società
pagana erano tramontati
con l’Impero romano e la nuova religione si era ben presto trovata
padrona del campo.
Si trattava, però, di una Chiesa molto giovane, ancora impegnata a
definire la propria fisionomia e preoccupata tanto a difendersi da ogni
influenza estranea, quanto a fondare una propria tradizione
appropriandosi del pensiero antico e adattandolo al proprio modello.
A riprova di ciò è sufficiente riportare le parole di Agostino, il quale
così scriveva: “Non solo non dobbiamo temere ciò che hanno detto i
filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti sono veri e
congeniali alla nostra fede, ma dobbiamo rivendicarli da loro come da
ingiusti possessori”.
Riletti alla luce della religione, i testi degli antichi entrarono a far
parte della filosofia medioevale ma molti di essi andarono perduti e per
secoli l’Occidente li conobbe soltanto attraverso sintesi enciclopediche e
commenti redatti dagli studiosi della tarda antichità che li avevano letti.
Una prima inversione di tendenza rispetto a questa situazione si ebbe
quando il Sacro Romano Impero, fondato da Carlo Magno, ricostituì
l’unità politica dell’Europa occidentale.
L’imperatore chiamò presso di sé i migliori ingegni del tempo e in
particolare Alcuino di York, il quale organizzò la cosiddetta Scuola
palatina, dove si avvicendarono almeno tre generazioni di intellettuali,
che diedero vita alla “rinascenza carolingia”.
La vera grande rinascita culturale, però, doveva ancora attendere un
paio di secoli e sarebbe avvenuta sulla spinta della ripresa economica che
segnò l’anno mille.
Con il XII secolo si sviluppò un nuovo interesse per il sapere, mentre
si andò sempre più diffondendo la convinzione che non tutto fosse stato
detto ma che la scienza potesse ancora progredire.
Con la ripresa degli studi si riaprì la disputa fra cultura filosofica e
rivelazione religiosa: da una parte i cosiddetti dialettici, i quali
affermavano la validità delle dimostrazioni razionali applicabili anche ai
problemi della teologia cristiana, dall’altra gli antidialettici, secondo i
quali il potere profano non poteva limitare il primato della fede.
In altre parole, il problema è quello intercorrente fra fede e ragione,
fra credere e intelligere, un problema che sarà specifico di tutta la
speculazione medioevale.
35
Nella disputa fra filosofia e religione, fra ragione e fede, influì non
solo l’opera degli antichi maestri, Platone e Aristotele, ma anche il
parere dei commentatori musulmani che l’avevano trasmessa in
Occidente come il persiano Avicenna, vissuto fra il 980 e il 1037, e
l’arabo Averroè (1126-1198).
Soprattutto il secondo fu l’ispiratore di un indirizzo filosofico, detto
“averroismo”, che fece numerosi proseliti.
Accogliendo letteralmente le tesi aristoteliche, gli
averroisti
sostenevano l’eternità della materia e del mondo e risolvevano la
contraddizione che ciò comportava con il concetto di creazione,
suggerendo l’esistenza di una doppia verità differentemente valida per
l’ambito della fede e per quello della ragione.
Le tesi averroiste, sostenute nell’università di Parigi da
Sigieri di
Brabante suscitarono varie reazioni, fra cui l’opposizione del ministro
generale dell’Ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio, il quale
sosteneva la svalutazione del pensiero filosofico, indicando nella
teologia l’unica scienza a cui tutte le altre dovevano essere ricondotte.
I tempi, però, andavano cambiando e non si poteva più sostenere la
totale chiusura nei confronti del sapere profano; la società si andava
sempre più laicizzando e gli intellettuali si rendevano conto del fatto che
la cultura religiosa avrebbe potuto conservare il proprio prestigio
soltanto se si fosse dimostrata capace di accogliere i prodotti della
tradizione filosofica.
A questo obiettivo si dedicò il domenicano Tommaso d’
Aquino
(1221-1274) abbandonando l’impostazione agostiniana, che voleva
recuperare al cristianesimo il pensiero platonico e neoplatonico, e
rivolgendosi ad Aristotele.
Con Tommaso la teologia assume il carattere di una scienza che ha i
suoi fondamenti nella Rivelazione e, quindi, nella mente divina.
Anche la filosofia, però, gode di un suo autonomo statuto scientifico;
essa è garantita dalla ragione umana creata da Dio perché possa accedere
alla verità.
Così la filosofia aristotelica, massimo prodotto della ragione naturale,
se pure non può farci giungere alla conoscenza di Dio, può, tuttavia,
condurci fino alle soglie della Rivelazione.
Il pensiero di Tommaso, sostenuto dal potente Ordine domenicano, fu
egemone nella scolastica del tardo Medio Evo; tuttavia fu contrastato
dai francescani fedeli all’impostazione del loro generale Bonaventura.
Soprattutto nell’università di Oxford, dove essi erano molto influenti,
si sviluppò una scuola di pensiero che ribadiva l’importanza della
36
ragione sia per la chiarificazione dei dogmi di fede, sia per la
dimostrazione della loro credibilità.
I maestri di Oxford, che in questo modo stabilivano la completa
indipendenza della fede dalla ragione, però, sostenevano che anche
quest’ultima avesse un ambito dove sviluppare autonomamente la
propria ricerca.
In altre parole, se la teologia non può essere considerata come una
scienza empirica, sottoposta alle verifiche del procedimento logico e
razionale, anche le scienze devono essere svincolate dalla teologia, libere
di indagare nei propri ambiti con gli strumenti che posseggono.
