Quaderno n. 109

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QUADERNI
del
Consiglio Superiore della Magistratura
CORSI DI FORMAZIONE E DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE
PER I MAGISTRATI
IL PROCESSO
CIVILE MINORILE
FRASCATI, 22-24 giugno 1995, 9-11 giugno 1996,
9-11 giugno 1997, 18-20 giugno 1998
ROMA, 29 settembre-3 ottobre 1998, 13-17 ottobre 1997
QUADERNI DEL
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Anno 2000, Numero 109
Pubblicazione interna per l’Ordine giudiziario
curata dalla Nona commissione tirocinio
e formazione professionale
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
IL PROCESSO CIVILE MINORILE
CAPITOLO I
IL PROCESSO CIVILE DAVANTI AL TRIBUNALE
PER I MINORENNI
Giuseppe TRISORIO LIUZZI – L’attuazione del principio
del contraddittorio e del diritto di difesa nel processo civile minorile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
13
Elisa CECCARELLI – Il processo civile minorile . . . . . . . . .
49
Cesare CASTELLANI – Il processo civile minorile . . . . . . . .
81
Giovanna MARCAZZAN – Ripartizione delle competenze
tra Tribunale per i Minorenni, Tribunale Ordinario e Giudice Tutelare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
103
Alfio FINOCCHIARO – Il giudizio per la dichiarazione giudiziale per la genitura naturale. Rito applicabile. L’istruttoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
119
Maria Lidia DE LUCA – L’audizione del minore nel processo civile come diritto e come strumento probatorio . . . . .
165
Anna Maria DELL’ANTONIO – L’ascolto del minore nei procedimenti civili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
185
5
Franco OCCHIOGROSSO – Il ruolo del P.M. nei procedimenti civili minorili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
195
Paola DE BENEDETTI – Il ruolo dell’avvocato nei procedimenti civili minorili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
275
CAPITOLO II
I SERVIZI SOCIALI
DENTRO E FUORI DEL PROCESSO
Francesco MAZZA GALANTI – Giudice minorile e servizi
sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
283
Antonio SCARPULLA – I rapporti con i servizi amministrativi territoriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
297
Paolo VERCELLONE – I rapporti del Tribunale Ordinario,
del Tribunale per i Minorenni e del Giudice Tutelare con il
mondo dei Servizi Sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
313
CAPITOLO III
LA TUTELA INTERNAZIONALE
DEI DIRITTI DEL MINORE
Giuseppe SALMÈ – Il minore nelle norme di diritto internazionale privato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
335
Andrea BONOMI – Provvedimenti concernenti minori e
diritto internazionale privato. Il problema della legge applicabile al minore straniero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
347
Francesco MALAGNINO – Le nuove competenze dell’Autorità Centrale previste dalla L. 64/1994 . . . . . . . . . . . . . . . . .
405
Lamberto SACCHETTI – Protezione del minore e diritto internazionale. In particolare: la sottrazione del minore . . . .
429
Oscar KOVERECH – Esperienze e pratica delle Autorità Centrali convenzionali in materia di sottrazione dei minori . . .
441
6
CAPITOLO IV
L’ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI
Elisa CECCARELLI – L’esecuzione dei provvedimenti relativi alla persona del minore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
475
Ignazio PATRONE – Strategie esecutive degli obblighi di
mantenimento del minore tra tutela civile e tutela penale . .
497
CAPITOLO V
IL GIUDICE TUTELARE
Piercarlo PAZÉ – Le tutele dei minori e degli interdetti e la
promozione dei nuovi diritti degli incapaci . . . . . . . . . . . .
519
Giovanna MARCAZZAN – Gli interventi di volontaria giurisdizione di competenza del Giudice Tutelare nel rettore dei
rapporti patrimoniali dell’incapace . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
551
Antonino Luigi SCARPULLA – Le altre competenze del Giudice Tutelare previste nelle leggi speciali . . . . . . . . . . . . . .
565
CAPITOLO VI
ADOZIONE E AFFIDAMENTO
Gustavo SERGIO – Consulenze, relazioni tecniche, apporti
dei componenti privati in tema di affidamento e di adozione dei minori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
577
Marco LAGAZZI – Consulenze, relazioni tecniche, apporti
dei componenti privati in tema di affidamento e di adozione
dei minori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
597
Maria Grazia RUGGIANO – L’affidamento consensuale e l’inserimento del minore negli istituti . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
611
Lamberto SACCHETTI – Affidamento preadottivo, diritto e
metodologia, questioni di varia natura . . . . . . . . . . . . . . .
629
7
Carmela CAVALLO – Adozione e affidamento “dietro le
quinte” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
643
Francesco VILLA – Adozione e affidamento “dietro le
quinte” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
679
Anna Maria DELL’ANTONIO – Gli adottati stranieri . . . . . .
687
Paola RONFANI – Adozione e affidamento nella prospettiva
antropologica e sociologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
707
Marisa MALAGOLI TOGLIATTI – I minori e le famiglie
multiproblematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
721
CAPITOLO VII
MINORE E MASS MEDIA
Gustavo SERGIO – Libertà d’informazione e tutela dei soggetti deboli. La tutela del minore, l’attuazione del diritto di
uguaglianza, la garanzia della dignità personale . . . . . . . . .
735
APPENDICE
Risposta del C.S.M. al quesito circa l’esistenza di competenze civili della Sezione di Polizia Giudiziaria della Procura presso la Pretura circondariale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
763
Delibera dell’Assemblea Plenaria del C.S.M. 20 maggio 1998
sui componenti privati del Tribunale per i Minorenni . . . .
768
8
PREMESSA
Vengono raccolte in questo volume dei Quaderni del C.S.M. le
relazioni svolte in numerosi incontri di studio dedicati al diritto civile minorile ed alla formazione dei magistrati dei Tribunali per i Minorenni (incontri di studio per giudici minorili del 22-24 giugno 1995,
9-11 giugno 1996, 9-11 giugno 1997, 18-20 giugno 1998; incontro di
aggiornamento professionale per lo svolgimento delle funzioni di giudice minorile, 29 settembre-3 ottobre 1998; incontro di studio per
uditori giudiziari in tirocinio mirato, 13-17 ottobre 1997); le stesse
rappresentano un importante momento di riflessione, svolto anche
con il prezioso apporto di esperti in discipline extragiuridiche, sulle
problematiche fondamentali del processo minorile (la garanzia del
contraddittorio, il diritto di difesa, il rito applicabile, il ruolo dei vari
soggetti processuali, il rapporto con i servizi sociali), sull’adozione e
sull’affidamento, sulla tutela internazionale del minore e sulle questioni da affrontare e risolvere allorquando il minore da tutelare è
straniero.
In appendice vengono riportate, per comodità di consultazione, il
parere dell’Ufficio Studi sull’utilizzo della P.G. delle sezioni della Procura presso la Pretura, e la Circolare del C.S.M. sui componenti onorari dei Tribunali per i Minorenni.
Siamo dunque di fronte ad uno spunto per l’approfondimento e
ad un valido strumento operativo per la risoluzione di molti problemi che l’attività giurisdizionale in un settore tanto delicato pone.
9
CAPITOLO I
IL PROCESSO CIVILE
DAVANTI AL TRIBUNALE
PER I MINORENNI
L’ATTUAZIONE DEL PRINCIPIO
DEL CONTRADDITTORIO E DEL DIRITTO DI DIFESA
NEL PROCESSO CIVILE MINORILE (*)
Relatore:
Dott. Giuseppe TRISORIO LIUZZI
Associato di teoria generale del processo
nell’Università di Bari
SOMMARIO: 1. Premesse. – 2. La competenza del Tribunale per i Minorenni ed il rito
applicato. – 3. L’applicazione generalizzata del rito camerale – 4. La Corte
Costituzionale e il rito camerale. – 5. Il procedimento camerale e alcune
prassi “autoritarie”. – 6. Il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa costituiscono punti fermi anche nel processo camerale. – 7. La difesa tecnica. – 8. L’instaurazione del contraddittorio. – 9. I diritti e le facoltà delle
parti. Il diritto alla prova. – 10. L’emanazione dei provvedimenti temporanei. – 11. La motivazione del provvedimento ed il reclamo. – 12. I poteri
ufficiosi del giudice. Il giudice delegato. – 13. Conclusioni.
1. – Premesse.
Si afferma comunemente che il fine principale del processo civile
minorile è il perseguimento degli interessi del minore (1).
Tanto è vero che la Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 maggio 1991, n. 176, nel fissare un vero e proprio
statuto del giusto processo legale in materia familiare, statuisce all’art.
3 che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle
autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse del fanciullo deve avere una considerazione preminente”.
Sta di fatto che la stessa Convenzione non si limita a tale enunciazione, ma in altre successive disposizioni prevede che il minore non
(*) Relazione presentata all’incontro di studio sul tema “I giudici minorili” svoltosi a Frascati nei giorni 9-11 giugno 1997 organizzato dal Consiglio Superiore della
Magistratura.
(1) V. per tutti SERGIO, Rottura dell’unità familiare e tutela giuridica dei figli minori: competenza e procedura, in Questione giustizia, 1986, 399.
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deve essere separato dai genitori contro la loro volontà, “a meno che
le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo”
(art. 9, 1° comma); che, in caso di separazione del minore dai genitori, le parti interessate “devono avere la possibilità di partecipare alle
deliberazioni e di far conoscere le loro opinioni” (art. 9, 2° comma);
che il minore ha “il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su
ogni questione che lo interessa”, opinione che deve essere presa in
considerazione “tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”, sicché lo stesso minore deve essere posto in condizione “di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne” (art. 12) (2).
Ecco allora che a fronte dell’interesse preminente del minore si
pone comunque l’esigenza di assicurare ai soggetti che risultano coinvolti dal provvedimento giudiziale, soggetti che sono titolari di diritti
soggettivi e di status, il diritto di far valere le proprie ragioni, ossia di
garantire il diritto di difesa.
Non voglio assolutamente nascondere la particolare delicatezza
del problema, atteso che un rafforzamento delle garanzie del contraddittorio ben può incidere sull’efficienza e sulla rapidità dell’intervento;
ma neppure penso che sia possibile escludere che, proprio dal confronto fra gli interessi del minore e quelli degli altri soggetti coinvolti
dalla decisione giudiziale, il giudice possa meglio intervenire e risolvere la situazione concreta sottoposta al suo esame nell’interesse preminente del minore.
2. – La competenza del Tribunale per i Minorenni ed il rito applicato.
Ho ritenuto opportuno iniziare questa relazione con l’individuazione delle materie attribuite alla competenza del Tribunale per i Minorenni, al fine di porre in evidenza come vi siano situazioni nelle
quali non si tratta soltanto di gestire e risolvere gli interessi dei minori, ma risultano coinvolti soggetti titolari di veri e propri diritti soggettivi e di status, nei confronti dei quali si pone il problema di assicura-
(2) Sulla Convenzione di New York v., per tutti CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio, in Torino, 1994, II, 515; GRAZIOSI, Note sul diritto del minore ad essere
ascoltati nel processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 1281.
