Prefazione Fin da quando sono nato passavamo le vacanze estive o

Prefazione
Fin da quando sono nato passavamo le vacanze estive o invernali in montagna e io considero queste
cattedrali di roccia come una seconda casa. Crescendo ho iniziato ad andare in montagna anche per
scalare: sulle pareti vedevo solo linee immaginarie dove poter salire. A questa attività sono stato
iniziato da mio padre e, appena entrato al liceo, dal professor Elio Verzeri. Fino ad oggi ho salito
varie vie, la più difficile e bella fra queste è stata “Viaggio secondo Gulliver” aperta da Piolat sul
Gran Capucin al Monte Bianco. Per me è stata una via estremamente impegnativa sia dal punto di
vista fisico che psicologico: lunga 500 metri mantiene un alto grado di difficoltà fino alla fine e
bisogna faticare molto; richiede un grande impegno mentale perché spesso ci sono tratti in cui non
si possono piantare chiodi o non è possibile integrare con altri strumenti di assicurazione, inoltre
l'esposizione nel vuoto è notevole.
Ma cosa sono la montagna e l'alpinismo?
Qual'è il loro significato?
Si potrebbe dire che l'alpinismo è quello sport che ti porta a salire delle montagne, che sono
ammassi di rocce usciti dal terreno per la collisione delle zolle o per le spinte del magma ecc... Ma
per me è molto di più: la montagna è un luogo di avventura quasi inaccessibile e tutto da scoprire;
l'alpinismo è invece qualcosa di personale e profondo, per alcuni è un semplice sport, per altri una
nevrosi oppure una ragione di vita, per me è la possibilità di fronteggiare me stesso, le mie paure e i
miei limiti; avere l'occasione di scoprire nuovi microcosmi che solo alcuni possono visitare.
L'alpinismo è la ricerca, la scoperta di sé stessi e della montagna; è una scuola di vita.
Si potrebbe dire che si vive come si scala.
Dolomiti “I Monti Pallidi”
Storia
Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu (Dolomieu, 23 giugno 1750 – Châteauneuf, 26
novembre 1801) è il geologo francese da cui hanno preso il nome le Dolomiti. Suo padre verso i 3
anni lo iscrisse all'Ordine di Malta, destinandolo quindi alla carriera militare. Questo avrebbe
segnato tutta la sua vita, giacché gli avrebbe permesso di viaggiare e di soddisfare la sua passione
scientifica. Ricevette un'educazione classica dopo la quale si rivolse alla chimica e alle scienze
naturali, consacrandosi presto alla geologia. Individuò la composizione chimica delle rocce alpine
che caratterizzano le Dolomiti, scoprendo che il minerale che le costituisce è il carbonato doppio di
magnesio e calcio. Dolomieu distinse così la Dolomite dal più comune calcare, ne ebbe la prova
scientifica quando inviò dodici campioni di minerale a Nicolas De Saussure. Il mineralista accreditò
così definitivamente a Dolomieu la scoperta di questa nuova roccia. La regione delle Alpi sarà
chiamata "Dolomiti" solo molto più tardi: nel 1864 Josiah Gilbert e George Churchill, un pittore e
un naturalista, pubblicarono a Londra il resoconto dei loro viaggi col titolo "The Dolomite
mountains".
Leggenda
Si narra che le Dolomiti siano chiamate Monti Pallidi a seguito di un prodigioso incantesimo
avvenuto ai tempi dell'Antico Regno delle Dolomiti. Tale regno era ricoperto di prati fioriti, boschi
lussureggianti e laghi incantati. Ovunque si poteva respirare un'aria di felicità e armonia.
Tranne che nel castello reale, perché il figlio del re aveva sposato la principessa della Luna, ma un
triste destino condannava i due giovani amanti a vivere eternamente separati. L'uno non poteva
sopportare l'intensa luce della Luna che l'avrebbe reso cieco, l'altra sfuggiva la vista delle cupe
montagne e degli ombrosi boschi che le causavano una malinconia talmente profonda da farla
ammalare gravemente.
Ormai ogni gioia sembrava svanita e solamente le oscure foreste facevano da solitario rifugio al
povero principe. Ma le ombrose selve sono luoghi popolati da curiosi personaggi, ricchi di poteri
sorprendenti e capaci di rovesciare inaspettatamente il corso degli eventi.
Così un giorno il principe si imbatté nel re dei Silvani, un piccolo e simpatico gnomo in cerca di una
terra per il suo popolo. Egli propose al principe uno scambio: se la sua gente avesse avuto il
permesso di abitare quelle terre, in cambio si impegnava a rendere lucenti le montagne del suo
regno. Siglato il patto, gli gnomi tessero per un'intera notte la luce della Luna e ne ricoprirono tutte
le rocce. La principessa poté così tornare sulla terra per vivere felicemente con il suo sposo. Le
Dolomiti presero il nome di Monti Pallidi.
Orogenesi
Circa 200 milioni di anni fa, nell'antico mare, si depositavano i primi strati orizzontali delle
dolomiti. Si sono formati dunque gli strati orizzontali e solo dopo 100 milioni di anni, all'inizio del
Cretaceo, 120-130 milioni di anni fa, si sono depositati gli ultimi e più giovani sedimenti
attualmente presenti nella regione dolomitica. Solo verso la fine del Cretaceo, cioè 70-80 milioni di
anni fa, le forze endogene della terra hanno iniziato a sollevare e piegare lentamente il gigantesco
blocco di sedimenti creando linee verticali, oblique o contorte. In questa fase il continente africano
cominciò lentamente ad avvicinarsi a quello europeo, determinando uno schiacciamento dei
materiali interposti ed il loro conseguente innalzamento (orogenesi).
Le Dolomiti iniziarono ad essere interessate da queste dinamiche circa 40 milioni di anni fa ma è
soprattutto negli ultimi 25 che si sono avuti gli effetti più forti, le Dolomiti si sono lentamente
sollevate dal mare ad oltre tremila metri di quota. Il maggiore e definitivo sollevamento si è avuto
negli ultimi 4-5 milioni di anni quando le dure e resistenti dolomie sono rimaste sempre più isolate,
mentre le tenere rocce vulcaniche con i loro derivati sedimentari sono state spianate con facilità
dando luogo a valli, passi, altopiani.
Negli ultimi diecimila anni, dopo che le glaciazioni avevano approfondito e smussato le valli, le
Dolomiti hanno assunto le forme definitive che vediamo. L'erosione, complice della gravità, è stata
quindi lo scultore che ha plasmato definitivamente le pareti ai cui piedi sono rimasti i detriti della
sua azione.
Le Rocce
L'orogenesi: come si formano le rocce
Il termine orogenesi indica l'insieme dei processi, tettonici, vulcanici e metamorfici, coinvolti nella
formazione di una catena montuosa. Secondo la teoria della tettonica a zolle, i processi orogenetici
si realizzano lungo i bordi dei continenti collocati in corrispondenza di margini convergenti delle
placche. Qui si verificano fenomeni che piegano e accavallano gli strati rocciosi, creando così una
catena montuosa.
L'orogenesi può avvenire in due situazioni differenti: quando due continenti entrano in collisione
(Alpi, Himalaya); oppure quando c'è subduzione di litosfera oceanica lungo un margine
continentale attivo (Ande). A questi due processi se ne deve aggiungere un terzo: l'accrescimento
crostale, scoperto analizzando la struttura geologica delle Montagne Rocciose in Nordamerica, che
implica l'accrescimento di una massa continentale per l'apposizione di masse più piccole.