A quanto detto fin qui occorre aggiungere la comune periodizzazione
della filosofia medioevale.
In essa si è soliti distinguere tre fasi principali, che corrispondono
quasi al ciclo di evoluzione naturale della civiltà del Medio Evo.
Si parla, così, di una primavera della filosofia scolastica, che va dalla
rinascenza carolingia al secolo XI, di una estate o età d’oro, secoli XIIXIII, e del suo autunno, che va dal secolo XIV ai primi del XV.
a)
Fede e ragione
c)
Dionigi l’Areopagita e Giovanni
Scoto Eriugena
37
II.3- Il pensiero filosofico e teologico da Boezio ad Anselmo d’Aosta
a) Fede e ragione
38
La filosofia cristiana è caratterizzata dal problema intercorrente fra
fede e ragione o, per meglio dire, fra rivelazione e dialettica.
Questo prevalente orientamento “teologico” della indagine filosofica
non è esclusivo del Medio evo cristiano ma accomuna le tre maggiori
tradizioni religiose del mondo occidentale, ebraismo, cristianesimo e
islamismo, le quali hanno attribuito alla filosofia il ruolo di ancella della
teologia.
Il grado di asservimento è stato diverso a seconda dei periodi storici e
delle differenti tradizioni religiose ma in generale si può affermare che
alle indagini filosofiche non fosse consentito oltrepassare i limiti dei
presupposti religiosi.
Tuttavia, occorre ricordare che per l’uomo del Medio Evo e, quindi,
anche per il filosofo, il cristianesimo non è soltanto una religione o una
posizione culturale; esso, piuttosto, è un’atmosfera vitale che pervade
tutte le manifestazioni sociali, culturali ed artistiche del tempo.
Posto di fronte alle ragioni della sua fede, egli si chiederà non tanto se
quella fede sia vera, quanto come sia possibile tradurre le “evidenze
vissute” della fede nei termini comprensibili della logica e del
linguaggio.
Interrogato sul valore della Rivelazione e delle Sacre Scritture, che
stanno alla base della fede, non si domanderà se tale rivelazione
costituisca un presupposto accettabile oppure un ostacolo per il libero
esercizio del proprio giudizio, ma come sia possibile dimostrare la
superiorità razionale di tale rivelazione.
Con l’emergere, a partire dal XII secolo, di una più complessa figura
di intellettuale, non più solo teologo e chierico ma detentore di un sapere
magistrale tecnicamente e filosoficamente elaborato, il problema dei
rapporti fra rivelazione e dialettica verrà risolto entro i rispettivi ambiti
disciplinari della teologia e della filosofia, finalmente riconosciute nella
loro autonomia relativa e necessaria collaborazione.
Esso verrà, inoltre, concepito in una gamma così varia di sfumature e
soluzioni, che si possono cogliere solo all’interno dell’esame specifico
delle diverse scuole e tradizioni.
b) Boezio e la tarda patristica
39
Tra gli autori della tarda patristica Boezio è probabilmente colui nei
cui confronti la cultura medioevale ha contratto il debito maggiore6.
La sua opera di traduzione e commento dei principali scritti di logica
di Aristotele è rimasta per secoli la fonte principale per la conoscenza del
pensiero dello Stagirita nell’Occidente latino.
I suoi trattati di aritmetica, geometria e musica saranno nel Medio Evo
alla base dell’insegnamento delle materie del quadrivio.
Anche i suoi scritti teologici ebbero grande fortuna, in particolare il
trattato sulla Trinità, commentato anche da Tommaso d’Aquino.
La sua fama maggiore è legata ad un’opera personalissima, composta
in carcere nell’ultimo anno di vita, il celebre De consolatione
philosophiae, destinato a rimanere un classico della letteratura europea
di tutti i tempi.
In esso l’eredità culturale della Grecia (Platone, Aristotele, lo
stoicismo) e di Roma (Cicerone) si incontra, fondendosi, con la nuova
spiritualità cristiana (Agostino), mostrandoci il suo autore come l’ultimo
degli antichi e il primo rappresentante del Medio Evo.
Per alcuni critici
Boezio sarebbe addirittura l’iniziatore della
scolastica, non solo per il fatto di avere enucleato dal pensiero antico
tutti quei problemi di ordine logico- ontologico che saranno tipici del
realismo medioevale, ma per lo spazio maggiore lasciato alla filosofia e
all’indagine razionale anche in materia teologica.
L’opera sua maggiore, il De consolatione philosophiae, è importante
per la tematica fede-ragione e si muove all’interno di una
consapevolezza culturale e religiosa cristiana7.
6
Nato a Roma nel 480 ca. e morto a Pavia nel 526, Anicio Manlio Torquato
Severino Boezio, filosofo e letterato latino, fu educato a Roma secondo il modello
retorico- filosofico della classicità; completò gli studi ad Atene e ricoprì importanti
cariche alla corte di Teodorico. Console nel 510 e maestro di palazzo nel 523, fu
l’ispiratore di una politica di sintesi fra romanesimo e germanismo. Accusato di
tradimento, venne imprigionato nel 525 e giustiziato l’anno seguente
7
Il De consolatione philosophiae, concepito in carcere nell’ultimo anno di vita, è
un’opera complessa sia nella forma che nella stratificazione delle influenze: oltre a
Cicerone, il Timeo platonico e forse il Protrettico di Aristotele, è presente anche la
contemporanea filosofia neoplatonica di Proclo, Ammonio e i suoi allievi accostata
probabilmente nei circoli del neoplatonismo alessandrino. L’opera è costruita come
un dialogo e divisa in cinque libri. Nel primo la filosofia, personificata in una “donna
di aspetto venerando”, che appare nel carcere per consolarlo delle sue disgrazie,
esorta il filosofo a ricordarsi delle dottrine da lui un tempo professate e che ora, colto
da una sorta di malattia letargica che lo ha condotto alla disperazione, ha come
dimenticato. Nel secondo la filosofia dimostra a Boezio quale sia la vera natura della
fortuna e dei beni che sono ad essa legati. Egli non può accusare la fortuna delle
40
In essa, tuttavia, sembra assente il primo dei due termini del rapporto,
vale a dire la Rivelazione, e ciò può in parte essere spiegato se ci si rifà
al mutato clima spirituale dell’epoca in cui visse Boezio, rispetto a
quello dei Padri altomedievali.
