APIM
Associazione Professionale Italiana Musicoterapeuti
Aderente CONFIAM: Confederazione Italiana Associazioni Musicoterapia
Con il patrocinio di:
Dipartimento di Scienze Psichiatriche Università di Genova
Musicoterapia
CORSO TRIENNALE DI MUSICOTERAPIA Silenzio e Musica Una riflessione per la musicoterapia Clarinda Lawry Relatore: Dott. Gerardo Manarolo Torino 2013 1 2 a Riccardo the light of my life 3 4 INDICE 1. Il silenzio a) Premessa b) Oggi non c’è posto per il silenzio c) L’influenza sul linguaggio d) Il bisogno di silenzio e) La parola ha bisogno di silenzio f) I Padri del deserto g) L’aspetto comunicativo del silenzio h) Il silenzio e l’ascolto 2. Il silenzio in musica a) Premessa b) Gerarchia: suono/silenzio c) Pausa, cesura, corona d) Il respiro e) La musica classica: quattro esempi f) Il XX secolo g) Il silenzio nella musica di Alan Berg h) Il silenzio nella musica di Anton Webern i) Il silenzio nella musica di Arnold Schönberg j) John Cage k) Luigi Nono e il silenzio “musicale” 5 3. Il silenzio nella terapia 4. L’importanza del silenzio nella musicoterapia a) Premessa b) Accoglienza c) Ascolto d) Attesa e) Il silenzio dentro di sé f) Il silenzio totale o il falso-­‐silenzio 5. Caso clinico – Paziente portatrice di esiti d’ictus cerebrale 6. Caso clinico – Giovane paziente autistico 7. Uno studio sulla realtà musicale in soggetti affetti da sordità Bibliografia 6 7 8 1. IL SILENZIO Il silenzio in una chiesa vuota. Il silenzio in una sala pre-­‐operatoria in ospedale. Il silenzio in una fitta foresta sotto la neve. Il silenzio di un lutto. Il silenzio in teatro, il direttore d’orchestra immobile prima dell’inizio. Il silenzio tra due amanti. Il silenzio tra due persone in un rapporto esasperato. Il silenzio non è semplicemente l’assenza del rumore ma è un fenomeno complesso; non è solo una forma di espressione ma ha molteplici significati ed è portatore di emozioni, informazioni e comunicazioni infinite. Ci sono silenzi d’imbarazzo, di frustrazione, di rancore e di ansia. Ma c’è anche un silenzio di approvazione e condivisione, un silenzio di promessa e accettazione. Il silenzio non è “un vuoto” ed è necessario distinguere tra il mutismo e altri tipi di silenzio. 9 C’è il silenzio del mutismo, che è una vacuità di parole e indifferenza, e quello taciturno che è l’espressione del temperamento, di una tristezza o della malattia. E poi c’è il silenzio pieno e profondo per concentrazione, accoglienza, empatia o meditazione. Secondo Sciacca, “Il mutismo è la malattia mortale del silenzio. Silenzio muto è un'espressione contraddittoria; piuttosto che indicare la stessa cosa, i due termini si escludono: il silenzio non è muto e ciò che è muto non sempre è silenzio. Il silenzio è una forma di comunicazione (nel suo significato più profondo, è la comunicazione alla seconda potenza); il mutismo, invece, ci isola e ci esclude da ogni comunicazione”. Oggi non c’è posto per il silenzio La nostra civiltà del XX e XXI secolo ha fatto di tutto per allontanare il silenzio e la sua immagine, che oggi è connessa con l’idea di qualcosa privo di suoni e di vita e quindi un vuoto da riempire. Il silenzio per noi è diventato qualcosa di angosciante, insopportabile o noioso. Ogni nostra giornata, infatti, è punteggiata dalla presenza continua di suoni penetranti, che si infiltrano nei nostri pori, spesso inconsciamente. Quando entriamo in un bar è sempre più difficile essere accolti da un ambiente tranquillo o dalle voci di chi lo gestisce: il locale è spesso dominato dallo schermo sempre acceso che ci assale con pubblicità, slogan, musichette o notizie. Lo stesso accade in ristoranti, negozi, aeroporti e stazioni, sale d’attesa degli ospedali. Con l’aggiunta dei cellulari e i-­‐pod, l'eventualità che entriamo in contatto con il silenzio viene ridotta sempre di più. Il silenzio quindi si allontana e le emozioni dell’uomo vengono soffocate da un eccesso di tecnologia che le rende sempre più superficiali e banali. 10 L’influenza sul linguaggio E questa superficialità e banalità hanno coinvolto il linguaggio stesso. Il parlato ha subito una degradazione, è come perennemente distratto. Oggi il linguaggio è visto come qualcosa di corrotto, l’uomo del XX secolo comincia ad essere sopraffatto da chiacchiere vacue e superficiali. “In nessun secolo – ha scritto Ignazio Silone (1), Premio Nobel per la letteratura – la parola è stata così pervertita, come ora lo è, dal suo scopo naturale che è quello di fare comunicare gli uomini. Parlare e ingannare (spesso anche ingannandosi) sono ora quasi sinonimi”. Massimo Baldini (2) in Elogio del silenzio e della parola parla di “disamore per la parola” e illustra come il conversare non sia più un dialogo tra due persone con il giusto equilibrio tra ascoltare e parlare, alla ricerca della profondità di significato e verità, ma sia una sorta di “gargarismi linguistici”, una confusione di chiacchiere vuote e parole meramente palatali. Come sostiene Ionesco (3) nel suo Diario: “Una civiltà di parole è una civiltà sconvolta. Le parole creano confusione. Le parole non sono la parola… Non vi sono parole per l’esperienza più profonda. Quanto più cerco di spiegarmi, tanto meno mi capisco. Naturalmente, non tutto è esprimibile in parole: soltanto la verità viva”. George Steiner (3) sostiene che, nel nostro secolo, la parola ha dichiarato il “proprio fallimento di fronte al disumano. Insomma, si sente un disgusto per come il linguaggio si è sviluppato in tutti campi, dal politico al teologo”. 11 Il bisogno del silenzio C’è il desiderio di un’alternativa e questa la troviamo nella qualità del silenzio. “Man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio – ha notato Susan Sontag – aumenta quello del silenzio”(7). Ci sono pochi studi sul tema silenzio ma è interessante notare che tutti questi sono stati redatti negli ultimi decenni. Questo ci fa riflettere e dedurre che, in qualche modo, il silenzio svolga un ruolo diverso nei tempi moderni; forse è proprio per il fatto che è diventato più sfuggente, più “prezioso”, che i grandi pensatori sono più consapevoli della sua importanza nelle loro opere. Max Picard, teologo svizzero e conosciuto per aver “salvato” il silenzio dai suoi nemici filosofici, descrive il rapporto tra l’uomo e il silenzio: “Il silenzio è lo stato originale dell’universo da dove emerge l’uomo e dove deve ritornare (nascita e morte)… Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo” (4). Abbiamo bisogno del riposo che ci può dare il frequente ritorno al silenzio, ma allo stesso tempo abbiamo paura di trovarci isolati (la paura della morte). Romano Guardini, teologo e scrittore italiano del ‘900, ha scritto diversi libri sulla coscienza, l’anima e la fede e sostiene che è nel silenzio che “si attua la conoscenza autentica” (5). Per Mohandas K. Gandhi, detto Mahatma (grande anima) : “Il silenzio dilata lo spazio di tempo della nostra vita” (6). Sembrerebbe che oggi l’uomo abbia un doppio atteggiamento verso il silenzio: da una parte lo spaventa e per questo tende a riempirlo con cose da fare, da sentire e da vedere; dall’altra parte, invece, prova la nostalgia di 12 qualche profondo valore perso nell’affanno della nostra vita frenetica e competitiva. Il prestigio del silenzio si sta riscoprendo: professionisti, manager, politici che vogliono recuperare la sua dimensione e il suo valore di accoglimento, decidono di cercarlo in luoghi da secoli assegnati a questo scopo; conventi ed eremi aprono le porte a persone che vogliono staccarsi dai rumori del mondo esterno e praticare il silenzio e la scoperta del mondo interiore. C’è un continuo aumento di centri e ambienti dove si possono sperimentare varie tecniche di rilassamento e meditazione, e luoghi in cui ritirarsi dal mondo chiassoso per partecipare a ritiri spirituali, sia religiosi che laici. La parola ha bisogno di silenzio Ma scegliere il silenzio non vuol dire disprezzare la parola. Piuttosto vuol dire distinguere tra parole anonime e spurie e parole originarie che traggono verità dal silenzio che le sorregge. “L’appello contemporaneo al silenzio non è mai stato un semplice rigetto ostile del linguaggio. Comporta anzi un’altissima valutazione del linguaggio stesso, dei suoi poteri, della sua salute passata e dei pericoli che esso pone oggi a una coscienza libera.”(7) La scelta del silenzio è la precondizione necessaria e imprescindibile per giungere a una parola parlante e non parlata. E il filosofo Heidegger sostiene che “Un risuonare della parola autentica può scaturire solo dal silenzio”(*). Nel corso dei secoli esso è stato visto come uno strumento fondamentale per la formazione della personalità dell’uomo. Mohandas Gandhi 13 sosteneva che “solo nel silenzio ci prepariamo alla realizzazione personale”(6). Il silenzio valorizza la testimonianza e fa acquisire un nuovo atteggiamento nei confronti del mondo esterno. Si tratta di ascoltare sia se stesso, il proprio mondo interno, sia l’altro, il mondo esterno. Questo ci porta ad una riflessione importante su un aspetto del silenzio: la componente dell’ascolto che risiede in esso. I Padri del deserto I Padri del deserto, monaci e eremiti e maestri nel campo dell’ascolto, nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, avevano abbandonato le città per vivere in solitudine nei deserti d’Egitto, di Palestina e di Siria. Erano conosciuti come “i seminatori del silenzio”. Il nucleo centrale del loro insegnamento giace più nel loro silenzio che nelle loro parole. Attraverso gli scritti dei loro discepoli, Lucien Regnault ha raccolto in un volume i loro apoftegmi, “detti” di grande saggezza, e frutto di una lunga, lenta germinazione nel silenzio del deserto. Le loro parole sono radicate nel silenzio, e per comprenderle bisogna ponderare il silenzio che le circonda prima che siano pronunciate. E’ proprio l’aspetto del silenzio che è il tesoro che ci hanno trasmesso. Sono parole nate dal silenzio e nutrite di silenzio. Baldini scrive, “E quello dei Padri del deserto è un silenzio particolarissimo, non è un silenzio che soffoca la parola, non è un silenzio vuoto, inerte, amorfo, ostinato, è un silenzio contemplativo, un silenzio aurorale, un silenzio che possiede una forza primordiale, un silenzio di rapimento e stupore”. 