Prefazione Fin da quando sono nato passavamo le vacanze estive o invernali in montagna e io considero queste cattedrali di roccia come una seconda casa. Crescendo ho iniziato ad andare in montagna anche per scalare: sulle pareti vedevo solo linee immaginarie dove poter salire. A questa attività sono stato iniziato da mio padre e, appena entrato al liceo, dal professor Elio Verzeri. Fino ad oggi ho salito varie vie, la più difficile e bella fra queste è stata “Viaggio secondo Gulliver” aperta da Piolat sul Gran Capucin al Monte Bianco. Per me è stata una via estremamente impegnativa sia dal punto di vista fisico che psicologico: lunga 500 metri mantiene un alto grado di difficoltà fino alla fine e bisogna faticare molto; richiede un grande impegno mentale perché spesso ci sono tratti in cui non si possono piantare chiodi o non è possibile integrare con altri strumenti di assicurazione, inoltre l'esposizione nel vuoto è notevole. Ma cosa sono la montagna e l'alpinismo? Qual'è il loro significato? Si potrebbe dire che l'alpinismo è quello sport che ti porta a salire delle montagne, che sono ammassi di rocce usciti dal terreno per la collisione delle zolle o per le spinte del magma ecc... Ma per me è molto di più: la montagna è un luogo di avventura quasi inaccessibile e tutto da scoprire; l'alpinismo è invece qualcosa di personale e profondo, per alcuni è un semplice sport, per altri una nevrosi oppure una ragione di vita, per me è la possibilità di fronteggiare me stesso, le mie paure e i miei limiti; avere l'occasione di scoprire nuovi microcosmi che solo alcuni possono visitare. L'alpinismo è la ricerca, la scoperta di sé stessi e della montagna; è una scuola di vita. Si potrebbe dire che si vive come si scala. Dolomiti “I Monti Pallidi” Storia Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu (Dolomieu, 23 giugno 1750 – Châteauneuf, 26 novembre 1801) è il geologo francese da cui hanno preso il nome le Dolomiti. Suo padre verso i 3 anni lo iscrisse all'Ordine di Malta, destinandolo quindi alla carriera militare. Questo avrebbe segnato tutta la sua vita, giacché gli avrebbe permesso di viaggiare e di soddisfare la sua passione scientifica. Ricevette un'educazione classica dopo la quale si rivolse alla chimica e alle scienze naturali, consacrandosi presto alla geologia. Individuò la composizione chimica delle rocce alpine che caratterizzano le Dolomiti, scoprendo che il minerale che le costituisce è il carbonato doppio di magnesio e calcio. Dolomieu distinse così la Dolomite dal più comune calcare, ne ebbe la prova scientifica quando inviò dodici campioni di minerale a Nicolas De Saussure. Il mineralista accreditò così definitivamente a Dolomieu la scoperta di questa nuova roccia. La regione delle Alpi sarà chiamata "Dolomiti" solo molto più tardi: nel 1864 Josiah Gilbert e George Churchill, un pittore e un naturalista, pubblicarono a Londra il resoconto dei loro viaggi col titolo "The Dolomite mountains". Leggenda Si narra che le Dolomiti siano chiamate Monti Pallidi a seguito di un prodigioso incantesimo avvenuto ai tempi dell'Antico Regno delle Dolomiti. Tale regno era ricoperto di prati fioriti, boschi lussureggianti e laghi incantati. Ovunque si poteva respirare un'aria di felicità e armonia. Tranne che nel castello reale, perché il figlio del re aveva sposato la principessa della Luna, ma un triste destino condannava i due giovani amanti a vivere eternamente separati. L'uno non poteva sopportare l'intensa luce della Luna che l'avrebbe reso cieco, l'altra sfuggiva la vista delle cupe montagne e degli ombrosi boschi che le causavano una malinconia talmente profonda da farla ammalare gravemente. Ormai ogni gioia sembrava svanita e solamente le oscure foreste facevano da solitario rifugio al povero principe. Ma le ombrose selve sono luoghi popolati da curiosi personaggi, ricchi di poteri sorprendenti e capaci di rovesciare inaspettatamente il corso degli eventi. Così un giorno il principe si imbatté nel re dei Silvani, un piccolo e simpatico gnomo in cerca di una terra per il suo popolo. Egli propose al principe uno scambio: se la sua gente avesse avuto il permesso di abitare quelle terre, in cambio si impegnava a rendere lucenti le montagne del suo regno. Siglato il patto, gli gnomi tessero per un'intera notte la luce della Luna e ne ricoprirono tutte le rocce. La principessa poté così tornare sulla terra per vivere felicemente con il suo sposo. Le Dolomiti presero il nome di Monti Pallidi. Orogenesi Circa 200 milioni di anni fa, nell'antico mare, si depositavano i primi strati orizzontali delle dolomiti. Si sono formati dunque gli strati orizzontali e solo dopo 100 milioni di anni, all'inizio del Cretaceo, 120-130 milioni di anni fa, si sono depositati gli ultimi e più giovani sedimenti attualmente presenti nella regione dolomitica. Solo verso la fine del Cretaceo, cioè 70-80 milioni di anni fa, le forze endogene della terra hanno iniziato a sollevare e piegare lentamente il gigantesco blocco di sedimenti creando linee verticali, oblique o contorte. In questa fase il continente africano cominciò lentamente ad avvicinarsi a quello europeo, determinando uno schiacciamento dei materiali interposti ed il loro conseguente innalzamento (orogenesi). Le Dolomiti iniziarono ad essere interessate da queste dinamiche circa 40 milioni di anni fa ma è soprattutto negli ultimi 25 che si sono avuti gli effetti più forti, le Dolomiti si sono lentamente sollevate dal mare ad oltre tremila metri di quota. Il maggiore e definitivo sollevamento si è avuto negli ultimi 4-5 milioni di anni quando le dure e resistenti dolomie sono rimaste sempre più isolate, mentre le tenere rocce vulcaniche con i loro derivati sedimentari sono state spianate con facilità dando luogo a valli, passi, altopiani. Negli ultimi diecimila anni, dopo che le glaciazioni avevano approfondito e smussato le valli, le Dolomiti hanno assunto le forme definitive che vediamo. L'erosione, complice della gravità, è stata quindi lo scultore che ha plasmato definitivamente le pareti ai cui piedi sono rimasti i detriti della sua azione. Le Rocce L'orogenesi: come si formano le rocce Il termine orogenesi indica l'insieme dei processi, tettonici, vulcanici e metamorfici, coinvolti nella formazione di una catena montuosa. Secondo la teoria della tettonica a zolle, i processi orogenetici si realizzano lungo i bordi dei continenti collocati in corrispondenza di margini convergenti delle placche. Qui si verificano fenomeni che piegano e accavallano gli strati rocciosi, creando così una catena montuosa. L'orogenesi può avvenire in due situazioni differenti: quando due continenti entrano in collisione (Alpi, Himalaya); oppure quando c'è subduzione di litosfera oceanica lungo un margine continentale attivo (Ande). A questi due processi se ne deve aggiungere un terzo: l'accrescimento crostale, scoperto analizzando la struttura geologica delle Montagne Rocciose in Nordamerica, che implica l'accrescimento di una massa continentale per l'apposizione di masse più piccole. Orogenesi per collisione continente-continente Quando due zolle che si scontrano trasportano due blocchi continentali è possibile che la subduzione porti alla chiusura del bacino oceanico intermedio e alla collisione tra due margini continentali. Poiché entrambi i margini sono costituiti di crosta continentale, nessuno dei due può andare in subduzione; tuttavia il movimento delle zolle non si arresta e i due margini vengono compressi finché uno non scivola sull'altro. Si formano pieghe