Benché le dispute teologiche non si fossero sopite nel mondo cristiano
e coinvolgessero sempre più il potere politico, tanto in Occidente quanto
in Oriente, esse, da tempo, non assumevano più le forme apologetiche di
una lotta contro la filosofia e la religione del paganesimo.
Ciò spiega il tono quasi razionalista con cui Boezio affronta i concetti
filosofico- morali di Dio, del bene e del male, della provvidenza, della
libertà.
Coniugando tra loro Platone e gli stoici, il Protrettico di Aristotele e
Agostino, Cicerone e il neoplatonismo, Boezio fa convergere fede e
ragione, saggezza filosofica e cristianesimo, lasciando sullo sfondo il
piano specifico del soprannaturale e della Rivelazione.
La quasi totale assenza di misticismo e la predilezione per il rigore
logico delle dimostrazioni spiegano a sufficienza la fortuna di Boezio
presso i posteriori maestri, che porranno maggiormente l’accento sullo
studio della dialettica, ma anche l’interesse per i suoi procedimenti
argomentativi dimostrato da teologi come Anselmo d’Aosta e Duns
Scoto.
proprie disgrazie, giacché essa è stata larga di beni con lui nel momento
“ascendente” della sua vita, ed è ingiusto accusarla del fatto che, nel momento
“discendente” della sua vita quei beni abbiano lasciato il posto ad altrettanti mali: il
carcere, la malattia, la povertà, il disonore. Nel terzo libro la filosofia, con la
crescente collaborazione di Boezio che sta guarendo dalla sua malattia, mostra quale
sia la natura della vera e falsa felicità e identifica la seconda con il possesso del
sommo bene coincidente con Dio. Il quarto libro affronta il problema del male e si
chiede se la sua presenza nel mondo non sia una obiezione contro la convinzione
filosofica in una provvidenza divina. Pur senza negare l’evidenza del male, la
filosofia dimostra che è comunque meglio imitare i buoni anziché i malvagi, e
sottolinea la difficoltà e oscurità dei nostri concetti di bene e di male. Nel quinto
libro, infine, viene affrontato il problema del rapporto tra prescienza divina e libertà
umana, e risolto nei termini del gradualismo metafisico neoplatonico. Ogni natura ha
un suo modo specifico di conoscere che è determinato non dall’oggetto conosciuto,
ma dalla stessa natura del conoscente. L’intelligenza divina conosce le cose in modo
diverso dalla ragione umana. Non bisogna stupirsi, quindi, se Dio, alla cui eterna
presenzialità è estranea ogni nozione di successione temporale, può contemplare tutte
le cose in un eterno presente. Questa conoscenza degli eventi futuri non ne modifica
peraltro la natura. Dio conosce gli eventi necessari (i fenomeni naturali) come
necessari e quelli liberi e contingenti(le azioni umane) come liberi. In tal modo viene
difeso e salvaguardato, accanto alla provvidenza divina, il libero arbitrio, fondamento
e presupposto della moralità
41
Prima, però, che questo indirizzo razionalistico cominci ad affacciarsi
sulla scena filosofica del Medio Evo, dovranno passare diversi secoli
(cioè non prima della seconda metà dell’XI secolo).
Nel frattempo, la riflessione teologica sembrerà imboccare la via
opposta del misticismo, che troverà nei testi di Dionigi Areopagita una
delle principali fonti d’ispirazione.
c) Dionigi l’Areopagita e Giovanni Scoto Eriugena
Giovanni Scoto Eriugena è considerato il primo grande filosofo del
Medioevo.
La sua opera maggiore, il trattato De divisione naturae, rappresenta la
prima summa teologico- dottrinale in cui prevale l’impronta
neoplatonica.
Egli vuole armonizzare il pensiero
di Agostino con quello dei
neoplatonici greci, la patristica occidentale con quella orientale.
Specialmente la sua opera di traduttore e commentatore del
Corpus
8
areopagiticum eserciterà un profondo influsso sul posteriore pensiero
teologico e mistico.
Con gli scritti di Dionigi e di Massimo il Confessore, la teologia
mistica fa il suo ingresso nell’Occidente cristiano.
La tesi fondamentale di Dionigi è l’assoluta incomprensibilità e
trascendenza di Dio.
Noi tendiamo ad accostarci alla natura divina per mezzo della teologia
affermativa o catafatica, che attribuisce a Dio i nomi tratti dalle Sacre
Scritture, definendolo uno, buono, vivente, e così via.
Quando, però, ci rendiamo conto che Dio supera ogni nostra capacità
di predicazione, siamo costretti a ricorrere all’opposto procedimento
della teologia negativa o apofatica, che nega, cioè, tutti i predicati
attribuiti precedentemente a Dio dalla teologia affermativa.