14 Ecco perché essi possono insegnare anche all’uomo del ventesimo secolo, che vive in una città del rumore e dell’urlo, ad amare l’innocenza del silenzio. Per i Padri del deserto l’autenticità del mondo risiede nel mondo del silenzio: un mondo contemplativo e un mondo di ascolto verso Dio e verso il prossimo. Dagli apoftegmi emerge che il silenzio è la strada che porta all’umiltà, all’amore e toglie la parola all’egoismo. Esso quindi è carità, ascolto e apertura verso gli altri ed è la migliore chiave di accesso per entrare nella problematicità e complessità dell’umanità. Infine, esso ci educa ad usare le parole in modo responsabile. Come sostiene Elie Wiesel, “Ci vogliono tre anni per imparare a parlare(…) e settanta per imparare a tacere” (*). L’aspetto comunicativo del silenzio Abbiamo già visto quanto il silenzio sia un fenomeno complesso, difficile da definire. Tanto i nostri gesti, azioni e parole quanto il silenzio giocano un ruolo cruciale nei processi comunicativi. Noi esprimiamo attraverso il silenzio infiniti pensieri, sentimenti, stati d’animo, paure e desideri. Il silenzio tra due o più persone può esprimere armonia o discordia, rancore o perdono, comprensione o incomprensione, affetto o ostilità, seduzione o disprezzo e, come negli altri tipi di comunicazione umana, necessita un lavoro ermeneutico per interpretarne i significati. 15 Ma esiste anche un silenzio silenzioso, un silenzio capace di offrire all’altro una condizione di totale ricettività e accoglienza. Diversi autori sono d’accordo che il silenzio svolga certe funzioni proprie del linguaggio e sostengono la sua valenza comunicativa. Watzlawick, Beavin e Jackson affermano anzi il concetto che “il comportamento non ha un suo opposto. In altre parole non esiste un qualcosa che sia un non-­‐comportamento, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valori di messaggio, influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro” (8). Per quanto riguarda il silenzio come elemento significativo nei processi comunicativi c’è anche da notare che più un rapporto umano si stabilisce e diventa “sicuro”, più il silenzio prende spazio e la parola diminuisce. Per comunicare certi sentimenti profondi il silenzio è visto come mezzo espressivo e comunicativo, ancora più della parola Il silenzio e l’ascolto L’ascolto è uno strumento conoscitivo di grande importanza nei processi comunicativi del silenzio; ascolto e silenzio devono procedere mano nella mano. 16 In una civiltà di rumori, chiacchiere e urla come la nostra, il silenzio ha poco spazio, sia esternamente che dentro noi stessi. Per ascoltare bisogna fare silenzio, oggi sembra che nessuno possieda più la capacità di ascoltare. Per essere percepita, ogni parola ha bisogna del silenzio non soltanto intorno a chi la pronuncia, ma anche un silenzio interiore da parte di chi la riceve. Di fronte a un sottofondo di infiniti rumori di tutti tipi, risulta difficile dare alle parole il giusto peso e la corretta interpretazione. Si è notato infatti come il “non ascolto” sia diventato una specie di autodifesa: non si ascolta per non essere sopraffatti dalla valanga di informazioni che ci arrivano da tutte le parti; l’impegnarsi in questo faticoso lavoro di selezione diventa troppo difficile e si finisce per non ascoltare più né i messaggi banali ma neanche quelli interessanti o stimolanti. 1. Ignazio Silone, Pane e vino, Mondadori, Milano, 1955 2. Massimo Baldini, Elogio del silenzio e della parola, Rubettino Editore, 2005 3. George Steiner, Linguaggio e silenzio, Rizzoli, Milano, 1972 4. Max Picard, Il mondo del silenzio, Edizioni di Comunità, Milano,1951 5. Romano Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia,1979 6. Mohandas K Gandhi, Ogni giorno un pensiero, Emi, Bologna,1975 7. Susan Sontag, L’estetica del silenzio, Einaudi, Torino 1975 8. P. Watzlawick, J.H.Beavin, D D Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971 17 18 2. IL SILENZIO IN MUSICA Nelle composizioni e esecuzioni musicali tendiamo a concentrarci principalmente sui suoni che produciamo ed è facile dimenticare l’importanza dei silenzi nella continuità musicale. L’effetto drammatico del silenzio in un brano musicale è stato da lungo tempo riconosciuto dai compositori ed esecutori e, in tempi più recenti, si è sempre più sostenuto che “il silenzio è la materia stessa della musica” (G. Brelet)(9). Il silenzio costituisce la base su cui la musica ha la sua origine, il suo sviluppo e il suo compimento. Esso appartiene alla struttura fondamentale della musica: libera e purifica il suono, e gli dà la profondità e il respiro di cui ha bisogno. La musica è intrinsecamente dipendente dal silenzio per distinguere altri momenti di suoni e per far sì che la dinamica, le melodie e i ritmi abbiano un impatto maggiore. 19 Baldini percepisce la dipendenza musica/silenzio dall’aspetto opposto quando sostiene che la musica più bella “non spezza il silenzio, ma lo rende più sensibile”. Il rapporto musica/silenzio è stato descritto da diversi autori nella storia della musica: “La musica è figlia del silenzio” (G. Brelet) (9), “La musica è l’arte del silenzio” (Georges Duhamal) (10) o “Il silenzio è la culla della musica” (J. Cassou) (11). Un'altra proprietà del silenzio nella sua relazione con la musica è quella di “proteggerla” dai rumori esterni. In un contesto chiassoso è necessaria infatti una base di silenzio per permettere ad un brano di musica di essere pienamente apprezzato e compreso. Gerarchia: suono/silenzio Consideriamo prima gli autori che insistono sul fatto che l’attenzione al silenzio è eccessiva, poiché esso è un momento periferico nella composizione e analisi musicale. Martin Zenck, ad esempio, sostiene che in nessun caso lo stato del silenzio è pari al suono, e che la pausa nella musica, identificata come assenza di suono, è l’eccezione alla regola che mette la musica al centro dello spettro musicale. La famosa definizione della musica di Eduard Hanslick come “die tonend bewegte Form” (la forma spinta del suono) non indica una musica che è presente nella sua assenza, in un non-­‐suono. Suono e silenzio sono in relazione come l’essenziale e il superfluo o come il primario rispetto al secondario. 20 Fino al ‘900 sembra che non sia il tritonus (la quarta aumentata) il vero ‘diablus in musica’ nella musica occidentale, ma il silenzio. Contrariamente al tritonus, il silenzio non è mai stato vietato, ma la sua ‘raison d’être’ è stata completamente messa in discussione fino al ventesimo secolo. La sua funzione era principalmente drammatica e retorica. Il silenzio è stato subordinato al suono come qualcosa di meno significativo. Thomas Clifton, nel suo saggio “The poetics of musical silence” (12) ci fornisce un esempio di come il silenzio rimanga secondario al suono e alla musica nella teoria. Per mettere a fuoco il fenomeno del silenzio musicale bisogna pensare che esso è analogo allo studio degli spazi tra gli alberi di una foresta: un po’ perversi in un primo momento, fino a quando si rende conto che questi spazi contribuiscono al carattere della foresta stessa, e ci permettono di parlare coerentemente di crescita ‘densa’ o vegetazione ‘sparsa’. In altre parole, il silenzio non è niente e non è l’insieme vuoto. Il silenzio è vissuto sia come significato sia come aderire alla posizione dei suoni dell’oggetto musicale. Clifton sembra focalizzare la nostra attenzione sul significato del silenzio nella musica. Come per gli spazi tra gli alberi, i silenzi che circondano i toni ci permettono di sentire i suoni. “Il significato del silenzio quindi dipende da un ambiente sonoro” continua Clifton. Il silenzio rimane dipendente dal mondo del suono, perché è solo lì che può acquistare un senso. 21 In un certo senso, allora, ci presente un movimento di emancipazione, però lascia il tradizionale rapporto tra suono e silenzio intatto. Egli continua ad operare all’interno della gerarchia esistente in cui il silenzio serve il suono. Pausa, cesura, corona In quasi ogni composizione musicale ci sono battute vuote o parzialmente vuote e le pause sono una parte indispensabile di ogni brano. Su un livello più sottile, i silenzi segnano il passaggio da una frase musicale a un’altra per mezzo di una cesura. Il silenzio delimita anche l’inizio e la fine di un brano musicale. Nella teoria musicale, il silenzio non è sempre indicato come il punto in cui i suoni musicali cessano di esistere: periodi di silenzio sono sperimentati durante l’uso di un estremo pianissimo, o una corona sostenuta o quando un’armonia complessa dissipa in un uso parsimonioso di materiale tonale. Si viene a conoscenza di un silenzio in una musica che suona “da lontano” (indicato con l’istruzione ‘venuto da lontano’). Molte partiture delle opere del compositore russo Alfred Schnittke si aprono e si chiudono con i suoni appena udibili, e la sua musica risiede tra il non-­‐ancora-­‐udibile e il non-­‐più-­‐udibile. Sembra che la sua musica fosse già presente nel silenzio prima che l’ascoltatore riuscisse a sentirla e che continui a risuonare dopo che l’ascoltatore ha registrato gli ultimi toni. 22 Il respiro L’istanza del respiro è intrinseco nella musica come forma d’arte. Le pause nello spartito musicale, oltre a sottolineare dinamica ed espressione del brano, danno al cantante un momento naturale per prendere respiro. Le pause di lunga o media durata danno la possibilità di prendere fiato con più calma e in maggior quantità, quelle più brevi fanno sì che il respiro debba essere preso in fretta e con più concentrazione. Lo stesso discorso vale per gli strumentsti a fiato che possono -­‐ e devono -­‐ riempire i polmoni secondo le pause concesse loro dagli spartiti. Quando consideriamo gli esecutori di altri strumenti -­‐ strumenti a corde, pianoforte, percussioni, eccetera – possiamo notare che, anche se il suono non viene prodotto per mezzo della bocca, il musicista ha bisogno di gestire l’aspetto del respiro, servendosi delle pause del brano o delle cesure per prendere respiri più o meno lunghi. Pausa – silenzio – respiro: in musica, come in musicoterapia, momenti di pausa creano lo spazio fondamentale per riempire il corpo di ossigeno e ricaricarsi per la prestazione in atto. In particolare, nel contesto musicoterapico l’introduzione di pause o spazi di silenzio permette l’ascolto di sé e del paziente a un livello più profondo. La musica classica: quattro esempi Adesso consideriamo quattro brani di musica classica e l’effetto generato dall’uso del silenzio o pausa. In ognuno dei quattro brani le pause creano degli effetti diversi. 