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La doppia vita musicale di Gabriele Pieranunzi
Spalla del Teatro San Carlo, solista
e camerista raffinato: la versatilità
del violinista Gabriele Pieranunzi,
che ha partecipato con Roberto
Prosseda all’integrale della musica
da camera di Mendelssohn per Decca, è davvero singolare nel panorama musicale italiano.
I suoi ultimi due CD , registrati con
Decca e dedicati al Mendelssohn giovanile, hanno avuto un ottimo riscontro. Da dove nasce questo progetto?
Come spesso succede, è nato un po’
per caso, dalla collaborazione con
Francesco Fiore e Shana Downes:
Decca ci ha proposto di incidere
qualcosa nella formazione del trio
d’archi ma, essendo questa una formazione un po’ desueta, abbiamo
pensato di includere anche Roberto
Prosseda, che era impegnato nel
suo grande progetto-Mendelssohn
discografico, e di affrontare i Quartetti con pianoforte di quell’autore,
pagine bellissime e raramente eseguite, tanto che credo che la nostra
sia l’unica integrale esistente.
Spesso, affrontando i lavori giovanili
o addirittura infantili di un compositore, si è tentati di cercare i prodromi
dello stile maturo. È un discorso che
regge, nel caso di Mendelssohn?
Io credo che ci siano delle tracce significative, e voglio fare un esempio
concreto: nello Scherzo del Trio in
do c’è un chiarissimo anticipo, nel
ritmo e negli intervalli, del Sogno di
una notte di mezza estate. Ma anche fra le opere 1, 2 e 3, ossia i primi
lavori pubblicati da Mendelssohn,
c’è un percorso evolutivo tangibile,
un mondo che cambia in maniera
rapidissima; quindi precocità e chiarezza assoluta.
Oltre, immagino, a modelli chiaramente avvertibili: quali?
Gli studi con Welter e la formazione
accademica di Mendelssohn sono
molto chiari, cosı̀ come l’influenza
bachiana: né possiamo ignorare l’influenza dei suoi contemporanei, come Schumann, che « inquinano » la
serenità di base, come una cenere
sotto la brace di una musica apparentemente imperturbabile.
Parliamo del suo strumento: come
scrive il giovane Mendelssohn per violino? Nelle note dei due CD si fa riferimento anche a Paganini...
Io ricorderei anche Spohr, abituale
frequentatore di casa Schumann e
di casa Mendelssohn, grande violinista la cui influenza è percepibile in
tutti questi lavori giovanili, incluso
l’Ottetto: in quel periodo la tecnica
del violino era ancora, sotto certi
punti di vista, farraginosa, non si era
ancora arrivati alla naturalezza pa-
Gabriele Pieranunzi
ganiniana. Mendelssohn riesce a
scrivere in maniera più trasparente
di Spohr, per non parlare di Bazzini
o Viotti: mi colpisce sempre l’equilibrio fra brillantezza e cantabilità, in
una perfetta economia di mezzi.
Nulla è di troppo, nulla è mancante.
Proseguirà questa esplorazione mendelssohniana in sala di registrazione?
La mia intenzione è di incidere il
Concerto « piccolo », quello in re minore, e il doppio, che con Prosseda
vorremmo fare nella versione originale che contempla anche fiati e
timpani, e non i soli archi. E poi vorrei affrontare i due Quintetti per archi, anch’essi desueti e ingiustamente sottovalutati, oltre che molto diversi l’uno dall’altro, uno giovanile
ed uno maturo.
Lei è spalla dell’Orchestra del San
Carlo: cosa apporta questa esperienza alla sua carriera solistica?
Il mio percorso musicale è stato singolare: per anni ho lavorato come
solista, e da 15 anni circa ho iniziato
anche a suonare in orchestra, prima
come ospite poi come spalla, dal
2004. Riprendere un’attività solistica
dopo tanti anni d’orchestra è, se si
considera l’esperienza dal punto di
vista giusto, un arricchimento, perché in essa confluiscono tante esperienze e una nuova capacità di gestire il tempo; mi spiace solamente che
in Italia si tenda ad etichettare i musicisti, classificandoli fra chi fa il solista, chi fa musica da camera, chi
suona in orchestra All’estero un violinista lo è e basta, a prescindere da
dove si suona: non esiste nessuna
diminutio, secondo me. Certo, è
molto faticoso coniugare i due
aspetti della professione
Voglio provocare: oggi la qualità delle
orchestre italiane è molto superiore a
trent’anni fa, quando davvero un posto di fila poteva essere una sorta di
« rifugio » per musicisti mediocri!