8
Con l’espressione Corpus areopagiticum si intende l’insieme degli scritti di Dionigi
l’Areopagita. Secondo alcuni studiosi, esso fu compilato tra il IV e il V secolo in
Siria e inviato nell’827 dall’imperatore di Bisanzio Michele a Luigi il Pio. L’autore,
a noi ignoto, presenta se stesso come discepolo di san Paolo, per cui venne
identificato con Dionigi componente dell’Areopago (=tribunale di Atene), che era
diventato cristiano dopo avere seguito la predicazione di Paolo. Per mettere in rilievo
il carattere apocrifo di questi scritti, il loro autore venne chiamato pseudoAreopagita. Il Corpus areopagiticum propone un sistema filosofico di ispirazione
neoplatonica che delinea tutto il reale nella sua derivazione da Dio. esso consta di
quattro trattati: Theologia mystica, De hyerarchia celesti, D e ecclesiastica
hyerarchia, De divinis nominibus
42
Il solo atteggiamento possibile di fronte all’assoluta trascendenza di
Dio è, infatti, quello della “dotta ignoranza”, secondo la quale noi
conosciamo Dio nel migliore dei modi ammettendo la nostra ignoranza a
proposito della sua natura.
Questa prospettiva consente una conciliazione tra teologia affermativa
e teologia negativa per mezzo della teologia simbolica o superlativa,
nella quale Dio può essere detto super-essenza, super-bontà, super-vita,
ecc.
Il prefisso
super afferma e contemporaneamente nega la
determinazione che segue: per esempio, Dio è buono, ma non nel senso
della comune bontà, che è l’opposto della malvagità, perché egli è al di
là di ogni opposizione.
L’ispirazione mistica, controbilanciata da
una opposta esigenza
razionale, si ritrova nell’opera maggiore di Giovanni Scoto Eriugena, il
De divisione naturae, in cui si sottolinea che fede e ragione non si
possono contraddire, in quanto sono ambedue emanazioni dell’unica
“scienza” divina.
Il punto di partenza di qualunque ricerca
della verità non può che
essere la Rivelazione, ma l’unico strumento che ci può guidare in tale
ricerca è la ratio, la nostra ragione.
La ragione è arbitra dell’interpretazione che
diamo delle Sacre
Scritture, sia nel caso di una contraddizione tra significato letterale o
storico e significato spirituale o simbolico delle Scritture, sia in quello di
un conflitto tra la ratio e l’auctoritas dei Padri della Chiesa.
In una allegoria suggestiva l’autore paragona il senso recondito delle
Scritture, che richiede uno sforzo di interpretazione razionale, al niveo
candore assunto dalla veste di Cristo nell’episodio evangelico della
trasfigurazione.
L’aspetto di Cristo prima e dopo la trasfigurazione simboleggia le due
“vesti” in cui Dio si manifesta agli uomini: da un lato la “lettera” della
Rivelazione biblica, dall’altro l’aspetto “sensibile” della natura creata.
Ora, la veste ci separa dal corpo della verità e occorre una ricerca per
poter giungere fino alla verità; vale a dire, Dio si rivela agli uomini, ma,
data la sua ineffabile trascendenza, al tempo stesso si nasconde nella
Rivelazione e chiede di essere “scoperto”.
Infiniti sono i significati delle Scritture, perché infinita e inesauribile
è la natura divina che esse inadeguatamente esprimono.
Da qui discende la sostanziale equivalenza delle varie interpretazioni
patristiche, tra cui è arbitra solo la ragione.
43
Il significato letterale delle Scritture non può bastare ma va
oltrepassato verso un più profondo significato spirituale.
A questi concetti si ispira la teologia scotista, che mira ad attuare, in
nome della ratio, una conciliazione di teologia affermativa e negativa.
Il concetto cui essa si ispira è di origine neoplatonica: la presenza
complementare, nella realtà, di essere e non essere e la conseguente
incomprensibilità dell’essenza.
Del reale possiamo conoscere soltanto l’esistenza, il quia est , e non
l’essenza, il quid est.
Così, di Dio possiamo inferire l’esistenza mediante una conclusione
analogica dagli effetti (=il mondo creato) alla causa (=il creatore), ma
non potremo mai conoscerne l’essenza.
E’, dunque, certissimo che Dio (=la causa) esiste, altrimenti non ci
sarebbero i suoi effetti, cioè il mondo creato, ma è del tutto
incomprensibile che cosa sia questa natura suprema, da cui tutto deriva
mediante un movimento di progressivo allontanamento e di ritorno
all’unità.
Nel De divisione naturae è descritto il processo dialettico di divisione
e di riunificazione dell’unica natura in quattro zone distinte: la natura che
non è creata e che crea (=Dio padre); la natura che è creata e crea (=le
idee archetipe); la natura che è creata e non crea (=le cose sensibili); la
natura che non crea e non è creata (=Dio come fine di tutta la creazione).
Il processo di creazione o divisione è inteso come una successione di
teofanie: Dio, che è la causa prima, tende per necessità intrinseca a
manifestarsi; tale necessità non è, però, costrizione, dal momento che è
Dio stesso a porre le leggi della propria manifestazione, le quali fondano
poi l’essere delle cose molteplici e individuali.