14
re la loro partecipazione nel processo civile minorile (3). L’art. 38, 1°
comma, disp. att. c.c., norma modificata prima con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (art. 221) e successivamente con la legge 4 maggio
1983, n. 184 (art. 68), assegna alla competenza del Tribunale per i Minorenni una serie di provvedimenti e precisamente quelli contemplati
negli artt. 84 (ammissione al matrimonio del minore che abbia compiuto sedici anni allorché ricorrono gravi motivi) (4), 90 (nomina di un
curatore speciale che assista il minore nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali), 171 (amministrazione del fondo patrimoniale in
presenza di minori, con la possibilità di attribuire loro una quota dei
beni), 194, 2° comma (costituzione dell’usufrutto a favore di un coniuge sui beni dell’altro in relazione alle necessità ed all’affidamento della
prole), 250 (“consenso” al riconoscimento del figlio minore da parte di
un genitore in caso di opposizione dell’altro genitore), 252 (affidamento del figlio naturale ed inserimento nella famiglia legittima), 262
(attribuzione del cognome del padre al figlio minore), 264 (autorizzazione all’impugnazione del riconoscimento e nomina di un curatore
speciale), 316 (determinazioni in tema di esercizio della potestà dei genitori, quando fra i genitori vi sia contrasto; v. anche l’art. 320), 317-bis
(esclusione della potestà in caso di figlio naturale), 330 (decadenza del
genitore dalla potestà), 332 (reintegrazione nella potestà del genitore
decaduto), 333 (provvedimenti alternativi alla decadenza e allontanamento dalla residenza familiare), 334 (rimozione dei genitori dall’amministrazione del patrimonio del minore e nomina di un curatore),
335 (riammissione nell’esercizio dell’amministrazione), 371, 2° comma (autorizzazione alla continuazione dell’esercizio provvisorio dell’impresa), 269, 1° comma (dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturali in caso di minori) (5).
(3) V. al riguardo di recente CIVININI, I procedimenti camerali in materia familiare e di protezione degli incapaci, in Famiglia e diritto, 1996, 161 ss., nonché della stessa
Autrice I procedimenti, cit., II, 519 ss..
(4) Per un caso recente v. Trib. Min., 5 giugno 1995, in Dir. famiglia, 1996, 183 ed
ivi numerose indicazioni di dottrina e di giurisprudenza.
(5) La competenza è attribuita con riferimento al giudizio di merito; la giurisprudenza e la dottrina hanno tuttavia esteso la competenza del Tribunale per i Minorenni
anche al giudizio di ammissibilità dell’azione, di cui all’art. 274 c.c., che costituisce l’antecedente necessario della successiva fase che investe il merito della causa, V. su tale
aspetto, fra gli altri, LA GRECA, Tribunale per i Minorenni, voce del Noviss. Dig. It., Appendice, VII, Torino, 1987, 876; A. FINOCCHIARO-M. FINOCCHIARO, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, Milano, 1983, 552; CIVININI, I procedimenti,
cit., II, 809; Cass. 9 giugno 1989, n. 2797, in Foro it. Rep., 1989, voce Filiazione, n. 49.
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Altre ipotesi di competenza sono previste negli artt. 34 disp. att.
c.c. (che rinvia all’art. 279, 1° comma, domanda del figlio naturale per
ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione), 35 disp. att. c.c.
(in tema di riconoscimento di figli incestuosi – 1° comma che rinvia
all’art. 251, 1° comma, c.c. – e di legittimazione del figlio naturale –
art. 282 c.c.) e 40 disp. att. c.c. (in tema di interdizione del minore
emancipato e interdizione o inabilitazione del minore nell’ultimo anno della minore età), nonché nella legge 4 maggio 1983, n. 184, in
tema di adozione e di affidamento dei minori.
Infine l’art. 45 disp. att. c.c. stabilisce la competenza del Tribunale per i Minorenni sui reclami avverso i decreti del giudice tutelare, ad
eccezione dei provvedimenti indicati negli artt. 320, 321, 372, 373,
374, 376, 2° comma, 386, 394 e 395 c.c..
A questa ampia attribuzione di competenza per materia (6) (nel
corso degli anni si è assistito ad un progressivo aumento della compe-
Nel senso che “la competenza generale sulla modificazione delle condizioni di esercizio della patria potestà dei genitori sui figli (quali previste in sede di separazione consensuale, di separazione personale, di annullamento, di scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio), appartiene al Tribunale Ordinario, mentre rimangono
nella competenza del Tribunale dei Minorenni, oltre ai provvedimenti che incidono
sulla titolarità della potestà dei genitori ex art. 330 c.c., anche quelli che incidono sul
suo esercizio nell’àmbito della fattispecie dell’art. 333 c.c.” v. da ultima Cass. 11 aprile
1997, n. 3159, Guida al diritto, 1997, 19, 49, che precisa inoltre che “la fattispecie dell’art. 333 c.c. si distingue da quella degli art. 155 e 317, 2° comma, c.c. per il fatto che
quest’ultima presuppone la famiglia legale fondata sul matrimonio, nonché la pendenza (o l’avvenuta definizione con omologa o con sentenza nei casi di modifica), di una
causa di separazione consensuale, di separazione legale, di annullamento, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili, mentre l’art. 333 dispone soltanto per i casi di matrimonio senza separazione legale, o comunque per i casi di separazione di fatto dei genitori, coniugati o non”. Con la suddetta decisione la Cassazione
fa propria l’interpretazione prospettata dalle Sezioni Unite con la sentenza 2 marzo
1983, n. 1551, in Foro it., 1983, I., 896 con nota critica di CIVININI. Su tale punto v.
inoltre LUISO, Una giurisdizione per i minori, in Riv. Dir. Civ., 1995, I, 182 ss.; CIVININI, I procedimenti, cit., II, 532 ss. ID., I procedimenti camerali in materia familiare, cit.,
167; PAZÉ-VERCELLONE, L’intervento del Tribunale per i Minorenni per il figlio di genitori separati, in Dir. Famiglia, 1984, 1132.
(6) Per quanto concerne la competenza per territorio l’art. 49 del R.D. 30 gennaio
1941, n. 12 stabilisce che “il Tribunale per i Minorenni ha giurisdizione su tutto il territorio della Corte d’Appello, nei limiti ti competenza determinata dalla legge”. V. anche
l’art. 3 R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, per il quale “il Tribunale per i Minorenni ha giurisdizione su tutto il territorio della Corte d’Appello o della Sezione di Corte d’Appello
in cui è istituito”. Su tale aspetto v. LUISO, Una giurisdizione, cit., 185; MORO, Minorenni (Tribunale per i), voce dell’Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 573; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 107.
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tenza in campo civile del Tribunale per i Minorenni, se si fa eccezione
per la legge che, abbassando la maggiore età da ventuno a diciotto
anni, ha inevitabilmente comportato la devoluzione di una fetta di
questioni al Tribunale Ordinario (7)) fanno riscontro poche e scarne
disposizioni in tema di rito, di procedura da applicare alla materia de
qua, disposizioni a volte di non sempre agevole individuazione.
Così l’art. 38 disp. att. c.c. al terzo comma stabilisce che “in ogni
caso il Tribunale provvede in camera di consiglio sentito il Pubblico
Ministero”. La previsione della camera di consiglio la ritroviamo ripetuta negli artt. 84 (ove si richiede che siano sentiti il Pubblico Ministero, i genitori o il tutore) e 264.
Qualche dato in più è previsto nell’art. 336 c.c., rubricato, peraltro, “procedimento”, che, a proposito dei provvedimenti contemplati
negli artt. 330-335, dopo avere indicato i soggetti legittimati (1°
comma), statuisce che “il Tribunale provvede in camera di consiglio,
assunte sommarie informazioni e sentito il Pubblico Ministero. Nei
casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questo deve
essere sentito”.
La previsione della camera di consiglio la ritroviamo inoltre nella
legge 4 maggio 1983, n. 184 relativamente sia all’affidamento (art. 4,
che rinvia agli artt. 330 e segg. c.c.), sia all’adozione (artt. 10 – dichiarazione di adottabilità; 23 – affidamento preadottivo; 25 – dichiarazione di adozione, 29 – adozione di minori stranieri). Dalla lettura di
tutte queste disposizioni si evince che il rito previsto per i procedimenti dinanzi al Tribunale per i Minorenni è quello camerale (8).
(7) Legge 8 marzo 1975, n. 39.
(8) Anche il procedimento previsto dall’art. 250 c.c., che pure si conclude con sentenza, deve ritenersi che debba svolgersi in camera di consiglio (così CIAN-TRABUCCHI, Commentario breve al Codice Civile, Padova, 1997, 449; in senso contrario, V. però
TOMMASEO, Rito camerale e giudizio di merito nel reclamo di stato di figlio naturale
davanti al Tribunale Minorile, in Famiglia e Dir., 1996, 311; LANFRANCHI, Il ricorso
straordinario inesistente e il processo dovuto ai diritti, in Giur. it., 1993, IV, 3 ss.). Si
discute se l’appello debba svolgersi nelle forme camerali (Cass. 14 gennaio 1981, n. 327,
in Foro it., 1981, I, 687; 22 aprile 1981, n. 2383, id., Rep., 1981, voce Filiazione, n. 37)
oppure nelle forme del processo ordinario o di cognizione (Cass. 16 giugno 1990. n.
1990, n. 6093, in Giust. civ., 1990, I, 2286, 3 dicembre 1988, n. 6557, in Dir. famiglia,
1989, n. 64; 13 ottobre 1986, n. 5980, in Giust. civ., 1987, I, 582 e in Nuova giur. civ.
comm., 1987, I, 460 ss. con nota di COMOGLIO, Modelli decisori e forma del gravame
nel procedimento camerale. L’impugnazione della sentenza ex art. 250 c.c.).
Su tale aspetto v. inoltre le considerazioni di CIVININI, Dichiarazione giudiziale
di genitura naturale e rito applicabile innanzi al Tribunale per i Minorenni, in Foro it.,
1996, 3076.
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Alla base di tale scelta legislativa hanno influito con ogni probabilità la crisi (le lungaggini e le disfunzioni) del processo ordinario di
cognizione, nonché la particolarità della materia e degli interessi
coinvolti, che hanno indotto il legislatore ad optare per un rito, differente da quello ordinario, caratterizzato da minori formalismi e da
maggiore celerità, da un lato, e da maggiori poteri e da un più largo
margine di discrezionalità dell’organo decidente, dall’altro; un rito
che è in grado di giungere in un tempo ragionevole (se non proprio
rapido) alla tutela dell’interesse preminente del minore. Particolarità
della materia e degli interessi in discussione che hanno spinto il legislatore ad assegnare la materia minorile ad un giudice specializzato
(art. 102 Cost.) (9). Qualche perplessità, come è noto, è sorta riguardo
al procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nel caso di minori, in quanto ad una tesi, seguita anche in alcune
pronunce dalla Cassazione (10), che afferma che in questo caso il procedimento dinanzi al Tribunale per i Minorenni deve svolgersi nelle
forme contenziose, attenendo allo status di figlio naturale, si contrappone un altro orientamento, seguito da altre decisioni della Cassazione (11), per il quale il rito applicabile è quello camerale, un orientamento, quest’ultimo, che trova un autorevole sostegno nella decisione
con cui la Corte Costituzionale (12) ha dichiarato manifestamente in-
(9) V. per tutti ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, I, 106, il quale
appunto sottolinea come “la genericità della formula” dell’art. 102 “non impedirà al
legislatore di cogliere la particolarità della materia nella peculiarità degli interessi politici sociali ed economici, che ne rappresentano il substrato”.
(10) Cass. 14 febbraio 1994, n. 1448, in Foro it., 1994, I, 1018; 25 luglio 1992, n.
8981, id., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 78; 6 maggio 1991, n. 4997, id., Rep., 1991, voce
Appello civile, n. 47. Per la giurisprudenza di merito v. App. Perugia, 1° agosto 1988, id.,
Rep. 1989, voce Competenza civile, n. 48; Trib. Min. Roma, 15 giugno 1985 e Trib. Min.
