Il ciclo cellulare
Anche le cellule, come qualunque altro organismo vivente, è in grado di riprodursi, ma la riproduzione cellulare è un po’ diversa da quella di un organismo. Quando una cellula si riproduce, infatti, non dà
origine ad una cellula figlia per poi continuare la propria vita, come accade nei pluricellulari: al momento
della divisione cellulare si formano due nuove cellule figlie, mentre la cellula madre non c’è più. Visto in
questi termini, il processo di divisione cellulare costituisce una sorta di “ringiovanimento” della cellula stessa: essa cessa di esistere ed al suo posto due nuove cellule iniziano la loro esistenza. Questo però non deve
avvenire casualmente perché la riproduzione delle cellule è sia il mezzo mediante il quale l’organismo cresce
e si sviluppa, sia il meccanismo che permette di sostituire e riparare le cellule danneggiate o deteriorate; di
conseguenza la moltiplicazione cellulare deve essere coordinata con quella delle altre cellule, in modo da
permettere all’organismo di crescere armonicamente e svolgere correttamente le proprie funzioni. Vi sono
cellule che praticamente non si moltiplicano mai: lo fanno solo nell’embrione poi perdono quasi definitivamente la capacità di riprodursi (sono cellule perenni, come i neuroni o le cellule cardiache); altre che non si
moltiplicano abitualmente, ma possono farlo se c’è necessità di rimpiazzare altre cellule (sono cellule stabili,
come gli epatociti o i fibroblasti); infine ve ne sono di quelle che si moltiplicano sempre: si tratta di cellule
sottoposte a forte usura e quindi devono essere rimpiazzate di frequente (sono cellule labili, come le cellule
dell’epidermide o gli enterociti).
Il periodo di tempo che intercorre tra due divisioni cellulari consecutive viene detto ciclo cellulare.
Esso, come abbiamo visto, coincide con l’arco di esistenza della cellula e può essere suddiviso in quattro fasi
distinte. L’insieme delle prime tra fasi viene detto anche interfase1.
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una prima fase chiamata G1;
una seconda fase detta S;
una terza fase chiamata G2;
un’ultima fase detta M.
La fase G1 presenta all’inizio un momento di intensa attività metabolica perché la cellula,
proveniente da una divisione appena terminata, ha
bisogno di crescere. La crescita consiste sia nella
produzione di nuove biomolecole, sia nella formazione di nuovi organuli cellulari. Successivamente la cellula inizia a svolgere i propri compiti.
Da studi eseguiti su diversi tipi di cellule è emerso che il passaggio tra G1 e S rappresenta una sorta di interruttore che fa avviare o meno la divisione cellulare: se una cellula oltrepassa un certo punto di G1,
detto punto di non ritorno o ODP (origin decision point), è qui che si decide la diversa lunghezza del ciclo:
se i meccanismi biomolecolari consentono il superamento di ODP si passa alle fasi successive fino al completamento di tutto il ciclo, altrimenti la cellula rimane in un periodo stazionario al quale si dà il nome di G0.
Per spingere una cellula ad abbandonare G0 e proseguire il ciclo sono necessari speciali segnali provenienti
dalle cellule vicine o da parti diverse dell’organismo, detti fattori di crescita cellulare o citochine.
La fase S consiste nella duplicazione del DNA. È una fase estremamente importante poiché garantisce che le due cellule figlie ricevano una copia completa dell’intero patrimonio genetico.
1. Questo perché i primi osservatori, vedendo le cellule in mitosi, le descrivevano come in fase di divisione; di conseguenze le cellule che non si dividevano si trovavano tra una fase di divisione e l’altra, in interfase appunto.
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La fase G2 è molto breve e rappresenta il momento in cui la cellula si organizza per affrontare la fase
M. In questo periodo la cellula è apparentemente inattiva, in realtà al suo interno vengono approntate le molecole (soprattutto enzimi) e le strutture necessarie per il periodo successivo.
La fase M costituisce la vera e propria divisione cellulare. Nei procarioti, in cui abbiamo una sola
molecola di DNA, ciò avviene abbastanza semplicemente attraverso la scissione. Negli eucarioti, per la presenza dei numerosi cromosomi, questa non è praticabile e si ricorre quindi alla mitosi, che assicura un’equa
spartizione dei cromosomi.
La regolazione del ciclo
Il ciclo cellulare è regolato da complessi sistemi biochimici e molecolari basati sulla concentrazione
di alcune proteine e sull’attività di determinati enzimi. Questi meccanismi, detti nel loro complesso orologi
molecolari, controllano la progressione della cellula attraverso le varie fasi del ciclo in modo che i diversi
eventi possano svolgersi in maniera corretta e coordinata.