Dio, la cui essenza è, come detto,
inconoscibile, si manifesta
nell’essenza di tutte le cose e ciò avviene perché il conoscere di Dio si
identifica con la sua attività creativa, dapprima nella seconda natura,
quando Dio conosce tutte le cose nella segreta intimità del Verbo, e
successivamente quando appare, obiettivandosi nelle entità finite
spazialmente e temporalmente circoscritte, pur senza perdere la propria
trascendenza.
Al processo di divisione segue il ritorno di tutte le cose a Dio, alla
base del quale c’è l’istanza di unità che spinge gli esseri a desiderare il
proprio completamento nell’unione definitiva con Dio.
La morte, che rappresenta la massima dispersione, coincide con la
prima tappa del ritorno, cui segue la resurrezione dei corpi e la perfetta
intellezione nella vita beata.
44
d) Pier Damiani antidialettico
La mistica dionisiaca dà luogo in Giovanni
Scoto Eriugena ad una
delle più potenti sintesi filosofiche di tutto il Medio Evo, ma due secoli
dopo ben diversa sarà la sua influenza su Pier Damiani.
Questi è stato considerato l’esponente più rappresentativo
di quella
tendenza antidialettica che si richiama, in teologia, alla interpretazione
letterale delle Sacre Scritture e, in filosofia, svaluta la logica a favore
della semplice fede e della morale.
Con lo scritto De divina omnipotentia egli si inserisce nel dibattito
teologico del tempo, discutendo del rapporto tra libertà e onnipotenza in
Dio.
Pier Damiani si domanda se Dio possa far sì che una cosa avvenuta
non sia avvenuta e, prima di dare una risposta al quesito, prende in
esame le caratteristiche dell’agire divino; mostra, così, come in Dio non
ci sia successione di passato e di futuro, perché tutto gli è eternamente
presente.
Sostiene, inoltre, che l’esistenza di una cosa dipende strettamente
dall’essere pensata e voluta da Dio e che Dio, oltre a non poter fare il
male, non può nemmeno volere il contraddittorio.
All’interrogativo se Dio possa far non essere ciò che ha fatto, Pier
Damiani risponde, perciò, negativamente: facendo non essere una cosa
da lui voluta, Dio annullerebbe il volere precedente.
Una eventuale risposta affermativa, cioè, finirebbe con il porre
l’assurda ipotesi che Dio possa contemporaneamente volere e non volere
la stessa cosa.
e)La sintesi di Anselmo d’Aosta
Vissuto fra il 1033 e il 1109, Anselmo d’Aosta riprende il tema tipico
di tutta la speculazione medioevale, quello del rapporto fra fede e
ragione, e sostiene che la prima è il presupposto della seconda perché la
mente umana non può, da sola, raggiungere le verità divine.
Il suo motto, perciò, è credo ut intelligam, cioè credo per capire.
Però, anche se la fede è l’inizio della ricerca filosofica, la ragione non
deve rimanere inerte; anzi, essa ha il compito di scoprire e di spiegare le
verità divine, quando queste sono accessibili alla mente umana.
Naturalmente, la ragione non può arrogarsi il diritto di giudicare e
discutere le verità di fede e quando le sue conclusioni contrastano con i
dogmi, essa è sicuramente nell’errore.
45
Particolarmente importanti sono in Anselmo le prove che egli adduce
per dimostrare l’esistenza di Dio, tre a posteriori nel Monologion, una a
priori nel Proslogion.
Quelle a posteriori sono argomentazioni che muovono dagli effetti,
dalle conseguenze, sempre particolari, per risalire alla causa che è
universale; si va, cioè, dalle cose create a Dio; la prova a priori, invece, è
un argomento che trascura l’esperienza sensibile e trova nello stesso
concetto di Dio l’evidente certezza della sua esistenza, in modo che lo
stesso ateo ne rimanga convinto.
In questo caso l’esistenza di Dio è dedotta dalla stessa idea di Dio.
Questa prova è detta anche argomentazione ontologica perché
conduce alla conoscenza dell’Ente assoluto.
Esaminiamo dapprima le prove a posteriori riportate nel Monologion.
Esse sono tre:
- Le cose del mondo sono beni limitati e perciò, in quanto tali,
rimandano ad un Bene assoluto, che è Dio, del quale partecipano in
diverso grado.
- Le cose del mondo esistono ma non per virtù propria perché non hanno
in sé il principio, la causa, della loro esistenza.
Esse sono, perciò, contingenti, cioè sono ma potrebbero non essere;
hanno quelle particolari caratteristiche ma potrebbero averne diverse
perché quelle qualità sono accidentali e non sostanziali.
La contingenza delle cose implica l’esistenza di un Essere necessario,
che sia la causa della loro esistenza.
- Le cose del mondo possiedono una maggiore o minore perfezione a
seconda della loro realtà e possono essere disposte gerarchicamente in
una classificazione alla cui sommità c’è l’Essere perfettissimo, che, in
diverso grado, partecipa la sua perfezione alle cose stesse.
E veniamo, adesso,
all’ argomentazione a priori riportata nel
Proslogion.
Prendendo lo spunto dal XIII Salmo, dove lo stolto disse in cuor suo
che Dio non c’è, Anselmo sostiene che anche l’ateo nel momento in cui
dice “Dio non è esistente”, possiede la nozione di Dio, perché egli
esprime un giudizio, anche se negativo (Dio = soggetto, è = copula, non
esistente = predicato), del quale ha, senza dubbio, nella mente i concetti.
Ciò significa che egli sa che cosa è Dio e che cosa significa non
esistere.
E qual è l’idea di Dio?
L’idea di Dio, risponde Anselmo, è quella dell’Essere del quale nulla
di maggiore può essere pensato.