Catania, 9 marzo 1985, in Giust. civ., 1985, 2603; In dottrina v. TOMMASEO, Rito camerale e giudizio di merito, cit., 308 ss.; A. FINOCCHIARO, La forma ed il procedimento
dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale innanzi al Tribunale per i Minorenni, in Giust. civ., 1985, I, 2606 ss.; CIVININI, Dichiarazione giudiziale, cit., 3076; CARLINI, Diritto di difesa nel procedimento avanti al T.M. per l’accertamento della paternità e maternità naturale, in II nuovo diritto, 1987, 405 ss.; MANERA,
Questioni ricorrenti in tema di dichiarazione giudiziale di paternità, id., 1987, 854 ss..
(11) Cass. 7 febbraio 1996, in Foro it., Mass., 1996, 105; 11 settembre 1993, n.
9477, id., Rep. 1993, voce Filiazione, n. 75; 25 febbraio 1993, n. 2326, ibid., n; 74; 19
marzo 1992, n. 3416, in Dir. famiglia, 1992, 619; 27 gennaio 1992, n. 864, in Foro it.,
Rep. 1992, voce cit., n. 66; 6 agosto 1991, n. 8567, id., Rep. 1991, voce cit., n. 63; 29
marzo 1989, n. 505, id., Rep. 1989, voce Competenza civile, n. 46.
(12) Corte Cost. 30 giugno 1988, n. 748, in Giur. Cost., 1988, 3439.
18
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, 3° comma, d.a.c.c., nella parte in cui stabilisce che sulle domande di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità di figli naturali minori il
Tribunale per i Minorenni “provvede in camera di consiglio”. Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite con sentenza 19 giugno 1996,
n. 5629 (13), le quali hanno affermato la natura camerale del giudizio
di merito, non senza che ulteriori critiche fossero avanzate dalla dottrina (14).
3. – L’applicazione generalizzata del rito camerale.
Se si analizzano con attenzione le varie fattispecie attribuite alla
competenza del Tribunale per i Minorenni, si può vedere come il legislatore abbia previsto il rito camerale indistintamente non solo per
quelle ipotesi nelle quali il provvedimento del giudice è destinato ad
essere dato nei confronti di una sola parte, ossia quella che ha dato
impulso al procedimento e che la dottrina ha indicato come “procedimenti camerali unilaterali”, ma anche per quelle nelle quali il decreto
è dato in confronto di più parti, che pertanto devono partecipare al
procedimento e che in dottrina sono indicati come “procedimenti
camerali bi o plurilaterali” (15).
Non solo; va infatti sottolineato che il rito camerale è stato previsto sia per quei casi nei quali si pone un problema di gestione di un
interesse, di un affare dei minori, nei quali il giudice effettua una valutazione di mera opportunità in merito a quell’affare, senza incidere su
diritti altrui, situazioni che il legislatore ben poteva anche non affidare al giudice (pensiamo alla ammissione al matrimonio del minore
ultrasedicenne, art. 84 c.c.; alla nomina di un curatore speciale che
(13) In Foro it., 1996, I, 3070 con nota critica di CIVININI.
(14) TOMMASEO, Riro camerale, cit., 308 ss.; CIVININI, Dichiarazione giudiziale,
cit., 3076.
(15) La distinzione dei procedimenti in camera di consiglio in procedimenti unilaterale e bi o plurilaterali si deve a FRANCHI, L’incompetenza nella giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1955, I, 117 e ad ANDRIOLI, Il processo civile non contenzioso, in
Ann. Dir. comp., 1966, 266 ss.; ID., Diritto processuale civile, Napoli, 1979, I, 51 ss.. Tale
distinzione può dirsi oggi generalmente recepita. V. fra gli altri PROTO PISANI, Usi e
abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Riv. dir. civ., 1990, I, 409 ss.; LAUDISA, Camera di consiglio (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, V,
2; ARIETA, Procedimenti in camera di consiglio, voce del Digesto, Disc. Priv., XIV, Torino, 1996, 454; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 78.
19
assista il minore nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali,
art. 90 c.c.; all’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio provvisorio dell’impresa, art. 371 c.c.; alle determinazioni che il giudice ritiene più utili ex art. 316, 5° comma, c.c.), sia per quelle situazioni nelle
quali la gestione dell’interesse del minore finisce per incidere su diritti e status, quali ad esempio i diritti e gli status dei genitori (pensiamo
alle ipotesi della rimozione dall’amministrazione del patrimonio, art.
334, della decadenza dalla potestà, art. 330, dell’allontanamento dalla
residenza familiare, art. 333; dell’affidamento dei minori ex art. 4 L.
184/1983) sia procedimenti che hanno ad oggetto diritti soggettivi o
status (pensiamo al giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, art. 274, alla stessa azione per la dichiarazione suddetta, art. 269; al provvedimento che
tiene luogo del consenso al riconoscimento del figlio naturale, art. 250
alla dichiarazione dello stato di adottabilità di cui agli artt. 8 e segg. L.
184/1983; alla dichiarazione di adozione ex artt. 25-28 L. 184/1983).
Tale adozione generalizzata ha fatto sorgere in parte della dottrina più di una perplessità, in quanto si ritiene che la regola nel nostro
sistema giudiziario deve essere quella per la quale “la tutela giurisdizionale dei diritti e degli status si realizza attraverso processi a cognizione piena destinati a concludersi con sentenze … aventi attitudine al
giudicato formale e sostanziale” (16). Con la conseguenza che, allorché si discute di diritti e di status, il modello da seguire deve essere
quello della cognizione piena, in quanto solo tale modello può assicurare “che le parti siano titolari, anche nel corso dello svolgimento del
processo e non solo di quello della sua messa in moto, di poteri processuali e non unicamente di soggezioni; che la cognizione … sia nella
sua massima parte controllabile in iure (ex art. 360, n. 4, c.p.c.) e non
(16) Così PROTO PISANI, Usi ed abusi, cit., 398. Analoghe perplessità vengono
sollevate, fra gli altri, da FAZZALARI, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv.
dir. proc., 1990, 909; MONTESANO, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, 591; “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc., 1989, 915
ss.; MANDRIOLI, C.d. procedimenti camerali su diritti e ricorso straordinario in cassazione, in Riv. dir. proc., 1988, 924; CERINO CANOVA, Per la chiarezza di idee in tema di
giurisdizione volontaria e procedimento camerale, in Riv. dir. civ., 1987, I, 485; LANFRANCHI, Il ricorso straordinario inesistente e il processo dovuto ai diritti, in Giur. it.,
1993, IV, 521 ss.; ID., La cameralizzazione del giudizio su diritti, ID., 1989, IV, 33; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 331 ss.; ARIETA, Procedimento in camera di consiglio, cit.,
435 ss.; PAGANO, Contributi allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, Napoli, 1996, 28 ss..
20
rimessa alla discrezionalità del giudice con il suo solo obbligo di motivare in modo logicamente corretto (ai fini del controllo ex art. 360, n.
5, c.p.c.) il perché delle sue scelte” (17). Infatti, la differenza che esiste
fra i due modelli, quello a cognizione piena e quello camerale, è che
nel primo vi è predeterminazione legale del modello di processo, nel
senso che il legislatore ha previsto un complesso sistema di regole, di
forme e di termini ed ha attribuito alle parti ed al giudice taluni poteri, facoltà e doveri, e nel secondo, destinato a concludersi con un provvedimento inidoneo al giudicato, le forme e i termini di svolgimento
del processo sono per lo più rimessi alla discrezionalità del giudice
(18), il quale ha ampi poteri svincolati dall’iniziativa delle parti.
Tali dubbi e perplessità espressi dalla dottrina li ritroviamo anche in
alcune decisioni di giudici di merito, i quali, sul presupposto che il rito
camerale “non assicura il pieno soddisfacimento del diritto di difesa con
tutte le garanzie come pure esigerebbe la natura contenziosa dell’azione
di cui si discute” (19), hanno sollevato questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni che prevedono l’adozione del rito camerale anche per alcuni giudizi, aventi natura contenziosa, quali ad esempio quello per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale in caso di minori (20) o quello per la dichiarazione dello stato di
adottabilità di cui agli artt. 10-16 della legge n. 184 del 1983 (21).
(17) Così PROTO PISANI, Usi e abusi, cit., 414, nonché CIVININI, Dichiarazione
giudiziale, cit., 3077.
(18) PROTO PISANI, Usi e abusi, cit., 411 s.; CIVININI, Dichiarazione giudiziale, cit.,
3077. V. inoltre CIPRIANI, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir. proc.,
1974, 200, il quale dubita dell’opportunità sul piano politico legislativo che anche “affari
bilaterali, contenziosi, volontari o misti che siano” si svolgano con il rito camerale.
(19) Trib. Min. Napoli, 4 dicembre 1986, in Il nuovo diritto, 1987, 401.
(20) Trib. Min. Napoli, 4 dicembre 1986, cit. alla nota precedente; Trib. Min. Bologna, 6 luglio 1985, in Giust. civ., 1986, I, 115. Va ricordato che tale questione è stata invece ritenuta manifestamente infondata da Cass. 9 agosto 1985, id., 1986, I, 115, con
nota di A. FINOCCHIARO, Costituzionalità della competenza del Tribunale per i Minorenni in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale e problemi di
diritto intertemporale, da Cass. 29 aprile 1992, n. 5141, in Foro it., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 70, da Cass. 29 marzo 1989, n. 1503, id., 1989, voce cit., n. 44, nonché, successivamente, dallo stesso Trib. Min. Napoli, 25 giugno 1987, in Il nuovo diritto, 1987, 845.
(21) Trib. Min. Napoli, 19 settembre 1994, in Famiglia e diritto, 1995, 61 con nota
di VULLO, Dubbi alla legittimità costituzionale del procedimento per la dichiarazione
dello stato di adottabilità. Ma per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle stesse norme v. Cass. 7 aprile 1993, n. 4151, in Giust. civ.,
1993, I, 2377; 28 maggio 1987, n. 4778, in Foro it., Trib. Min. Torino, 11 marzo 1986,
in Dir. famiglia, 1986, 632.
21
4. – La Corte Costituzionale ed il rito camerale.
Da parte sua la Corte Costituzionale, chiamata più volte a pronunciarsi al riguardo, ha chiarito che l’adozione del procedimento in
camera di consiglio può riguardare anche situazioni tipiche di giurisdizione contenziosa, idonee a concludersi con provvedimenti decisori, e che tale adozione “risponde a criteri di politica legislativa, inerenti
alla valutazione che il legislatore ha compiuto in relazione alla natura
degli interessi regolati ed all’opportunità di adottare determinate
forme processuali” (22). Infatti, “il procedimento in camera di consiglio non è, di per sé, contrastante con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.” e ciò che è essenziale è che “vengano assicurati lo scopo
e la funzione, cioè la garanzia del contraddittorio, in modo che sia
escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti”; in particolare
che è necessario assicurare che le parti siano convocate in giudizio,
siano sentite e possano esporre le loro ragioni; possano farsi assistere
da un difensore, il provvedimento conclusivo sia motivato e vi sia un
congruo termine per l’impugnazione.
E, con specifico riguardo al procedimento previsto nell’art. 269
c.c. per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità in caso di
minori, la Corte Costituzionale con ordinanza del 30 giugno 1988, n.
748 (23), dopo avere riconosciuto che “l’ordinamento conosce vari casi
di provvedimenti decisori adottati in camera di consiglio, in cui la procedura è disposta anche in presenza di elementi della giurisdizione
contenziosa”, che “l’adozione di tale procedimento … risponde a criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha
compiuto in relazione alla natura degli interessi regolati ed all’opportunità di adottare determinate forme processuali”, che “il procedimento in camera di consiglio non è, di per sé, contrastante con il diritto di
difesa sancito dall’art 24 Cost.”, che ciò che è rilevante è che l’adozione di siffatto procedimento “non si risolva nella violazione di specifici
precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza”, che in tale procedimento sia assicurata “la garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti”, ha
(22) Corte Cost. 10 luglio 1975, n. 202, in Foro it., 1975, I, 1575. V. altresì, fra le
altre, Corte Cost. 19 dicembre 1966, n. 122, id., 1967, I, 6; 1 marzo 1973, n. 22, in Giur.