e falde di ricoprimento, che sovrascorrono anche per centinaia di kilometri. Si forma così una catena montuosa. La crosta continentale aumenta spessore e tende a sollevarsi per isostasia. Col tempo la subduzione può estinguersi o spostarsi. La vecchia zona di subduzione resterà indicata dalla catena montuosa che si è formata; oppure, se la morfologia originaria scompare, la si può riconoscere attraverso la presenza di ofioliti, melanges, e scisti blu. Le ofioliti (Alpi, Appalachi, Urali) sono rocce magmatiche di colore verde scuro. Hanno uno spessore variabile e presentano vari strati. Uno strato di sedimenti di mare profondo, un complesso di basalti a cuscini, uno di dicchi e filoni formati da rocce femiche seguite da uno di gabbri e peridotiti. Si pensa che le ofioliti, data la composizione, siano lembi di litosfera oceanica. I melages sono corpi caotici non omogenei costituiti da resti non omogenei della litosfera oceanica. Gli scisti blu sono rocce metamorfiche, formatesi in condizioni di temperatura bassa e pressione elevata. Orogenesi per collisione oceano-continente Quando la litosfera oceanica scivola sotto un continente, lungo la linea di costa, si forma un sistema arco-fossa. In una fase iniziale i sedimenti, provenienti dall'erosione continentale, si accumulano sulla scarpata e sulla piattaforma continentale e, trascinati dalla zolla oceanica, vengono deformati e sollevati, formando un corrugamento sul bordo continentale. Il magma prodotto nel corso della subduzione solidifica sotto la superficie dando origine a vari tipi di plutoni,mentre una parte effonde creando numerosi vulcani che daranno origine a una cordigliera, cioè un arco magmatico, localizzata nella zona di subduzione e parallela alla linea di costa. Talvolta l'arco magmatico può essere separato dal continente da un bacino marino. Il notevole apporto di magmi causa un ispessimento della crosta seguito da riaggiustamenti isostatici. Spesso nella zona retrostante alla catena si forma una depressione chiamata bacino di retroarco in cui si accumulano detriti e spesso vanno incontro a subsidenza. Col passare del tempo la zona di subduzione si sposta sotto il continente e l'attività magmatica migra nella stessa direzione. Questo tipo di catena montuosa è quindi caratterizzata da un'intensa attività magmatica, sia intrusiva che effusiva. Orogenesi per accrescimento crostale L'accrescimento crostale è stato evidenziato notando che in alcune regioni continentali esistono blocchi rocciosi eterogenei con caratteristiche totalmente diverse rispetto alle rocce in cui sono inclusi. Chiamati blocchi di accrezione, essi sono delimitati lungo tutti i lati da grandi faglie e tra l'uno e l'altro possono essere compresi brandelli di litosfera oceanica. La presenza di questi blocchi può essere spiegata ammettendo che frammenti isolati di crosta di varia natura, trascinati dai movimenti della crosta oceanica, vengano strappati dalla zolla in subduzione e possano saldarsi direttamente a un continente aumentandone le dimensioni. (coste pacifiche nordamericane, Alaska) Rocce Magmatiche Sono le più diffuse nella litosfera e si formano per solidificazione del magma (miscela di sostanze allo stato fuso in prevalenza silicati, vapor d'acqua e gas). I magma si formano in seguito alla fusione parziale di blocchi di crosta o mantello superiore. Tendono a risalire perché inizialmente sono più caldi e meno densi e contengono gas. Sono tre le condizioni di solidificazione del magma e tre le categorie di rocce magmatiche. Rocce magmatiche intrusive: derivano da magmi che solidificano in profondità nella litosfera in tempi lunghissimi; la solidificazione avviene in un intervallo molto ampio perché ci sono numerose sostanze con temperature di solidificazione diverse. Solo i minerali con temperatura di solidificazione più elevata possono raggiungere il loro abito cristallino tipico (cristalli idiomorfi) mentre gli altri occupano gli spazi rimasti (cristalli allotriomorfi). Hanno struttura olocristallina ovvero i cristalli sono riconoscibili a occhi nudo e hanno dimensioni simili. Degli esempi sono i graniti, le dioriti, i gabbri, le peridotiti. Rocce magmatiche effusive: molti magmi sotto la spinta dei gas raggiungono la superficie e danno origine ad eruzioni vulcaniche. Arrivando in superficie il magma perde le componenti volatili e diventa lava. Dalla sua solidificazione derivano le rocce magmatiche effusive. Hanno struttura vetrosa (disordinata) o porfirica (alcuni cristalli evidenti in una pasta microcristallina o amorfa). Degli esempi sono le rioliti, le ossidiane, le pomici, andesiti, basalti, picriti. Rocce magmatiche ipoabissali o filoniane: solidificano a profondità intermedie in condizioni di temperatura e pressione simili a quelle esterne. Hanno struttura aplitica (cristalli di dimensioni simili ma piccoli) o pegmatitica (grandi cristalli formati spesso da minerali rari) o porfirica. Rocce Sedimentarie Costituiscono circa il 9% della crosta terrestre, ma sono le più diffuse sulla superficie. Derivano dal processo sedimentario che può durare anche milioni di anni ed avviene in quattro fasi. Inizialmente avviene la degradazione ed erosione, possono essere fisiche (quando una roccia affiorante si riduce in frammenti derivanti da essa) o chimiche (quando parte o tutta la roccia madre è trasformata per azione dell'acqua, dell'anidride carbonica o dell'ossigeno portando alla formazione di minerali argillosi). Si formano dei detriti ed ha inizio la fase di trasporto: il materiale in parte resta sul luogo in parte viene portato via grazie all'azione della forza di gravità, dell'acqua o del vento. La terza fase consiste nella sedimentazione dei detriti che può essere: meccanica (quando diminuisce la forza degli agenti di trasporto); chimica (i minerali precipitano in soluzione); biochimica (i sali trasportati vengono usati da vari organismi per costruire i propri scheletri che verranno depositati al momento della morte). Infine avviene la diagenesi, la fase terminale che rende coerenti le rocce incoerenti e si suddivide in tre fasi: compattazione (si riduce la porosità); cementazione (negli spazi liberi precipitano sostanze poco solubili con azione cementante, per esempio CaCO3); ricristallizzazione (per effetto di reazioni chimiche i minerali presenti). Le rocce sedimentarie possono essere di vari tipi. Detritiche: vengono classificate in base alla dimensione dei clasti e al tipo di cemento che li unisce. Si dividono in quattro classi: le ghiaie, le sabbie, i silt, le argille. Dalle ghiaie hanno origine i conglomerati: sono formati da ciottoli grossolani tenuti assieme dal calcare, i clasti generalmente sono levigati. Dalle sabbie derivano le arenarie, i cui granuli sono ancora distinguibili a occhio nudo. Dai silt e dalle argille si originano le siltiti e le argilliti, formate da silicati di alluminio idrati, spesso hanno componenti con origine organica. Vi sono poi le rocce sedimentarie di deposito chimico: comprendono le evaporiti (dalla precipitazione di sali in acque dolci), i calcari inorganici (precipitazione di carbonato di calcio), le rocce silicee (la selce dura e compatta con struttura microcristallina)e le rocce residuali (da accumuli di minerali insolubili). Infine le rocce sedimentarie organogene: derivano da sedimenti prodotti da esseri viventi, quasi sempre alla loro morte. Comprendono le rocce carbonatiche: ad esempio i calcari organogeni formatisi prevalentemente in ambiente marino da microrganismi (coralli, alghe calcaree); oppure