46
Perciò, egli conclude, l’ateo si contraddice quando afferma che Dio
non esiste perché l’Essere, del quale nulla di maggiore può essere
pensato, in quanto perfettissimo, non può non avere, fra le altre
perfezioni, anche quella dell’esistenza.
In caso contrario, qualunque altra cosa che potesse essere pensata
esistente nella mente e nella realtà sarebbe più perfetta di Dio.
Di conseguenza, nell’Essere perfettissimo l’essenza non si distingue
dall’esistenza, vale a dire, l’idea di Dio coincide con l’esistenza di Dio
stesso.
L’argomentazione ontologica viene criticata da un contemporaneo di
Anselmo, il monaco Gaunilone, il quale afferma che pensiero e realtà
sono due cose distinte.
Infatti, egli sostiene, io posso pensare un’isola meravigliosa per
fertilità e ricchezza, la più perfetta fra tutte, ma non è detto che essa
debba esistere per il fatto che io la pensi.
Anselmo a questa obiezione risponde dicendo che le cose, e quindi
anche l’isola immaginaria, non possono essere perfettissime perché non
esistono cose di cui non si possa pensare qualcosa di maggiore.
Soltanto Dio è perfettissimo e quindi solo l’idea di Dio coincide con
l’esistenza di Dio stesso.
47
a)
Scienza e
teologia
b)
I maestri di Chartres
II. 4
Teologia e filosofia
naturale nel Medio Evo
c)
La filosofia della luce dei
maestri di Oxford
II.4- Teologia e filosofia naturale nel Medio Evo
a) Scienza e teologia
48
A partire dalla riflessione dei Padri della Chiesa il pensiero
medioevale fa riferimento ad un ideale di sapere basato sulla centralità
della visione complessiva di Dio e del mondo fornita dalle Sacre
Scritture.
In questa prospettiva le scienze profane hanno una funzione
semplicemente propedeutica e non costituiscono la philosophia, che deve
fondarsi essenzialmente sul testo sacro.
Però, se il sapere nel suo complesso ha come nucleo centrale la verità
delle Sacre Scritture, risulta essenziale chiarire il rapporto tra la nuova
saggezza cristiana e il patrimonio teorico e scientifico della filosofia
classica.
Agostino introduce a questo proposito una similitudine destinata ad
avere molta fortuna nella cultura medioevale: il cristiano deve
appropriarsi del sapere elaborato dal mondo pagano in funzione di una
migliore comprensione delle Scritture, così come nel racconto biblico il
popolo eletto, obbedendo ad un comando divino, ha sottratto agli
egiziani l’oro e l’argento.
Tale ideale di cultura, inteso soprattutto come appropriazione in una
prospettiva cristiana di un patrimonio di conoscenze appartenente ad
un’altra civiltà, troverà espressione nel mito della translatio studii
(=trasferimento della cultura) tipico del pensiero medioevale: il sapere
greco e latino va trasferito nel contesto del modello di razionalità
medioevale e rielaborato al fine di meglio interpretare e comprendere il
testo sacro.
Si verifica, pertanto, un rovesciamento della concezione classica di
sapere considerato come fine a se stesso, indipendentemente da
riferimenti estrinseci.
L’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti del mondo
naturale è variamente articolato, in quanto la centralità delle Scritture
pone in discussione tutto il rapporto del cristiano con la realtà.
L’autorità delle Scritture trasforma la finalità dell’indagine sul mondo,
che non è più, esclusivamente, l’interpretazione razionale dei fenomeni e
la ricostruzione delle cause e della struttura del reale, dal momento che la
causa prima e il termine finale sono già dati in Dio.
La lettura della Genesi, inoltre, pone i Padri della Chiesa di fronte a
difficoltà interpretative: la problematicità del testo sacro risultava
maggiore per la presenza, nell’orizzonte culturale dell’epoca, di teorie
(in particolare il neoplatonismo) sull’origine del reale, che, per molti
aspetti, si potevano conciliare con le Sacre Scritture, ma che per il loro
49
carattere filosofico introducevano nuove difficoltà sia a livello di
contenuti che di linguaggio.
Agostino, infatti, rifacendosi al neoplatonismo, afferma che Dio ha
svolto la sua azione creatrice esprimendosi tramite il Verbo (il Figlio e
seconda Persona della Trinità), il quale accoglie in sé i modelli archetipi
(le Idee di Platone) di tutti gli esseri.
La creazione è consistita in una parola e in un atto di volontà
dispiegatosi in un solo istante.
Anche nei secoli successivi la formazione del cosmo descritta nella
Genesi e il concetto di Dio come creatore costituiscono i temi più
problematici.
La tematica relativa alla nozione di creazione suggerisce riflessioni sul
ruolo che la ragione e la philosophia possono svolgere nella lettura del
testo sacro.
Gran parte della filosofia medioevale si è sempre confrontata con la
problematica relativa ai rapporti tra Dio, mondo naturale e ragione,
vagliando tutti i nessi e approdando a posizioni diverse a seconda
dell’ambito culturale in cui questi temi vennero affrontati.
In questo contesto è opportuno evidenziare le posizioni di Giovanni
Scoto Eriugena, della Scuola di Chartres e di quella di Oxford.
Per la trattazione del pensiero dell’ Eriugena si rinvia a quanto detto in
II.3.c: Dionigi l’Arepagita e Giovanni Scoto Eriugena.
b) I maestri di Chartres
La scuola di Chartres propone una nuova immagine della ragione e
della natura.