Orogenesi per collisione continente-continente
Quando due zolle che si scontrano trasportano due blocchi continentali è possibile che la
subduzione porti alla chiusura del bacino oceanico intermedio e alla collisione tra due margini
continentali. Poiché entrambi i margini sono costituiti di crosta continentale, nessuno dei due può
andare in subduzione; tuttavia il movimento delle zolle non si arresta e i due margini vengono
compressi finché uno non scivola sull'altro. Si formano pieghe e falde di ricoprimento, che
sovrascorrono anche per centinaia di kilometri. Si forma così una catena montuosa. La crosta
continentale aumenta spessore e tende a sollevarsi per isostasia. Col tempo la subduzione può
estinguersi o spostarsi. La vecchia zona di subduzione resterà indicata dalla catena montuosa che si
è formata; oppure, se la morfologia originaria scompare, la si può riconoscere attraverso la presenza
di ofioliti, melanges, e scisti blu.
Le ofioliti (Alpi, Appalachi, Urali) sono rocce magmatiche di colore verde scuro. Hanno uno
spessore variabile e presentano vari strati. Uno strato di sedimenti di mare profondo, un complesso
di basalti a cuscini, uno di dicchi e filoni formati da rocce femiche seguite da uno di gabbri e
peridotiti. Si pensa che le ofioliti, data la composizione, siano lembi di litosfera oceanica. I melages
sono corpi caotici non omogenei costituiti da resti non omogenei della litosfera oceanica. Gli scisti
blu sono rocce metamorfiche, formatesi in condizioni di temperatura bassa e pressione elevata.
Orogenesi per collisione oceano-continente
Quando la litosfera oceanica scivola sotto un continente, lungo la linea di costa, si forma un sistema
arco-fossa. In una fase iniziale i sedimenti, provenienti dall'erosione continentale, si accumulano
sulla scarpata e sulla piattaforma continentale e, trascinati dalla zolla oceanica, vengono deformati e
sollevati, formando un corrugamento sul bordo continentale. Il magma prodotto nel corso della
subduzione solidifica sotto la superficie dando origine a vari tipi di plutoni,mentre una parte effonde
creando numerosi vulcani che daranno origine a una cordigliera, cioè un arco magmatico,
localizzata nella zona di subduzione e parallela alla linea di costa. Talvolta l'arco magmatico può
essere separato dal continente da un bacino marino. Il notevole apporto di magmi causa un
ispessimento della crosta seguito da riaggiustamenti isostatici. Spesso nella zona retrostante alla
catena si forma una depressione chiamata bacino di retroarco in cui si accumulano detriti e spesso
vanno incontro a subsidenza. Col passare del tempo la zona di subduzione si sposta sotto il
continente e l'attività magmatica migra nella stessa direzione. Questo tipo di catena montuosa è
quindi caratterizzata da un'intensa attività magmatica, sia intrusiva che effusiva.
Orogenesi per accrescimento crostale
L'accrescimento crostale è stato evidenziato notando che in alcune regioni continentali esistono
blocchi rocciosi eterogenei con caratteristiche totalmente diverse rispetto alle rocce in cui sono
inclusi. Chiamati blocchi di accrezione, essi sono delimitati lungo tutti i lati da grandi faglie e tra
l'uno e l'altro possono essere compresi brandelli di litosfera oceanica. La presenza di questi blocchi
può essere spiegata ammettendo che frammenti isolati di crosta di varia natura, trascinati dai
movimenti della crosta oceanica, vengano strappati dalla zolla in subduzione e possano saldarsi
direttamente a un continente aumentandone le dimensioni. (coste pacifiche nordamericane, Alaska)
Rocce Magmatiche
Sono le più diffuse nella litosfera e si formano per solidificazione del magma (miscela di sostanze
allo stato fuso in prevalenza silicati, vapor d'acqua e gas). I magma si formano in seguito alla
fusione parziale di blocchi di crosta o mantello superiore. Tendono a risalire perché inizialmente
sono più caldi e meno densi e contengono gas. Sono tre le condizioni di solidificazione del magma
e tre le categorie di rocce magmatiche.
Rocce magmatiche intrusive: derivano da magmi che solidificano in profondità nella litosfera in
tempi lunghissimi; la solidificazione avviene in un intervallo molto ampio perché ci sono numerose
sostanze con temperature di solidificazione diverse. Solo i minerali con temperatura di
solidificazione più elevata possono raggiungere il loro abito cristallino tipico (cristalli idiomorfi)
mentre gli altri occupano gli spazi rimasti (cristalli allotriomorfi). Hanno struttura olocristallina
ovvero i cristalli sono riconoscibili a occhi nudo e hanno dimensioni simili. Degli esempi sono i
graniti, le dioriti, i gabbri, le peridotiti.
Rocce magmatiche effusive: molti magmi sotto la spinta dei gas raggiungono la superficie e danno
origine ad eruzioni vulcaniche. Arrivando in superficie il magma perde le componenti volatili e
diventa lava. Dalla sua solidificazione derivano le rocce magmatiche effusive. Hanno struttura
vetrosa (disordinata) o porfirica (alcuni cristalli evidenti in una pasta microcristallina o amorfa).
Degli esempi sono le rioliti, le ossidiane, le pomici, andesiti, basalti, picriti.
Rocce magmatiche ipoabissali o filoniane: solidificano a profondità intermedie in condizioni di
temperatura e pressione simili a quelle esterne. Hanno struttura aplitica (cristalli di dimensioni
simili ma piccoli) o pegmatitica (grandi cristalli formati spesso da minerali rari) o porfirica.
Rocce Sedimentarie
Costituiscono circa il 9% della crosta terrestre, ma sono le più diffuse sulla superficie. Derivano dal
processo sedimentario che può durare anche milioni di anni ed avviene in quattro fasi. Inizialmente
avviene la degradazione ed erosione, possono essere fisiche (quando una roccia affiorante si riduce
in frammenti derivanti da essa) o chimiche (quando parte o tutta la roccia madre è trasformata per
azione dell'acqua, dell'anidride carbonica o dell'ossigeno portando alla formazione di minerali
argillosi). Si formano dei detriti ed ha inizio la fase di trasporto: il materiale in parte resta sul luogo
in parte viene portato via grazie all'azione della forza di gravità, dell'acqua o del vento. La terza fase
consiste nella sedimentazione dei detriti che può essere: meccanica (quando diminuisce la forza
degli agenti di trasporto); chimica (i minerali precipitano in soluzione); biochimica (i sali trasportati
vengono usati da vari organismi per costruire i propri scheletri che verranno depositati al momento
della morte). Infine avviene la diagenesi, la fase terminale che rende coerenti le rocce incoerenti e si
suddivide in tre fasi: compattazione (si riduce la porosità); cementazione (negli spazi liberi
precipitano sostanze poco solubili con azione cementante, per esempio CaCO3); ricristallizzazione
(per effetto di reazioni chimiche i minerali presenti).
Le rocce sedimentarie possono essere di vari tipi. Detritiche: vengono classificate in base alla
dimensione dei clasti e al tipo di cemento che li unisce. Si dividono in quattro classi: le ghiaie, le
sabbie, i silt, le argille. Dalle ghiaie hanno origine i conglomerati: sono formati da ciottoli
grossolani tenuti assieme dal calcare, i clasti generalmente sono levigati. Dalle sabbie derivano le
arenarie, i cui granuli sono ancora distinguibili a occhio nudo. Dai silt e dalle argille si originano le
siltiti e le argilliti, formate da silicati di alluminio idrati, spesso hanno componenti con origine
organica.
Vi sono poi le rocce sedimentarie di deposito chimico: comprendono le evaporiti (dalla
precipitazione di sali in acque dolci), i calcari inorganici (precipitazione di carbonato di calcio), le
rocce silicee (la selce dura e compatta con struttura microcristallina)e le rocce residuali (da
accumuli di minerali insolubili).