Cost., 1973, 253; 17 aprile 1985, n. 103, id., 1985, 639; 30 dicembre 1987, n. 621, id.,
1987, 3728; 30 giugno 1988, n. 748, id., 1988, 3439.
(23) In Giur. Cost., 1988, I. 3439.
22
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità sollevata con riferimento al procedimento previsto dagli artt. 269 e segg.
c.c., in quanto da un lato “la difesa è pienamente garantita non solo
per ciò che riguarda l’instaurazione del contraddittorio (art. 274-276),
ma anche con riferimento all’esperibilità di ‘ogni mezzo’ di prova (art.
269 comma 2°), il che rende possibile … ogni opportuna ‘integrazione
del materiale probatorio in funzione delle domande hinc et inde spiegate’, così da far escludere la temuta riduzione delle ‘modalità di esplicazione del diritto di difesa se rapportate a quelle vigenti nell’ordinario processo di cognizione contenzioso”.
Ecco allora che per la Corte Costituzionale l’adozione del procedimento camerale è ben possibile anche allorché si tratta di incidere su
diritti e status, a condizione che venga garantito il diritto di difesa sancito nell’art. 24 Cost.. Ed infatti, il giudice delle leggi, con alcune decisioni, ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune norme dettate a proposito di procedimenti camerali, sia pure in materie differenti da quella che stiamo esaminando, allorché la concreta disciplina si presentava in contrasto con i principi costituzionali. Ad esempio con sentenza
27 giugno 1968, n. 74 è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 2,
2° comma, legge 14 febbraio 1904, n. 36, sui manicomi e gli alienati,
nella parte in cui non permette la difesa dell’infermo nel procedimento che si svolge innanzi al tribunale ai fini dell’emanazione del decreto di ricovero definitivo (24). Sottolinea la Corte in questa decisione
che “non è ammissibile che il ricovero definitivo sia ordinato sul fondamento di istruttorie che all’infermo non è consentito di seguire o di
contestare” e che il potere riconosciuto al Tribunale di assumere informazioni ai sensi dell’art. 738 c.p.c., “ai fini del controllo della verità
delle prove esibite” non “soddisfa il precetto dell’art. 24, 2° comma,
della Costituzione, non potendo tal potere implicare il dovere di contestare all’infermo l’istruttoria acquisita e di ammetterlo ad una difesa
anche ai fini dell’acquisizione di eventuali prove nuove o contrarie”.
Con sentenza del 10 luglio 1975, n. 202 la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art 9, 2° comma, legge 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in cui
non consente il nominale esercizio della facoltà di prova, dal momento che il legislatore ordinario si era limitato a prevedere l’assunzione
di informazioni da parte del giudice, una formula ritenuta troppo
restrittiva dalla Corte (infatti secondo la Corte per “assunzione di
(24) In Foro it., 1968, I, 2056.
23
informazioni” doveva intendersi “un mezzo di indagine non formale,
ma atipico, consistente tradizionalmente nell’acquisizione di dati forniti, a richiesta, dalla polizia giudiziaria o dalla pubblica amministrazione”) (25). Con sentenza 23 marzo 1981, n. 42 la Corte ha inoltre
dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 26 del R.D. 16 marzo 1942, n.
267 (disciplina del fallimento) nella parte in cui, pur prevedendosi il
reclamo, “non assicura adeguata tutela giurisdizionale ai diritti soggettivi coinvolti … Significativa, al riguardo, è soprattutto la sommarietà del contraddittorio propria di siffatto procedimento, essendo previsto che il Tribunale investito del reclamo abbia soltanto la facoltà, e
non l’obbligo, di sentire in camera di consiglio le parti” (26).
5. – Il procedimento camerale e alcune prassi “autoritarie”.
L’indagine fino ad ora svolta mostra come, nonostante le critiche
sollevate da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, la
Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione abbiano mantenuto una
posizione costante e ferma a favore della generalizzata adozione del
procedimento camerale, sicché mi sembra più realistico prendere atto
di tale situazione (fra l’altro il procedimento camerale per la sua particolare e snella struttura meglio si presta a disciplinare la materia dei
minori) e concentrare l’attenzione sul procedimento camerale dinanzi
al Tribunale per i Minorenni, al fine di verificare se e fino a che punto
il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa possano essere
attuati, nel rispetto delle esigenze di tutela degli interessi del minore e
di celerità, in un procedimento nel quale manca la predeterminazione
legale di forme e termini.
Nel passare ad esaminare il procedimento camerale, si deve porre
in risalto che esso, se si fa eccezione per il giudizio di opposizione alla
dichiarazione dello stato di adottabilità, per il quale è dettata una regolamentazione specifica nella legge n. 184 del 1983 (27), è disciplinato in modo scarno negli artt. 737 e segg. del c.p.c.. Le disposizioni
dettate indicano la forma che deve assumere la domanda (ricorso: art.
(25) In Foro it., 1975, I, 1575.
(26) In Foro it., 1981, I, 1228.
(27) CERINO CANOVA, Commento all’art. 17 della legge 184/1983, in Commentario al diritto italiano della famiglia diretto da CIAN-OPPO-TRABUCCI, Padova, 1993, VI,
2, 181 ss.; TOMMASEO, Commento all’art. 10-16 della legge 184/1983, id., 98 ss..
24
737); la figura di un giudice relatore (che riferisce in camera di consiglio: art. 738, 1° comma); la necessità di trasmettere gli atti al Pubblico Ministero, allorché questi debba essere sentito (art. 738, 2° comma); il potere di “assumere informazioni” (art. 738, 3° comma); la forma del provvedimento conclusivo (decreto, salvo che la legge disponga
alimenti: art. 737); il reclamo avverso il decreto (entro dieci giorni
dalla comunicazione o dalla notificazione: art. 739); l’irreclamabilità
del decreto reso dal giudice del reclamo (art. 739, 3° comma); la modifica e la revoca del decreto (salvi i diritti dei terzi in buona fede; art.
742); l’efficacia del decreto (una volta scaduti i termini per il reclamo,
salvo i casi urgenti: art. 741). Nulla prevedono quelle norme riguardo
alla fase introduttiva, alle modalità di attuazione della convocazione,
ai termini a comparire, ai rapporti fra il giudice relatore ed il collegio,
soprattutto in ordine alla eventuale fase istruttoria, ai poteri delle parti
di chiedere mezzi di prova o di produrre documenti o di consultare
atti; al potere di farsi assistere da un difensore, ecc..
La situazione non muta se spostiamo l’attenzione alle altre norme
sparse nel codice civile: l’art. 336, 2° comma, prevede, in più, che debbano essere sentiti il Pubblico Ministero ed il genitore nei cui confronti è chiesto il provvedimento.
Di fronte a tale situazione si è affermato che “nel silenzio del legislatore è da ritenere che la disciplina di queste pur delicatissime fasi
sia rimessa al potere discrezionale del giudice, e sia soggetta all’unico
requisito di congruenza della forma con lo scopo di cui agli artt. 1221
e soprattutto 156 c.p.c.” (28).
La scarna disciplina dettata negli articoli suindicati, la mancanza
di forme e di modalità predeterminate dalla legge e l’ampia discrezionalità riconosciuta del giudice hanno fatto sì che si siano affermate
delle prassi molto differenti fra loro, anche in materia di attuazione
del contraddittorio e del diritto di difesa. Prassi che hanno dato luogo
a critiche e ad allarmi circa la violazione di tali principi costituzionali. Ad esempio Piercarlo Pazé, in un articolo apparso alcuni anni fa su
Questione giustizia (29), ha posto l’accento su talune diffuse “prassi
che, in nome dell’efficacia, … hanno accentuato l’impostazione inquisitoria ed autoritaria” del sistema legislativo. In particolare, si sono
poste in evidenza “prassi degenerative”, come vengono definite:
(28) PROTO PISANI, Usi e abusi, cit., 417 s..
(29) Il processo minorile di volontaria giurisdizione tra prassi autoritarie e incerte
prospettive, in Questione giustizia, 1988, 61 ss..
25
– relativamente ai provvedimenti, di urgenza previsti nell’art. 336,
3° comma, c.c., riguardo ai quali si sottolinea un’inflazione dei provvedimenti “assunti al di fuori di reali situazioni di necessità e urgenza, ma definiti urgenti solo perché non preceduti dal sentire le parti e
il Pubblico Ministero”, una “dequalificazione delle informazioni ritenute sufficienti per fondare i provvedimenti, sempre più spesso recepite dall’eterno e non seguite da verifiche interne al processo, cosicché
talora il Tribunale per i Minorenni costituisce sostanzialmente il braccio secolare delle richieste dei servizi sociali e della polizia”; una “dilatazione nel tempo dei provvedimenti confermativi, in modo che i provvedimenti temporanei predeterminano sostanzialmente la soluzione
senza possibilità per le parti di opporsi” (30);
– relativamente all’intervento dei servizi, nel senso che si è assistito ad “un ingresso massiccio dei servizi socio sanitari nel processo”,
con conseguente accentuazione della posizione dei servizi socio-sanitari e alterazione dell’equilibrio delle parti nel processo, anche in considerazione del fatto che le c.d. informazioni che il giudice assume
sono spesso demandate appunto ai servizi, i quali acquistano così una
rilevanza notevole nel processo minorile, potendo condizionare la
decisione del giudice (31);
– relativamente alla perdita sostanziale della collegialità nella fase
istruttoria, dal momento che si è generalizzata una prassi di nomina
di un Giudice Istruttore che dispone ed assume prove, al punto che lo
stesso Consiglio Superiore della Magistratura con una circolare del 12
ottobre 1984, n. 7771 ha deliberato di ammettere l’impiego dei giudici non togati nell’attività istruttoria, non come componenti del collegio, ma come singoli magistrati (32).
A me sembra che anche nel giudizio minorile il perseguimento
dell’interesse del minore, che sicuramente il nostro legislatore privile-
(30) Per porre un limite a tale prassi, PAZÉ, op. loc. cit., pone in evidenza come
alcune sezioni minorenni di Corte d’Appello abbiano ritenuto ammissibile il reclamo
avverso tali provvedimenti, finendo però per allungare la durata del procedimento.
(31) V. inoltre le preoccupazioni manifestate da GALUPPI e GRASSO, Servizi territoriali e Tribunali per i Minorenni: ambiguità e rischi connessi a violazioni del principio
del contraddittorio, in Dir. famiglia, 1995, 720 ss.. Sul ruolo dei servizi sociali v., fra gli
altri, CASCIANO, Rapporti tra giudice per i minorenni e servizi sociali, in Dir. famiglia,
1993, 1316 ss.; OCCHIOGROSSO, Giudici e servizi territoriali nella prassi e nelle prospettive di riforma, in Questioni giustizia, 1986, 458.
(32) A tale proposito sottolinea PAZÉ, op. cit., 65 che “la realtà è andata ancora
oltre, per la presenza di prassi sempre più distanti dalla legge e violatrici di ogni regola
26
gia, non possa legittimare il sacrificio di garanzie costituzionali, quale
il diritto di difesa. È stato efficacemente detto che “il privilegiamento
dell’interesse del minore non deve indurre ad ignorare l’esistenza di
altri interessi, eventualmente contrastanti (basti pensare a quello dei
genitori o dei parenti qualificati), i quali non sono estranei al mondo
del diritto ma traggono origine – spesso con rilievo costituzionale – da
funzioni, potestà e status giuridici, e su di esso incidono” (33).