La base fondamentale dei meccanismi di regolazione è costituita dalle cicline, proteine di cui fino ad
oggi ne sono state identificate sei, ciascuna contrassegnata con una lettera e prodotte secondo una precisa sequenza temporale. La diversa concentrazione delle cicline influisce sull’attività di particolari enzimi chiamati
chinasi ciclina-dipendente o Cdk. Questi enzimi funzionano come degli interruttori, fosforilando particolari
proteine le quali, così trasformate, danno il via alle varie fasi del ciclo. In pratica accade che, nel corso del
tempo, le cicline si accumulano o vengono rimosse determinando di conseguenza l’attivazione o l’inibizione
delle Cdk . Oltre alle cicline vi sono anche altre molecole con funzione regolatrice, soprattutto di inibizione
delle Cdk, per cui la decisione se progredire o meno lungo il ciclo cellulare è il risultato della sommatoria di
molti tipi di segnali. La transizione tra un periodo e l’altro del ciclo è dovuta alla comparsa di una nuova ciclina ed alla scomparsa di quella precedente, ciò fa sì che il ciclo sia unidirezionale. I complessi ciclina-Cdk
funzionano da “posti di blocco”, dove avviene il controllo dell’avanzamento del ciclo cellulare per stabilire
se si possa passare o no alla fase successiva. In particolare, i complessi ciclina-Cdk della fase G1 hanno ruolo
importante nel superamento del punto di non ritorno. Essi, attraverso la fosforilazione di una proteina chiave
della regolazione cellulare, consentono l’avvio della duplicazione del DNA determinando così la fine di G1.
La proteina chiave è la proteina del retinoblastoma (Rb) perché il suo ruolo è stato individuato studiando
questa particolare forma di tumore. Il gene che produce Rb funziona da oncosoppressore (vedi più avanti, i
tumori) la cui mancanza spinge la cellula ad accorciare enormemente G1 per duplicarsi forsennatamente.
La duplicazione del DNA
Affinché le informazioni possono venir trasmesse da una cellula all’altra è necessario che prima della riproduzione cellulare il DNA si duplichi.
Sin dalla scoperta della struttura del DNA fu chiaro che questa molecola avrebbe potuto agevolmente
duplicarsi facendo in modo che ogni filamento di nucleotidi che la costituisce funga da stampo per la costruzione di un nuovo filamento complementare. Ma in che modo? Furono ipotizzati tre diversi modelli:
 Il modello conservativo, secondo il quale le due molecole di DNA che si ottengono al
termine della duplicazione sono costituite una da entrambi i filamenti di partenza e l’altra
da due filamenti completamente nuovi.
 Il modello semiconservativo, secondo il quale le due molecole di DNA sono costituite da
un filamento vecchio ed un filamento nuovo ciascuna.
 Il modello dispersivo, secondo il quale le due molecole di DNA sono costituite da segmenti vecchi alternati a segmenti nuovi.
Per capire quale dei tre modelli è quello corretto è necessario rifarsi ad un classico esperimento eseguito nel 1957 da Matthew Meselson e Franklin Stahl sfruttando un’importante proprietà delle soluzioni di
cloruro di cesio (CsCl). Centrifugando a lungo una soluzione concentrata di CsCl si ottiene un gradiente di
densità: il cloruro di cesio tende a depositarsi al fondo della provetta in maniera non omogenea, di conse-
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guenza la densità della soluzione non è uniforme ma aumenta dall’alto verso il basso. Se in questa soluzione
si immerge una qualunque sostanza, essa si stratificherà ad un’altezza corrispondente alla propria densità. Infatti, secondo il principio di Archimede, un corpo immerso in un liquido affonda se la sua densità è superiore
a quella del liquido in cui si trova e galleggia se è inferiore. Così, in un gradiente di densità, una sostanza che
vi sia immersa affonderà fino a fermarsi nel punto in cui la sua densità sarà identica a quella del liquido.
Meselson e Stahl presero dunque alcune cellule e le
fecero riprodurre in un ambiente in cui l’azoto normale
(14N) era stato sostituito da un suo isotopo più pesante (15N).
Durante la fase S, l’incorporazione dell’15N nel nuovo DNA
dà origine a molecole più pesanti, che nel CsCl centrifugato
si stratificano più in basso rispetto al DNA costituito da 14N.