Infine le rocce sedimentarie organogene: derivano da sedimenti prodotti da esseri viventi, quasi
sempre alla loro morte. Comprendono le rocce carbonatiche: ad esempio i calcari organogeni
formatisi prevalentemente in ambiente marino da microrganismi (coralli, alghe calcaree); oppure le
dolomie costituite da dolomite (carbonato di calcio e magnesio CaMg(CO3)2, ma prevalentemente
hanno origine da calcari marini per diagenesi. Sempre rocce organogene sono le rocce silicee, che
derivano da alghe e spugne, infine le rocce fosfatiche dette fosforiti derivanti da scheletri di
vertebrati.
Rocce Metamorfiche
Sono rocce che si trasformano senza passare allo stato fuso e hanno subito alterazioni nella struttura
o nella composizione mineralogica. La temperatura a cui avviene il metamorfismo è compresa fra i
200-800°C, non è assoluta perché cambia a seconda del minerale. Mentre la pressione agisce in due
modi: le rocce circostanti premono su quelle considerate e si ha la pressione lisostatica; oppure la
pressione orientata che agisce solo in una direzione per lungo tempo. Ci sono tre tipi di
metamorfismo: di contatto in cui il magma viene a contatto con le rocce che si trasformano per l'alta
temperatura; metamorfismo dinamico si ha con pressioni orientate elevate che piegano e fratturano
le rocce; oppure metamorfismo regionale dovuto all'azione della temperatura e della pressione e
coinvolge ampie zone. La struttura delle rocce metamorfiche varia a seconda del processo di
trasformazione che subiscono. Tipica del metamorfismo di contatto è la ricristallizzazione e
l'aumento della grana, un esempio è il marmo che deriva dai calcari di deposito organico. Si ha
un'orientazione preferenziale in seguito al metamorfismo regionale dei minerali che accrescono
nella direzione della pressione e si riuniscono in piani di scistosità. Infine le rocce metamorfiche
possono frantumarsi in granuli con il metamorfismo dinamico; una volta rotte le rocce si possono
orientare e ricristallizzare. Ma spesso si possono formare nuovi minerali, però cambia solo la
composizione mineralogica non chimica. Molti minerali si formano a temperature e pressioni ben
definite, vengono quindi chiamati minerali indice di un grado di metamorfismo e identificano delle
facies metamorfiche; ovvero dei gruppi di minerali formatisi in condizioni simili. Le rocce
metamorfiche più diffuse derivano dal metamorfismo di argille e rocce magmatiche sialiche. Gli
argilloscisti hanno una struttura debolmente scistosa, spesso si dividono in ampie lastre di grande
estensione superficiale, tra queste le ardesie. Le filladi rocce scistose a grana fine si sfaldano
facilmente, contengono prevalentemente quarzo e miche. Altri esempi sono gli scisti, i micascisti,
gli gneiss. Dal metamorfismo di rocce basaltiche e ultrafemiche derivano gli scisti blu, le eclogiti e i
marmi.
Ciclo Litogenetico
I tre processi, magmatico sedimentario e metamorfico, costituiscono il ciclo litogenetico, che
coinvolge tutte le rocce della litosfera. Dal processo magmatico hanno origine rocce effusive e
intrusive; allo stesso tempo il materiale solido circostante subisce il processo di metamorfismo di
contatto. I materiali vengono poi portati in superficie dove ha inizio il processo sedimentario. I
sedimenti che si accumulano vengono sepolti e per diagenesi formano le rocce sedimentarie. Queste
a loro volta subiscono il processo metamorfico, finendo in profondità nella terra o contribuendo a
formare una catena montuosa. Più si va in profondità, più temperatura e pressione aumentano e si ha
di nuovo il processo magmatico.
Le rocce per l'alpinista
A seconda del tipo di roccia, cambia anche il tipo di arrampicata che su di essa si effettua. Una
roccia di tipo magmatico, soggetta più a modificazioni di tipo fisico(es. erosione venti, ghiaccio e
acqua) che non di tipo chimico, si presenta molto compatta e liscia, con presenza di grandi
fessurazioni regolari e grandi strapiombi, spesso privi di appoggi o di appigli. L’arrampicata su
questo tipo di roccia spazia dalla delicata placca di aderenza poco proteggibile (es. Val di Mello)
alle spettacolari fessure affrontabili con gli incastri più strani, in cui trovano grande possibilità di
utilizzo i dadi e i friends. A differenza delle rocce ignee, le rocce sedimentarie sono molto più
attaccabili dal punto di vista chimico, si presentano quindi come rocce molto fratturate, ricche di
erosioni di tipo carsico e di strutture quali camini e diedri. L’arrampicata su questo tipo di rocce,
delle quali le maggiori rappresentanti sono i calcari e le dolomie, si presenta con placche ricche di
grossi buchi, lame, diedri e camini. Spesso capita di trovare delle zone in cui la roccia si presenta
molto friabile, specialmente sulle vie più facili; qui è necessario prestare sempre la massima
attenzione per evitare di cadere perché rimangono in mano gli appigli oppure perché cede un
appoggio. La terza categoria di rocce, le metamorfiche, abbastanza rare nelle zone di arrampicata
italiane, sono per certi aspetti molto simili alle rocce ignee, anche se rispetto a queste ultime
presentano un grado di compattezza decisamente minore. Anche qui l'arrampicata è caratterizzata
da placche, fessure e diedri spesso molto divertenti che non hanno nulla da invidiare alle grandi
pareti di granito o di tonalite. Anche le salite su rocce metamorfiche possono presentare, in placca,
delle difficoltà di protezione, mentre nelle fessure e nei diedri abbiamo un ottimo terreno di
applicazione per le protezioni costituite da dadi e friends. Un alpinista, però, impara soprattutto
attraverso la sua pelle. Il granito è la roccia a “prova di bomba”, non capita mai che resti in mano
qualche presa; se succede è perché sta crollando l'intera parete. Se si arrampica su granito si deve
tenere conto di alcune cose: o si sale una via di aderenza spietata, o di forza bruta, oppure un
micidiale mix di entrambe le cose; bisogna attrezzarsi con friend, nuts, tricam perché ci sono ben
poche di possibilità di piantare chiodi. Oppure l'arrampicata su conglomerato è totalmente
differente: bisogna stare attenti a non tirare troppo i sassi altrimenti finisce che ti restano in mano; è
una arrampicata polverosa e prevalentemente su buchi o svasi da “strizzare”. Mentre la dolomia è
una roccia strana: sulla parete Nord del Civetta si rompe facilmente e la scalata, prevalentemente su
tacche, è spesso insicura; poco distante troviamo la Marmolada che ha la stessa roccia ma a buchi
oltre che tacche ed è più solida. La qualità di una roccia dipende anche dall'esposizione della parete
(Nord, Sud). Ogni roccia ha le sue particolarità e comporta un approccio diverso. Ma a parte la
preparazione del materiale e la consultazione delle relazioni delle vie come si può allenare uno
scalatore, oltre che fisicamente?
L'uomo e la montagna
Consideriamo un climber che vuole migliorare le sue prestazioni, la risposta più ovvia è: allenarsi di
più.