Ecco allora che, anche in relazione a quelle prassi, più o meno diffuse, si pone l’esigenza di fissare alcuni punti nell’ambito del processo
minorile, con l’avvertimento che il riconoscimento di garanzie minime
non deve comunque sacrificare la specialità della materia e soprattutto non deve portare a dimenticare che fine principale è pur sempre
l’interesse del minore, la cui tutela è prioritaria rispetto a tutti gli altri
interessi coinvolti. In altri termini, bisogna individuare quel minimo
di garanzie a favore delle parti destinatarie del provvedimento giudiziale, che si pone come limite dei poteri del giudice minorile, senza
peraltro dare vita ad un eccesso di forme o formalismi. Certamente
non è possibile pensare di prendere a modello il processo ordinario,
che la realtà di ogni giorno porta a non considerare come “giusto processo”.
6. – Il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa costituiscono
punti fermi anche nel processo minorile.
Il momento centrale è rappresentato dal principio del contraddittorio previsto dall’art. 101 c.p.c., che costituisce uno degli aspetti essenziali del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., principio che ha
sulla portata generale nel nostro ordinamento, nel senso che esso deve
ritenersi essenziale per ogni tipo di processo, compreso quello camerale e dunque anche quello minorile (34). Come è stato sottolineato,
di giudice naturale, come deleghe a pluralità di giudici “istruttori” nello stesso procedimento, subdeleghe da parte del giudice delegato ad altro giudice per atti singoli, giudici “istruttori” che non sono poi giudici “relatori” non facendo parte del collegio che decide, utilizzo dei componenti privati come “vicepretori” delegati per il lavoro di routine”.
(33) DUSI, Presentazione, in Questione giustizia, 1986, 388.
(34) V. fra gli altri e per tutti, Cass. 7 febbraio 1996, n. 986, in Foro it., Mass., 1996,
105; 17 ottobre 1973, n. 2619, in Giust. civ., 1973, I, 1821; CIVININI, I procedimenti,
cit., II, 165 ss., GALUPPI e GRASSO, Servizi territoriali, cit., 750; MANERA, Questioni
ricorrenti, cit., 857.
27
tale principio “domina ogni figura di processo, e, manifestando non
altro che la partecipazione degli interessati all’iter formativo di un atto, trascende … lo stesso àmbito dell’attività giurisdizionale, in corrispondenza alla rilevata diffusione degli schemi processuali anche al di
là del campo della giurisdizione, per la garanzia costante che (proprio
in grazia del contraddittorio) detti schemi sono idonei ad offrire” (35).
Con il contraddittorio si vuole assicurare che tutti i soggetti che
sono destinatari del provvedimento conclusivo partecipino al processo, esercitando tutta una serie di poteri e di facoltà, affinché prima
della emanazione della decisione giudiziale ogni parte possa avere
detto la sua.
Il contraddittorio va attuato ed assicurato anche nel procedimento che si svolge dinanzi al Tribunale per i Minorenni, non solo perché
l’art. 101 c.p.c. è dettato nel primo libro, atteso che tale disposizione
prevede anche l’eccezione, “salvo che la legge disponga diversamente”,
quanto perché, come si è detto, costituisce uno degli aspetti essenziali del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento (da considerare che l’art. 250 c.c.
dispone espressamente che il giudice “sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone”). Ciò non significa che il contraddittorio deve essere attuato nello stesso modo in cui viene realizzato
nel processo ordinario, ma solo che deve essere attuato.
La previsione di particolari poteri in capo al giudice e il carattere
inquisitorio che si riconosce al processo minorile non possono tuttavia indurre a ritenere che in tali procedimenti non operi il contraddittorio.
Come esattamente è stato rilevato, “l’eventuale mancanza di limitazione al potere giudiziale d’indagine non rileva affatto, e se mai
(35) Così COLESANTI, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv.
dir. proc., 1975, 581. V. nello stesso senso, fra i tanti, ANDRIOLI, Diritto, cit., I, 231; Il
processo civile non contenzioso, cit., 266; CERINO-CANOVA, Per la chiarezza di idee,
cit., 445, PROTO PISANI, Parte (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. dir., XXXI, 1981, 938 ss.;
CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 195; CARPI, I provvedimenti temporanei ed urgenti del giudice tutelare e gli affidamenti familiari, in Affidamenti familiari, Padova,
1973, 187; TROCKER, Processo civile e costituzione, Milano, 1974, 367, 401; LAUDISA,
Camera di consiglio, cit., 4; ARIETA, Procedimento, cit., 449, 456; CIVININI, I procedimenti, cit., 79, 178. In giurisprudenza v. Cass. 20 maggio 1987, n. 4607, in Foro it., 1987,
3285 7 Ottobre 1982, n. 5139, id., 1983, I. 2214 con osservazioni di TRISORIO-LIUZZI; 3 aprile 1973, n. 913, id., 1973, I, 1007 con nota di ANDRIOLI, e in Giur. it., 1974,
I, 93 con nota di MANDRIOLI, Il diritto alla difesa nei procedimenti ad iniziativa ufficiosa e/o camerali (c. 95).
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accentua l’esigenza di garantire agli interessati l’esplicazione del diritto di interloquire nel corso del procedimento” (36). La previsione contenuta nell’art. 24 della Costituzione non consente a mio avviso alcuna limitazione al diritto di difesa ed alla attuazione del contraddittorio nel Processo Civile Minorile.
Ciò che bisogna fare è dare attuazione al principio del contraddittorio aspettando le peculiarità proprie del Processo Civile Minorile.
Come si è in precedenza affermato vi sono provvedimenti resi in camera di consiglio che possono essere dati nei confronti di una sola parte
o nei confronti di più parti.
Nel primo caso indubbiamente parlare di contraddittorio può essere eccessivo, in quanto manca la presenza di più soggetti e la domanda ha come unico destinatario il giudice; in questi casi il contraddittorio va inteso come possibilità per il ricorrente di esporre al giudice le proprie ragioni e di far valere il proprio punto di vista. Nel secondo caso, poiché il provvedimento viene chiesto da un soggetto nei confronti di un altro, inevitabilmente vi è la partecipazione di più soggetti, con la conseguenza che tutti devono essere chiamati in giudizio ed
essere posti nella condizione di partecipare.
Accertato che il contraddittorio va attuato nel processo minorile,
bisogna ora individuare “il contenuto minimo del contraddittorio, inteso come il minimo irriducibile della partecipazione degli interessati
al procedimento; e, correlativamente, il minimo di struttura formale,
necessaria appunto per assicurare la possibilità di una effettiva, e non
meramente episodica, partecipazione degli interessati all’iter formativo del provvedimento” (37), anche in considerazione del fatto che la
violazione del contraddittorio determina nullità del procedimento, che
si estende al provvedimento conclusivo, nullità che può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità (38).
(36) COLESANTI, Principio del contraddittorio, cit,. 598. V. altresì MANDRIOLI,
Il diritto alla difesa, cit. 96, per il quale “il diritto costituzionale alla difesa … va riconosciuto anche nei procedimenti che si svolgono per iniziativa ufficiosa, come anche
nei procedimenti che si svolgono col rito camerale. Ciò che equivale a dire che tale
diritto va riconosciuto indipendentemente da quella sua coordinazione col diritto di
azione, che è di solito, universalmente affermata come una delle sue caratteristiche
essenziali”.
(37) COLESANTI, Principio del contraddittorio, cit., 599, il quale parla anche di
“nucleo ideale” del contraddittorio. V. altresì PAZÉ, Il processo minorile, cit., 766 s..
(38) V., con riferimento a situazioni verificatesi nel corso di un processo dinanzi
al Tribunale per i Minorenni, Cass. 16 febbraio 1981, n. 938, in Foro it., Rep. 1981,
voce Filiazione, n. 73.
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7. – La difesa tecnica (39).
Strettamente collegato al principio del contraddittorio ed al diritto di difesa è il diritto della parte di nominare un proprio difensore,
che possa assistere e rappresentare il soggetto durante tutto il corso
del processo (40). Orbene, per guanto riguarda la difesa tecnica, si discute se essa sia oppure no obbligatoria. Nei procedimenti, sia unilaterali sia bi o plurilaterali, nei quali si tratta soltanto di gestire gli interessi del minore, a mio avviso si può escludere l’obbligatorietà del ricorso al difensore – che è stato considerato “un lusso inutile” (41) – e
ad ammettere invece la facoltatività (42). La semplicità del rito camerale e il particolare oggetto del procedimento de quo inducono infatti
a ritenere non necessario il ricorso al difensore, dovendosi riconoscere alle parti la facoltà di una autodifesa. A favore di questa lettura si
possono richiamare l’art. 145 c.c., per il quale “ciascuno dei coniugi
può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice”, e l’art. 316, 3°
comma, dove si prevede che “il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se
maggiore di anni quattordici, suggerisce le determinazioni …”.
Il problema si pone invece per quei processi nei quali la tutela del
minore finisce per incidere su diritti soggettivi e su status; ed infatti ad
una tesi che afferma anche in tali casi la facoltatività della difesa tecnica (43) se ne contrappone un’altra che ritiene che la difesa sia obbligatoria, proprio in considerazione del fatto che sono in discussione
diritti soggettivi e status (44). La tesi dell’obbligatorietà della difesa
(39) Sul ruolo dell’avvocato nelle procedure di tutela della famiglia v. le relazioni
al primo Congresso per la famiglia e per i minori in Roma, pubblicate su Famiglia e diritto, 1995, 79 ss., di POCAR, FADIGA, GALIZIA DANOVI, GULOTTA, PALOMBA, OCCHIOGROSSO, DUSI, VINCENZI AMATO.
(40) Nel senso che nel procedimento camerale è garantita la difesa tecnica v. CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 192 s..
(41) PAZÉ, Il processo minorile, cit., 74.
(42) PAZÉ, Il processo minorile, cit., 74; COSENTINO, Prassi dei Tribunali per i
Minorenni, cit., 796; PAZÉ e VERCELLONE, L’intervento del Tribunale per i Minorenni,
cit., 1143; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 88.
(43) V. in generale REDENTI, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 354;
FAZZALARI, Giurisdizione volontaria (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. dir., XIX, Milano
1970, 362; MONTELEONE, Camera di consiglio, voce del Noviss. dig. it., Appendice, I,
Torino, 1980, 987; CHIARLONI, Contrasti tra diritto alla difesa e obbligo della difesa: un
paradosso del formalismo concettualista, in Riv. dir. proc., 1982, 646.
(44) V. in generale SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano,
1971, IV, 25; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964, IV, 435
s.; MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti camerali, in Giur. it.,
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tecnica ha, comunque, sollevato delle perplessità in chi ha rilevato la
estrema pericolosità di ricollegare alla distinzione, per nulla agevole,
tra processi camerali relativi alla gestione di interessi e processi camerali incidenti su diritti soggettivi e status la necessità della difesa tecnica, “giacché la necessità o no di tale requisito extraformale finirebbe per dipendere non dal dato formale del procedimento adottato ma
da complesse e molto spesso incertissime indagini relative al suo contenuto” (45).
Infatti, la conseguenza di un difetto di difesa tecnica comporta,
secondo la giurisprudenza costante, la nullità insanabile che può essere rilevata in ogni stato e grado del processo. Anche alla luce di tali
considerazioni ma soprattutto con riguardo alla materia che ci occupa ritengo che il ricorso al difensore non sia necessario, ma solo facoltativo. Ciò che è essenziale, come ha stabilito la Corte Costituzionale,
è che sia sempre data alla parte la possibilità di farsi assistere in giudizio da un difensore (46).