le dolomie costituite da dolomite (carbonato di calcio e magnesio CaMg(CO3)2, ma prevalentemente hanno origine da calcari marini per diagenesi. Sempre rocce organogene sono le rocce silicee, che derivano da alghe e spugne, infine le rocce fosfatiche dette fosforiti derivanti da scheletri di vertebrati. Rocce Metamorfiche Sono rocce che si trasformano senza passare allo stato fuso e hanno subito alterazioni nella struttura o nella composizione mineralogica. La temperatura a cui avviene il metamorfismo è compresa fra i 200-800°C, non è assoluta perché cambia a seconda del minerale. Mentre la pressione agisce in due modi: le rocce circostanti premono su quelle considerate e si ha la pressione lisostatica; oppure la pressione orientata che agisce solo in una direzione per lungo tempo. Ci sono tre tipi di metamorfismo: di contatto in cui il magma viene a contatto con le rocce che si trasformano per l'alta temperatura; metamorfismo dinamico si ha con pressioni orientate elevate che piegano e fratturano le rocce; oppure metamorfismo regionale dovuto all'azione della temperatura e della pressione e coinvolge ampie zone. La struttura delle rocce metamorfiche varia a seconda del processo di trasformazione che subiscono. Tipica del metamorfismo di contatto è la ricristallizzazione e l'aumento della grana, un esempio è il marmo che deriva dai calcari di deposito organico. Si ha un'orientazione preferenziale in seguito al metamorfismo regionale dei minerali che accrescono nella direzione della pressione e si riuniscono in piani di scistosità. Infine le rocce metamorfiche possono frantumarsi in granuli con il metamorfismo dinamico; una volta rotte le rocce si possono orientare e ricristallizzare. Ma spesso si possono formare nuovi minerali, però cambia solo la composizione mineralogica non chimica. Molti minerali si formano a temperature e pressioni ben definite, vengono quindi chiamati minerali indice di un grado di metamorfismo e identificano delle facies metamorfiche; ovvero dei gruppi di minerali formatisi in condizioni simili. Le rocce metamorfiche più diffuse derivano dal metamorfismo di argille e rocce magmatiche sialiche. Gli argilloscisti hanno una struttura debolmente scistosa, spesso si dividono in ampie lastre di grande estensione superficiale, tra queste le ardesie. Le filladi rocce scistose a grana fine si sfaldano facilmente, contengono prevalentemente quarzo e miche. Altri esempi sono gli scisti, i micascisti, gli gneiss. Dal metamorfismo di rocce basaltiche e ultrafemiche derivano gli scisti blu, le eclogiti e i marmi. Ciclo Litogenetico I tre processi, magmatico sedimentario e metamorfico, costituiscono il ciclo litogenetico, che coinvolge tutte le rocce della litosfera. Dal processo magmatico hanno origine rocce effusive e intrusive; allo stesso tempo il materiale solido circostante subisce il processo di metamorfismo di contatto. I materiali vengono poi portati in superficie dove ha inizio il processo sedimentario. I sedimenti che si accumulano vengono sepolti e per diagenesi formano le rocce sedimentarie. Queste a loro volta subiscono il processo metamorfico, finendo in profondità nella terra o contribuendo a formare una catena montuosa. Più si va in profondità, più temperatura e pressione aumentano e si ha di nuovo il processo magmatico. Le rocce per l'alpinista A seconda del tipo di roccia, cambia anche il tipo di arrampicata che su di essa si effettua. Una roccia di tipo magmatico, soggetta più a modificazioni di tipo fisico(es. erosione venti, ghiaccio e acqua) che non di tipo chimico, si presenta molto compatta e liscia, con presenza di grandi fessurazioni regolari e grandi strapiombi, spesso privi di appoggi o di appigli. L’arrampicata su questo tipo di roccia spazia dalla delicata placca di aderenza poco proteggibile (es. Val di Mello) alle spettacolari fessure affrontabili con gli incastri più strani, in cui trovano grande possibilità di utilizzo i dadi e i friends. A differenza delle rocce ignee, le rocce sedimentarie sono molto più attaccabili dal punto di vista chimico, si presentano quindi come rocce molto fratturate, ricche di erosioni di tipo carsico e di strutture quali camini e diedri. L’arrampicata su questo tipo di rocce, delle quali le maggiori rappresentanti sono i calcari e le dolomie, si presenta con placche ricche di grossi buchi, lame, diedri e camini. Spesso capita di trovare delle zone in cui la roccia si presenta molto friabile, specialmente sulle vie più facili; qui è necessario prestare sempre la massima attenzione per evitare di cadere perché rimangono in mano gli appigli oppure perché cede un appoggio. La terza categoria di rocce, le metamorfiche, abbastanza rare nelle zone di arrampicata italiane, sono per certi aspetti molto simili alle rocce ignee, anche se rispetto a queste ultime presentano un grado di compattezza decisamente minore. Anche qui l'arrampicata è caratterizzata da placche, fessure e diedri spesso molto divertenti che non hanno nulla da invidiare alle grandi pareti di granito o di tonalite. Anche le salite su rocce metamorfiche possono presentare, in placca, delle difficoltà di protezione, mentre nelle fessure e nei diedri abbiamo un ottimo terreno di applicazione per le protezioni costituite da dadi e friends. Un alpinista, però, impara soprattutto attraverso la sua pelle. Il granito è la roccia a “prova di bomba”, non capita mai che resti in mano qualche presa; se succede è perché sta crollando l'intera parete. Se si arrampica su granito si deve tenere conto di alcune cose: o si sale una via di aderenza spietata, o di forza bruta, oppure un micidiale mix di entrambe le cose; bisogna attrezzarsi con friend, nuts, tricam perché ci sono ben poche di possibilità di piantare chiodi. Oppure l'arrampicata su conglomerato è totalmente differente: bisogna stare attenti a non tirare troppo i sassi altrimenti finisce che ti restano in mano; è una arrampicata polverosa e prevalentemente su buchi o svasi da “strizzare”. Mentre la dolomia è una roccia strana: sulla parete Nord del Civetta si rompe facilmente e la scalata, prevalentemente su tacche, è spesso insicura; poco distante troviamo la Marmolada che ha la stessa roccia ma a buchi oltre che tacche ed è più solida. La qualità di una roccia dipende anche dall'esposizione della parete (Nord, Sud). Ogni roccia ha le sue particolarità e comporta un approccio diverso. Ma a parte la preparazione del materiale e la consultazione delle relazioni delle vie come si può allenare uno scalatore, oltre che fisicamente? L'uomo e la montagna Consideriamo un climber che vuole migliorare le sue prestazioni, la risposta più ovvia è: allenarsi di più. No. Tutti, dalle antiche scuole sapienziali fino alle nuove discipline di “salute mentale”, affermano che la trasformazione è principalmente una questione di allenamento più intelligente, non semplicemente più intenso. Allenarsi più intensamente spesso non fa che rinforzare le abitudini limitanti; in altre parole, non si fa che ripetere gli stessi vecchi errori raccogliendo gli stessi vecchi risultati. Per raggiungere risultati tangibili bisogna tener presenti alcuni punti. Primo: accettare che l vita è dura, e che modificare la nostra esistenza – o le nostre capacità, il che è più o meno lo stesso – è molto difficile. Per raggiungere la condizione di poter affrontare con rilassatezza le sfide che prima ci attanagliavano sono necessari sforzi grandi e consapevoli, disciplina e pazienza. Secondo: il cambiamento è un processo, e questo processo dura tutta la