No. Tutti, dalle antiche scuole sapienziali fino alle nuove discipline di “salute mentale”, affermano
che la trasformazione è principalmente una questione di allenamento più intelligente, non
semplicemente più intenso. Allenarsi più intensamente spesso non fa che rinforzare le abitudini
limitanti; in altre parole, non si fa che ripetere gli stessi vecchi errori raccogliendo gli stessi vecchi
risultati. Per raggiungere risultati tangibili bisogna tener presenti alcuni punti. Primo: accettare che l
vita è dura, e che modificare la nostra esistenza – o le nostre capacità, il che è più o meno lo stesso –
è molto difficile. Per raggiungere la condizione di poter affrontare con rilassatezza le sfide che
prima ci attanagliavano sono necessari sforzi grandi e consapevoli, disciplina e pazienza. Secondo:
il cambiamento è un processo, e questo processo dura tutta la vita. Ogni volta che si guadagna un
nuovo gradino, un enorme potenziale inespresso si erge al disopra di noi. In questo senso non si
arriva mai una volta per tutte sulla vetta. In certi punti del cammino la qualità del processo cambia
radicalmente. Questo è particolarmente vero in quei momenti in cui mesi di sforzo intenso
concorrono a creare stati di grazia attraverso i quali si passa, spesso improvvisamente e senza fatica,
raggiungendo un livello di prestazione fisica e mentale più alto. La via che prima sembrava
impossibile ora appare facile. In questi momenti si tende a dimenticare gli sforzi fatti per
raggiungere l'alloro; invece è proprio in questi frangenti che dovremmo ricordarci della fatica fatta
per arrivare a un determinato punto. Qui si collega il terzo punto: la qualità che si esprime il giorno
della gara, della via, deve essere la stessa che si coltiva durante l'allenamento. In poche parole il
modo in cui si vive la propria vita è esattamente il modo in cui si scala.
La rock warrior's way fornisce un metodo per diventare degli scalatori più completi.
Rock Warrior's Way
È sia un programma di allenamento mentale che una filosofia dell'arrampicata che trae i suoi
fondamenti dalla ricca tradizione e letteratura sui guerrieri. Il suo stile non è né violento né
eccessivamente aggressivo. Si tratta di un percorso basato sull'equilibrio, sull'armonia e
l'introspezione. La filosofia del guerriero deriva da quella situazione unica che si presenta quando si
affronta un soldato o un combattente, come un duello all'ultimo sangue con un samurai. Bisogna
dare prova di assoluto controllo e calma di fronte a un pericolo mortale. In allenamento il guerriero
deve affinare corpo e mente. Se non lo fa non vivrà a lungo. In battaglia deve registrare con
attenzione tutti i minimi dettagli dell'ambiente, del proprio stato d'animo e di quello del suo nemico,
e allo stesso tempo restare impassibile di fronte al pericolo. Se si aggrappa con eccessiva forza alla
propria vita o è governato dal proprio io, cercherà la fuga; la sua attenzione vacillerà e verrà
distrutto. Paradossalmente, se adotta una posizione caratterizzata dall'accettazione del rischio e delle
sue conseguenze avrà molte più possibilità di sopravvivere. Essenzialmente il guerriero è
un'inesorabile cacciatore di forza interiore. Esso l'acquista addentrandosi nell'ignoto, luogo in cui
concentra tutta la sua attenzione, lotta con il caos e apprende dall'esperienza. Ma l'approccio
all'allenamento (in particolare per la rock warrior's way) si deve basare su alcuni principi
fondamentali: la nostra prestazione è grandemente influenzata dal nostro subconscio; il
miglioramento della prestazione passa attraverso un processo di crescita e con un atteggiamento
volto alla soluzione dei problemi; la performance migliora spostandosi dalla motivazione fondata
sulla paura a quella sulla passione; ci sono due tipi di paura una dovuta all'istinto di conservazione
l'altra illusoria, la prima è utile la seconda no; la morte è nostra consigliera ci ricorda che non
abbiamo tempo da perdere. L'apprendimento e la crescita, per definizione, ci portano al di fuori di
ciò che è familiare, verso l'ignoto. Per questa ragione dobbiamo abbandonare il nostro guscio
protettivo. La rock warrior's way si svolge in tre fasi articolate a loro volta in più passi. La prima
fase, quella di preparazione, idee e concetti sono elementi molto importanti che permettono di fare
pulizia nella mente, nelle valutazioni e nei progetti. Si impara ad evitare trappole come
atteggiamenti ingenuamente speranzosi e ci si concentrerà sulle possibilità che si aprono di fronte a
noi. La seconda fase, di transizione, è breve: è il momento della verità, della scelta. Lo scopo è
quello di passare dalla preparazione all'azione. Infine, nella fase d'azione, lo scopo è vivere
completamente immersi nella sfida, senza cercare la fuga. Si diventerà in grado di evitare la
mentalità del “o la va o la spacca” e di considerare l'idea del tentativo come un'opportunità di
apprendimento.
I sette passi della rock warrior's way
1 Acquisire consapevolezza. Nel primo processo si affina la tecnica di osservazione per aumentare
la propria consapevolezza. Si deve dirigere l'attenzione verso il dialogo interiore. Si deve analizzare
il proprio essere, i propri pensieri, il proprio corpo per poter rompere l'abitudine e la routine.
Smettere di fare sempre gli stessi pensieri del giorno prima e non puntare più al realizzarsi e quindi
“fare il grado”, ma a curare il proprio approccio mentale all'attività. Inoltre bisogna essere realisti,
come un guerriero che sviluppa un suo nuovo bagaglio interiore di valori che richiede una crescita
della consapevolezza di sé. Tutto ciò viene percepito come minaccioso perché va ad intaccare la
nostra zona sicura fatta dalle nostre certezze caratterizzate in gran parte dalle azioni abitudinarie che
ci hanno sorretto finora. Una volta preso coscienza di ciò, le nostre abitudini e vizi inconsci
vengono alla luce crollando e mettendo a disposizione nuovo materiale con cui costruire. Per fare
ciò bisogna assumere la posizione dell'osservatore, capire che quei pensieri non sono noi. Ciò
permetterà di analizzare e modificare il proprio modo di essere abituale o inconscio con
l'obbiettività necessaria. Bisogna riuscire a cambiare l'immagine interna che abbiamo di noi stessi
che influisce direttamente sulle nostre azioni. Parte della consapevolezza consiste nel riconoscere
che la nostra immagine interna non è una descrizione oggettiva di noi stessi o delle nostre capacità.
Se si riesce ad accettare del tutto che è la mente a limitarci si apriranno nuove insperate possibilità.
Acquisire consapevolezza è un processo che migliora l'attenzione e rinforza l'immagine interna,
aumenta la fiducia in sé stessi e la forza personale. Raggiungendo la consapevolezza si sarà in grado
di reagire positivamente, deviando l'attenzione dai cali di forza e fermando le dispersioni di forza
come desideri e proiezioni o reazioni condizionate.
2 Le sfaccettature dell'esistenza. L'attenzione viene raccolta e focalizzata. Si dirige la propria
consapevolezza verso le sensazioni corporee (respiro, postura...). Si parla di sé stessi
intenzionalmente piuttosto che ascoltare le chiacchiere fuorvianti del proprio inconscio. L'elemento
chiave per creare un'unità mente-corpo efficace e performante è l'equilibrio. Esso può essere
ricondotto a tre componenti: il corpo, che include la postura e la mimica facciale; il respiro, che
serve per integrare l'unità tra mente e corpo; la mente, che include i comportamenti interiori come
per esempio il modo in cui si parla di sé stessi. Non si devono usare posizioni scorrette e affaticanti,
bisogna sempre ricercare l'equilibrio e la postura migliore, che permette di distendersi e osservare
con obbiettività la situazione e trovare una soluzione alla salita. Anche la mimica facciale non va
trascurata: le smorfie contraggono la pelle attorno agli occhi riducendo la vista periferica; così si
invia lo stesso tipo di messaggio alla mente, limitando ciò che con esse si può vedere: possibilità di
nuove soluzioni. Un volto che esprime una smorfia genera uno stato mentale pronto alla fuga, non
disposto ad affrontare in modo aperto e creativo la sfida. L'attenzione va rivolta allo sguardo
d'insieme, e non a un punto specifico. La respirazione connette corpo e mente; una respirazione
corretta elimina ansia e paura, riporta l'attenzione al corpo e alla situazione che si sta affrontando,
ossigena il sangue riducendo l'acido lattico e l'anidride carbonica, crea un ponte fra subconscio,
mente e corpo. La mente, perché l'apprendimento sia efficace, deve essere aperta; il che significa
non rifiutare nuove informazione senza prima averle valutate e poi, se risultano utili, fare un
tentativo di interiorizzarle. L'atteggiamento mentale è condizionato anche da ciò che diciamo. Ad
esempio dire “provo” significa che inconsciamente ci si sta concentrando su fattori non meglio
precisati che ci impediranno di raggiungere il proprio scopo. Invece di dire “provo”, il vero
guerriero dice “lo farò”. Esso ha già intenzione di esprimere il suo massimo impegno, al quale non
pone limite. Sa di non essere perfetto e magari di non farcela, ma la differenza è che il guerriero sa
che non è utile enfatizzare tale possibilità con la parola “provare”. Quando si dice “provo” si pensa
al risultato finale e non al percorso di apprendimento.