E proprio a tale riguardo risalta, a mio avviso, in tutta la sua gravità la mancanza di una seria disciplina del patrocinio a spese dello
Stato nei procedimenti relativi ai minori, la mancanza di forme di
pubblicità, idonee a far conoscere al cittadino la possibilità di farvi
ricorso, anche perché la realtà di ogni giorno mostra che è soprattutto negli strati meno agiati della popolazione che si presentano quelle
situazioni che determinano l’intervento del Tribunale per i Minorenni.
Al riguardo penso alla legge 30 luglio 1990, n. 217, che ha previsto il
patrocinio a spese dello Stato nel processo penale (ordinario, militare
1988, I, 1, 979; LAUDISA, Camera di consiglio, cit., ARIETA, Procedimenti in camera di
consiglio, cit., 456.
(45) Vd., PROTO PISANI, In tema di disciplina delle nullità causate da difetto (o da
visi) della difesa tecnica, in Foro it., 1990, I, 1243, il quale pone in evidenza che la soluzione al problema potrebbe essere di sottoporre tali vizi al principio generale della
sanabilità in via retroattiva, “ove l’atto nullo per difetto (o vizio) della difesa tecnica sia
rinnovato entro il termine perentorio all’uopo fissato dal giudice” (c. 1243).
(46) Corte Cost. 10 luglio 1975, n. 202, in Foro it., 1975, I, 1575. V. altresì Corte
Cost. 22 giugno 1989, n. 351, id., 1991, I, 51, a proposito dell’art. 10, 5° e 6° comma, l.
n. 184/1983, afferma che “la mancata previsione dell’assistenza di un difensore non
significa divieto ai genitori (od al tutore) di avvalersene, ma soltanto che essa non è obbligatoria”, aggiungendo che “in ragione delle speciali caratteristiche del singolo atto o
procedimento preso in considerazione, il diritto di difesa deve ritenersi sufficientemente garantito anche da norme che, come quella in esame, consentono alla parte la
possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni facendosi assistere da un difensore, senza rendere obbligatoria tale assistenza”. V. inoltre GALIZIA DANOVI, Il difensore nel processo minorile, in Famiglia e diritto, 1994, 573.
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e minorile) e in quello civile per il risarcimento dei danni e le restituzioni da reato (47).
Altro e differente problema è se sia ammissibile vietare al difensore tecnico o alla parte che si difenda personalmente il compimento di
taluni atti o la possibilità di assistere a determinate attività, come in
alcuni casi è stato segnalato (48). Se è indubbiamente esatto affermare che il giudice ha nel procedimento camerale una ampia discrezionalità, che non è dato riscontrare nel processo ordinario, tuttavia non
sembra legittimo limitare il diritto del difensore della parte o della
stessa parte costituita personalmente ad assistere ad alcune fasi od
attività od atti del processo (49). Il rischio, lo si comprende bene, è
consentire che il giudice possa disporre senza alcun controllo del processo in nome dell’interesse del minore.
D’altra parte, nella pratica in molti casi sono stati trovati accorgimenti che, senza ledere il diritto del difensore, hanno evitato situazioni traumatiche per il minore; come ad esempio il caso, segnalato da
PAZÉ (50), di chiedere al difensore “di non presenziare, rimettendo la
decisione alla valutazione del difensore, quasi sempre sensibile ad una
sollecitazione motivata, subito dopo però lasciando i risultati dell’esame a disposizione del difensore per le sue valutazioni” (51).
8. – L’instaurazione del contraddittorio.
Il primo momento in cui si pone l’esigenza di attuare il contraddittorio è rappresentato dalla convocazione delle parti. Un siffatto problema si pone evidentemente nei procedimenti bi o plurilaterali, non
(47) Su tale aspetto v. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, in Foro it.,
1994, V, 83 ss..
(48) PAZÉ, Il processo minorile, cit., 71, il quale segnala l’esclusione del difensore
riguardo sia all’esame psicologico di un bambino da parte di un componente privato e
sia all’interrogatorio dell’altra parte.
(49) Nello stesso senso PAZÉ, Il processo minorile, cit., 71; COSENTINO, Prassi dei
Tribunali per i Minorenni, cit., 796.
(50) PAZÉ, op. loc. cit..
(51) Ad avviso di SALMÈ, Dalla parte dei figli, in Politica del diritto, 1980, 27 ss., il
giudice, senza violare i princìpi costituzionali potrebbe negare alle parti ed ai difensori di partecipare alla consulenza tecnica di ufficio, a condizione che gli stessi possano
concordare con il consulente il modo di procedere, valutare con il consulente le risultanze della consulenza prima della redazione della relazione scritta e proporre osservazioni circa la relazione.
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anche in quelli unilaterali, non essendo in questi casi la domanda proposta nei confronti di un altro soggetto (52). Analizzando tutte le
norme dettate dal legislatore, sia quelle inserite nel capo dedicato alle
disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio (art. 737 e
segg. c.p.c.), sia quelle previste nelle norme sparse del codice civile e
nelle leggi speciali (4 maggio 1983, n. 184) è possibile appurare che il
legislatore si è posto siffatto problema soltanto per il procedimento di
dichiarazione di adottabilità, avendo nell’art. 12, 1° comma, previsto
che il presidente del Tribunale per i Minorenni “con decreto motivato
fissa la … comparizione, entro un congruo termine, dinanzi a sé o ad
un giudice da lui delegato” dei genitori o dei parenti entro il quarto
grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore.
La mancanza di qualsiasi altra disposizione in ordine al modo in
cui vanno convocate le parti che saranno destinatarie del provvedimento giudiziale non può significare assolutamente non necessità
della loro convocazione, dal momento che l’essere informato sull’esistenza del procedimento e sul suo oggetto costituisce la condizione
minima per la difesa in giudizio. D’altra parte, atteso che in molte
disposizioni si prevede che le parti debbono essere sentite, è evidente
che le stesse debbono essere chiamate in giudizio (53). Il silenzio del
legislatore pone soltanto, a mio avviso, la necessità di accertare quali
sono le modalità in concreto dell’attuazione di tale convocazione.
La forma della istanza è sicuramente il ricorso (artt. 737 c.p.c.;
250, 274, 336 c.c., 171. 4 maggio 1983, n. 184) (54), che viene depositato nella cancelleria del giudice (55); ne consegue che l’attuazione del
(52) Sulla legittimazione attiva e passiva v., per tutti, CIVININI, I procedimenti,
cit., I, 79.
(53) Così CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 195.
(54) V., nello stesso senso COSENTINO, Prassi dei Tribunali per i Minorenni: organizzazione delle procedure e modo di conduzione delle indagini nella volontaria giurisdizione, in Dir. famiglia, 1995, 791; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 158; CORDOPATRI,
Ricorso (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. dir., XL, Milano, 1989, 731 ss.. Peraltro si ritiene
pacificamente che l’adozione della citazione, in luogo del ricorso, non comporti alcuna nullità, con la conseguenza che il giudice deve comunque procedere in merito: Cass.
19 marzo 1992, n. 3416, in Dir. famiglia, 1992, 619; 11 settembre 1993, n. 9477, in Foro
it., Rep. 1993, voce Filiazione, n. 75.
(55) L’art., 316, 2° comma, c.c. stabilisce che “ciascuno dei genitori può ricorrere
senza formalità al giudice, indicando i provvedimenti che ritiene più idonei”. Ne consegue che, in questa ipotesi, deve riconoscersi l’ammissibilità dell’istanza verbale, nel
qual caso va redatto processo verbale ex art. 135 c.p.c., nelle forme e con il contenuto
dell’art. 126 c.p.c.. Da considerare che Trib. Min. Roma, 12 giugno 1996, in Dir. famiglia, 1996, 1485 ha affermato che un’istanza in carta libera, sia pure accompagnata dal
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contraddittorio si ha con il portare a conoscenza dei destinatari del
provvedimento giudiziale l’atto depositato, unitamente al provvedimento del giudice che fisserà la camera di consiglio. Nel silenzio della
legge (e stante il principio della libertà delle forme) è il giudice che
deve individuare la forma di comunicazione più idonea a realizzare
siffatta conoscenza, affinché le “controparti” possano fare valere le
loro ragioni prima che venga assunto il provvedimento giudiziale. L’ideale è sicuramente rappresentato dalla notificazione del ricorso (56)
o dalla comunicazione ad opera della cancelleria, a condizione che
venga comunicato il ricorso nel suo testo integrale, essendo diritto
delle parti conoscere il preciso oggetto del procedimento.
La necessità della notificazione del ricorso sorgerà sia nel caso in
cui è una parte privata a promuovere il procedimento sia nel caso in
cui è il Pubblico Ministero a rendersi promotore dell’iniziativa giudiziale (57) sia, infine, come si vedrà in seguito, nel caso in cui il procedimento è promosso di ufficio nei casi in cui questo è previsto.
La mancata instaurazione del contraddittorio comporta la nullità
del procedimento e del provvedimento emesso, senza che possa avere
alcun rilievo la circostanza che le parti abbiano avuto conoscenza di
quell’istanza in altro modo.
Ma la comunicazione non è evidentemente l’unico aspetto da considerare in ordine al momento della convocazione, in quanto si pone
il problema di garantire anche ai destinatari del provvedimento un termine sufficiente per potere predisporre le proprie difese. E a tale riguardo l’unica norma utile è ancora rappresentata dall’art. 12, 1°
comma, L. 184/1983, nella parte in cui discorre di “entro un congruo
termine”. Nessuna altra disposizione contempla un termine minimo,
con la conseguenza che possiamo tranquillamente affermare che la
fissazione di questo termine è sicuramente rimesso alla valutazione
discrezionale del giudice. È evidente che sarebbe un assurdo pensare
di riportare i termini previsti per il procedimento ordinario, atteso che
i sessanta giorni richiesti dall’art. 163-bis già si presentano eccessivi
per il processo ordinario. Forse un riferimento potrebbe essere dato
dall’art. 415, 5° comma, c.p.c. dettato relativamente al processo del
lavoro, che prevede che fra la data di notifica del ricorso e del decreto
parere del pubblico ministero, e irricevibile ed inidonea a radicare un procedimento
camerale, in quanto la legge richiede un ricorso, in regola con gli adempimenti fiscali.
(56) Così CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 196; CIVININI, I procedimenti,
cit., I, 167.
(57) CIVININI, I procedimenti, cit., I, 220.
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di fissazione dell’udienza e l’udienza di discussione non debba decorre un termine inferiore a trenta giorni. Il che non significa affermare
un’applicazione di quella norma nel procedimento camerale dinanzi al
Tribunale per i Minorenni, ma soltanto che il giudice può avere un
riferimento nell’art. 415 per fissare la data della camera di consiglio.
In ogni caso, come anche più volte posto in evidenza dalla Corte Costituzionale, il giudice nel fissare la data della camera di consiglio non
deve indicare una data che renda eccessivamente difficile l’esercizio
del diritto di difesa.
9. – I diritti e le facoltà delle parti. Il diritto alla prova.
L’attuazione del principio del contraddittorio non è circoscritto al
solo momento iniziale, relativo alla convocazione dei destinatari del
provvedimento, ma deve essere assicurata per tutto lo svolgimento del
procedimento (che non conosce un sistema di preclusioni analogo a
quello introdotto con la riforma del 1990 nel processo di cognizione),
nel senso che deve essere data alle parti la possibilità di partecipare
attivamente, sia per essere sentite sui fatti di causa sia per allegare i
fatti sui quali il giudice deve decidere sia per indicare i mezzi di prova
relativamente a quegli stessi fatti sia ancora per confutare le prove
chieste dalle altre parti (58). Tale possibilità non può essere negata
solo perché si è in presenza di un procedimento speciale, in quanto il
diritto della parte di partecipare attivamente al processo è elemento
integrante del suo diritto di difesa, al fine di dimostrare che il suo
comportamento non contrasta con gli interessi del minore. L’omissione dell’audizione dei soggetti coinvolti determina nullità del procedimento per violazione delle norme sull’integrità del contraddittorio,
nullità che può essere fatta valere, per la prima volta, in sede di legittimità (59).