vita. Ogni volta che si guadagna un nuovo gradino, un enorme potenziale inespresso si erge al disopra di noi. In questo senso non si arriva mai una volta per tutte sulla vetta. In certi punti del cammino la qualità del processo cambia radicalmente. Questo è particolarmente vero in quei momenti in cui mesi di sforzo intenso concorrono a creare stati di grazia attraverso i quali si passa, spesso improvvisamente e senza fatica, raggiungendo un livello di prestazione fisica e mentale più alto. La via che prima sembrava impossibile ora appare facile. In questi momenti si tende a dimenticare gli sforzi fatti per raggiungere l'alloro; invece è proprio in questi frangenti che dovremmo ricordarci della fatica fatta per arrivare a un determinato punto. Qui si collega il terzo punto: la qualità che si esprime il giorno della gara, della via, deve essere la stessa che si coltiva durante l'allenamento. In poche parole il modo in cui si vive la propria vita è esattamente il modo in cui si scala. La rock warrior's way fornisce un metodo per diventare degli scalatori più completi. Rock Warrior's Way È sia un programma di allenamento mentale che una filosofia dell'arrampicata che trae i suoi fondamenti dalla ricca tradizione e letteratura sui guerrieri. Il suo stile non è né violento né eccessivamente aggressivo. Si tratta di un percorso basato sull'equilibrio, sull'armonia e l'introspezione. La filosofia del guerriero deriva da quella situazione unica che si presenta quando si affronta un soldato o un combattente, come un duello all'ultimo sangue con un samurai. Bisogna dare prova di assoluto controllo e calma di fronte a un pericolo mortale. In allenamento il guerriero deve affinare corpo e mente. Se non lo fa non vivrà a lungo. In battaglia deve registrare con attenzione tutti i minimi dettagli dell'ambiente, del proprio stato d'animo e di quello del suo nemico, e allo stesso tempo restare impassibile di fronte al pericolo. Se si aggrappa con eccessiva forza alla propria vita o è governato dal proprio io, cercherà la fuga; la sua attenzione vacillerà e verrà distrutto. Paradossalmente, se adotta una posizione caratterizzata dall'accettazione del rischio e delle sue conseguenze avrà molte più possibilità di sopravvivere. Essenzialmente il guerriero è un'inesorabile cacciatore di forza interiore. Esso l'acquista addentrandosi nell'ignoto, luogo in cui concentra tutta la sua attenzione, lotta con il caos e apprende dall'esperienza. Ma l'approccio all'allenamento (in particolare per la rock warrior's way) si deve basare su alcuni principi fondamentali: la nostra prestazione è grandemente influenzata dal nostro subconscio; il miglioramento della prestazione passa attraverso un processo di crescita e con un atteggiamento volto alla soluzione dei problemi; la performance migliora spostandosi dalla motivazione fondata sulla paura a quella sulla passione; ci sono due tipi di paura una dovuta all'istinto di conservazione l'altra illusoria, la prima è utile la seconda no; la morte è nostra consigliera ci ricorda che non abbiamo tempo da perdere. L'apprendimento e la crescita, per definizione, ci portano al di fuori di ciò che è familiare, verso l'ignoto. Per questa ragione dobbiamo abbandonare il nostro guscio protettivo. La rock warrior's way si svolge in tre fasi articolate a loro volta in più passi. La prima fase, quella di preparazione, idee e concetti sono elementi molto importanti che permettono di fare pulizia nella mente, nelle valutazioni e nei progetti. Si impara ad evitare trappole come atteggiamenti ingenuamente speranzosi e ci si concentrerà sulle possibilità che si aprono di fronte a noi. La seconda fase, di transizione, è breve: è il momento della verità, della scelta. Lo scopo è quello di passare dalla preparazione all'azione. Infine, nella fase d'azione, lo scopo è vivere completamente immersi nella sfida, senza cercare la fuga. Si diventerà in grado di evitare la mentalità del “o la va o la spacca” e di considerare l'idea del tentativo come un'opportunità di apprendimento. I sette passi della rock warrior's way 1 Acquisire consapevolezza. Nel primo processo si affina la tecnica di osservazione per aumentare la propria consapevolezza. Si deve dirigere l'attenzione verso il dialogo interiore. Si deve analizzare il proprio essere, i propri pensieri, il proprio corpo per poter rompere l'abitudine e la routine. Smettere di fare sempre gli stessi pensieri del giorno prima e non puntare più al realizzarsi e quindi “fare il grado”, ma a curare il proprio approccio mentale all'attività. Inoltre bisogna essere realisti, come un guerriero che sviluppa un suo nuovo bagaglio interiore di valori che richiede una crescita della consapevolezza di sé. Tutto ciò viene percepito come minaccioso perché va ad intaccare la nostra zona sicura fatta dalle nostre certezze caratterizzate in gran parte dalle azioni abitudinarie che ci hanno sorretto finora. Una volta preso coscienza di ciò, le nostre abitudini e vizi inconsci vengono alla luce crollando e mettendo a disposizione nuovo materiale con cui costruire. Per fare ciò bisogna assumere la posizione dell'osservatore, capire che quei pensieri non sono noi. Ciò permetterà di analizzare e modificare il proprio modo di essere abituale o inconscio con l'obbiettività necessaria. Bisogna riuscire a cambiare l'immagine interna che abbiamo di noi stessi che influisce direttamente sulle nostre azioni. Parte della consapevolezza consiste nel riconoscere che la nostra immagine interna non è una descrizione oggettiva di noi stessi o delle nostre capacità. Se si riesce ad accettare del tutto che è la mente a limitarci si apriranno nuove insperate possibilità. Acquisire consapevolezza è un processo che migliora l'attenzione e rinforza l'immagine interna, aumenta la fiducia in sé stessi e la forza personale. Raggiungendo la consapevolezza si sarà in grado di reagire positivamente, deviando l'attenzione dai cali di forza e fermando le dispersioni di forza come desideri e proiezioni o reazioni condizionate. 2 Le sfaccettature dell'esistenza. L'attenzione viene raccolta e focalizzata. Si dirige la propria consapevolezza verso le sensazioni corporee (respiro, postura...). Si parla di sé stessi intenzionalmente piuttosto che ascoltare le chiacchiere fuorvianti del proprio inconscio. L'elemento chiave per creare un'unità mente-corpo efficace e performante è l'equilibrio. Esso può essere ricondotto a tre componenti: il corpo, che include la postura e la mimica facciale; il respiro, che serve per integrare l'unità tra mente e corpo; la mente, che include i comportamenti interiori come per esempio il modo in cui si parla di sé stessi. Non si devono usare posizioni scorrette e affaticanti, bisogna sempre ricercare l'equilibrio e la postura migliore, che permette di distendersi e osservare con obbiettività la situazione e trovare una soluzione alla salita. Anche la mimica facciale non va trascurata: le smorfie contraggono la pelle attorno agli occhi riducendo la vista periferica; così si invia lo stesso tipo di messaggio alla mente, limitando ciò che con esse si può vedere: possibilità di nuove soluzioni. Un volto che esprime una smorfia genera uno stato mentale pronto alla fuga, non disposto ad affrontare in modo aperto e creativo la sfida. L'attenzione va rivolta allo sguardo d'insieme, e non a un punto specifico. La respirazione connette corpo e mente; una respirazione corretta elimina ansia e paura, riporta l'attenzione al corpo e alla situazione che si sta affrontando, ossigena il sangue riducendo l'acido lattico e l'anidride carbonica, crea un ponte fra subconscio, mente e corpo. La mente, perché l'apprendimento sia efficace, deve essere aperta; il che significa non rifiutare nuove informazione senza prima averle valutate e poi, se risultano utili, fare un tentativo di interiorizzarle. L'atteggiamento mentale è condizionato anche da ciò che diciamo. Ad esempio dire “provo” significa che inconsciamente ci si sta concentrando su fattori non meglio precisati che ci impediranno di raggiungere il proprio scopo. Invece di dire “provo”, il vero guerriero dice “lo farò”. Esso ha già intenzione di esprimere il suo massimo impegno, al quale non pone limite. Sa di non essere perfetto e magari di non farcela, ma la differenza è che il guerriero sa che non è utile enfatizzare tale possibilità con la parola “provare”. Quando si dice “provo” si pensa al risultato finale e non al percorso di apprendimento. 