3 Assumersi la responsabilità. Ci si concentra sulla responsabilità di una situazione piuttosto che sul
tentativo di scaricare le colpe, sul desiderio di situazioni diverse o sulla speranza in situazioni
miracolose. Scaricare la responsabilità, sperare o desiderare passivamente ci tolgono forza dalle
mani. Accettare la responsabilità implica riconoscere le informazioni oggettive sul rischio che si
raccolgono. Per esempio, immaginiamo di slogarci una caviglia durante una partita a basket. La
primavera è appena iniziata e ci si è allenati molto in previsione di un viaggio dedicato
all'arrampicata. Ora si resterà appollaiati per sei settimane sulle stampelle. “È davvero un maledetto
colpo di sfortuna, una vera ingiustizia.” Si gettano ore e ore nel desiderio che l'incidente non sia mai
successo. Si biasima quello stupido sport che si gioca con la palla per aver causato l'infortunio e in
realtà anche gli amici che ci hanno convinti a partecipare. Si rimugina, si diventa tristi e ci si
compiange. Questo processo fa disperdere le forze. Sarebbe molto più utile un atteggiamento
mentale attivo, che faccia mantenere il più possibile il controllo della situazione. Si è scelto di
giocare a basket e ci si è infortunati. Questi sono i fatti. Non serve desiderare di non essersi fatti
male. È inutile incolpare le irregolarità del campo da gioco o gli amici, non fa altro che fuorviare
l'attenzione che si potrebbe invece indirizzare ad un'analisi positiva dei propri errori e verso la
ricerca di un metodo di recupero efficace.
4 Dare. Si deve adottare un atteggiamento che denoti forza: bisogna chiedersi cosa si può dare alla
performance, piuttosto su che cosa si potrebbe ottenere da essa una volta raggiunto il successo. Si
deve focalizzare l'attenzione su opzioni e possibilità. Questo processo raccoglie le informazioni
soggettive rispetto al rischio e ci mette in grado di riconoscerlo. Quando ci accingiamo a dare si
utilizzano gli elementi che abbiamo individuato e accettato per creare un'attitudine attiva ed
energica nell'affrontare la sfida. Il processo del dare aiuta a concentrarci su quello che possiamo
appunto dare durante lo sforzo piuttosto che sulla difficoltà della prestazione. La nostra società
incoraggia una mentalità orientata alla prestazione, ma è molto meno efficace nell'incoraggiarci a
sopportare lo sforzo necessario a raggiungerla. Il condizionamento che subiamo ci spinge a credere
che saremo felici quando avremo quella nuova macchina piuttosto che altro. La stessa mentalità
affiora nell'arrampicata. Si è convinti di godersi la scalata solo quando otteniamo qualcosa:
avambracci più forti, più tempo libero, chiudere un nostro progetto. La mentalità volta a ricevere ci
fa scivolare nella convinzione che abbiamo diritto di essere felici, e siamo debitori in qualche modo
verso ciò che ci rende felici. Possiamo anche lavorare scrupolosamente, ma dentro di noi,
comunque, ci aspettiamo di ricevere ciò che ci spetta. Il mondo reale non funziona così. La felicità
non è un diritto acquisito, e non ci sono risultati particolari che ci renderanno automaticamente
felici. Ciò che possediamo, che nessuno ci ha dato né ci può togliere, è la nostra capacità di
imparare e crescere. Migliorarci in questo senso richiede però sempre uno sforzo concreto.
Dobbiamo dare qualcosa. Più siamo disposti a dare, più riceveremo , indipendentemente dai risultati
specifici; (quanto più ci si impegna in qualcosa quanto migliori saranno i risultati).
5Scegliere. È la fase di transizione, il momento della verità. Si decide se dirigere l'attenzione
lontano dal rischio o sul rischio. Rinunciare all'assunzione del rischio però non è un fallimento.
Molti rischi sono insensati e accettarli potrebbe essere fatale. La chiave di questo processo è agire
con assoluta decisione. Se si sceglie di andare avanti si deve farlo con tutte le energie, senza
guardarsi indietro. Bisogna agire con risolutezza, i che significa impegno al 100%. la roccia per sua
natura mezzo statico, pone del tutto nelle nostre mani la responsabilità della tempistica delle nostre
scelte. Possiamo sprecare enormi quantità di forza in scelte incerte, ambigue, incomplete o tirando a
casaccio nella speranza di azzeccare scelte puntuali e opportune. Le scelte non sono giuste o
sbagliate, buone o cattive. Non si può mai sapere la totale capillare ramificazione delle conseguenze
di una scelta. Le scelte consapevoli sono test della nostra conoscenza, ci forniscono un'opportunità
per una concreta lezione nell'interminabile viaggio dell'apprendimento. Una scelta potenzialmente
pericolosa non deve essere avvallata in modo superficiale, deve essere in sintonia con i desideri più
intimi di una persona, sfrondata dalle trappole superficiali dell'io e della frustrazione. Una
motivazione personale basata sulla passione dà luogo a scelte a cui non seguiranno rimorsi. Quando
si deve operare una scelta, bisogna scegliere di vivere la vita nel modo più vicino ai propri desideri.
Solo agendo secondo questo atteggiamento si riesce a raggiungere il potere quasi magico derivante
dall'impegno totale.
6 Ascoltare. Aiuta a rimanere nella giusta direzione, guida nel momento del rischio invece di
assumere un atteggiamento che distoglie l'attenzione e priva della forza. Ora che si è in azione di
fronte all'ignoto si deve imparare. “Ascoltare” la situazione è la via che facilita questo processo di
apprendimento. Il processo è intuitivo. Nel momento della scelta si sono accettate le possibili
conseguenze del proprio sforzo e si è fatto il salto, ora si deve credere in questo processo. Il
percorso che si ha davanti non rappresenta un pericolo o un'emergenza, ma un intenso momento di
crescita. Lo scopo è prendere parte alla sfida attivamente, senza farsi distrarre. Quando si entra in
azione il corpo prende il controllo sulla mente e diventa il protagonista. Si sta agendo nel rischio,
non ci si riflette sopra. Finché l'obbiettivo sarà “non pensare”, si riuscirà a tenere a bada la mente
(che tenta di prendere il controllo) con metodi orientati sul corpo: respirazione costante, arrampicata
continua, concentrazione visiva. Poi a un certo punto si raggiunge un'ottima presa e
improvvisamente ci si ritrova aggrappati al senso di sicurezza che dà quella posizione. Si indugia
quasi nell'oasi di sicurezza e si trasforma in esitazione. I propri obbiettivi incominciano a vacillare e
riemergono le vecchie abitudini l'io limitante. L'io, il drago dalle mille teste che ci insidia
dall'interno, tende a riportarci sulle nostre abitudini. Bisogna sguainare la spada e tagliare le teste al
dragone. Solo così si libererà la propria ricettività, e si sarà in grado di ascoltare ciò che sta
accadendo e con rinnovata concentrazione e determinazione passare oltre.