Fu uno dei centri più attivi in Francia, dove si venne sviluppando la
nuova cultura.
Fondata dal vescovo Fulberto nell’ultima decade
del X secolo, si
sviluppò durante l’XI soprattutto per opera di Ivo di Chartres, per
divenire, sotto la guida di Bernardo, nel XII, un grande punto di incontro
internazionale per studiosi e chierici.
Le principali fonti della scuola sono costituite, oltre che dalle autorità
tradizionali, dal Timeo di Platone nella traduzione latina di Falcidio,
dalle opere logiche e teologiche di Boezio, da diversi trattati scientifici
arabi che vennero allora tradotti in latino.
Il tratto culturale proprio della scuola consistette nel tentativo di
applicare alle discipline scientifiche del quadrivio (aritmetica,
geometria,musica e astronomia) le arti logiche del trivio (grammatica,
50
retorica e dialettica) in funzione della completezza della ricerca
scientifica.
Lo studio del Timeo, che spiega la genesi del cosmo in termini diversi
da quelli del racconto biblico della Genesi, provocò nei maestri di
Chartres il bisogno di tentare una conciliazione tra filosofia e fede, che
essi operarono ricorrendo, sulla scia di Giovanni Scoto Eriugena, ad una
sorta di platonismo cristiano, secondo cui le forme eterne, gli archetipi
delle realtà sensibili, coincidono con le idee presenti da sempre nella
mente del Creatore.
La natura è vista come la prima creatura, portatrice delle leggi e
dell’ordine dell’universo.
L’uomo è al centro di essa e viene inteso come microcosmo, come la
creatura più perfetta che riassume in sé tutto l’universo in miniatura.
L’uomo deve essere studiato integralmente e i vari studi di anatomia
insieme con lo sviluppo della medicina e dell’igiene attestano uno
specifico interesse anche per il corpo umano.
Questo atteggiamento ha preso il nome di “umanesimo
chartriano”
non soltanto perché la scuola di Chartres studiò gli autori classici ma
anche perché, ponendo l’uomo al centro del creato, ne fece il
continuatore dell’opera di Dio e della natura.
La ragione, vista come desiderio di conoscere, ha, secondo Bernardo
di Chartres9, trovato la sua applicazione nei grandi filosofi antichi,
rispetto ai quali i dotti contemporanei non sono altro che “nani sopra le
spalle dei giganti”.
La filosofia classica costituisce, così, il fondamento dell’edificio che i
nuovi maestri intendono costruire.
Nella conoscenza dell’ordine del mondo la ragione, pur muovendo dal
racconto biblico, si serve della filosofia antica ed ha come compito
fondamentale non solo la chiarificazione delle Sacre Scritture ma
soprattutto l’interpretazione fisica del mondo naturale.
Infatti, a Chartres il pensiero medioevale scopre che la natura può
essere considerata come una realtà autonoma retta da leggi che le sono
proprie e non più, come voleva Scoto, una proiezione del mondo delle
essenze e di Dio.
Accanto a Bernardo va ricordato il fratello minore Teodorico, il quale
nel suo commento alla Genesi, intitolato Hexaemeron o De septem
diebus, spiegò la nascita dell’universo facendo ricorso alla causa
materiale.
9
Bernardo di Chartres fu il primo grande maestro di filosofia della scuola, vissuto
nel XII secolo
51
Da qui la tesi secondo la quale la creazione divina si ferma con la
produzione dei quattro elementi; in seguito, la “fabbrica del mondo”
procede autonomamente secondo la propria razionale struttura, riducibile
al movimento matematico di atomi o particelle elementari.
In sede teologica egli, sotto l’influenza di Giovanni Scoto Eriugena e
di Boezio, elaborò la tesi dell’”esemplarismo”: Dio è forma essendi di
ogni cosa e come tale Egli è in ogni cosa.
Dal momento che questa teoria portava direttamente al panteismo,
Teodorico fece ricorso alla tesi del carattere “esemplare” dell’unità
divina: come la serie dei numeri presuppone l’unità da cui deriva, così la
molteplicità delle creature presuppone una unità trascendente in cui essa
si ritrova “esemplata” e come “complicata nella semplicità divina”.
c) La filosofia della luce dei maestri di Oxford
La scuola di Oxford (XIII secolo) riprende l’interesse dei maestri di
Chartres per le discipline del quadrivio e prosegue, pur accogliendo
anche alcuni elementi della fisica e della logica di Aristotele, la
tradizione del platonismo agostiniano coniugandola con lo studio delle
discipline matematico-geometriche e con quello delle lingue (greco ed
arabo), che permetteva di accedere ai testi filosofico- scientifici
dell’antichità.
I maestri di Oxford elaborarono una philosophia della natura che,
muovendo dalle discipline del quadrivio, si risolve in una serie di
ricerche di carattere fisico, ottico ed astronomico.
Le loro analisi partono dalle interpretazioni della Genesi, secondo la
quale Dio ha creato il mondo secondo “quantità, numero e misura” e
considerano la luce come la prima creatura, che è sostanzialmente
corporeitas, cioè sostanza corporea.
Di conseguenza, il biblico Fiat lux (=sia la luce), che rappresenta il
primo atto creativo di Dio, costituisce l’intelaiatura quantitativa di tutto
l’universo, anche quello materiale.
Come tipico rappresentante della filosofia della luce occorre ricordare
Roberto Grossatesta, il quale considera la luce come l’essenza di tutti gli
esseri, essenza che costituisce la realtà nel suo complesso.