23 24 Il primo brano è il “Prelude in Mi minore”, opus 28, no 4 di Chopin. Questo brano lento e triste, nella chiave di Mi minore, è composto da accordi pieni e consistenti eseguiti dalla mano sinistra e da una melodia straziante eseguita dalla mano destra, gran parte della quale consiste nell’interazione di due note con un intervallo di un tono. Non c’è nessuna pausa per entrambe le mani fino alla terz’ultima battuta. Nella quint’ultima e quart’ultima battuta, gli accordi nella chiave di basso accennano un’armonia maggiore prima di ritornare al minore prevalente; a questo segue la prima e unica pausa di tutto il pezzo (terza battuta dalla fine) che è una pausa di due tempi più una corona, fornendo quindi una pausa piuttosto lunga. Questo momento di silenzio lascia tempo per assorbire la tristezza del brano, prima della risoluzione inevitabile dei tre accordi finali di entrambe le chiavi. 25 26 Il secondo brano che consideriamo è preso dalla Sinfonia No. 5, Opus 82, di Jean Sibelius. E la fine del 3° movimento e della sinfonia. -­‐L’ultimo e 3° movimento della sinfonia no 5 di Sibelius ha uno sviluppo come segue: con un “Allegro molto” – “Misterioso” – “Un pochettino largamente” – “Largamente assai” – “Un pochettino stretto” – e il finale. Alla lettera N, dove abbiamo “Un pochettino largamente”, il tempo cambia: da 2/4 a 3/2. Adesso gli strumenti a fiato prendono il sopravvento – fagotti, oboe, flauti e corni; si aggiungono clarinetti e tromboni e, a “Largamente assai”, le trombe. A questo punto abbiamo tutti gli strumenti a fiato che sostengono la voce principale, raggiunti poi dai timpani, e per 10 battute mantengono questo crescendo e questa tensione. Le note sono larghe e piene. Quando sembra che non si possa più “crescere” e la tensione è al massimo… improvvisamente si ferma tutto e c’è una pausa della durata di una minima seguita da un accordo fortissimo (fff) che dura una semiminima eseguito da tutti gli strumenti. Dopo di ciò inizia una successione di accordi e pause: prima una pausa da una battuta e mezza, poi un altro accordo di una semiminima, quindi una pausa che dura una battuta e 5/6, il tutto ripetuto ancora due volte fino agli ultimi due accordi fortissimi, ognuno con un valore di una semiminima. L’effetto che quest’ultima pagina genera è quello di tenere il pubblico in sospeso per 9 battute, tra accordi fortissimi e pause lunghe, con i due accordi finali ravvicinati; tutto questo lascia l’ascoltatore emotivamente scosso. Questo è un esempio tipico dell’interazione tra le pause e gli accordi nei finali della musica classica. 27 Symphony No.39 in Eb Major, K.543
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28 Il terzo brano è la Sinfonia No. 39 in Mi bemolle maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart, quarto movimento. L’uso delle pause in questo movimento “Allegro”, nella parte finale della sinfonia, crea stacchi drammatici e serve per enfatizzare la fine di una frase che poi viene ripresa da uno strumento diverso. In diversi punti del brano gli strumenti si fermano tutti insieme, dando al pezzo momenti di grande intensità. La nota alla fine di ogni frase non è una nota lunga (in questo caso potrebbe essere una minima), ma è una semiminima con la pausa di una semiminima; ne risulta un forte stacco (vedi la quarta, settima e ottava battuta prime dalla fine del brano). Ma la pausa in posizione finale è di interesse particolare: la pausa finale nell’ultima battuta fa parte del brano; in altre parole, il brano non finisce in modo convenzionale -­‐ o sull’ultima nota, o dopo la pausa dopo l’ultima nota dell’ultima battuta – ma in modo imprevisto: l’ultima battuta è una pausa. Questo significa che la pausa (il silenzio) gioca un ruolo significativo nel brano e che il compositore fa uso del silenzio non soltanto per creare un ritmo o il tempo, ma per creare un particolare effetto sul finale: un momento di puro silenzio. L’ascoltatore si accorge di questo? Sicuramente sì, nel caso in cui questa pausa finale venga subito seguita dal ritornello; ma, la seconda volta, quando il brano è definitivamente concluso…? 29 631. Tenebrae factae sunt
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Marco Voli - 2 novembre 2009
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30 Il quarto brano è una polifonia a quattro voci di Michael Haydn: Tenebrae Factae Sunt Il tema di questo brano parla di uno dei passaggi più tragici e drammatici della nostra storia – quello della crocifissione di Cristo. Diverso degli altri brani scelti, perché entra in gioco un elemento importante, il testo, che aggiunge alla musica un significato specifico. Il brano è suddiviso secondo i momenti cruciali della Passione di Cristo, ognuno di questi con la propria frase musicale. Questi frammenti sono divisi l’uno dall’altro per mezzo di una battuta intera di pausa, allungata ulteriormente da una corona. La pausa unita alla corona quindi crea un sostanziale silenzio. L’effetto della pausa, in questo caso, è proprio quello di offrire all’ascoltatore un momento di silenzio per fare penetrare ancora di più la gravità dell’evento che viene narrato. 31 Il ventesimo secolo Dal ‘700 alla fine dell’ 800 la questione del significato del silenzio in musica (almeno nella sfera della musica occidentale) era la negazione e l’assenza del suono, un fenomeno che serviva come scopo per fare emergere o risaltare qualche effetto musicale. Nel ventesimo secolo il silenzio ha assunto una nuova importanza perché i compositori hanno abbandonato le vecchie formule e hanno cercato modi nuovi di usare il linguaggio musicale e tutto il suo sistema di pause e silenzi. Il silenzio comincia ad essere sfruttato per la sua qualità positiva. In questo senso esso non è non-­‐musica, così come gli spazi bianchi in una forma visiva o i vuoti programmati tra le parti di una scultura non sono inutili. Proprio come il pittore sfrutta la luce e l’ombra e lo scultore sfrutta la massa e il vuoto, così il compositore di oggi sfrutta le proprietà del tempo che possono o meno contenere suoni. Così il silenzio e il suono diventano entrambi i binari essenziali di ogni composizione musicale. L’inizio del ventesimo secolo ha visto un cambiamento radicale nella forma musicale in generale e, di conseguenza, nell’uso e nella interpretazione del silenzio. Tre importanti compositori della scuola atonale viennese: Arnold Schonberg, Alban Berg e Anton Webern condividevano una visione nuova e un atteggiamento mutato rispetto al silenzio in musica. 32 Il silenzio nella musica di Alban Berg Molte composizioni di Berg non hanno una chiusura chiara ma svaniscono nella lontana distanza, verso l’infinità. In questo modo Berg si unisce alla tradizione di molti compositori del periodo romantico che lavoravano con i suoni “venuti da lontano”: i suoni nascono e arrivano dal silenzio per poi, a fine brano, svanire e morire nel vuoto. L’effetto è che anche quando non si sentono più i suoni, la musica è ancora presente. Tuttavia, Berg pensa al silenzio come un momento speciale e periferico che diventa evidente solo in zone molto particolari della sua musica, specialmente verso la chiusura. C’è chi sostiene che è stato Berg ad emancipare il silenzio, ma Clifton descrive piuttosto l’esperienza dei toni sbiaditi di Berg. 33 Il silenzio nella musica di Anton Webern Nella musica di compositori come Webern, il silenzio viene adoperato per ottenere una trama sonora limpida e rarefatta. Costituisce anche un elemento essenziale della melodia atonale perché produce effetti drammatici nei momenti di tensione e un intenso senso di pace nei momenti di distensione. La musica di Webern è estremamente cerebrale e analitica. Con Webern, il suono rimane l’aspetto primario della composizione, anche se la presenza di pause multiple all’interno delle partiture disperde il suono in grande misura. Tuttavia, questo non sembra essere il risultato di un uso previsto o un’emancipazione consapevole del silenzio, ma del modo in cui viene elaborato il materiale tonale. L’impegno per una scelta in precedenza di una riga dodecafonica implica che la variazione sia principalmente riservato alla parte ritmica. E’ ovvio che le pause poi svolgeranno un ruolo più importante; in ogni caso, le composizioni di Webern presentano un momento significativo di emancipazione rispetto al silenzio. Il brano seguente – Sechs Bagatellen, numero V – ci presenta un esempio dell’uso delle pause nelle composizioni di Webern, che possiamo trovare all’inizio della seconda battuta, dell’ottava, dell’undicesima e della tredicesima. 34 35 Arnold Schonberg In diverse composizioni Schönberg ci rende consapevoli dell’idea che la musica non debba necessariamente iniziare con un tono o un suono, che il silenzio esiste prima, dopo o durante in un brano musicale e che il silenzio è musica. Rimane da capire se il silenzio sia subordinato al suono all’interno di certe composizioni di Schönberg o se il suono necessiti del silenzio per poter manifestarsi come suono. Quando i suoi terzi lenti e titubanti svaniscono nel silenzio, si potrebbe benissimo immaginare che ciò significhi un’inversione del sistema gerarchicamente ordinato. La musica si definisce per quella che non è (il silenzio, non-­‐musica) e il suono diventa un momento speciale nel mondo di silenzio. Come il bianco in una pagina è necessario per fare apparire le note o le parole, così il silenzio è il presupposto per il suono. Tuttavia il bianco non è solo la purezza della pagina bianca ma è anche lo spazio tra le note, la dimensione dentro cui le connessioni laterali tra le note possono avvenire. Analogamente, è solo attraverso il silenzio che la differenza tra i suoni separati può essere sperimentata. Il silenzio si trova immediatamente all’interno del dominio musicale. La musica è sempre permeata dal silenzio. La musica è anche il silenzio. Nella composizione Sechs kleine Klavierstucken Opus 19 no.2 di Schönberg , il silenzio viene strutturalmente rivalutato. Il brano comincia con una pausa; una pausa dopo il silenzio che è fuori della composizione, il silenzio con cui viene accolto il pezzo. (Sotto lo 36 spartito, Schönberg chiede una lunga pausa dopo ogni movimento, una pausa che non è motivata da considerazioni di prassi esecutiva). Essa non è un fenomeno casuale ma un evento volutamente considerato nel contesto della composizione. Le pause che si alternano con i terzi sol/si nel motivo ritmico dalla prima battuta (terzi pianissimi al confine di udibilità) costituiscono una parte essenziale della frase musicale. Quando il terzo suonante sol/si interrompe il silenzio e il silenzio a sua volta interrompe il suono, i due si impegnano in una relazione reciproca che non conosce distinzione. Tuttavia un problema rimane: questa linea di ragionamento può essere sostenuta solo se l’ascoltatore conosce lo spartito. La prima pausa non può essere immediatamente riconosciuta come un momento musicale, un momento all’interno della composizione, attraverso l’ascolto: l’ascoltatore che non ha familiarità con lo spartito molto probabilmente presume che Opus 19, no. 2 comincia col primo terzo sol/si al secondo battito della prima battuta. 