7Il viaggio. Una volta che ci si è gettati nel caos del rischio, ci si deve concentrare sul viaggio, e
non sulla destinazione. Quando si è sotto pressione siamo tentati di uscire il più in fretta possibile
dalla situazione di stress. Ora, se ci si è preparati correttamente, quella situazione è esattamente il
perché della propria condizione. È la trama che sostiene le ragioni della propria scalata. Quando si è
stressati si ha a disposizione terreno fertile per l'apprendimento. La mentalità del viaggio aiuta a
mantenere l'attenzione sul viaggio in sé stesso invece di lasciarla anelare alla destinazione, o, in altri
termini, di auto-limitare i pensieri che impedirebbero di risolvere il problema e imparare.
Nietzsche e l'alpinista
Nietzsche intende, con la sua opera, smascherare l'inganno perpetrato dalle concezioni religiose,
morali, metafisiche le quali spacciano per mondo vero ciò che in realtà sono favole illusorie e
consolatorie inventate dall'uomo debole, il quale non sopporta il carattere irrazionale privo di senso
dell'essere e che quindi cerca rassicurazione nell'astratta finzione delle idee. Tali immagini illusorie
in passato erano diventate credenze collettive dei popoli; oggi, dice il filosofo, sono considerate
dall'uomo moderno menzognere e inutili che si sente più sicuro grazie alle sue conoscenze tecnico
scientifiche. Per questo motivo Nietzsche afferma che dio è morto, infatti i valori morali e religiosi
nel tempo sono crollati lasciando il posto al nichilismo, ossia al vuoto di significato che può essere
sopportato e re-interpretato soltanto dall'oltre-uomo. Egli è colui che è in grado di comprendere
l'evento della morte di Dio, che rappresenta la fine delle antiche menzogne metafisiche e morali e
delle nuove menzogne liberali, socialiste e scientifiche. Inoltre è in grado di oltrepassare il bisogno
di certezze proprio dell'uomo debole (caratterizzato dal nichilismo passivo) e ricreare liberamente il
senso del mondo in base a una pluralità di prospettive ermeneutiche; con ciò si identifica il
nichilismo attivo. L'oltre-uomo è l'unico che può sopportare il peso della morte di Dio, ossia riuscire
a vivere in un mondo sdivinizzato in cui i vecchi valori e certezze sono stati distrutti. Egli è in
grado di sperimentare in ogni direzione la sua libertà; ossia agire in modo indipendente dalle norme
tradizionali (quindi dai sensi di colpa e dalla voce della coscienza) e dalle credenze metafisiche, le
quali svalutano il nostro mondo che è l'unica vera realtà e attribuiscono valore unicamente all'oltremondo che è una finzione. Quindi può godere della terra, del corpo, della vita e dunque essere sé
stesso. L'oltre-uomo è anche colui che è in grado di sostenere il peso più grande, ossia il pensiero
dell'eterno ritorno dell'uguale; ossia l'interpretazione della storia in base alla quale le vicende del
singolo e dell'umanità eternamente ritornano e si ripetono. Infine l'oltre-uomo, attraverso la volontà
di potenza, ha la capacità di redimere il tempo.
Io penso che l'alpinista si possa considerare lo specchio dell'oltre-uomo. Come l'oltre-uomo agisce e
cambia il mondo ed è superiore agli altri comuni esseri umani, così l'alpinista cerca di cambiare sé
stesso e di superarsi in una continua evoluzione. Dentro di sé ha il drago a mille teste che
rappresenta l'io limitante e tutte le abitudini che lo frenano. Deve perciò tagliare tutte queste teste,
ovvero sconfiggere i suoi vizi, lasciare la zona sicura del conosciuto e addentrarsi nell'ignoto
vincendo così contro sé stesso e procedendo in una crescita senza fine.
Come si assicura
Non ci si può avvicinare all'alpinismo senza conoscere gli strumenti e i metodi di assicurazione e il
loro uso. La regola d'oro per chi pratica alpinismo è “se cadi muori”. Ora questa affermazione può
sembrare eccessiva o estremista, ma nasconde più di quanto dica. In montagna non si scherza, se
non sei all'altezza di fare qualcosa, o non sei nelle condizioni psicofisiche oppure non hai il
materiale adatto, non la fai; se sei fortunato non ti fai niente altrimenti può finire molto molto male.
Perciò ci deve essere assoluta concentrazione e attenzione. Ma a volte non basta, perciò come ci si
può proteggere? La catena di assicurazione si articola in più punti ed è costituita dal materiale che
lega gli scalatori fra di loro e con la parete. Gli alpinisti indossano degli imbraghi a cui legano una
corda di nylon (un tempo erano fatte di canapa) che li unisce; si ha così una cordata. Durante la
salita si possono incontrare clessidre, fessure o buchi dove mettere cordini, chiodi, friend, nutz,
tricam... oppure trovare del materiale lasciato in precedenza da altri alpinisti. Una volta messo o
trovato l'ancoraggio si infila un moschettone in cui si fa passare la corda e il primo di cordata può
avanzare con una certa sicurezza. Mentre il socio scala il secondo lo assicura usando uno dei vari
strumenti o metodi di assicurazione. Il più rudimentale e doloroso di tutti è la sicura a spalla (che
non viene più usata); altri sono il nodo mezzo barcaiolo, l'otto (uno strumento di metallo a forma di
otto in cui si fa scorrere la corda), il secchiello e altri. Prima che la corda sia completamente finita il
secondo avverte il primo, il quale deve cercare un buon posto dove “fare la sosta”; ovvero deve
trovare almeno due buoni punti a cui potersi ancorare e recuperare il socio sotto di lui. Il secondo
nella risalita deve raccogliere tutto il materiale lasciato dal compagno e poi passarglielo per
permettergli di progredire ancora oppure farsi dare il resto una volta arrivato in sosta e procedere lui
nell'ascensione.
Problemi fisici di chi scala
La mano e l'avambraccio formano un'unità funzionale e non dovrebbero essere considerati
separatamente. Quasi tutti i muscoli che muovono mani e dita hanno origine nell'avambraccio.
Le mani sono essenziali per molti sport, ma non sempre vengono utilizzate per prendere o stringere,
come si pensa di solito. Nella maggior parte degli sport i movimenti delle mani modificano il
bilanciamento e la posizione dell'atleta e quindi aiutano direttamente gli schemi motori del corpo.
Comunque, in nessun altro sport gli avambracci, le mani e le dita giocano un ruolo così importante
e vengono così maltrattati come accade nell'arrampicata. Gli scalatori sono gli unici atleti che
indirizzano l'allenamento verso l'incremento della forza delle dita. I vari metodi di allenamento usati
nell'arrampicata moderna hanno creato sindromi da sovraccarico e infortuni che fino a poco tempo
fa erano sconosciuti alla medicina sportiva. La mano e l'avambraccio sono costituite da 29 ossa
indipendenti, 38 muscoli e 3 nervi maggiori. I muscoli sono l'unità attiva, ma ci sono anche molte
strutture passive come tendini, legamenti, capsule articolari e pulegge: tutte dipendono dal cervello,
eseguono ordini o reagiscono in frazioni di secondo. In confronto a quella della scimmia, la mano
dell'uomo risulta di gran lunga più sofisticata. La differenza sostanziale risiede nel “pollice
opponibile”, che consente di compiere movimenti come scrivere, suonare uno strumento o pinzare
uno spigolo...