3 Assumersi la responsabilità. Ci si concentra sulla responsabilità di una situazione piuttosto che sul tentativo di scaricare le colpe, sul desiderio di situazioni diverse o sulla speranza in situazioni miracolose. Scaricare la responsabilità, sperare o desiderare passivamente ci tolgono forza dalle mani. Accettare la responsabilità implica riconoscere le informazioni oggettive sul rischio che si raccolgono. Per esempio, immaginiamo di slogarci una caviglia durante una partita a basket. La primavera è appena iniziata e ci si è allenati molto in previsione di un viaggio dedicato all'arrampicata. Ora si resterà appollaiati per sei settimane sulle stampelle. “È davvero un maledetto colpo di sfortuna, una vera ingiustizia.” Si gettano ore e ore nel desiderio che l'incidente non sia mai successo. Si biasima quello stupido sport che si gioca con la palla per aver causato l'infortunio e in realtà anche gli amici che ci hanno convinti a partecipare. Si rimugina, si diventa tristi e ci si compiange. Questo processo fa disperdere le forze. Sarebbe molto più utile un atteggiamento mentale attivo, che faccia mantenere il più possibile il controllo della situazione. Si è scelto di giocare a basket e ci si è infortunati. Questi sono i fatti. Non serve desiderare di non essersi fatti male. È inutile incolpare le irregolarità del campo da gioco o gli amici, non fa altro che fuorviare l'attenzione che si potrebbe invece indirizzare ad un'analisi positiva dei propri errori e verso la ricerca di un metodo di recupero efficace. 4 Dare. Si deve adottare un atteggiamento che denoti forza: bisogna chiedersi cosa si può dare alla performance, piuttosto su che cosa si potrebbe ottenere da essa una volta raggiunto il successo. Si deve focalizzare l'attenzione su opzioni e possibilità. Questo processo raccoglie le informazioni soggettive rispetto al rischio e ci mette in grado di riconoscerlo. Quando ci accingiamo a dare si utilizzano gli elementi che abbiamo individuato e accettato per creare un'attitudine attiva ed energica nell'affrontare la sfida. Il processo del dare aiuta a concentrarci su quello che possiamo appunto dare durante lo sforzo piuttosto che sulla difficoltà della prestazione. La nostra società incoraggia una mentalità orientata alla prestazione, ma è molto meno efficace nell'incoraggiarci a sopportare lo sforzo necessario a raggiungerla. Il condizionamento che subiamo ci spinge a credere che saremo felici quando avremo quella nuova macchina piuttosto che altro. La stessa mentalità affiora nell'arrampicata. Si è convinti di godersi la scalata solo quando otteniamo qualcosa: avambracci più forti, più tempo libero, chiudere un nostro progetto. La mentalità volta a ricevere ci fa scivolare nella convinzione che abbiamo diritto di essere felici, e siamo debitori in qualche modo verso ciò che ci rende felici. Possiamo anche lavorare scrupolosamente, ma dentro di noi, comunque, ci aspettiamo di ricevere ciò che ci spetta. Il mondo reale non funziona così. La felicità non è un diritto acquisito, e non ci sono risultati particolari che ci renderanno automaticamente felici. Ciò che possediamo, che nessuno ci ha dato né ci può togliere, è la nostra capacità di imparare e crescere. Migliorarci in questo senso richiede però sempre uno sforzo concreto. Dobbiamo dare qualcosa. Più siamo disposti a dare, più riceveremo , indipendentemente dai risultati specifici; (quanto più ci si impegna in qualcosa quanto migliori saranno i risultati). 5Scegliere. È la fase di transizione, il momento della verità. Si decide se dirigere l'attenzione lontano dal rischio o sul rischio. Rinunciare all'assunzione del rischio però non è un fallimento. Molti rischi sono insensati e accettarli potrebbe essere fatale. La chiave di questo processo è agire con assoluta decisione. Se si sceglie di andare avanti si deve farlo con tutte le energie, senza guardarsi indietro. Bisogna agire con risolutezza, i che significa impegno al 100%. la roccia per sua natura mezzo statico, pone del tutto nelle nostre mani la responsabilità della tempistica delle nostre scelte. Possiamo sprecare enormi quantità di forza in scelte incerte, ambigue, incomplete o tirando a casaccio nella speranza di azzeccare scelte puntuali e opportune. Le scelte non sono giuste o sbagliate, buone o cattive. Non si può mai sapere la totale capillare ramificazione delle conseguenze di una scelta. Le scelte consapevoli sono test della nostra conoscenza, ci forniscono un'opportunità per una concreta lezione nell'interminabile viaggio dell'apprendimento. Una scelta potenzialmente pericolosa non deve essere avvallata in modo superficiale, deve essere in sintonia con i desideri più intimi di una persona, sfrondata dalle trappole superficiali dell'io e della frustrazione. Una motivazione personale basata sulla passione dà luogo a scelte a cui non seguiranno rimorsi. Quando si deve operare una scelta, bisogna scegliere di vivere la vita nel modo più vicino ai propri desideri. Solo agendo secondo questo atteggiamento si riesce a raggiungere il potere quasi magico derivante dall'impegno totale. 6 Ascoltare. Aiuta a rimanere nella giusta direzione, guida nel momento del rischio invece di assumere un atteggiamento che distoglie l'attenzione e priva della forza. Ora che si è in azione di fronte all'ignoto si deve imparare. “Ascoltare” la situazione è la via che facilita questo processo di apprendimento. Il processo è intuitivo. Nel momento della scelta si sono accettate le possibili conseguenze del proprio sforzo e si è fatto il salto, ora si deve credere in questo processo. Il percorso che si ha davanti non rappresenta un pericolo o un'emergenza, ma un intenso momento di crescita. Lo scopo è prendere parte alla sfida attivamente, senza farsi distrarre. Quando si entra in azione il corpo prende il controllo sulla mente e diventa il protagonista. Si sta agendo nel rischio, non ci si riflette sopra. Finché l'obbiettivo sarà “non pensare”, si riuscirà a tenere a bada la mente (che tenta di prendere il controllo) con metodi orientati sul corpo: respirazione costante, arrampicata continua, concentrazione visiva. Poi a un certo punto si raggiunge un'ottima presa e improvvisamente ci si ritrova aggrappati al senso di sicurezza che dà quella posizione. Si indugia quasi nell'oasi di sicurezza e si trasforma in esitazione. I propri obbiettivi incominciano a vacillare e riemergono le vecchie abitudini l'io limitante. L'io, il drago dalle mille teste che ci insidia dall'interno, tende a riportarci sulle nostre abitudini. Bisogna sguainare la spada e tagliare le teste al dragone. Solo così si libererà la propria ricettività, e si sarà in grado di ascoltare ciò che sta accadendo e con rinnovata concentrazione e determinazione passare oltre. 