37 John Cage Non si può parlare di silenzio in musica senza menzionare il maestro “estremo” in questo campo: l’americano John Cage. In una musica di genere molto diverso, Cage ha usato il silenzio come una delle materie prime della musica. Per il compositore il silenzio costituisce l’eterno sottofondo in cui “meteore di suono” esplodono in determinati punti nel tempo. I suoni non hanno nessun rapporto tra di loro oltre il coesistere nell’eterno silenzio. Cage ricorre spesso al caso per decidere quali suoni debbano intervenire e in che momento. Negli anni ’30, Cage scrisse una seria di composizioni dove il silenzio conquista un ruolo sempre più importante. Due esempi sono il Duet for two flutes, scritto nel 1934, che inizia con un silenzio, e Waiting, un brano per pianoforte scritto nel 1952, principalmente dominato dal silenzio, interrotto soltanto da un breve ostinato. Un’esperienza importante per la realizzazione di questo pezzo fu la visita alla camera anecoica dell’Università di Harvard. In essa Cage avrebbe dovuto udire il silenzio più totale; invece percepì due rumori, uno acuto e l’altro più grave. Il tecnico gli spiegò che in realtà aveva udito il proprio apparato cardiocircolatorio e nervoso in funzione. E il compositore capì dunque, grazie a quest’esperienza, che il silenzio perfetto è in realtà un’utopia; il rumore domina ogni istante della nostra vita. 38 L’apice di questa serie di composizioni, dove il silenzio gioca un ruolo importante, è la sua opera 4’33” (pronunciato dall’autore Four, thirty-­‐
three oppure Four minutes, thirty-­‐three seconds) ed è la composizione più famosa e controversa di Cage. Scritta nel 1952, è composta per qualunque strumento musicale o ensemble; lo spartito dà l’istruzione all’esecutore di non suonare per tutta la durata del brano nei suoi tre movimenti: il primo di 30 secondi, il secondo di 2 minuti e 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40 secondi. Il totale dei secondi di silenzio: 4 minuti e 33 secondi, dà il titolo all’opera. Nell’intenzione dell’autore, la composizione si presume consistere dei suoni emessi dall’ambiente in cui viene eseguita, dando un’idea dell’importanza dell’ambiente stesso, sebbene sia generalmente percepita come “four minutes and thirty-­‐three seconds of silence”. La durata particolare della composizione è probabilmente un riferimento allo zero assoluto: quattro minuti e trentatré secondi corrispondono a 273 secondi, e lo zero assoluto è posizionato a -­‐273.15°C, temperatura irraggiungibile, come il silenzio assoluto. Per Cage, comunque, 4’33” non è affatto un’opera silenziosa. Il vero centro dell’attenzione dovrebbe essere focalizzato sui rumori casuali che si sentono durante il silenzio dei musicisti, ad esempio il ronzio di un insetto, la tosse o il respiro dei spettatori, la caduta di un oggetto. La prima esecuzione di 4’33” venne tenuta a Woodstock, New York, nell’ agosto 1952, dal pianista David Tudor, durante un recital di musica contemporanea per pianoforte. Dopo l’esecuzione e la reazione del pubblico, Cage commentò: “They missed the point. There’s no such thing as silence. What they thought was silence, because they didn’t know how to listen, was full of 39 accidental sounds. You could hear the wind stirring outside during the first movement. During the second, raindrops began pattering the roof, and during the third the people themselves made all kinds of interesting sounds as they talked or walked out.” Una pagina dallo spartito 4’33” di John Cage 40 Luigi Nono e il silenzio “musicale” Daremo adesso uno sguardo ad un compositore recente che ci propone un importante punto di vista per quanto riguarda l’interpretazione del silenzio in musica. Luigi Nono, veneziano, vissuto dal 1924-­‐1990, ha frequentato la Scuola di Darmstadt negli anni ’50, dove ha conosciuto Stockhausen e Edgar Varèse. Scrisse numerose opere per ensemble strumentali e vocali (tra cui Canto sospeso e Cori di Didone), e negli anni ’60 si accostò alla tecnica elettronica, sviluppando un’integrazione dei mezzi tradizionali, vocali e strumentali col nastro magnetico. Nel 1980 ha scritto un quartetto d’archi intitolato Fragmente – Stille, An Diotima (sul testo di Hölderlin), un’opera che vaga tra suono e silenzio. In altre parole, il suono è mediato da non-­‐suono mentre il silenzio è mediato dal suono. Questo consente una duplice lettura: la prima prende il suono come aspetto primario del lavoro, mentre l’altra il silenzio come componente complementare. Il brano è costituito da brevi frammenti che sono separati da lunghi silenzi. Il silenzio si diffonde tra i frammenti con il risultato che la composizione diventa estremamente discontinua. Sembra che tutti questi frammenti siano tentativi di emergere da un non-­‐più-­‐
totalità o non-­‐ancora-­‐totalità di qualcosa di più sostanzioso, qualcosa di più, una unità ininterrotta. I silenzi che appaiono costantemente vietano alle isole sonore di crescere insieme verso un’interezza; tuttavia, ascoltando la musica e studiando la partitura, si può sentire e vedere qualcosa di completamente diverso. La stabilità della prima interpretazione è compromessa. Non aspettandosi più che il suono sia l'aspetto primario, ma partendo dal 41 silenzio, questo lavoro non consiste di “pezzetti” di musica la cui continuità è costantemente interrotta. Quando il riposo, la tranquillità e il silenzio diventano la norma e i suoni costituiscono l'elemento secondario, questo lavoro si rivela com'è in realtà permettendoci di visualizzare un'altra discontinuità. Non è tanto il silenzio che si sta facendo strada tra i frammenti che suonano; anzi, i suoni rompono il silenzio in corso. In altre parole, meno sentiamo, più la musica raggiunge l'impercettibile, e il lavoro diventa più continuo. Questo è mostrato anche enfaticamente nei toni spesso esitanti, toni senza vibrato, o toni che sono prodotti con poca pressione dell’arco o pizzicato. Il silenzio sembra pervadere il suono qui, diventando udibile con il suono come un'ombra o un fantasma. Il silenzio, per Nono, è intangibile. Non può essere manipolato, è ciò che sfugge dalla sua potenza. Il compositore deve consentire una forza che sfugge alle sue intenzioni e dei contributi attivi, proprio nello spazio in cui si vorrebbe essere in carica: il mondo dei suoni. Il silenzio assume una diversa qualità in questa seconda lettura. Non è più l'assenza temporale del suono. “C’è più volume del suono in molti silenzi che in un fortissimo di un brano di Beethoven”, afferma Nono. Si tratta piuttosto di uno spazio aperto, da cui possono emergere nuovi suoni ancora e ancora. In questo senso, il silenzio può unire i frammenti, sino al momento del frammento successivo. L'ascoltatore ha la possibilità di riascoltare i suoni nella sua memoria anche se sono già sbiaditi. 42 Con questo, l'assenza dei suoni diventa almeno altrettanto importante quanto i suoni stessi. Secondo Nono, questo spazio di silenzio non è amorfo, esso può essere vissuto in modo diverso ogni volta che si ascolta con una fantasia sensibile per gli spazi da sogno, per le improvvise estasi, per i pensieri indicibili, per la respirazione calma e per il silenzio del canto senza tempo. Suoni diversi emergono da questi silenzi in continua evoluzione, tuttavia è il silenzio -­‐ l'assenza di suono, che non è un nulla -­‐ che non deve essere pensato come assenza e che merita attenzione per questo motivo. 9. G. Brelet, Musique e silence in “La revue musicale,” 1946 10.
Georges Duhamal, Cecile parmi nous, Paris 1960 11.
J. Cassou, Trois poètes, Cit. in Joseph Rassam, Le silence 1972 12. Thomas Clifton, The poetics of musical silence, Musical Quarterly 1976 43 44 3. IL SILENZIO NELLA TERAPIA L’uso del silenzio nell’intervento terapeutico è importante tanto quanto la parola e giuoca un ruolo centrale nei processi comunicativi. Il silenzio del terapeuta In primo luogo il silenzio da parte del terapeuta può essere il modo migliore per accogliere ed ascoltare lo stato d’animo del paziente e mettersi in condizione recettiva necessaria per captarne i segnali emotivi. Frastornarlo subito con troppe domande, attività o osservazioni potrebbe portarlo verso uno stato non comunicativo o ad una chiusura. Il silenzio del terapeuta non deve essere un’assenza pigra, indifferente, triste, ostile o sonnolenta ma deve essere un silenzio che trasmette un forte sentimento di accoglienza e benevolenza, un silenzio empatico e attento. Il silenzio accogliente prolungato crea così un incitamento al paziente per prendere la parola (o lo strumento musicale) e la qualità di questo silenzio può determinare la riuscita o il fallimento dell’intervento. 45 E’ importante, dunque, che esso comunichi la serietà dell’impegno preso e un senso di sostegno. Inoltre non deve essere un silenzio di passività ma deve sottintendere invece un attivo lavoro interpretativo che è il primo passo nel processo delle aperture di canali di comunicazione terapeuta-­‐paziente e può essere usato come terreno fertile sia per ascoltare il paziente sia per comunicare con lui a livello non-­‐