Le dita e gli avambracci
Infortuni e lesioni
Un dito, intrappolato in un buco o in una fessura durante una caduta, può rompersi. In generale, la
gravità in queste situazioni aumenta per la possibilità che siano coinvolte sia le capsule articolari
che le ossa. Spesso è necessario ricorrere alla chirurgia per riparare il danno. Le peggiori fratture
delle dita, verosimilmente, sono quelle causate da cadute di pietre, perché si accompagnano spesso
a lesioni dei tessuti molli, con rischio di infezione e a volte necessità di trattamento chirurgico
plastico. La caduta di pietre può essere causa anche di amputazione di dita o intere mani.
Teoricamente è possibile subire un'amputazione anche in un buco o una fessura, sebbene sia un caso
raro. Il danno più frequente a dita e mani si verifica tentando di aggrapparsi alla corda durante un
volo. Quando, durante un volo, si afferra la corda sotto di noi questa si può arrotolare attorno a una
mano o a un dito e formare un laccio; così quando la corda si tende, il laccio si serra. Un volo lungo
può stringere così forte da tagliar via un dito. In un caso fu amputato il pollice dello scalatore.
I danni più frequenti in arrampicata però non sono le fratture di mani o piedi, ma le lesioni alle
guaine tendinee e alle pulegge (fasce trasversali di tendine che tengono i tendini flessori attaccati
alle ossa) dei flessori delle dita. Il dito più colpito è l'anulare perché è il più debole. L'indice è
affiancato da un lato dal pollice e dal medio: queste due dita forti lo sostengono, così come accade
al dito medio. Sfortunatamente l'anulare ha un sostegno molto scarso dal mignolo. La posizione
spontanea della mano quando arcua un appiglio è in leggera intra-rotazione, il che favorisce una
maggiore distribuzione della forza su indice e medio. Tuttavia nei buchi per due o tre dita, o su
prese a mano aperta, l'anulare è sottoposto a grande sforzo. La combinazione della mancanza di
supporto, minor lunghezza e posizionamento in determinate prese lo rende il dito più vulnerabile.
Spesso nel momento dell'infortunio si è sentito uno schiocco o uno strappo. Gonfiore ed ematoma
nella prima falange dell'anulare, con difficoltà nel movimento e un dolore pungente, sono sintomi
che indicano un danno ad una delle componenti anatomiche del dito. È molto più frequente una
rottura parziale o completa della puleggia o della sua guaina, mentre una rottura del tendine flessore
è molto più rara. La diagnosi di questa lesione può rappresentare una certa difficoltà, perché a volte
il dolore è presente solo sotto sforzo e non a riposo. Molti climber non ne parlano a un medico e
continuano la loro attività aggravando la lesione. Subito dopo il trauma il medico vi dirà di steccare
il dito. Questo faciliterà la guarigione, anche perché le guaine tendinee sono importanti per portare
nutrizione all'area e l'immobilizzazione favorirà il flusso degli elementi necessari alla riparazione,
impedendo che la zona venga ulteriormente danneggiata. A volte un'ecografia può chiarire se la
puleggia ha subito uno stiramento o si è rotta completamente. C'è anche la possibilità che la lesione
alla puleggia sia accompagnata da altre lesioni: un dolore nella falange medi può indicare anche un
danno nell'inserzione del tendine flessore superficiale. Nelle rotture multiple di puleggia è
necessario l'intervento chirurgico, che consiste nella ricostruzione della fascia.
Quando si ruotano le dita all'interno di un buco, è molto più facile danneggiare un legamento
collaterale o una capsula articolare piuttosto che il tendine flessore. Tra uno strappo e una rottura
completa ci sono vari stadi intermedi, ma la diagnosi può essere fatta anche considerando i sintomi
e la perdita di funzionalità. L'intervento è necessario se il legamento collaterale si rompe nel punto
della sua intersezione all'osso. In un'estensione eccessiva del dito medio, che può verificarsi quando
durante un volo il dito rimane intrappolato in un buco, la capsula articolare può strappare un
frammento di osso dalla fascia flessoria del dito.
Gli stiramenti e gli strappi dei muscoli e dei tendini flessori dell'avambraccio sono molto più rari
delle lesioni alla pulegge e alle guaine tendinee delle dita. Uno stiramento è una lesione di piccola
entità delle fibre muscolari, quasi impossibile da evidenziare, mentre uno strappo è la rottura di un
muscolo che a volte si può apprezzare al tatto in forma di avvallamento. In quest'ultimo caso ogni
movimento della mano provoca un forte dolore all'avambraccio. La rottura di fibre muscolari
richiede un riposo minimo di tre settimane. Quando cessa il dolore si può iniziare un cauto
stretching e massaggio dell'arto (in fase acuta il massaggio va evitato). La rottura provoca la
formazione di ematoma nel tessuto; in questa sede si formerà del tessuto cicatriziale, che è meno
elastico di quello muscolare. Se la zona viene massaggiata precocemente è meno probabile che si
formi una cicatrice muscolare, che richiederebbe fisioterapia intensiva e stretching prolungato.
Sindromi da sovraccarico
Se non si raggiunge un equilibrio tra ciò che è ragionevole e ciò che è troppo stressante per il
proprio organismo, si soffrirà di una o più sindromi da sovraccarico. Con sindrome da sovraccarico
si intende una lesione che si instaura lentamente perché un'esagerata attività ha creato tanti piccoli
traumi che, alla fine, sfociano in una lesione importante. Generalmente queste piccole lesioni si
accumulano nei tendini, nelle guaine tendinee e nelle capsule articolari, perché queste strutture
connettive sono meno sviluppate dei muscoli che vi scaricano la tensione. Se uno stress continua a
colpire una zona affetta da una di queste sindromi il risultato può essere un danno irreversibile.
D'altra parte, molte sindromi da sovraccarico possono essere trattate e guarite se scoperte presto e
affrontate con la terapia adatta.
Tenovaginiti. È il termine corretto per della cosiddetta tendinite. Tecnicamente la tendinite è
l'infiammazione del tendine, mentre la tenovaginite (più comune) è l'infiammazione del tendine e
della sue guaina. Quando uno stress è diretto contro un tendine, finisce anche su guaine e pulegge;
una tensione eccessiva sul tendine porterà a un danno anche alla guaina, la cui infiammazione
intrappola il tendine, impedendone un corretto scivolamento e aggravandone l'irritazione. Per
reazione l'organismo produrrà più fibrina, la quale a sua volta aumenta l'infiammazione, causando
inoltre aderenze che portano a un restringimento della guaina. La conseguenza a lungo termine è un
maggior attrito di scorrimento del tendine e una maggiore facilità all'infiammazione: il peggior
circolo vizioso per uno scalatore! Dolore ed irritazione costanti sono i caratteri distintivi della
tenovaginite. Ogni movimento o contatto del tendine provocherà un dolore sordo o pungente che si
irradia lungo il tendine. La zona infiammata del tendine e della guaina si gonfia e diventa molto
sensibile alla compressione. A volte la cute stessa sopra la lesione mostra segni dell'infiammazione.