Successivamente le cellule con il DNA pesante furono trasferite in un ambiente con azoto normale e indotte a riprodursi. A tempi prestabiliti, secondo la durata del ciclo cellulare, furono prelevati campioni di cellule dai quali fu estratto il DNA e fatto stratificare in CsCl centrifugato. Dopo un
tempo pari ad un ciclo cellulare il DNA estratto si stratificava ad un livello intermedio tra quello del DNA con 14N e
quello del DNA con 15N; dopo due generazioni furono riscontrate due bande di stratificazione: una a livello intermedio ed un’altra corrispondente al DNA con 14N; nelle generazioni successive la quantità di DNA a densità intermedia
rimaneva stabile, mentre quella di DNA con 14N aumentava
progressivamente.
Dai risultati ottenuti possiamo subito scartare il modello conservativo, altrimenti avremmo avuto sin
dall’inizio due bande di stratificazione: una in corrispondenza dell’14N (data dalle molecole costituite da filamenti vecchi) ed un’altra in corrispondenza dell’15N (dovuta alle molecole costituite da filamenti nuovi). Il
modello dispersivo è a sua volta da scartare perché attraverso di esso non potrebbe più ricomparire, nei cicli
successivi, una banda di stratificazione in corrispondenza dell’14
N. Rimane quindi per esclusione il modello semiconservativo.
Il DNA si duplica, quindi, seguendo il modello semiconservativo e ciò fa sì che al termine si ottengano due molecole identiche costituite ciascuna da un filamento vecchio ed un filamento nuovo: ciascun filamento fa da stampo per la costruzione di un altro filamento ad esso complementare. La duplicazione avviene in due tappe successive:
1. la doppia elica del DNA, con l’aiuto di specifici enzimi, tra cui le DNA elicasi, si despiralizza e si rompono i legami a idrogeno tra le basi complementari formando così una struttura a
Y detta forcella di replicazione2;
2. nuovi nucleotidi si uniscono tra loro secondo una sequenza determinata dalla complementarietà con la successione delle basi nel filamento che fa da stampo.
Per eseguire il compito è necessaria un’intera squadra di enzimi, tra cui il più importante è la DNA
polimerasi. La duplicazione inizia in un ben preciso punto della molecola del DNA, detto punto di origine
della replicazione, caratterizzato da una sequenza di nucleotidi che contengono molte basi AT che, possedendo due soli legami a idrogeno, si aprono con relativa facilità. Nei procarioti esiste un solo punto di origine, negli eucarioti, data l’enorme quantità di DNA presente, se ne trovano da 20 a 80. Il meccanismo di duplicazione è abbastanza complicato: innanzitutto il DNA deve interagire con un enorme complesso proteico,
detto complesso di riconoscimento dell’origine (ORC: Origin Recognizing Complex). Tale complesso si
forma in seguito all’unione di diverse proteine e serve alle elicasi per separare i filamenti del DNA mediante
rottura dei legami idrogeno tra le basi azotate. A mantenere separati i filamenti intervengono speciali proteine dette SSB (single strand DNA binding proteins) che impediscono il riformarsi dei legami a idrogeno tra
basi complementari. A partire da questo punto entrambi i filamenti si duplicano formando due nuove mole2. In realtà si parla più propriamente di bolla di replicazione perché le forcelle sono due, una di seguito all’altra e con
direzione invertita.
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cole di DNA. Dopo l‘apertura del DNA interviene la DNA polimerasi α, detta anche primasi, un enzima che
sintetizza il primer, un piccolo frammento di RNA lungo una decina di nucleotidi. Questo perché la DNA
polimerasi δ, il tipo di polimerasi che duplica il DNA negli eucarioti, è capace solo di allungare un filamento
nucleotidico preesistente e non di iniziarne uno da zero3. C’è un’altra particolarità della DNA polimerasi δ:
aggiunge nucleotidi solo all’estremità 3’ della sequenza. Di conseguenza il filamento di DNA che va in direzione 5’ 3’ (la direzione è riferita al frammento di DNA da sintetizzare e non a quello d’origine) viene
duplicato senza interruzioni e viene detto filamento veloce (o filamento leading); l’altro filamento di DNA,
che ha direzione contraria, viene invece duplicato in modo discontinuo ed a ritroso, per questo viene detto
filamento lento (o filamento lagging). Infatti, poiché è il DNA a spostarsi e non la DNA polimerasi, accade
che con il proseguire della duplicazione l’estremità 3’ del filamento lento si allontana sempre di più dalla
forcella di replicazione; interviene però un’altra DNA polimerasi δ che duplica il tratto fino a tornare al
complesso di replicazione. Si formano così piccoli tratti di DNA di nuova sintesi, detti frammenti di Okazaki dal nome del biologo giapponese Reiji Okazaki che li ha descritti per primo. Ognuno di questi frammenti ha ovviamente bisogno di un proprio primer. La DNA polimerasi δ non è in grado di legare insieme i
frammenti di Okazaki, per cui è necessario un nuovo enzima, la DNA ligasi, che provvede a formare una sequenza unica mentre i primer vengono sostituiti con nuovo DNA.