verbale. Robert Langs (1928-­‐), psicoanalista, psichiatra e psicoterapista americano ha scritto, “Il terapeuta dovrebbe iniziare la seduta in silenzio giacché spetta al paziente dare il tono alla seduta e stabilirne il punto focale; sono i suoi problemi, impulsi e difese l’oggetto del lavoro del terapeuta e verso di essi il paziente deve guidarlo. Se vuole conoscere quello che preoccupa il paziente, quali sono i suoi più importanti compiti adattivi che deve affrontare, se vuole individuare un contesto a cui riferire quanto seguirà, il terapeuta deve rimanere in silenzio.”(13) Tuttavia i rischi intrinseci nell’uso del silenzio negli interventi terapeutici sono molteplici e complessi. Il terapeuta che prova sentimenti di irritazione o ostilità per un paziente può trovarsi di fronte alla tentazione di usare il silenzio (consciamente o inconsciamente) come una difesa o una punizione nei confronti del paziente per isolarsi da esso. Lasciandosi portare dalla sua incapacità di risolvere le proprie emozioni, il terapeuta cerca di difendersi e perde così la prospettiva clinica. In questo modo crolla il suo ruolo di terapeuta e si mette in atto un atteggiamento contro il paziente. Può essere che il fastidio o la collera che prova per il paziente non siano del tutto ingiustificati, ma questi sentimenti non devono mai fare perdere il controllo del proprio ruolo di terapeuta anzi, dovrebbero essere sfruttati come strumento per 46 penetrare i conflitti del paziente con lo scopo di capirlo e guidarlo verso una reintegrazione. In caso contrario il paziente avvertirà, consciamente o inconsciamente, le emozioni di rabbia o frustrazione da parte del terapeuta, che possono facilmente confluire in un’alleanza antiterapeutica. La terapia diventerà quindi disfunzionale e sterile. Un altro fattore da prendere in considerazione è la realtà di pazienti che sono, per diversi motivi, particolarmente intolleranti nei confronti del silenzio. Può esserlo chi è stato vittima di un uso punitivo del silenzio, dunque il silenzio avrà una valenza brutale e insopportabile; oppure un ricordo triste o spiacevole nel quale il silenzio ha avuto un ruolo associativo incisivo; oppure esso evoca in lui sentimenti di abbandono o solitudine. La pausa più piccola potrebbe farli sentire terrorizzati, arrabbiati o abbandonati. Pazienti così particolarmente vulnerabili hanno bisogno di un “nutrimento”, vuoi di parole vuoi di rumori o suoni, che non dovrebbe essere sottovalutato. Il terapeuta deve essere capace di mettersi in sintonia ed empatia con il paziente e diventare consapevole delle necessità avvertite da lui. Le attività e tecniche verbali o non-­‐verbali vengono consecutivamente impiegate per tranquillizzare e gratificare il paziente e riportarlo a un livello di apertura verso il terapeuta. Il silenzio del paziente In secondo luogo, il silenzio da parte del paziente può rivelare molte cose del suo mondo interno e il terapeuta dovrebbe prestare la stessa attenzione che presta alle parole del paziente; se invece il paziente non ha l’uso delle parole, sia per motivi fisiologici che neuropsicologici, allora il lavoro ermeneutico sul 47 comportamento globale del paziente da parte del terapeuta risulta ancora più pertinente. La comunicazione verbale, nei pazienti parlanti, fornisce la base di un lavoro reciproco di terapeuta-­‐paziente per lo scambio di informazione, proposte, interpretazioni e spiegazioni, ma talvolta le emozioni forti o uno stato di depressione fanno sì che egli non riesca a esprimersi con le parole e un importante lavoro del terapeuta è quello di allenarsi all’interpretazione poiché tale silenzio da parte del paziente può significare tante emozioni tra cui: imbarazzo, depressione, rabbia, tristezza, indifferenza, piacere -­‐ per nominarne soltanto qualcuna. Nei soggetti non-­‐parlanti invece, il lavoro sulla sintonizzazione del mondo interno del paziente si basa ancora di più sull’interpretazione dei suoi silenzi, insieme a tutta la vasta gamma dei suoi comportamenti. L’impegno del terapeuta è di “mettersi nei panni” di chi ha di fronte e cercare di condividere il suo stato d’animo, in altre parole entrare in sintonia con lui. Soltanto in questo modo potrà cominciare a sentire le necessità del paziente e formulare gli obiettivi che porteranno a un processo di reintegrazione. “Nel repertorio degli interventi a disposizione del terapeuta il silenzio è, paradossalmente, il più importante, fondamentale, ma anche il più sottovalutato e frainteso” (Robert Langs). 13. Robert Langs, La tecnica della psicoterapia psicoanalitica. Boringhieri, Torino 1979 48 4. L’IMPORTANZA DEL SILENZIO NELLA MUSICOTERAPIA. C’è chi sostiene, tra gli esperti di musicoterapia, che la regola d’oro all’inizio di qualsiasi intervento sia quella di osservare trenta secondi di silenzio. Questi trenta secondi hanno a una triplice funzione: Accoglienza del paziente Ascolto dello stato d’animo del paziente Attesa dei tempi del paziente In realtà, con l’accumulo di esperienza e la conoscenza più approfondita del proprio paziente, la durata di trenta secondi diventa più flessibili, ma è un buon precetto da tenere a mente. Accoglienza La musicoterapia è una terapia non-­‐verbale, quindi l’utilizzo della parola dovrebbe essere ridotto al minimo possibile. 49 Il silenzio all’inizio di un intervento (sia al primo incontro che in tutti i seguenti) è fondamentale per dare la possibilità al paziente di sentirsi accolto dentro il setting musicoterapico composto da una serie di strumenti musicali scelti e da un terapeuta che lo accoglie. Il terapeuta deve essere tranquillo, rilassato, silenzioso, posizionato vicino (ma non troppo) agli strumenti e al paziente, in un atteggiamento di accoglienza e ascolto, in nessun modo invadente o attivo. Un comportamento fisico ideale è quello di essere seduto per terra , con una postura che esprima tranquillità, apertura e “disponibilità-­‐quando-­‐e-­‐se-­‐vuoi”. Questo silenzio accogliente fornisce al paziente il periodo di calma necessario per ambientarsi gradualmente al setting e sentirsi libero di cominciare a scoprire gli oggetti davanti a lui e sperimentarli. La durata di questo periodo, dall’arrivo nel setting al sentirsi sicuro abbastanza per toccare e sperimentare gli oggetti, dipende da soggetto a soggetto. Mentre qualche paziente può “buttarsi” immediatamente sugli strumenti davanti a sé, in certi casi di autismo, per esempio, non è raro che il terapeuta debba aspettare mesi prima che il paziente si senta pronto per affrontare un’attività sonora-­‐musicale. Tuttavia, anche se il silenzio di accoglienza è associato maggiormente con l’arrivo, va ricordato che l’accoglienza è un atteggiamento che deve essere sempre presente in qualsiasi momento dall’intervento, dal primo istante fino a quello in cui il paziente lascia la stanza. Potrebbe anche succedere che un paziente abbia bisogno durante l’intervento di “risentirsi accolto”, di avere di nuovo una conferma dell’accoglienza che ha sentito all’inizio per convincersi che il terapeuta non si è stufato o infastidito col passare del tempo. In questo caso, un ritorno al silenzio, lo “stare tutti e due in silenzio” e riconfermare l’accoglienza stabilita può risultare utilissimo. 50 Può essere paragonato al prendere di nuovo un lungo respiro per andare avanti, in un momento in cui ci si sente di essere preda dell’affanno. Ascolto L’ascolto del paziente nel primo silenzio dopo l’arrivo è fondamentale nel processo musicoterapico e costituisce la base dell’intervento che segue. Ma prima ancora, il terapeuta, stando in silenzio, si svuota del suo Io, dei suoi problemi e delle sue esigenze e si pone completamente all’ascolto. Questo modo di ascoltare e osservare il paziente vuol dire che qualsiasi gesto, movimento, espressione facciale, suono vocale emesso o suono eseguito con il suo corpo o un prolungamento del corpo (strumento) deve essere inglobato ed interpretato. In questo modo è il paziente che definisce i colori e le sfumature dell’intervento, anche se, ovviamente, il compito del terapeuta è quello poi di guidare queste scelte e capacità verso gli obiettivi stabiliti. Come per l’accoglienza, l’importanza dell’ascolto si protrae per tutto il trattamento; anzi è fondamentale che il terapeuta sviluppi una competenza nel non abbandonare mai l’ascolto verso il paziente, anche quando lui può essere in piena attività canora o sonora. In caso contrario il terapeuta potrebbe perdere qualche segnale vitale da parte del paziente, essendo troppo preso dalla propria attività. Inoltre bisogna sottolineare la proficuità di ritornare sovente a periodi di ascolto per dare respiro e pause necessari (anche il paziente si stanca!) e per riconfermare che l’intervento non sta andando in una direzione fuori dal controllo del terapeuta. 51 Va anche ricordato un altro aspetto del silenzio per quanto riguarda l’ascolto. Come abbiamo visto con certi compositori del ‘900, il silenzio ci offre la possibilità di “risentire” un brano o un suono appena eseguito e di avere una conferma di ciò che abbiamo appena fatto. Con certi soggetti può essere utile fermarsi dal “fare musica” per stare un po’ in silenzio e “godere” il senso di gratificazione di un dialogo sonoro prodotto insieme, o fermarsi per un momento sul suo significato emotivo. Attesa L’accoglienza e l’ascolto sono due “frutti” del silenzio che, con l’esperienza e una giusta cura da parte del terapeuta, possono diventare un prezioso strumento di comunicazione con il paziente. L’attesa, invece, anch’essa sviluppata e applicata nel silenzio, può essere vista come una strategia imposta per stare al passo con i tempi del paziente. Si tratta di non avere nessuna premura o preconcetti sulle possibili durate dei proprio programmi ma adattarli rimanendo assolutamente nei tempi del paziente. Come accennato prima, in certi casi questo potrebbe significare attese di mesi per raggiungere soltanto un primo contatto. E’ fondamentale rendersi conto che con certe problematiche/disabilità il tempo, come viene percepito dalla maggior parte della gente di oggi (cioè un tempo da non “sprecare”, “da riempire” ogni momento di attività frenetiche), può non avere limiti e un self-­‐training essenziale per il terapeuta è proprio quello di imparare ad attendere. Potrebbe significare che il terapeuta si trova nella situazione di dover stare nel silenzio per l’intera durata dell’intervento, e poi magari solo dopo settimane avere un piccolo segnale di comunicazione da parte del paziente. 52 La “risposta”, specialmente quando arriva dopo una lunga attesa, dovrebbe di conseguenza essere apprezzata ancora di più per il suo significato. Il silenzio dentro di sé Come si può arrivare a un silenzio “silenzioso” interno? Finora le strategie connesse al silenzio presuppongono un fattore evidente: quando parliamo di operare in silenzio, non intendiamo che c’è una mera assenza di rumore o suoni, ma che il terapeuta ha creato dentro di sé un silenzio “silenzioso”. Questo silenzio non deve essere un velo che maschera un miscuglio di emozioni, preoccupazioni e frustrazioni (di cui siamo tutti portatori), che potrebbero disturbare e intromettersi nel nostro operare col paziente. Piuttosto è necessario sottoporsi a un rigoroso allenamento per imparare ad arrivare nel setting (o dal paziente) come una carta “assorbente” bianca. Prima di ogni intervento, un’adeguata preparazione del proprio stato d’animo deve essere sollecitata: ascoltarsi, liberarsi di emozioni e disagi interiori e arrivare ad uno stato di tranquillità. Soltanto in questo modo il terapeuta può essere pronto per accogliere il suo paziente. Ancora una volta, una preparazione del genere può essere elaborata soltanto in silenzio. Il silenzio totale o il falso-­‐silenzio Mentre un partire con o un ritorno al silenzio è importante nelle sedute di musicoterapia, esiste anche una tecnica di quasi-­‐silenzio o falso-­‐silenzio che il terapeuta può adoperare nei casi in cui un silenzio totale potrebbe essere 53 interpretato dal paziente come possibile disattenzione (il terapeuta non é più presente o non è più partecipe?). Questo può succedere nei pazienti non-­‐vedenti sia per motivi organici sia per motivi psicopatologici tipo i soggetti autistici, isolati nel loro mondo interiore, o i portatori di postumi di ictus cerebrale, oppure casi di ostilità verso l’operatore in cui il soggetto si rifiuta di volgergli il proprio sguardo. Risulta utile in queste situazioni creare un “cuscino” di suono esile, delicato abbastanza per non creare squilibrio e non perdere la comunicazione, ma appena udibile per segnare la presenza e il costante coinvolgimento del terapeuta . Questo “cuscino” di suono può essere creato in diversi modi: sfiorando la membrana di un tamburo, pizzicando dolcemente le corde di una chitarra o una cetra, sussurrando una melodia tranquilla e armoniosa, ecc. In tale modo il paziente viene rassicurato della presenza attiva del musicoterapista. 