(58) Vd., CAPPELLETTI, Libertà individuale e giustizia sociale nel processo civile
italiano, in Riv. dir. proc., 1972, 27, nonché CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 196;
CIVININI, I procedimenti, cit., I, 197 ss.. Anche VERCELLONE, Giustizia minorile: profili ordinamentali e processuali dei progetti di riforma, in Questione giustizia, 1986, 443,
ritiene che sia indispensabile garantire che sia sentito il soggetto che sarà coinvolto.
(59) Cass. 16 febbraio 1981, n. 938, in Foro it., Rep. 1981, voce Filiazione, n. 73.
Nella specie si trattava di un procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, vigente la precedente disciplina di cui all’art. 314/11, e non era stato ascoltato il
rappresentante dell’istituto. Secondo la Corte la nullità si era estesa al decreto di
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Con ciò non si vuole negare la particolarità della situazione e tanto
meno si vuole trasferire nel procedimento minorile quelle regole e
quelle forme che contrassegnano il processo ordinario di cognizione.
Si vuole soltanto sottolineare che il diritto della parte a partecipare attivamente al procedimento, a produrre prove e a contrastare le risultanze avverse non può essere negato, ragion per cui bisogna assicurare che, nel rispetto della specialità del procedimento e della particolarità degli interessi in gioco, le parti abbiano la possibilità di dire la loro
prima della emanazione del provvedimento conclusivo.
Neppure il carattere inquisitorio che si vuole riconoscere al processo minorile può giustificare una compressione del diritto delle
parti di partecipare attivamente allo svolgimento del processo, in considerazione del fatto che la garanzia del contraddittorio “non implica
soltanto che un soggetto possa difendersi contro le prove presentate
dall’avversario, ma richiede altresì che le parti siano in grado di interloquire su tutte le prove reperite e raccolte d’ufficio” (60). In altri termini, considerato che nel procedimento in camera di consiglio, come
si vedrà, il giudice “assume informazioni” ai fini della pronuncia del
decreto, e che quindi il giudice minorile nel disporre la prova non è
vincolato alle allegazioni dei fatti ed alle richieste di prova delle parti,
sarà necessario che i risultati di tali informazioni siano portati a conoscenza delle parti e vi sia su di essi un effettivo contraddittorio, anche
se realizzato in modo informale e più agile (61). Sottolinea COMOGLIO che proprio il carattere inquisitorio del procedimento comporta
“un più rigoroso rispetto dei diritti di difesa, per il controllo dialettico
dei maggiori poteri attribuiti al giudice” (62).
Il diritto delle parti ad essere ascoltate è sancito peraltro da una
serie di norme: dall’art. 336, 2° comma, c.c. nonché dagli art. 84, 2°
comma, 250, 4° comma, 316, 5° comma, c.c.; dagli artt. 10, 5° comma,
12, 1° comma, 22, 25, 1° comma, della L. 184/1983 (63). L’art. 269, 2°
dichiarazione dello stato di adottabilità, alla sentenza del Tribunale per i Minorenni
che aveva deciso sull’opposizione al decreto, alla sentenza di appello che aveva confermato quella di primo grado.
(60) TROCKER, Processo civile e costituzionale, cit., 535. Nello stesso senso v. COLESANTI, Principio del contraddittorio, cit. 609; CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 197.
(61) COLESANTI, Principio del contraddittorio, cit., 610; CARLINI, Diritto di difesa, cit., 407.
(62) COMOGLIO, Garanzie costituzionali e prove atipiche nel procedimento camerale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 1159.
(63) Nel senso che l’audizione delle parti costituisce il “fulcro essenziale del diritto di difesa” COMOGLIO, Garanzie costituzionali, cit., 1157.
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comma, c.c., poi, stabilisce che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”.
Tanto premesso mi sembra doversi riconoscere alle parti a) il potere di produrre in camera di consiglio tutti quei documenti che le stesse ritengono rilevanti ai fini della decisione (64); b) di chiedere l’audizione di alcuni soggetti a conoscenza dei fatti di causa, senza che sia
per questo necessario osservare le forme previste per la prova testimoniale nel processo ordinario (65); c) di chiedere l’esibizione di alcuni
documenti (66); d) di chiedere consulenze tecniche (67), e) di farsi assistere da un proprio consulente, sia nel momento in cui è il giudice che
procede all’assunzione delle informazioni o dispone consulenze tecniche, sia nel caso in cui il giudice delega ai servizi sociali l’assunzione
delle informazioni (68). E ciò anche al fine di riequilibrare la posizione di soggezione che le parti hanno rispetto ai servizi sociali (69).
Nell’ambito del diritto di difesa della parte e del diritto alla prova
va riportato inevitabilmente il diritto di prendere visione di tutti gli
atti del procedimento che sono diretti a formare il convincimento del
giudice.
Sembra opportuno richiamare l’attenzione su tale aspetto sia perché nel processo minorile le relazioni e le informazioni scritte costituiscono un dato oramai costante, anche a seguito della presenza continua dei servizi sociali e degli organi di pubblica sicurezza, sia perché
vi è una tendenza da parte di alcuni giudici a vietare alle parti il diritto di prendere visione e di leggere tali documenti (70) o di rimettere al
giudice “istruttore” il potere discrezionale di consentire la conoscenza
(64) REDENTI, Diritto processuale civile, cit., III, 356; ANDRIOLI, Commento, cit.,
IV, 439; CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 196; CARLINI, Diritto di difesa, cit.,
407.
(65) REDENTI, Diritto processuale civile, III, cit., 356; CARLINI, Diritto di difesa,
cit., 407. Corte Cost. 1° marzo 1973, n. 22, in Foro it., 1973, I, 1344 ammette la prova
per testimoni “nelle forme compatibili con la natura del procedimento”. Da porre in
evidenza che nella stessa decisione la Corte ammette l’interrogatorio formale.
(66) REDENTI, Diritto processuale civile, III, cit., 356.
(67) CARLINI, Diritto di difesa, cit., 407.
(68) REDENTI, Diritto processuale civile, IIII, cit., 356.
(69) PAZÉ, Il processo minorile, cit., 70.
(70) V. App. min. Torino, 4 maggio 1987, in Dir. famiglia, 1988, 232, che ha confermato, con motivazione discutibile, il decreto del tribunale con cui si cra negato al
difensore del padre del minore di prendere visione degli atti del fascicolo e di estrarne
copia (da sottolineare che il reclamo era stato proposto dal Pubblico Ministero che
aveva visto nel rifiuto una violazione del diritto di difesa).
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degli atti, al fine di salvaguardare l’interesse del minore e di tutelare
gli stessi servizi sociali (71).
Come è stato esattamente sottolineato “tutte queste prassi appaiono abusive sotto il profilo della disparità rispetto alla posizione del
pubblico ministero che conosce gli atti nella loro integrità (art. 1 disp.
att. c.p.c.) e della violazione della garanzia del diritto di difesa di cui
all’art. 24 della Costituzione, le parti non essendo messe in condizione
di discutere il materiale probatorio acquisito nel procedimento e di
proporre in relazione ad esso eventualmente nuove prove prima della
decisione del giudice” (72).
Peraltro, non può non porsi in evidenza che l’art. 76 disp. att.
c.p.c., relativamente al procedimento dinanzi al Tribunale, sancisce
che “le parti o i loro difensori muniti di procura possono esaminare gli
atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio e in quelli delle altre
parti e farsene rilasciare copia dal cancelliere, osservate le leggi sul
bollo”. Significativa al riguardo è una recente pronuncia della Cassazione, che ha affermato che “i poteri delle parti sui fascicoli … appartengono al novero delle facoltà essenziali mediante le quali si esercita
il diritto di difesa nel processo”; “che, ove ne fosse impedita la conoscibilità alle parti od ai loro difensori, risulterebbero irrimediabilmente lese le garanzie del contraddittorio e dell’assistenza tecnico-professionale, che del diritto di difesa rappresentano le fondamentali espressioni”; che la legge “non prevede alcuna autorizzazione del
giudice al loro esame ad opera delle parti e dei loro difensori” (73).
Ecco allora che nel procedimento camerale vi è comunque una
istruttoria, sia pure strutturata in modo completamente differente da
quella ordinaria, anche per l’esistenza, come vedremo, di poteri ufficiosi del giudice; una istruttoria informale, ma nel corso della quale
deve essere assicurato alle parti il diritto di presentare prove e di confutare quelle presentate da altri soggetti o assunte di ufficio.
10. – L’emanazione dei provvedimenti temporanei.
Un discorso a parte deve essere fatto per quel che concerne i provvedimenti temporanei che, in caso di urgente necessità, il Tribunale
(71) V. su tale aspetto PAZÉ, Il processo minorile, cit., 68 s..
(72) Così PAZÉ, Il processo minorile, cit., 69.
(73) Cass. 12 maggio 1994, n. 4643, in Foro it., 1996, I, 264 con nota di CIVININI.
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(74) può adottare anche di ufficio (art. 336, ult. comma, c.c.), sia anteriormente al giudizio camerale avente ad oggetto i provvedimenti di
cui agli artt. 330 e segg. (decadenza, reintegrazione nella potestà dei
genitori, ecc.) sia in corso del procedimento camerale.
Data la natura e la funzione, sia pure in senso lato, cautelare che
sembra doversi riconoscere a questi provvedimenti (75), sembra possibile affermare che il Tribunale per i Minorenni, in caso di urgente
necessità, possa pronunciare inaudita altera parte con decreto provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, salva comunque la
necessità di iniziare il procedimento di sede camerale avente ad oggetto i provvedimenti indicati negli artt. 330-335 c.c. (infatti i provvedimenti urgenti di cui all’art. 336, ult. comma, sono solo quelli in funzione dei provvedimenti in tema di potestà) (76). In questo caso il contraddittorio viene differito ad un momento successivo, ossia nel procedimento camerale, nel quale peraltro quei provvedimenti temporanei potranno essere modificati e revocati. Il diritto delle parti ad essere ascoltate e a potere partecipare attivamente al processo viene pertanto garantito dopo l’emanazione del provvedimento, che ha tuttavia
natura temporanea.
È vero che la legge non prevede che il procedimento camerale
debba essere promosso subito dopo l’emanazione dei provvedimenti
temporanei (il che ha contribuito a legittimare una tendenza a mantenere l’efficacia del provvedimento per un tempo illimitato) (77), ma è
anche vero che la natura temporanea porta a ritenere che tale provvedimento non possa di per sè disciplinare la situazione in via definitiva. Ne deriva che, dopo l’emanazione dei provvedimenti temporanei,
dovrà essere promosso il procedimento camerale per l’emanazione del
provvedimento definitivo, ad esempio su iniziativa del pubblico ministero, al quale devono essere comunicati gli atti (78). Quello che non
può fare l’interprete è tuttavia fissare un termine entro cui promuove-
(74) Ossia il collegio e non il giudice delegato; Cass. 17 maggio 1978, in Foro it.,
Rep. 1978, voce Potestà dei genitori, n. 8; App. Roma, 19 marzo 1977, id., 1977, I. 1294;
Trib. Min. Bari, 21 maggio 1979, id., 1980, I, 2137; CIVININI, I procedimenti, cit., II, 550.
(75) Sulla natura e funzione cautelare di tali provvedimenti v. COSTANTINO,
Scritti sulla riforma della giustizia civile (1982-1995), Torino, 1996, 335; LUISO, Una
giurisdizione, cit., 188; CIVININI, I procedimenti, cit., I, 204.