7Il viaggio. Una volta che ci si è gettati nel caos del rischio, ci si deve concentrare sul viaggio, e non sulla destinazione. Quando si è sotto pressione siamo tentati di uscire il più in fretta possibile dalla situazione di stress. Ora, se ci si è preparati correttamente, quella situazione è esattamente il perché della propria condizione. È la trama che sostiene le ragioni della propria scalata. Quando si è stressati si ha a disposizione terreno fertile per l'apprendimento. La mentalità del viaggio aiuta a mantenere l'attenzione sul viaggio in sé stesso invece di lasciarla anelare alla destinazione, o, in altri termini, di auto-limitare i pensieri che impedirebbero di risolvere il problema e imparare. Nietzsche e l'alpinista Nietzsche intende, con la sua opera, smascherare l'inganno perpetrato dalle concezioni religiose, morali, metafisiche le quali spacciano per mondo vero ciò che in realtà sono favole illusorie e consolatorie inventate dall'uomo debole, il quale non sopporta il carattere irrazionale privo di senso dell'essere e che quindi cerca rassicurazione nell'astratta finzione delle idee. Tali immagini illusorie in passato erano diventate credenze collettive dei popoli; oggi, dice il filosofo, sono considerate dall'uomo moderno menzognere e inutili che si sente più sicuro grazie alle sue conoscenze tecnico scientifiche. Per questo motivo Nietzsche afferma che dio è morto, infatti i valori morali e religiosi nel tempo sono crollati lasciando il posto al nichilismo, ossia al vuoto di significato che può essere sopportato e re-interpretato soltanto dall'oltre-uomo. Egli è colui che è in grado di comprendere l'evento della morte di Dio, che rappresenta la fine delle antiche menzogne metafisiche e morali e delle nuove menzogne liberali, socialiste e scientifiche. Inoltre è in grado di oltrepassare il bisogno di certezze proprio dell'uomo debole (caratterizzato dal nichilismo passivo) e ricreare liberamente il senso del mondo in base a una pluralità di prospettive ermeneutiche; con ciò si identifica il nichilismo attivo. L'oltre-uomo è l'unico che può sopportare il peso della morte di Dio, ossia riuscire a vivere in un mondo sdivinizzato in cui i vecchi valori e certezze sono stati distrutti. Egli è in grado di sperimentare in ogni direzione la sua libertà; ossia agire in modo indipendente dalle norme tradizionali (quindi dai sensi di colpa e dalla voce della coscienza) e dalle credenze metafisiche, le quali svalutano il nostro mondo che è l'unica vera realtà e attribuiscono valore unicamente all'oltremondo che è una finzione. Quindi può godere della terra, del corpo, della vita e dunque essere sé stesso. L'oltre-uomo è anche colui che è in grado di sostenere il peso più grande, ossia il pensiero dell'eterno ritorno dell'uguale; ossia l'interpretazione della storia in base alla quale le vicende del singolo e dell'umanità eternamente ritornano e si ripetono. Infine l'oltre-uomo, attraverso la volontà di potenza, ha la capacità di redimere il tempo. Io penso che l'alpinista si possa considerare lo specchio dell'oltre-uomo. Come l'oltre-uomo agisce e cambia il mondo ed è superiore agli altri comuni esseri umani, così l'alpinista cerca di cambiare sé stesso e di superarsi in una continua evoluzione. Dentro di sé ha il drago a mille teste che rappresenta l'io limitante e tutte le abitudini che lo frenano. Deve perciò tagliare tutte queste teste, ovvero sconfiggere i suoi vizi, lasciare la zona sicura del conosciuto e addentrarsi nell'ignoto vincendo così contro sé stesso e procedendo in una crescita senza fine. Come si assicura Non ci si può avvicinare all'alpinismo senza conoscere gli strumenti e i metodi di assicurazione e il loro uso. La regola d'oro per chi pratica alpinismo è “se cadi muori”. Ora questa affermazione può sembrare eccessiva o estremista, ma nasconde più di quanto dica. In montagna non si scherza, se non sei all'altezza di fare qualcosa, o non sei nelle condizioni psicofisiche oppure non hai il materiale adatto, non la fai; se sei fortunato non ti fai niente altrimenti può finire molto molto male. Perciò ci deve essere assoluta concentrazione e attenzione. Ma a volte non basta, perciò come ci si può proteggere? La catena di assicurazione si articola in più punti ed è costituita dal materiale che lega gli scalatori fra di loro e con la parete. Gli alpinisti indossano degli imbraghi a cui legano una corda di nylon (un tempo erano fatte di canapa) che li unisce; si ha così una cordata. Durante la salita si possono incontrare clessidre, fessure o buchi dove mettere cordini, chiodi, friend, nutz, tricam... oppure trovare del materiale lasciato in precedenza da altri alpinisti. Una volta messo o trovato l'ancoraggio si infila un moschettone in cui si fa passare la corda e il primo di cordata può avanzare con una certa sicurezza. Mentre il socio scala il secondo lo assicura usando uno dei vari strumenti o metodi di assicurazione. Il più rudimentale e doloroso di tutti è la sicura a spalla (che non viene più usata); altri sono il nodo mezzo barcaiolo, l'otto (uno strumento di metallo a forma di otto in cui si fa scorrere la corda), il secchiello e altri. Prima che la corda sia completamente finita il secondo avverte il primo, il quale deve cercare un buon posto dove “fare la sosta”; ovvero deve trovare almeno due buoni punti a cui potersi ancorare e recuperare il socio sotto di lui. Il secondo nella risalita deve raccogliere tutto il materiale lasciato dal compagno e poi passarglielo per permettergli di progredire ancora oppure farsi dare il resto una volta arrivato in sosta e procedere lui nell'ascensione. Problemi fisici di chi scala La mano e l'avambraccio formano un'unità funzionale e non dovrebbero essere considerati separatamente. Quasi tutti i muscoli che muovono mani e dita hanno origine nell'avambraccio. Le mani sono essenziali per molti sport, ma non sempre vengono utilizzate per prendere o stringere, come si pensa di solito. Nella maggior parte degli sport i movimenti delle mani modificano il bilanciamento e la posizione dell'atleta e quindi aiutano direttamente gli schemi motori del corpo. Comunque, in nessun altro sport gli avambracci, le mani e le dita giocano un ruolo così importante e vengono così maltrattati come accade nell'arrampicata. Gli scalatori sono gli unici atleti che indirizzano l'allenamento verso l'incremento della forza delle dita. I vari metodi di allenamento usati nell'arrampicata moderna hanno creato sindromi da sovraccarico e infortuni che fino a poco tempo fa erano sconosciuti alla medicina sportiva. La mano e l'avambraccio sono costituite da 29 ossa indipendenti, 38 muscoli e 3 nervi maggiori. I muscoli sono l'unità attiva, ma ci sono anche molte strutture passive come tendini, legamenti, capsule articolari e pulegge: tutte dipendono dal cervello, eseguono ordini o reagiscono in frazioni di secondo. In confronto a quella della scimmia, la mano dell'uomo risulta di gran lunga più sofisticata. La differenza sostanziale risiede nel “pollice opponibile”, che consente di compiere movimenti come scrivere, suonare uno strumento o pinzare uno spigolo... Le dita e gli avambracci Infortuni e lesioni Un dito, intrappolato in un buco o in una fessura durante una caduta, può rompersi. In generale, la gravità in queste situazioni aumenta per la possibilità che siano coinvolte sia le capsule articolari che le