54 5. UN CASO CLINICO: paziente portatrice di esiti d’ictus cerebrale Una “learning-­‐experience” per la comunicazione attraverso il silenzio Il caso a cui mi riferisco è quello della signora Carla, persona di 78 anni, con diagnosi di ictus ischemico del circolo posteriore, con afasia grave, disfagia. Paziente mutacica, molto rallentata. Mantiene gli occhi chiusi. Esegue ordini soprattutto su comando gestuale o imitazione. Mantiene la statica eretta ed esegue qualche passo con girello o assistenza. In seguito a un ictus ischemico, la signora Carla viene ricoverata nella struttura del Presidio Sanitario San Camillo che è inserito nella rete del Servizio Sanitario Nazionale della Regione Piemonte e svolge attività ospedaliera specializzata in riabilitazione intensiva di secondo livello. Presso questa struttura si trova un centro di musicoterapia (gestito dal Prof. Maurizio Scarpa). La signora Carla è degente nella struttura da tre settimane, quando inizia un trattamento di musicoterapia. La richiesta di una valutazione musicoterapica è stata formulata dall’equipe riabilitativa che si occupa della signora. Gli interventi di musicoterapia per la signora Carla venivano eseguiti due volte alla settimana con la durata di 45 minuti ciascuna. Carla veniva accompagnata in carrozzina dal reparto del II piano fino al Centro di Musicoterapia, situato al piano terra. 55 Ho avuto modo di seguire questa paziente durante la mia seconda esperienza di tirocinio. Carla si presentava sempre con gli occhi chiusi, ma il personale medico tentava di tenere le palpebre mezze aperte attraverso l’uso di due cerotti. Questa apertura forzata infastidiva Carla, che regolarmente cercava e riusciva ad eliminare; quindi, per mantenere la paziente in uno stato d’animo il più sereno possibile, il musicoterapista si trovava con una paziente non-­‐vedente. Intendo descrivere l’evoluzione del rapporto comunicativo tra me e Carla, l’attenzione al mio ascolto/silenzio e l’importanza di quest’ultima nel processo comunicativo. I primi tre o quattro interventi sono iniziati con una mia attesa silenziosa, mirata a cogliere il suo stato d’animo e le sue capacità sonore; questo mio silenzio è stato forzato, provocandomi difficoltà e ansia, a causa della situazione sconosciuta. Sul tavolino fisso della sua carrozzina ho messo un piccolo tamburo, un piccolo xilofono e delle bacchette, in modo che potesse facilmente arrivarvi. Non percependo nessun segnale da parte sua, in seguito a lunghi minuti di silenzio, ho preso io l’iniziativa con attività che, però, ho capito in breve non essere adeguate. Usando la chitarra per creare un sottofondo, ho iniziato col primo esercizio di respirazione e rilassamento, nel quale facevo lunghe inspirazioni ed espirazioni, per poi passare al secondo esercizio, nel quale, sempre con l’utilizzo del sottofondo musicale, cantavo su un’unica nota le vocali “U” ed “O”. Non c’è stata nessuna risposta da Carla per entrambi gli esercizi. Altri tentativi sono stati quelli di suonare un ritmo semplice sul tamburo e una melodia tranquilla, semplice e corta sullo xilofono; anche qui nessuna reazione da parte sua. 56 Una volta nel corso di queste prime settimane, Carla ha preso una bacchetta posta vicino alla sua mano e ha eseguito pochi colpi sul tamburo – ma mi è sembrato più una scarica che un tentativo di mettersi in contatto con me. Mi sono resa conto dopo i primi incontri (e grazie anche alle osservazioni del mio supervisore) che ci voleva più ascolto da parte mia, ed era importante stare in silenzio insieme. Il mio ruolo in quei primi tempi era di registrare semplicemente la mia presenza e la mia accoglienza per creare una base di fiducia. Al massimo ogni tanto, sempre per segnare la mia presenza e sostegno, poteva essere utile creare un “cuscino di suoni” come sottofondo: questo segnala “io sono ancora qui con te; non sono andata via; non mi sto stufando”. Un’altra volta lei ha mostrato qualche piccolo movimento con la mano sinistra, che però si muoveva in orizzontale. Ho quindi spostato il tamburo e l’ho messo in verticale: lei ha battuto forte qualche colpo sul tamburo, ma di nuovo mi sembrava più una scarica che non un cercare una relazione con me. Poi, un pomeriggio, dopo un lungo silenzio , ho incominciato come al solito a suonare pianissimo e molto lentamente qualche nota sullo xilofono. Carla, per la prima volta con me ha pronunciato una parola – “ombra” -­‐ ed ha iniziato a battere le dita sul tavolino. Ho fatto questo per qualche minuto, quindi ho messo il tamburo vicino alla sua mano e Carla ha cominciato a toccarlo e sfiorarlo. Questo è durato per qualche minuto, poi Carla ha indicato il battente con la mano e ha cominciato a suonare una serie di colpi insieme a me – per ogni nota mia, lei ne faceva due. (Bisogna notare che, qua, ogni tanto Carla vedeva qualcosa, riuscendo ad aprire gli occhi poco poco, abbastanza da poter indicare un oggetto). Da quel momento in poi, non ho più avuto la fretta di iniziare un’improv-­‐
visazione con lei, avendo imparato a stare in silenzio dentro me stessa ed ascoltare il suo silenzio – a volte per quasi tutta la durata del trattamento – e sentendo che lo spiraglio di una relazione cominciava ad aprirsi. 57 Un giorno ho messo lo xilofono sul tavolino e, sempre dopo qualche minuto e molto lentamente, Carla l’ha toccato, esplorandolo con le mani. Poi ha preso il battente e ha suonato ogni nota della scala, andando su e giù, su e giù, da DO a DO, una nota per volta. Sicuramente vedeva quando svolgeva quest’attività, data la precisione con cui ha colpito la sequenza delle note, senza sbagliare. Dopo di ciò, Carla è ritornata sul tamburo, sfiorandolo con la mano.* Un altro giorno ho visto la sua mano sinistra che cercava qualcosa. Ho messo sul tavolino la cetra e ho pizzicato qualche nota. Seguiva un lungo silenzio, e io aspettavo… Carla ha messo la mano sinistra sulla cetra, sempre con gli occhi chiusi, ed ha esplorato la forma dello strumento. Poi, lentamente, con un dito, ha cominciato a pizzicare qualche nota. Qualche tempo dopo l’inizio del nostro suonare insieme, ho notato che, se io cambiavo strumento (per accompagnarla meglio), spesso Carla smetteva di suonare il suo. C’è stato un pomeriggio in cui ho sentito il momento più intenso della nostra sintonizzazione: avevamo entrambe un tamburo – lei sul suo tavolino, io sul tavolo vicino. Lei era arrivata nella stanza di musicoterapia con gli occhi chiusi, come al solito, era completamente silenziosa e non mostrava alcun cenno di voler dialogare con i suoni. Siamo rimaste in silenzio per parecchio tempo. Io poi ho preso il battente e ho dato un leggerissimo colpo al mio tamburo; Carla ha preso il suo battente e ha fatto un colpo. Io ho suonato due colpi, lei due; io di nuovo uno, lei uno. Io tre e lei tre, ecc, ecc. Dalla precisione con cui lei ha ripetuto il numero dei colpi, il ritmo esatto ed il volume, ho capito la sua voglia e la sua capacità di comunicare usando questa tecnica. Purtroppo poco tempo dopo il mio tirocinio sarebbe finito, Carla prima o poi sarebbe tornata a casa sua e la nostra relazione sarebbe finita. 58 6. UN CASO CLINICO L’uso di silenzio in un caso clinico di autismo Descriverò un percorso di musicoterapia con un paziente dove l’uso del silenzio è stato componente fondamentale per l’avvicinamento e comprensione del paziente, lo sviluppo della relazione nonché un importante sentiero verso la comunicazione reciproca. Pietro oggi fa parte di un centro diurno per disabilità mista, da lieve a gravissima. Frequentava questo centro da cinque anni, quando io ho cominciato il trattamento musicoterapico con lui. Descrizione clinica Encefalopatia su base disgenica, tratti autistici, epilessia secondaria controllata da farmaci. In caso di epilessia oltre i tre minuti viene somministrato il Valium. 59 La deambulazione è avvenuta intorno ai cinque anni e il linguaggio è stato assente fino ai tredici anni. Al momento della stesura di questa tesi, le uniche parole pronunciate sono state: “ciao”, “acqua”, e “porca vacca”. All’età di quattro mesi ha avuto la prima crisi convulsiva. A sette anni ha cominciato a frequentare la scuola elementare e a dodici anni la scuola media. Pietro ha iniziato frequentare il Centro all’età di sedici anni. Pietro, 21 anni, ha un fratello che ha due anni meno di lui e due fratelli gemelli di 9 anni. L’inserimento al Centro è stato graduale, senza problemi particolari, ma con le osservazioni seguenti: -­‐ Pietro si butta per terra regolarmente per giocare, o si sdraia sopra un oggetto, tipo una sedia capovolta, un cuscino, un tamburo grande. -­‐ Ha difficoltà a partecipare in gruppo e preferisce l’attività rivolta a lui. -­‐ L’attività di gruppo è vissuta come una costrizione e lui non ne coglie il senso; dunque le attività come bricolage e disegno vengono da lui rifiutate. -­‐ Non riconosce i diversi spazi del Centro o tempi della giornata. -­‐ Pietro è generalmente allegro e solare e saluta. Cerca il contatto visivo, sorride ed è aperto. -­‐ Ha una predilezione per oggetti luccicanti, specialmente le custodie dei CD. -­‐ Ha difficoltà ad accettare le regole. Tuttavia, gli operatori raccontano dei progressi ottenuti con la sua collaborazione. -­‐ Ha rapporti con gli operatori ma non con i compagni. -­‐ Non è capace di esprimere i suoi bisogni. -­‐ Prima di partecipare ad una serie di interventi musicoterapici, Pietro svolgeva le attività di ippoterapia, acquaticità, logopedia, l’ascolto delle fiabe e la lettura tramite computer. Partecipa anche con risposte positive alle uscite in gruppo del Centro. 