Tutto il reale, ossia quanto è luce, procede secondo leggi geometriche
che trovano la loro più completa esplicazione nella geometria di Euclide.
Allorquando descrive nel
De lineis il costituirsi della natura,
Grossatesta introduce una spiegazione geometrizzante del mondo fisico
per cui dai punti hanno origine le linee e gli angoli, da questi le superfici
e dalle superfici i corpi solidi.
52
In tal modo vengono interpretati tutti i fenomeni naturali.
Di conseguenza, la luce è il fondamento fisico di ogni fenomeno e lo
studio della diffusione geometrica della luce permette di comprendere
l’azione delle “cause seconde” (=leggi razionali di tipo matematico) che
regolano il reale.
Alla scuola di Oxford risulta, quindi, estranea la descrizione di tipo
qualitativo del reale (ossia la fisica) formulata da Aristotele, anche se
ampiamente ripresa in questo periodo da maestri parigini come Alberto
Magno e Tommaso d’Aquino.
Grossatesta, infatti, nelle sue opere, pur richiamandosi ad
argomentazioni aristoteliche, si allontana da questa filosofia allorquando
descrive la struttura matematico- geometrica del reale.
La fisica è, infatti, per i maestri di Oxford lo studio delle proprietà
delle figure e delle leggi del movimento; si fonda, pertanto, sulla
geometria.
Dopo la creazione, la luce si propaga per virtù propria in ogni
direzione e in modo istantaneo, cosicché il punto luminoso diventa il
centro della propagazione di una sfera di luce sempre più ampia e
diffusa.
In questo “punto” la luce non presenta né dimensioni né grandezza,
mentre la sfera che viene formata possiede, invece, estensione e
determinazioni quantitative.
Nel diffondersi della luminosità si produce anche la materia presente
concentrata nel punto luce.
Ma come avviene il passaggio da una realtà inestesa ad una realtà che
ha dimensione?
Grossatesta attribuisce questo passaggio alla moltiplicazione infinita
di quanto è simplex,cioè inesteso, vale a dire la luce.
Essa, moltiplicata infinite volte, estende la materia in dimensioni di
grandezze finite più o meno estese.
Secondo Grossatesta, infatti, una realtà inestesa come la luce può
generare, se moltiplicata per un numero infinito di volte, l’estensione
della materia nello spazio poiché “quanto è prodotto dalla
moltiplicazione infinita di una realtà supera come complessità questa
entità stessa”.
Nella luce è, quindi, presente
una vis multiplicativa (=forza di
moltiplicazione), un potere naturale di generazione e di propagazione
della luce che origina il cosmo costituito da una serie di sfere
concentriche.
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Le sfere periferiche risultano più rarefatte a causa dell’indebolirsi
dell’intensità della luce proporzionale alla distanza dal punto originario
di luce.
Da un punto di vista cosmologico, la luce, continuando nella sua
espansione, dà luogo alla formazione delle stelle.
La disgregazione della luce porta alla formazione della prima sfera (le
stelle fisse) a cui corrisponde la massima rarefazione della materia;
successivamente, quando risulta esaurita la possibilità di rarefazione
della luce, il limite esterno della sfera così formata costituisce il
firmamento che, a sua volta, riflette una luce che dà luogo alle nove sfere
celesti, compresa quella della luna.
La luce viene vista come creatura divina che ha la funzione di
costituire la dimensione dello spazio e della materia, mentre il lumen
come luce depotenziata costituisce e illumina le sfere celesti, e quindi la
terra.
I maestri di Oxford hanno, così, elaborato una filosofia della luce che
pone al centro del sapere la matematica e la geometria.
Questa teoria che vede leggi matematiche operanti nel mondo fisico,
porta Grossatesta e il suo allievo Ruggero Bacone ad elaborare una
immagine del sapere destinata ad allontanarsi dalle riflessioni dei maestri
parigini del tempo.
In particolare, per Bacone il sapere è composto dalla
ratio, intesa
come argomentazione deduttiva, e dall’experientia, ossia osservazione.
L’argomentazione deduttiva viene da lui intesa come deduzione di
tipo matematico costruita sul modello degli Elementi di Euclide.
L’opera di Euclide è, infatti, elaborata sulla base di una esigenza
dimostrativa che si esplica in un processo conoscitivo che muove da
proposizioni di carattere generale, cioè gli assiomi, i postulati e le
definizioni, dalle quali si snodano lunghe serie di enunciati tra loro
concatenati e di dimostrazioni di teoremi, costituendo, così, una catena
deduttiva continua e rigorosa.
Questo procedimento conoscitivo aveva avuto una scarsa diffusione
nella cultura medioevale, che si era orientata, invece, verso la deduzione
sillogistica di origine aristotelica.
Solo con Bacone il procedimento deduttivo di tipo
euclideo viene
posto alla base della ratio, mentre il procedimento sillogistico è
considerato secondario.
La deduzione è, però, soltanto un momento del processo conoscitivo.
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Infatti, se il fondamento del fenomeno fisico è di tipo geometrico e
immanente al fenomeno stesso, l’osservazione dei fenomeni del mondo
naturale può integrare il ragionamento.
E’ necessario, pertanto, arricchire il piano della
ratio con le
osservazioni proprie dell’experientia sensibile prodotta dai cinque sensi.
L’esperienza sensibile come osservazione è, quindi, in
Bacone un
momento centrale e può anche essere arricchita dalla introduzione di
strumenti, destinati ad estenderla nelle sue capacità di ricezione.