Lo svolgimento della doppia elica da parte dell’elicasi porta il DNA ad attorcigliarsi notevolmente a
valle e a formare delle anse che possono causare problemi per l’intero processo di replicazione. Per evitare
questi avvolgimenti indesiderati, intervengono degli enzimi chiamati topoisomerasi che dapprima rompono
una delle due catene del DNA in modo che la molecola posso districarsi ruotando intorno al punto di rottura,
successivamente riuniscono le estremità interrotte.
Il complesso meccanismo della duplicazione del DNA è straordinariamente preciso, ma non è perfetto. Innanzitutto la DNA polimerasi δ compie un certo numero di errori (uno ogni 105 basi duplicate; per
quanto basso si produrrebbero 60 000 errori ogni volta che una cellula umana si divide). Per fortuna le cellule
dispongono di almeno meccanismi di riparazione (proof reading) che riducono il tasso di errore a circa una
base ogni 109 duplicate. I meccanismi di riparazione consistono: correzione degli errori a mano a mano che
la DNA polimerasi li compie; esame del DNA subito dopo che si è duplicato e correzione di eventuali appaiamenti sbagliati; eliminazione delle basi anomale e loro sostituzione con basi normali.
Invecchiamento e morte delle cellule
Fino all’inizio degli anni sessanta si riteneva che le cellule fossero pressoché immortali: poiché ogni
cellula “rinasce” al termine del proprio ciclo cellulare, si pensava di conseguenza che esse potessero morire
3. Oltre alla DNA polimerasi δ e α, ci sono anche le DNA polimerasi β, ε e η che intervengono per riparare il DNA.
Un’altra DNA polimerasi, detta γ, replica il DNA nei mitocondri. Nei procarioti il ruolo della polimerasi δ è svolto
dalla DNA polimerasi III, i primer, invece, vengono sintetizzati dalla DNA polimerasi I.
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solo in conseguenza di eventi eccezionali. Poi si scoprì che le cellule si comportano come tutti gli altri organismi viventi: nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Fu allora chiaro che nella cellula dovevano esistere strutture molecolari in grado di misurare il passare del tempo; all’inizio si pensò che potesse trattarsi semplicemente dell’accumulo di una certa sostanza, come una sorta di clessidra, poi l’attenzione fu rivolta ai cosiddetti radicali liberi o ROS (reactive oxygen species) che si formano all’interno dei mitocondri a partire
dall’ossigeno, utilizzato per la respirazione cellulare. Essendo molto elettronegativo, una parte di ossigeno
(su 100 molecole di ossigeno solo una andrà a produrre ROS) ruba elettroni ad altri formando radicali liberi, ovvero atomi o molecole molto reattive che possiedono un elettrone spaiato. Questi radicali reagiscono
con qualsiasi altra molecola con cui vengono a contatto per appropriarsi di un loro elettrone e riformare così
la coppia; a loro volta, le molecole a cui i radicali liberi hanno sottratto l’elettrone diventano radicali e vanno
anch’essi alla ricerca di un elettrone, innescando così un meccanismo a catena che può essere arrestato solo
dalla presenza di antiossidanti (sostanze donatrici di elettroni). In questo continuo scambio di elettroni le molecole coinvolte subiscono danni e diventano inutilizzabili; l’azione distruttiva dei radicali liberi è indirizzata
soprattutto sui lipidi delle membrane, sulle proteine e sul DNA.
Nel 1956 Denham Harman ipotizzò che anche l’invecchiamento dell’organismo –non solo quello
della cellula – fosse causato dall’azione dei radicali liberi. Secondo questa ipotesi, con il passare degli anni, i
danni provocati dai radicali liberi aumenterebbero notevolmente oltrepassando le capacità di riparazione
dell’organismo e determinando così l’invecchiamento. A tutt’oggi non è stata ancora dimostrata la validità di
questa ipotesi, anche se vi sono studi che sembrano suggerire che l’assunzione di antiossidanti (soprattutto i
polifenoli contenuti nel cavolo, nelle carote, nei mirtilli, nelle albicocche e in genere in tutta la frutta e la
verdura colorata) riduce l’invecchiamento cellulare.