60 Gli obiettivi per gli operatori del centro per quanto riguarda Pietro sono i seguenti: -­‐ La consapevolezza e la presenza durante la vita quotidiana del Centro; -­‐ Che riconosca i tempi e gli spazi nel Centro; -­‐ Che cominci ad accettare di stare in gruppo (obiettivo in parte raggiunto – al mio arrivo comincia già stare negli spazi comuni del Centro e non isolarsi); -­‐ Mantenere tempi di concentrazioni con il computer; -­‐ Coinvolgimento al mondo esterno; -­‐ Ridurre i tempi di isolamento con oggetti luccicanti o “interessanti”; -­‐ Ridurre l’abitudine di Pietro di tirare una persona con la mano quando vuole qualcosa e incoraggiarlo ad usare il contatto visivo e “chiedere”; -­‐ Mantenere i risultati ottenuti. Il percorso degli interventi Una condizione fondamentale per il musicoterapista all’inizio di un intervento è quella di rimanere in silenzio in un atteggiamento di accoglienza. Questo ha una doppia funzione: segnala al paziente la propria disponibilità e apertura verso di lui, inoltre lascia lo spazio al musicoterapista per osservare e accogliere lo stato d’animo del paziente nonché quello di scegliere il tipo di attività adeguata. Da quanto avevo letto e dai video visti sui casi di autismo, ero preparata e pronta a passare lunghi tempi in silenzio con Pietro, poiché in molti casi gli autistici hanno bisogno di periodi molto lunghi per trovare sicurezza nell’avvicinamento al terapeuta. 61 Pietro, invece, è un ragazzo attivo e vivace che oscilla tra il cercare il contatto con altri e il passare dei momenti isolato nel suo mondo, spesso con oggetti luccicanti. Descriverò il percorso degli interventi con Pietro e come il nostro rapporto si è evoluto, grazie anche all’uso del silenzio. La frequenza degli interventi ha avuto cadenza settimanale, con una durata di circa un’ora per ciascun intervento. Ci sono stati più interventi di quelli descritti in questa sede, ma racconterò quelli che per me sono stati più significativi. 21 settembre Entrando nel setting, Pietro si è indirizzato direttamente verso i sei strumenti posizionati per terra in cerchio. Ha preso in mano una bacchetta di tamburo e l’ha lanciata, facendola scivolare lungo il pavimento, con aria divertita. Ha fatto la stessa cosa con dei pezzi dello xilofono, con delle maracas e con un piccolo tamburo, ma non con la chitarra, con la cetra o con lo jambé. Siccome era il nostro primo incontro e quindi troppo presto, secondo me, per riprenderlo su quello che mi sembrava un suo “gioco” e educarlo a non lanciare gli oggetti, considerando anche che questi strumenti non “patiscono”, l’ho lasciato fare; dopo un periodo di osservazione, ho cominciato ad accompagnare il suono degli strumenti che scivolavano per terra con un rullo di tamburo. Pietro è un ragazzo che non parla, ma emette tantissimi suoni con la voce, che possono essere descritti come urla, scale discendenti, canti, note vere e proprie e sillabe ben definite. Prendendo spunto dalle note che gli sentivo emettere, e rimanendo su note e ritmi che lui è capace di produrre, ho cominciato ad entrare in un dialogo sonoro 62 cantato. Pietro produceva spesso le sillabe “CO” e “LA”, le note SOL – DO, nonché un ritmo costante, che ho trasformato nel seguente fraseggio: Questa particolare capacità musicale di Pietro di cantare con un ritmo preciso, con delle sillabe particolari e su note ben definite sarà poi la caratteristica più usata da me nel percorso dell’anno. Dal primo incontro, uno dei suoi modi per mettersi in contatto è il gioco del “cucù”: lui si avvicina a me e si copre la faccia con le mani, poi apre le mani, scopre la faccia e fa “cucù”. A metà intervento Pietro si siede vicino allo xilofono, prende uno per uno i vari pezzi dello strumento (ogni pezzo ha un colore diverso) rigirandoli nella mano ed esaminandoli bene. Rimaniamo tutti e due in silenzio per lungo tempo, mentre lui esegue questa attività. Quando gli passo una bacchetta per incitarlo a suonare lo xilofono, lui la lancia lungo il pavimento. 28 settembre Il secondo incontro comincia in modo simile al primo: Pietro lancia le bacchette e i pezzi dello xilofono lungo il pavimento. 63 Comincio a cantare la “canzone” inventata nell’incontro precedente, da ferma o camminando, variando con strumenti a percussione. Pietro partecipa, con irregolarità. In questo intervento ha prodotto delle scale discendenti e un motivo musicale che assomiglia alla canzone “I want to be happy” In questo incontro ho notato più contatto visivo da parte sua che non nei precedenti. Lanciava sempre le bacchette, ma una volta ne ha preso una, l’ha guardata e poi l’ha portata con esitazione verso il tamburo. Poi, però, l’ha lanciata. 26 ottobre Ho sviluppato una tecnica per dissuadere Pietro dal lanciare gli oggetti: pongo il palmo della mano verso l’azione da non fare, e canto: “no-­‐no-­‐no…” Poi, giro la mano con il palmo verso l’alto in forma d’invito e aggiungo “vie-­‐ni…” 64 Questo, nel corso degli incontri, funziona per tutti gli oggetti e strumenti che lui vorrebbe lanciare… tranne che per le bacchette! Succede, durante gli interventi, che perda l’attenzione di Pietro. Mi fermo e resto in silenzio, seduta, ad aspettare. Passano dei minuti e poi Pietro alza la testa, mi guarda e, di solito, saluta con la mano o fa qualche suono vocale. A volte, dopo un mio silenzio, Pietro mi porta la chitarra e sembra contento quando comincio a suonarla. Ogni tanto gli offro la chitarra o un altro strumento, ma rifiuta sempre. L’eccezione è lo jambé – lo gira e ci si sdraia sopra. 2 novembre Pietro si avvicina agli strumenti e comincia a lanciare i pezzi dello xilofono. Uso la tecnica sviluppata con lui: “no-­‐no-­‐no… … piano” oppure “no-­‐no-­‐no… … suona”. Aspetto in silenzio. Con calma, Pietro mette tutti i pezzi dello xilofono nella loro scatola, la chiude e comincia a camminare. Aspetto in silenzio. Mi porta la chitarra. 65 In questo incontro ho sentito Pietro cantare degli intervalli ben precisi : …e compongo questa canzone Figura 5 La canzone della fig. 5 diventa una canzone che cantiamo ad ogni incontro. Il motivo musicale della fig. 1 diventa un richiamo per quando lui non risponde. Per esempio: una delle sue posizioni preferite è quella di essere sdraiato sopra una sedia capovolta o un puff ed è capace di mantenere questa posizione per un lungo periodo, apparentemente restando isolato nel suo mondo, nel suo silenzio; è successo che quando non sono io a chiamare lui usando il ritmo della fig. 1, è lui stesso che comincia a battere questo ritmo per terra, di solito con l’oggetto che in quel momento tiene nella mano. 66 Nei seguenti incontri le varie tecniche e capacità descritte fino ad ora vanno sempre di più ad instaurarsi. In questo periodo Pietro produce diversi ritmi e melodie con la voce, continuando a rifiutare gli strumenti. La prima metà di un incontro tipico vede Pietro più attivo e vivace, sia col corpo sia con la voce; nella seconda metà è più tranquillo, silenzioso e io devo lavorare di più sulla comunicazione. Mi porta spesso la chitarra e si dimostra contento quando cantiamo insieme. Una volta soltanto si è messo a saltellare al ritmo della musica. Di volta in volta il suo rapporto con me diventa più fisico: quando facciamo il gioco del cucù, lui mette le mie mani sulla sua faccia, e cerca di coprire la mia faccia con le sue mani. Cerca di mettere la mia testa dentro la sua felpa… difficile! Appena arrivo al Centro, cammina verso di me, prende la mia mano e mi dirige verso la stanza della musicoterapia. 29 novembre Un verso che Pietro emette sovente è la scala discendente: Nel cercare una canzone che rispecchiasse questa capacità, è venuta fuori la seguente che è stata presa dalla canzone: “Daylight come and everyone go home”. 67 Figura 7 Le parole e la musica di questa canzone vengono accompagnate dai gesti indicati dal testo: 1) con il glissando, mettiamo le mani in alto e le tiriamo giù insieme alla discesa delle note. 2) insieme alle parole “metti le mani sulla testa”, le mettiamo sulla testa; poi sostituiamo “testa” per “pancia, “gambe”, “guancia”, ecc., con la relativa gestualità. Pietro ha ascoltato questo in silenzio. Dopo diversi minuti ha cominciato a saltare e, più avanti nell’incontro, ha fatto body-­‐percussion per la prima volta (battendo le mani sulle cosce) 68 11 Gennaio Racconterò gli eventi di questo incontro perché insoliti. Arrivato nel setting, Pietro era agitato, voleva solo lanciare oggetti e non si fermava su nessuna attività, neanche sulle canzoni che di solito gli piacevano. Dopo questo periodo “agitato”, si è fermato con la custodia di un CD in mano ed è rimasto fermo e in silenzio per lungo tempo con essa. Sono rimasta seduta per terra in silenzio anch’io, e così siamo rimasti per tanto tempo. Soltanto verso la fine dell’incontro Pietro ha voluto fare il gioco del cucù, e a fine intervento ha messo a posto nella loro custodia tutti i pezzi (otto) dello xilofono. Era decisamente più calmo a fine intervento che non al suo arrivo. Era l’ora del paziente successivo, Tommy – un ragazzo in carrozzella, paralizzato totalmente tranne i muscoli facciali. Pietro non voleva lasciare la stanza e gli ho permesso di rimanere. Per l’intero intervento con Tommy, Pietro è rimasto seduto per terra tranquillamente, partecipando agli esercizi e canti che facevo insieme a Tommy; ad un certo punto mi ha portato la chitarra; più avanti ancora ha introdotto il gioco del cucù, facendo sorridere Tommy; a fine intervento ha portato Tommy in carrozzella con molta cura fuori della stanza. Era evidente che Tommy ha goduto la presenza e la partecipazione di Pietro. Febbraio In questo mese ho notato una crescita nella capacità generale di cantare di Pietro. Osservando i suoni che emetteva, ho sentito che era capace di produrre tutte le vocali – U, O, A, E, I – e le consonanti K, G, W. 69 Ho notato anche un interesse per nuovi ritmi e suoni della voce (pa-­‐pa-­‐
pa/brrrrrr) Continuava a non volere suonare nessuno strumento, ad eccezione di un giorno in cui, per la prima volta, ha toccato la cetra. Il ritmo della fig. 1 rimane un punto forte nella nostra comunicazione, di solito iniziato da me e echeggiato da parte di Pietro, ma ogni tanto accade il contrario. Cresce la sua partecipazione a fine intervento nell’aiutarmi a mettere a posto gli strumenti. 1 marzo Dopo il tipico inizio dei nostri incontri – la canzone di benvenuto, lo stare intorno agli strumenti con ritmi, motivi musicali, canzoni usuali, ormai sviluppati lungo i sei mesi di percorso -­‐ ho sospeso le attività per rimanere in silenzio e dare spazio a Pietro di esprimersi. Questa modalità da ora in poi diventerà una componente della mia tecnica, perché spesso porta delle novità da parte di Pietro. Durante questo incontro, dopo un silenzio, Pietro ha capovolto una sedia-­‐