ossa. Spesso è necessario ricorrere alla chirurgia per riparare il danno. Le peggiori fratture delle dita, verosimilmente, sono quelle causate da cadute di pietre, perché si accompagnano spesso a lesioni dei tessuti molli, con rischio di infezione e a volte necessità di trattamento chirurgico plastico. La caduta di pietre può essere causa anche di amputazione di dita o intere mani. Teoricamente è possibile subire un'amputazione anche in un buco o una fessura, sebbene sia un caso raro. Il danno più frequente a dita e mani si verifica tentando di aggrapparsi alla corda durante un volo. Quando, durante un volo, si afferra la corda sotto di noi questa si può arrotolare attorno a una mano o a un dito e formare un laccio; così quando la corda si tende, il laccio si serra. Un volo lungo può stringere così forte da tagliar via un dito. In un caso fu amputato il pollice dello scalatore. I danni più frequenti in arrampicata però non sono le fratture di mani o piedi, ma le lesioni alle guaine tendinee e alle pulegge (fasce trasversali di tendine che tengono i tendini flessori attaccati alle ossa) dei flessori delle dita. Il dito più colpito è l'anulare perché è il più debole. L'indice è affiancato da un lato dal pollice e dal medio: queste due dita forti lo sostengono, così come accade al dito medio. Sfortunatamente l'anulare ha un sostegno molto scarso dal mignolo. La posizione spontanea della mano quando arcua un appiglio è in leggera intra-rotazione, il che favorisce una maggiore distribuzione della forza su indice e medio. Tuttavia nei buchi per due o tre dita, o su prese a mano aperta, l'anulare è sottoposto a grande sforzo. La combinazione della mancanza di supporto, minor lunghezza e posizionamento in determinate prese lo rende il dito più vulnerabile. Spesso nel momento dell'infortunio si è sentito uno schiocco o uno strappo. Gonfiore ed ematoma nella prima falange dell'anulare, con difficoltà nel movimento e un dolore pungente, sono sintomi che indicano un danno ad una delle componenti anatomiche del dito. È molto più frequente una rottura parziale o completa della puleggia o della sua guaina, mentre una rottura del tendine flessore è molto più rara. La diagnosi di questa lesione può rappresentare una certa difficoltà, perché a volte il dolore è presente solo sotto sforzo e non a riposo. Molti climber non ne parlano a un medico e continuano la loro attività aggravando la lesione. Subito dopo il trauma il medico vi dirà di steccare il dito. Questo faciliterà la guarigione, anche perché le guaine tendinee sono importanti per portare nutrizione all'area e l'immobilizzazione favorirà il flusso degli elementi necessari alla riparazione, impedendo che la zona venga ulteriormente danneggiata. A volte un'ecografia può chiarire se la puleggia ha subito uno stiramento o si è rotta completamente. C'è anche la possibilità che la lesione alla puleggia sia accompagnata da altre lesioni: un dolore nella falange medi può indicare anche un danno nell'inserzione del tendine flessore superficiale. Nelle rotture multiple di puleggia è necessario l'intervento chirurgico, che consiste nella ricostruzione della fascia. Quando si ruotano le dita all'interno di un buco, è molto più facile danneggiare un legamento collaterale o una capsula articolare piuttosto che il tendine flessore. Tra uno strappo e una rottura completa ci sono vari stadi intermedi, ma la diagnosi può essere fatta anche considerando i sintomi e la perdita di funzionalità. L'intervento è necessario se il legamento collaterale si rompe nel punto della sua intersezione all'osso. In un'estensione eccessiva del dito medio, che può verificarsi quando durante un volo il dito rimane intrappolato in un buco, la capsula articolare può strappare un frammento di osso dalla fascia flessoria del dito. Gli stiramenti e gli strappi dei muscoli e dei tendini flessori dell'avambraccio sono molto più rari delle lesioni alla pulegge e alle guaine tendinee delle dita. Uno stiramento è una lesione di piccola entità delle fibre muscolari, quasi impossibile da evidenziare, mentre uno strappo è la rottura di un muscolo che a volte si può apprezzare al tatto in forma di avvallamento. In quest'ultimo caso ogni movimento della mano provoca un forte dolore all'avambraccio. La rottura di fibre muscolari richiede un riposo minimo di tre settimane. Quando cessa il dolore si può iniziare un cauto stretching e massaggio dell'arto (in fase acuta il massaggio va evitato). La rottura provoca la formazione di ematoma nel tessuto; in questa sede si formerà del tessuto cicatriziale, che è meno elastico di quello muscolare. Se la zona viene massaggiata precocemente è meno probabile che si formi una cicatrice muscolare, che richiederebbe fisioterapia intensiva e stretching prolungato. Sindromi da sovraccarico Se non si raggiunge un equilibrio tra ciò che è ragionevole e ciò che è troppo stressante per il proprio organismo, si soffrirà di una o più sindromi da sovraccarico. Con sindrome da sovraccarico si intende una lesione che si instaura lentamente perché un'esagerata attività ha creato tanti piccoli traumi che, alla fine, sfociano in una lesione importante. Generalmente queste piccole lesioni si accumulano nei tendini, nelle guaine tendinee e nelle capsule articolari, perché queste strutture connettive sono meno sviluppate dei muscoli che vi scaricano la tensione. Se uno stress continua a colpire una zona affetta da una di queste sindromi il risultato può essere un danno irreversibile. D'altra parte, molte sindromi da sovraccarico possono essere trattate e guarite se scoperte presto e affrontate con la terapia adatta. Tenovaginiti. È il termine corretto per della cosiddetta tendinite. Tecnicamente la tendinite è l'infiammazione del tendine, mentre la tenovaginite (più comune) è l'infiammazione del tendine e della sue guaina. Quando uno stress è diretto contro un tendine, finisce anche su guaine e pulegge; una tensione eccessiva sul tendine porterà a un danno anche alla guaina, la cui infiammazione intrappola il tendine, impedendone un corretto scivolamento e aggravandone l'irritazione. Per reazione l'organismo produrrà più fibrina, la quale a sua volta aumenta l'infiammazione, causando inoltre aderenze che portano a un restringimento della guaina. La conseguenza a lungo termine è un maggior attrito di scorrimento del tendine e una maggiore facilità all'infiammazione: il peggior circolo vizioso per uno scalatore! Dolore ed irritazione costanti sono i caratteri distintivi della tenovaginite. Ogni movimento o contatto del tendine provocherà un dolore sordo o pungente che si irradia lungo il tendine. La zona infiammata del tendine e della guaina si gonfia e diventa molto sensibile alla compressione. A volte la cute stessa sopra la lesione mostra segni dell'infiammazione. La sede più comune di tenovaginite negli atleti è l'avambraccio, sia per i muscoli flessori che per gli estensori; gli arrampicatori, che concentrano lo sforzo soprattutto sulle mani, ne soffrono in particolare alle dita, soprattutto all'anulare e al medio. Un paragone con le condizioni che portano alla tenovaginite può essere quello coi cavi del freno in una bicicletta; analogamente a questi, i tendini sopportano il massimo stress, con rischio di rottura, nei punti in cui si piegano a 90°. Nella posizione arcuata si verifica proprio questa situazione. Nei mesi invernali, allenandosi al chiuso e scaldandosi al freddo, si verificano le condizioni migliori perché una tendinite cominci. Il bouldering, nel quale l'arcuata è