La sede più comune di tenovaginite negli atleti è l'avambraccio, sia per i muscoli flessori che per gli
estensori; gli arrampicatori, che concentrano lo sforzo soprattutto sulle mani, ne soffrono in
particolare alle dita, soprattutto all'anulare e al medio. Un paragone con le condizioni che portano
alla tenovaginite può essere quello coi cavi del freno in una bicicletta; analogamente a questi, i
tendini sopportano il massimo stress, con rischio di rottura, nei punti in cui si piegano a 90°. Nella
posizione arcuata si verifica proprio questa situazione. Nei mesi invernali, allenandosi al chiuso e
scaldandosi al freddo, si verificano le condizioni migliori perché una tendinite cominci. Il
bouldering, nel quale l'arcuata è frequentissima, è particolarmente a rischio. I sintomi di una
tenovaginite e di rottura di puleggia possono assomigliarsi, quindi la diagnosi di rottura di puleggia
andrebbe esclusa per prima sottoponendosi semplicemente a un'ecografia del dito. Qualche volta il
quadro può essere ancor più confuso perché rottura e tenovaginite possono coesistere. Tuttavia, di
solito la rottura della puleggia avviene quando un piede scivola da un appoggio o un dito da un
buco; in questo modo un grande carico viene improvvisamente concentrato sul tendine. Il suono a
scoppio che si ascolta a volte è tipico della rottura della puleggia. Una tenovaginite può iniziare
semplicemente ripetendo un bloccaggio su una presa. La tenovaginite delle dita è tipica
dell'arrampicata, ma quella dell'avambraccio può associarsi anche ad altre attività, sia atletiche che
non (come l'uso di una tastiera). Se la tenovaginite è presente da almeno due settimane si può
avvertire sulla sede un suono come uno scricchiolio. Se l'infiammazione arriva a questo punto, ci si
deve rivolgere a un medico, per evitare che diventi cronica. Un decorso sfavorevole di tenovaginite
può limitare le mani al tal punto da cambiare la qualità della vita di ogni giorno. La terapia di una
tenovaginite comincia con l'immobilizzazione del dito o del polso per una o due settimane, seguita
da una o due settimane di attività non traumatica. Il processo di guarigione può essere accelerato dal
ghiaccio, dai farmaci antiinfiammatori. Però la scomparsa del dolore non significa che la guarigione
è completa, ma solo che la zona non è più infiammata; ci vuole ancora tempo per la guarigione delle
micro-lesioni che hanno portato all'infiammazione.
Dito a scatto. Il fenomeno del “dito a scatto” è il nome dato a una situazione che ha molte
manifestazioni ma un solo elemento caratteristico: un dito si blocca in un certo punto del
movimento, poi scatta come il grilletto di un'arma. È causato da un ispessimento nodulare del
tendine flessore in un punto. L'ispessimento è dovuto a un sovraccarico cronico o a numerose
piccole lesioni che sono guarite con la formazione di eccessivo tessuto cicatriziale. Anche una
lesione grave del tendine può guarire con una cicatrice esuberante, oppure la guaina tendinea può
gonfiarsi in una tenovaginite e strozzare il tendine. In ogni caso, quando questa parte ingrossata del
tendine cerca di scorrere attraverso la guaina tendinea o la puleggia, si blocca. Nei casi più gravi
non è possibile completare il movimento. La zona di solito è dolente, perché la guaina tendinea è
infiammata. Un massaggio vigoroso può far sparire il “nodo”, ma il più delle volte è necessaria
un'infiltrazione di steroidi nella guaina tendinea, che riduce l'ispessimento. L'infiltrazione deve
essere praticata con molta attenzione, perché va evitata la puntura del tendine, che potrebbe venir
danneggiato. Se l'iniezione non ha successo, è indicato il trattamento chirurgico della lesione.
Gonfiore delle articolazioni delle dita. Circa il 40% degli arrampicatori ha ciò che ogni persona
normale potrebbe definire delle “dita grosse”, pur avendo praticato per brevi periodi. Questo spesso
accade per un adattamento fisiologico della capsula articolare dei legamenti collaterali allo sforzo,
ma può anche essere il sintomo di una sindrome da sovraccarico. Una sindrome da sovraccarico può
essere imputata all'uso di appigli molto piccoli, usati arcuando le dita. In questa situazione
l'articolazione interfalangea prossimale è flessa quasi al massimo e quella distale è molto estesa. Di
solito lo sforzo articolare si distribuisce su tutta la cartilagine, mentre nella posizione arcuata ne
viene sollecitata solo una piccola parte, che deve sobbarcarsi quindi un grande sforzo. Nel tempo
questa compressione della cartilagine ne riduce la capacità di assorbire le sollecitazioni. Si formano
delle micro-lesioni con produzione di enzimi che disturbano il tessuto sinoviale; per reazione
fisiologica ne viene prodotto ancora di più, che va a sua volta a comprimere la cartilagine: un vero
circolo vizioso. L'aumento persistente di liquido sinoviale è visibile sotto forma di ingrossamento
delle articolazioni delle dita e si ripercuote sulla capacità di movimento, quindi sulla flessione ed
estensione. Questa limitazione si nota di più al mattino, nelle giornate che seguono un intenso
allenamento o un'arrampicata su roccia, perché il riposo notturno favorisce la produzione di liquido
articolare. Il gonfiore comprime inoltre le piccole terminazioni nervose e causa un dolore sordo.
Molti climbers presentano questa situazione da molto tempo e non avvertono quasi più dolore, forse
per un adattamento percettivo o un danno cronico ai nervi periferici. Chi arrampica tutto l'anno
ininterrottamente può manifestare anche una certa instabilità delle articolazioni delle dita, dovuta a
micro-traumi dei legamenti collaterali, spesso causati da sollecitazioni laterali tipiche della scalata
in fessura. Se questa situazione si accompagna all'aumento di liquido sinoviale, l'instabilità può
peggiorare. Come per le altre sindromi da sovraccarico, anche questa richiederebbe una sospensione
immediata dell'attività. Il riscaldamento e lo stretching delle dita con esercizi adatti sono utili nella
prevenzione.
Sindrome del compartimento dei muscoli flessori dell'avambraccio. Un dolore legato alla tensione
muscolare quando si scala al limite è un dato di fatto. Se però dovesse essere molto intenso e non
diminuire (anzi, aumentare) dopo uno o due giorni di riposo, si potrebbe soffrire della sindrome del
compartimento dei muscoli flessori. Il dolore assomiglia alla sensazione che l'avambraccio stia per
scoppiare, come quando si è “ghisati”; insorge molto presto durante l'attività e a un livello
d'impegno molto basso. È causato da un aumento di volume del muscolo senza che ci sia stato un
corrispondente aumento delle dimensioni della fascia lata (la membrana che riveste tutti i muscoli).
Quando un muscolo s'ingrandisce ha bisogno di trovare spazio: se la fascia non è cresciuta
abbastanza da permetterglielo, il muscolo, con le vene e le arterie, vi si trova intrappolato. Quando
l'attività del braccio aumenta, l'organismo cerca di inviare ai suoi muscoli più sangue, ma questo
fatica ad arrivarci perché i muscoli gonfi comprimono i vasi sanguini: il muscolo crea acido lattico
ma il sangue non riesce a portarselo via. Il dolore può durare per giorni. La sindrome del
compartimento si presenta quando l'allenamento ha fatto crescere i muscoli (ipertrofia) più
rapidamente della fascia che li riveste. La diagnosi può essere difficile e, quando c'è un ragionevole
sospetto, può essere confermata dalla misurazione della pressione del compartimento durante
l'attività sportiva. Per farlo viene inserito un piccolo catetere nel muscolo in anestesia locale, e si
misura la pressione durante e dopo l'attività. Se non torna alla normalità dopo un certo periodo di
riposo la diagnosi è confermata. La terapia consiste nello stretching, nell'applicazione di ghiaccio,
nel massaggio e in bagni caldi e freddi in rapida successione. Se tutto fallisce, si fa un intervento.
Bibliografia
Testi consultati:
 Testo di scienze in adozione: ”Geografia Generale La Terra e l'Universo” di Cristina
Pignocchino Feyles ed Ivo Neviani

 Testo di filosofia in adozione: “La comunicazione filosofica 3” di Domenico Massaro
(Pravia editore)
 “Rock Warrior's Way” di Arno Ilgner (Versante Sud editore)
 “Un Movimento di Troppo” di Thomas Hochholzer e Volker Schoeffl (Versante Sud editore)