poltroncina leggera di metallo, vi si è sdraiato sopra in una posizione che gli permettesse di poter tenere e “guidare” la sedia con le mani, e per un lungo periodo è rimasto fermo in silenzio in questa posizione. Poi ha cominciato a dondolare leggermente con la sedia, battendo un ritmo sul pavimento. Ha continuato a riprodurre questo ritmo. Dopo un po’ ho iniziato anch’io un ritmo vocale che si intrecciava con il suo, usando la lingua sul palato (del tipo kla-­‐klo-­‐kla-­‐klo, come imitando gli zoccoli del cavallo sul selciato) e ciò dava vita a un dialogo sonoro sincronizzato. 70 In questo intervento per la prima volta ho usato una melodia in chiave minore (fino ad ora le canzoni e motivi musicali sono sempre stati in chiave maggiore), accompagnata dagli accordi La minore e Mi settima sulla chitarra. Dopo un periodo di ascolto, Pietro ha cantato il seguente motivo: Figura 8 Interessante notare che ha usato la sillaba “GHE” per la prima volta. 8 marzo La prima parte di questo intervento vede Pietro che lancia le bacchette in giro per la stanza – i miei tentativi di fermarlo usando la solita tecnica (fig. 3) non funzionano. Allora decido di sedermi per terra e rimanere in silenzio e in attesa. Pietro ha trascorso diversi minuti a guardare semplicemente le sue mani. Alla fine, si è alzato dal divano, ha preso una bacchetta da terra e l’ha messa insieme agli altri strumenti. Ho cantato “Bravo Pietro!” e lui saltava, battendo le mani, chiaramente contento. Più tardi ho cercato di ripetere questa sequenza, ma senza successo. Nel mese di aprile ci sono stati altri due episodi in cui, dopo un periodo di silenzio, attesa e inattività, Pietro ha prodotto una cosa nuova. 71 Nella prima occasione lui è rimasto in silenzio e fermo per tanto tempo. Poi ha detto, forte, “CUC”. L’ha ripetuto tante volte, a distanza di 5/10 secondi l’una dall’altra. Io ho cominciato a fare l’eco “CUC”, ed è seguito un preciso dialogo sonoro per diversi minuti. In un altro episodio, un suo lungo silenzio si è concluso con il seguente motivo musicale lento, stabile e perfettamente intonato: 72 7. UNO STUDIO SULLA REALTA’ MUSICALE IN SOGGETTI AFFETTI DA SORDITA’. Durante la ricerca per questa tesi, ho esplorato diversi ambiti dove il silenzio gioca una parte centrale: silenzio vs/ musica nelle nostre vite quotidiane; il ruolo del silenzio nei brani musicali; l’importanza del silenzio nelle comunicazioni inter-­‐relazionali; la musica che percepiamo nella nostra testa, nonostante l’assenza di suoni “reali” esterni. Queste considerazioni mi hanno spesso fatto riflettere sul fatto che negli argomenti finora trattati, raramente si prendono in considerazioni la realtà ovviamente diversa dei non-­‐udenti. Com’è la loro realtà musicale? Quando pensano alla musica, che cosa percepiscono? Sono venuta a conoscenza di un gruppo di non-­‐udenti, dell’età compresa tra 55 e 70 anni, e ognuno di loro ha perso l’udito durante i primi anni di vita, chi per malattia, chi per un trauma. Ho conosciuto in modo più approfondito una donna, Anna, che all’età di 3 anni, a causa dell’assunzione di streptomicina successiva ad una serie di malattie infantili, ha subito la sordità totale di un orecchio, e l’80% dell’altro. Lei è capace 73 di esprimersi benissimo vocalmente, grazie a un ottimo insegnante che l’ha seguita durante gli anni formativi; la sua capacità di leggere il labiale è fenomenale, al punto che, conversando con lei, non ci si accorge della sua disabilità. Siccome il resto del gruppo non possedeva il livello dell’abilità di Anna nel farsi capire e, del resto, neanche io nel capire loro, esistevano problematiche di comprensione ad un livello più approfondito, rendendo lei la conseguente porta-­‐
voce del gruppo. Lei mi raccontava che la musica per loro in generale ha poco significato e che si attaccano molto di più alle parole di una canzone che al suo ritmo, il quale risulta spesso come un’idea fastidiosa. Anna raccontava inoltre la percezione del senso della danza correlata alla musica guardando i movimenti dei danzatori e seguendone i passi. Di grande importanza per una persona non-­‐udente sono le vibrazioni: nei concerti “live”, per esempio, le vibrazioni create dall’attrezzatura elettronica risultano una sensibilità preziosa, in particolare per quanto riguarda la percussione. Oppure si pensi alle vibrazioni del cellulare, che forniscono l’unico modo per un non-­‐udente di accorgersi del messaggio in arrivo. La gestualità è anche un aspetto fondamentale nella comprensione interpersonale nel mondo dei non-­‐udenti. Il linguaggio dei segni (LIS) è il loro mezzo di comunicazione universale, ma all’interno del gruppo che ho conosciuto, di aggregazione quotidiana, era evidente lo sviluppo di un linguaggio di segni tutto loro, come una sorta di dialetto. Un giorno avevo chiesto ad Anna di descrivermi come percepisca l’idea della musica, e per l’incontro successivo mi ha scritto il testo seguente: “Sorda dall’età di circa 3 anni, non ho il ricordo di avere udito della musica. 74 La percezione che ho nella mia testa della musica è semplicemente immaginazione. Dunque, se vedo uno strumento a corde come l’arpa immagino sia un suono dolce, e lo associo a melodie angeliche, forse sono dovute a immagini che ho nella mia mente. Penso che sia una musica piacevole, anche dalla postura che uno deve assumere per suonarla, di conseguenza il mio corpo tende ad ondeggiare dolcemente. Se vado nei locali troppo rumorosi, dovuti ad una forte acustica, percepisco forti vibrazioni dal suolo e dalle pareti e mi provoca uno stato di ansia e malessere, e soprattutto stordimento da sentire la necessità dell’assoluto silenzio a cui sono abituata. Gli strumenti come la batteria, il tamburo che seguono una ritmica, io non riesco a riconoscerla, ma il rimbombo mi infastidisce. Nel complesso musicale, tipo orchestra o banda, invento nella mia mente la loro musicalità, non distinguendo i singoli suoni; sono io che dirigo la mia orchestra a seconda del mio stato d’animo, del mio umore e delle immagini che vedo, posso avere una sensazione piacevole o sgradevole. Ricordo momenti della mia giovinezza, quando la televisione era in bianco e nero (anni 60”). Il cantante era in primo piano e leggevo bene la lettura labiale, e con il testo scritto della canzone, che leggevo sulla rivista, immaginavo la musicalità anche a seconda di come si muoveva il cantante, per esempio Little Tony con “Cuore matto” e “Riderà”. Oggi la televisione non inquadra più fisso il cantante, perché è sempre in movimento, e quindi non mi provoca interesse nel vederlo, e neanche la coreografia del ballo.” 75 76 Il silenzio è presente in ognuno di noi, come lo è, in qualche forma, la musica; tuttavia, la varietà di interazioni possibili porta a infinite combinazioni rendendo unica l’identità sonora di ciascun individuo. L’affascinante sfida del musicoterapista sta nel trovare quell’identità sonora in sé e nel paziente, e (inter)agire. 77 78 BIBLIOGRAFIA (per i primi due capitoli) John Paynter and Peter Ashton, Sound and Silence – Classroom Projects in Creative Music. Cambridge University Press, 1970 Marcel Cobussen, Deconstruction in Music, Dissertation. Department of Art and Culture Studies, Erasmus University, Rotterdam, Netherlands, 2002 Massimo Baldini, Elogio del silenzio e della parola. I filosofi, i mistici e i poeti. Rubbettino Ed., 2005 Thomas Clifton, The Poetics of Musical Silence. Musical Quarterly, Volume 2, 1976 Neil Crimes and Jairo Moreno, Beyond Sound: Listening through Musical Silence, Dissertation. 2012 Prof. J.H. Cilliers, Silence is Golden. Liturgy beyond the Edge of Language, Essay. Stellenbosch University, Stellenbosch, 1998 Massimo Mila, Breve storia della musica. Einaudi, Torino, 1993 Dalai Lama e Daniel Goleman, Le emozioni distruttive. Oscar Mondadori, Milano, 2003 Buzzati D., Il segreto del bosco vecchio. Mondadori, Milano 1998 Claudio Gregorat, La musica come mistero del suono. Convivio/Nardini Editore, Firenze, 1988 Oliver Sacks, Musicophilia – Tales of music and the brain. Picador 2008 Denise Grocke and Tony Wigram, Receptive Methods in Music Therapy. Jessica Kingsley Publishers, London, 2007 Daniel Levy, Eufonia – il suono della vita. Cassiopeia Ed., Venezia, 1986 Philip Ball, The Music Instinct. Vintage, London, 2011 Howard Goodall, Big Bangs. Chatto & Windus, London, 2000 Wolfgang Schreiber, L’ascolto della musica ha bisogno di silenzio -­‐ Claudio Abbado, Maurizio Pollini e Luigi Nono: un’amicizia musicale. Il Saggiatore, Milano 2003 Max Picard, Il mondo del silenzio. Edizioni di Comunità, Milano,1951 Neil Crimes Jairo Moreno, Beyond Sound: Listening Through Musical Silence, Dissertation Proposal Pier Luigi Postacchini, Andrea Ricciotti, Massimo Borghesi, Musicoterapia, Carocci Editore, Roma ,1997 79 80 RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare una serie di persone che sono state indispensabili nella realizzazione di questa tesi. Prima di tutto ringrazio Polly: senza di lei non avrei avuto il coraggio di iniziare il corso di musicoterapia – ha smontato tutti i motivi per cui pensavo di non essere in grado di intraprendere questo percorso ed è rimasta una continua fonte di incoraggiamento. Vorrei ringraziare il Dott. Gerardo Manarolo per averci dato la possibilità di conoscere questa materia affascinante attraverso il suo corso triennale di musicoterapia. Mi ha aperto tante porte nuove e ho trascorso tre anni davvero illuminanti. E un grazie ai miei compagni di corso per la loro continua solidarietà ed il loro affetto. Insieme abbiamo trascorso tre anni indimenticabili e condiviso tante emozioni ed esperienze. Un grande grazie a Francesca e Donata, che hanno migliorato l’aspetto linguistico della tesi; e un grazie a Gabriella per il controllo finale della stesura. Ringrazio anche il Prof. Maurizio Scarpa e Dario Bruna che, durante i due tirocini, mi hanno insegnato le tecniche musicoterapiche e mi hanno aiutato a trovare la sicurezza al fine di usare la mia fantasia e abilità, trasformando la teoria del corso in capacità pratica. 81 82 Finito di stampare nel novembre 2013, presso la Tipografia Bosco -­‐ Sciolze 83 84