frequentissima, è particolarmente a rischio. I sintomi di una tenovaginite e di rottura di puleggia possono assomigliarsi, quindi la diagnosi di rottura di puleggia andrebbe esclusa per prima sottoponendosi semplicemente a un'ecografia del dito. Qualche volta il quadro può essere ancor più confuso perché rottura e tenovaginite possono coesistere. Tuttavia, di solito la rottura della puleggia avviene quando un piede scivola da un appoggio o un dito da un buco; in questo modo un grande carico viene improvvisamente concentrato sul tendine. Il suono a scoppio che si ascolta a volte è tipico della rottura della puleggia. Una tenovaginite può iniziare semplicemente ripetendo un bloccaggio su una presa. La tenovaginite delle dita è tipica dell'arrampicata, ma quella dell'avambraccio può associarsi anche ad altre attività, sia atletiche che non (come l'uso di una tastiera). Se la tenovaginite è presente da almeno due settimane si può avvertire sulla sede un suono come uno scricchiolio. Se l'infiammazione arriva a questo punto, ci si deve rivolgere a un medico, per evitare che diventi cronica. Un decorso sfavorevole di tenovaginite può limitare le mani al tal punto da cambiare la qualità della vita di ogni giorno. La terapia di una tenovaginite comincia con l'immobilizzazione del dito o del polso per una o due settimane, seguita da una o due settimane di attività non traumatica. Il processo di guarigione può essere accelerato dal ghiaccio, dai farmaci antiinfiammatori. Però la scomparsa del dolore non significa che la guarigione è completa, ma solo che la zona non è più infiammata; ci vuole ancora tempo per la guarigione delle micro-lesioni che hanno portato all'infiammazione. Dito a scatto. Il fenomeno del “dito a scatto” è il nome dato a una situazione che ha molte manifestazioni ma un solo elemento caratteristico: un dito si blocca in un certo punto del movimento, poi scatta come il grilletto di un'arma. È causato da un ispessimento nodulare del tendine flessore in un punto. L'ispessimento è dovuto a un sovraccarico cronico o a numerose piccole lesioni che sono guarite con la formazione di eccessivo tessuto cicatriziale. Anche una lesione grave del tendine può guarire con una cicatrice esuberante, oppure la guaina tendinea può gonfiarsi in una tenovaginite e strozzare il tendine. In ogni caso, quando questa parte ingrossata del tendine cerca di scorrere attraverso la guaina tendinea o la puleggia, si blocca. Nei casi più gravi non è possibile completare il movimento. La zona di solito è dolente, perché la guaina tendinea è infiammata. Un massaggio vigoroso può far sparire il “nodo”, ma il più delle volte è necessaria un'infiltrazione di steroidi nella guaina tendinea, che riduce l'ispessimento. L'infiltrazione deve essere praticata con molta attenzione, perché va evitata la puntura del tendine, che potrebbe venir danneggiato. Se l'iniezione non ha successo, è indicato il trattamento chirurgico della lesione. Gonfiore delle articolazioni delle dita. Circa il 40% degli arrampicatori ha ciò che ogni persona normale potrebbe definire delle “dita grosse”, pur avendo praticato per brevi periodi. Questo spesso accade per un adattamento fisiologico della capsula articolare dei legamenti collaterali allo sforzo, ma può anche essere il sintomo di una sindrome da sovraccarico. Una sindrome da sovraccarico può essere imputata all'uso di appigli molto piccoli, usati arcuando le dita. In questa situazione l'articolazione interfalangea prossimale è flessa quasi al massimo e quella distale è molto estesa. Di solito lo sforzo articolare si distribuisce su tutta la cartilagine, mentre nella posizione arcuata ne viene sollecitata solo una piccola parte, che deve sobbarcarsi quindi un grande sforzo. Nel tempo questa compressione della cartilagine ne riduce la capacità di assorbire le sollecitazioni. Si formano delle micro-lesioni con produzione di enzimi che disturbano il tessuto sinoviale; per reazione fisiologica ne viene prodotto ancora di più, che va a sua volta a comprimere la cartilagine: un vero circolo vizioso. L'aumento persistente di liquido sinoviale è visibile sotto forma di ingrossamento delle articolazioni delle dita e si ripercuote sulla capacità di movimento, quindi sulla flessione ed estensione. Questa limitazione si nota di più al mattino, nelle giornate che seguono un intenso allenamento o un'arrampicata su roccia, perché il riposo notturno favorisce la produzione di liquido articolare. Il gonfiore comprime inoltre le piccole terminazioni nervose e causa un dolore sordo. Molti climbers presentano questa situazione da molto tempo e non avvertono quasi più dolore, forse per un adattamento percettivo o un danno cronico ai nervi periferici. Chi arrampica tutto l'anno ininterrottamente può manifestare anche una certa instabilità delle articolazioni delle dita, dovuta a micro-traumi dei legamenti collaterali, spesso causati da sollecitazioni laterali tipiche della scalata in fessura. Se questa situazione si accompagna all'aumento di liquido sinoviale, l'instabilità può peggiorare. Come per le altre sindromi da sovraccarico, anche questa richiederebbe una sospensione immediata dell'attività. Il riscaldamento e lo stretching delle dita con esercizi adatti sono utili nella prevenzione. Sindrome del compartimento dei muscoli flessori dell'avambraccio. Un dolore legato alla tensione muscolare quando si scala al limite è un dato di fatto. Se però dovesse essere molto intenso e non diminuire (anzi, aumentare) dopo uno o due giorni di riposo, si potrebbe soffrire della sindrome del compartimento dei muscoli flessori. Il dolore assomiglia alla sensazione che l'avambraccio stia per scoppiare, come quando si è “ghisati”; insorge molto presto durante l'attività e a un livello d'impegno molto basso. È causato da un aumento di volume del muscolo senza che ci sia stato un corrispondente aumento delle dimensioni della fascia lata (la membrana che riveste tutti i muscoli). Quando un muscolo s'ingrandisce ha bisogno di trovare spazio: se la fascia non è cresciuta abbastanza da permetterglielo, il muscolo, con le vene e le arterie, vi si trova intrappolato. Quando l'attività del braccio aumenta, l'organismo cerca di inviare ai suoi muscoli più sangue, ma questo fatica ad arrivarci perché i muscoli gonfi comprimono i vasi sanguini: il muscolo crea acido lattico ma il sangue non riesce a portarselo via. Il dolore può durare per giorni. La sindrome del compartimento si presenta quando l'allenamento ha fatto crescere i muscoli (ipertrofia) più rapidamente della fascia che li riveste. La diagnosi può essere difficile e, quando c'è un ragionevole sospetto, può essere confermata dalla misurazione della pressione del compartimento durante l'attività sportiva. Per farlo viene inserito un piccolo catetere nel muscolo in anestesia locale, e si misura la pressione durante e dopo l'attività. Se non torna alla normalità dopo un certo periodo di riposo la diagnosi è confermata. La terapia consiste nello stretching, nell'applicazione di ghiaccio, nel massaggio e in bagni caldi e freddi in rapida successione. Se tutto fallisce, si fa un intervento. Bibliografia Testi consultati: Testo di scienze in adozione: ”Geografia Generale La Terra e l'Universo” di Cristina Pignocchino Feyles ed Ivo Neviani Testo di filosofia in adozione: “La comunicazione filosofica 3” di Domenico Massaro (Pravia editore) “Rock Warrior's Way” di Arno Ilgner (Versante Sud editore) “Un Movimento di Troppo” di Thomas Hochholzer e Volker Schoeffl (Versante Sud editore)