In ogni caso, quando il processo di invecchiamento impedisce alla cellula di svolgere il suo normale
lavoro, si avvia il processo di mitosi che forma due nuove cellule e si ricomincia daccapo. Si è però scoperto
che oltre un certo numero di divisioni (detto limite di Hayflick, che varia da cellula a cellula) non si può andare: arrivati al numero massimo di mitosi consentite si attiva un meccanismo che possiamo definire di “suicidio programmato”, detto apoptosi (dalla parola greca con la quale si indica la caduta delle foglie dagli alberi). L’apoptosi si realizza con la distruzione del nucleo e del citoplasma in seguito al rilascio di enzimi
contenuti nei lisosomi. Successivamente, la cellula si suddivide in numerosi frammenti che sono rapidamente
fagocitati e digeriti dai macrofagi. L’apoptosi è necessaria non solo per rimpiazzare cellule vecchie con altre
nuove (il cosiddetto turn-over cellulare), ma serve anche per modellare l’organismo sia nella fase embrionale
che nell’età adulta. Essa è infatti responsabile, per esempio, dell’eliminazione delle membrane interdigitali
durante lo sviluppo fetale della mano, così come della plasticità del tessuto nervoso, eliminando i neuroni
che hanno perso le loro connessioni e sono diventati inservibili.
Il conteggio del numero di mitosi si basa sul fatto che ad ogni ciclo di duplicazione si perde un po’
di DNA. Ciò accade perché il filamento lento possiede più primer che, al termine della duplicazione, vengono sostituiti da DNA, ma non tutti: il primer terminale non può essere sostituito perché manca un’estremità
3’ da prolungare. Rimane allora un piccolo tratto di DNA a catena singola che viene tagliato via e il cromosoma si accorcia. Per capire meglio immaginiamo di ricopiare più volte una frase saltando ogni volta le prime tre lettere:
nel mezzo del cammin di nostra vita
mezzo del cammin di nostra vita
zo del cammin di nostra vita
el cammin di nostra vita
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ammin di nostra vita
in di nostra vita
Il risultato sarà che perderemo progressivamente il significato della frase. Lo stesso accade nelle cellule: ad
ogni divisione le estremità dei cromosomi si accorciano sempre di più. Ma le estremità dei cromosomi,
chiamate telomeri, contengono sequenze di DNA prive di significato e così, ogni volta si perde un pezzetto
che non contiene informazioni essenziali. È come se in testa al verso di Dante aggiungessimo una serie senza
significato di lettere ripetute:
lkasjgasuhyqwatnks nel mezzo del cammin di nostra vita
sjgasuhyqwatnks nel mezzo del cammin di nostra vita
asuhyqwatnks nel mezzo del cammin di nostra vita
hyqwatnks nel mezzo del cammin di nostra vita
watnks nel mezzo del cammin di nostra vita
nks nel mezzo del cammin di nostra vita
In questo modo la frase si preserva integra molte volte, a seconda di quante lettere abbiamo aggiunto. Lo
stesso avviene nelle cellule, dove i telomeri rappresentano una sorta di orologio che regola il numero massimo di duplicazioni del DNA, e quindi di mitosi. Quando la cellula esaurisce i telomeri si attivano i geni
dell’apoptosi e muore. C’è però un problema che riguarda i gameti: che cosa “ricarica” i telomeri dei cromosomi in queste cellule? Infatti, se ciò non avvenisse, succederebbe che, di generazione in generazione,
avremmo telomeri sempre più corti e una vita cellulare sempre più breve. Ma le cellule germinali, pur derivando da cellule che si sono divise numerose volte, hanno telomeri normalmente lunghi, segno che essi vengono ricostituiti in qualche modo. Il meccanismo che permette il riallungamento del telomero sfrutta le proprietà dell’enzima telomerasi. Questo enzima, che funziona aggiungendo sequenze casuali all’estremità dei
cromosomi, non è attivo nelle cellule somatiche, che quindi muoiono dopo un certo numero di mitosi. Si è
inoltre scoperto che le cellule tumorali sono in grado di attivare la telomerasi, divenendo pressoché immortali. Supponiamo a questo punto di poter attivare o disattivare artificialmente la telomerasi nelle cellule, ad
esempio con un farmaco che induce la produzione dell’enzima e con un altro che la inibisce. Attivandola si
potrebbero curare quelle patologie che originano da una morte precoce delle cellule, come accade nelle malattie degenerative; potendo invece disattivarla potremmo forse curare i tumori.
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