Forse è vero, però negli anni ’60-’70
al San Carlo la spalla era Aldo Ferraresi, a Santa Cecilia Aldo Stefanato (dove Rocco Filippini era primo
violoncello), alla Rai di Roma suonava Gazzelloni: io credo che il pregiudizio sia un fatto più recente, de-
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musica 263, febbraio 2015
gli ultimi 25 anni, e sta portando ad
un affossamento della « classe media ». E vorrei ricordare una frase di
Sawallisch, che affermava che le orchestre italiane non sono certo organismi perfetti, che però passando
dalla generale all’esecuzione pubblica possono diventare anche migliori
dei complessi tedeschi o inglesi! Forse perché gli italiani sono più creativi e umorali. Parlando della mia orchestra, quella del San Carlo, anche
grazie all’opera di direttori stabili come Tate, il miglioramento qualitativo
compiuto negli ultimi vent’anni è innegabile, benché io non concordi nel
definire mediocre il livello antecedente questa « svolta »: noi italiani
siamo abituati, troppo spesso, ad essere eccessivamente critici con noi
stessi, cosa che fuori Italia generalmente non succede.
Nello scorso numero abbiamo intervistato suo fratello Enrico, che apparentemente svolge la propria attività
in un ambito musicale molto lontano:
avete collaborato frequentemente?
Abbiamo ovviamente una base comune e anzi il fatto che io suoni il
violino lo devo a mio papà e a mio
fratello Enrico (che ha vent’anni più
di me), il quale poi mi accompagnò
a lungo nei primi concorsi e nei primi concerti; abbiamo condiviso tanto, anche la tradizione romana della
domenica costituita dai concerti a
Santa Cecilia, nei quali ho ascoltato
i massimi solisti del violino. In queste occasioni sono diventato una
persona « seria », parola oggi desueta ma che amo molto. Poi sono diventato un professionista, e le nostre strade si sono divise perché in
quel momento storico era impensabile l’incontro di un violinista « classico » e di un pianista « jazz »: deve
considerare che allora i jazzisti erano in una sorta di ghetto, una condizione opposta a quanto abbiamo visto negli ultimi anni, quando molte
società di concerti chiedono di ospitare musicisti che abbraccino generi
diversi. Non voglio usare parole che
non amo, come crossover o contaminazione, ma la sostanza è questa e da
cinque anni circa io ed Enrico siamo
tornati ad esibirci assieme: anche se
ho l’impressione che il momento fertile si stia un po’ esaurendo.
Nicola Cattò
La rivista
che ha rievocato in questo numero la figura del musicista argentino di origine italiano Rodolfo Zanni (19011927), morto a soli 26 anni in circostanze misteriose e
la cui produzione musicale (81 lavori fra pagine sinfoniche, ouverture, balletti, sonate e due opere liriche) è
quasi interamente scomparsa,
HA DECISO
per onorarne la memoria e dare un concreto impulso
alle ricerche musicologiche a lui dedicate, di mettere a
disposizione
UN PREMIO DI 5.000 EURO
per coloro (persona fisica o ente) che trovassero o fornissero elementi decisivi per ritrovare il manoscritto o
un’edizione a stampa della partitura di Rosmunda, opera in quattro atti su libretto di Sem Benelli. In assenza di
questa, si premierà con la stessa somma (5.000 Euro) il
ritrovamento di un’altra partitura che, a insindacabile
giudizio del direttore responsabile della rivista MUSICA,
si rivelerà altrettanto significativa per la comprensione
e la conoscenza della musica di Zanni.
I lavori eventualmente ritrovati andranno inviati tramite
plico raccomandato e pervenire entro il 31 gennaio
2016 alla redazione della rivista MUSICA (via Tonale 60,
21100 Varese).
La direzione della rivista MUSICA si riserva i diritti di utilizzazione delle opere e la scelta delle modalità di proposta delle stesse all’attenzione del mondo musicale.
Aiutateci a ritrovare gli spartiti di Rodolfo Zanni!
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