(76) Così anche CIVININI, I procedimenti, cit., I, 205.
(77) PAZÉ, Il processo minorile, cit., 62 s..
(78) Così CARPI, La tutela d’urgenza fra cautela, “sentenza anticipata” e giudizio di
merito, in Riv. dir. proc., 1985, 714 s..
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re il procedimento, a pena inefficacia dei provvedimenti temporanei
(79). Con la conseguenza che si può verificare il caso di provvedimenti resi ex art. 336, ult. comma, c.c. non seguiti dal procedimento camerale per l’emanazione dei provvedimenti definitivi. In questo caso
ritengo che non possa contestarsi l’orientamento che si è diffuso fra
alcuni giudici di merito di ammettere il reclamo avverso tali provvedimenti – solo di nome – temporanei (80).
In verità, al riguardo, nei confronti di tali provvedimenti temporanei si pone il problema dell’ammissibilità del reclamo in via più generale, ossia indipendentemente dalla mancata proposizione del procedimento camerale, soprattutto ora che avverso tutti i provvedimenti cautelari è previsto il reclamo ex art. 669-terdecies.
La soluzione al problema, forse, può essere individuata nel carattere e nella funzione in senso lato cautelare di quei provvedimenti; se
si fosse d’accordo su tale aspetto, si potrebbe allora pensare di applicare le nuove disposizioni in tema di procedimento cautelare, ed in
particolare l’art. 669-terdecies, che prevede il reclamo avverso il provvedimento cautelare (81). Non nascondo che si tratta di una lettura
(79) Ma v. App. min. Roma, 27 marzo 1987, in Temi romana, 1987, 669 con nota
di STORACE, Tribunale per i Minorenni: poteri del giudice e diritto alla difesa, secondo
cui i provvedimenti de quibus “debbono contenere la previsione di un congruo termine, ragionevolmente breve in considerazione dell’estrema delicatezza degli interessi sui
quali essi vengono a incidere, decorso il quale la loro efficacia rimane caducata qualora il Pubblico Ministero o altro soggetto privato legittimato a norma dell’art. 336, 1°
comma, c.c. non richieda con regolare ricorso… l’adozione di provvedimenti ablativi o
variamente limitativi della potestà genitorile”. V. altresì App. Napoli, 16 febbraio 1995,
in Dir. famiglia, 1996, 103 che ha dichiarato l’illegittimità del decreto reso dal Tribunale per i Minorenni ai sensi dell’art. 336, ult. comma, nel quale non era stato indicato alcun termine.
(80) App. Roma, 11 settembre 1989, in Foro it., 1990, I, 1375, ed ivi richiami, secondo cui la mancata previsione di un termine entro cui dare inizio al procedimento
rende i provvedimenti “idonei a produrre in modo autonomo un pregiudizio stabile”,
nonché CARPI, La tutela d’urgenza, cit., 714; SACCHETTI, Adozione e affidamento dei
minori, Rimini, 1993, 172. In senso contrario v. A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia. Commentario teorico pratico alla l. 19 maggio 1975, n. 151, II, Milano,
1976, 257. Da considerare che Cass. S.U. 21 gennaio 1988, n. 424, in Foro it., 1989, I,
504 esclude il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto pronunciato in
sede di reclamo dei provvedimenti temporanei nell’interesse del minore.
(81) Ammettono l’applicazione dell’art. 669-terdecies COSTANTINO, Scritti sulla
riforma della giustizia civile, cit., 335; CIVININI, I provvedimenti, cit., I, 211; II, 551;
App. Roma, 4 agosto 1995, in Dir. famiglia, 1996, 1393, con nota critica di CONTE,
Sulla reclamabilità del provvedimento di sospensione dalla potestà parentale, emesso
d’urgenza in via cautelare, in vista della decadenza ex art. 330 cc..
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liberale, forse anche troppo liberale. Sta di fatto che, se l’alternativa è
di negare qualsiasi controllo avverso quei provvedimenti, in quanto
non autonomi e non definitivi (82), allora preferisco una forzatura del
dato positivo ed ammettere il reclamo, non ritenendo affatto che questo sia un orientamento “conservatore” (83).
Va ricordato che, a differenza dell’art 336, ult. comma c.c., l’art.
10, 4° comma, L. 184/1983 prevede che “il Tribunale entro trenta giorni deve confermare, modificare o revocare i provvedimenti urgenti …
assunti” in caso di urgente necessità, e deve provvedere in camera di
consiglio sentiti, fra gli altri, i genitori. Nulla dispone la norma per
quanto concerne il reclamo. Ritengo che possano valere le considerazioni che ho esposto poc’anzi (84).
11. – La motivazione del provvedimento ed il reclamo.
Sottolinea efficacemente COLESANTI che “quasi un suggello
della concreta attuazione del contraddittorio nel corso del procedimento, e a guisa di complemento del “contenuto minimo” di esso, può
venir considerata altresì la garanzia della motivazione del provvedimento, del resto sancita dall’art. 111 della Costituzione” (85).
Infatti, la motivazione assolve non solo allo scopo di dare conto
dello svolgimento del processo e della partecipazione delle parti, ma
anche alla finalità di consentire un controllo sull’operato del giudice.
Ne consegue che la motivazione deve dare conto, sia pure in modo
succinto, del convincimento del giudice, soprattutto con riferimento
alle difese svolte dalle parti (86).
(82) In tal senso App. Roma, 10 maggio 1993, in Dir. famiglia, 1996, 1387 con nota
adesiva di CONTE, Provvedimenti temporanei nell’interesse del minore e loro impugnabilità: segnali nuovi all’orizzonte?
(83) Così CONTE, Sulla reclamabilità, cit., 1395.
(84) Nel senso della reclamabilità di questi provvedimenti resi ex art. 10 L. 1/84
del 1983 v. App. Venezia, 5 marzo 1988, in Giust. civ., 1988, I, 1298; CIVININI, I procedimenti, cit., II, 561.
Negano il reclamo Trib. Min. Roma, 27 giugno 1986, in Giur. merito, 1988, I, 337
con nota di DOGLIOTTI, Interesse del fanciullo, ruolo del giudice minorile … e rispetto
delle procedure; App. min. Roma, 24 giugno 1986, id., 1987, I, 895 con nota adesiva di
MANERA, Sulla reclamabilità immediata dei provvedimenti provvisori disposti dal T.M.
ai sensi dell’art. 10 della legge n. 184 del 1983.
(85) COLESANTI, Principio del contraddittorio, cit., 612.
(86) CIVININI, I provvedimenti, cit., I, 233; Cass. 24 gennaio 1981, n. 545, in Giust.
civ., 1981, I, 1400.
41
Il processo minorile si conclude con decreto, fatta eccezione per
quelle ipotesi in cui la legge prevede la forma della sentenza (artt. 250
c.c.; 40 d.a. c.c.; 17 legge 184 del 1983, in tema di opposizione alla
dichiarazione dello stato di adottabilità) (87), decreto che deve essere
appunto motivato.
Il decreto è reclamabile alla Corte d’Appello, che decide in camera di consiglio con decreto non reclamabile in Cassazione ai sensi dell’art. 739, 3° comma, c.p.c..
Devo segnalare, peraltro, al riguardo la giurisprudenza della Corte
di Cassazione che ammette, invece, il ricorso per cassazione ex art.
111 Cost. allorché il decreto della Corte d’Appello ha natura decisoria
e definitiva, in quanto modificativo di uno status ed incidente su diritti soggettivi di rilevanza primaria (88). A tale proposito mi sembra che
debba vedersi con favore l’ammissione del ricorso per cassazione, perché essenziale al diritto di difesa è proprio il diritto di impugnare
dinanzi alla Cassazione provvedimenti, in qualunque forma emessi,
che hanno natura decisoria ed incidono su diritti e status (89).
12. – I poteri ufficiosi del giudice. Il giudice delegato.
Si afferma generalmente che il processo civile minorile ha natura
inquisitoria (90), nel senso che è caratterizzato da ampi poteri attribuiti al giudice, il quale in taluni casi ha il potere di aprire di ufficio il
procedimento; pensiamo ai provvedimenti temporanei di cui agli artt.
336, 3° comma, c.c. e 10 l. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di dichiarazione di adottabilità; o ai provvedimentiıi di cui all’art. 264 c.c., in
tema di autorizzazione all’impugnazione del riconoscimento, nel caso
(87) L’art. 84, 5° comma, prevede l’ordinanza in caso di reclamo avverso il decreto sull’ammissione al matrimonio del minore ultrasedicenne.
(88) Cass. 13 aprile 1995, n. 4258, in Dir. famiglia, 1995. Su tale punto v. l’analisi
di giurisprudenza di CIVININI, I procedimenti, cit., I, 352 ss..
(89) Sottolinea PROTO PISANI, Usi e abusi, cit., 435, che l’ammissione del ricorso per Cassazione “sul terreno delle garanzie … non sarà mai in grado di riequilibrare
ex post un processo di merito svoltosi in assenza delle garanzie proprie della cognizione piena”.
(90) PAZÉ, Processo minorile, cit., 61; COSENTINO, Prassi dei Tribunali per i
Minorenni, cit.; 792. In generale, nel senso che il procedimento camerale, è ispirato al
princìpio inquisitorio, v. fra gli altri, REDENTI, Diritto processuale civile, cit., III, 350;
MONTELEONE, Camera di consiglio, cit., 988; LAUDISA, Camera di consiglio, cit., 4;
ARIETA, Procedimenti, cit., 449; CIVININI, I procedimenti, cit., 182.
42
previsto dall’art. 74 l. 4 maggio 1983, n. 184, o al provvedimento che
dispone l’affidamento familiare ex art. 4, 2° e 6° comma, L. 184 del
1983; o alla dichiarazione di adottabilità di cui all’art. 8, 1° comma, L.
184 del 1983.
In tali ipotesi alla base dell’iniziativa del giudice vi è una situazione di necessità o di urgenza, nella quale versa il minore, che non tollera alcun ritardo, situazione portata a conoscenza del giudice nei
modi più differenti: dalle dichiarazioni spontanee rese dai soggetti
interessati alle segnalazioni dei servizi sociali o degli ufficiali di stato
civile (art. 74 L. 184/1983) o dei pubblici ufficiali o del giudice tutelare (art. 9 L. 184/1983).
È evidente che in tali casi, ove secondo alcuni studiosi sarebbe
stato preferibile attribuire il potere di iniziativa al Pubblico Ministero,
al fine conservare la posizione di terzietà al giudice (91), l’attuazione
del contraddittorio nei confronti dei soggetti destinatari del provvedimento conclusivo si presenta indispensabile fin dai primi atti, dovendosi porre subito le parti interessate nella posizione di potere partecipare attivamente allo svolgimento del procedimento e di conoscere le
fonti di prova che il giudice ha acquisito e sulle quali fonderà il proprio convincimento (92).
Attuazione del contraddittorio che significa che la parte deve essere messa in grado di conoscere l’oggetto della questione, al fine di potere esercitare le proprie difese, nonché il tempo ed il luogo della trattazione. Non si richiedono da parte della giurisprudenza della Cassazione particolari formule sacramentali o rigorosi requisiti temporali,
purché la parte sia posta “in condizione di esercitare adeguatamente
le proprie difese” (93).
La mancata instaurazione del contraddittorio “si risolve in un
vizio del procedimento … e più precisamente produce una nullità rile-
(91) Vd., COSENTINO, Prassi dei Tribunali per i Minorenni, cit., 791. V. altresì
CIVININI, I procedimenti, cit., I, 77, la quale osserva che “da sussistenza di ragioni
d’urgenza, pur se insorgenti in riferimento a situazioni sostanziali nelle quali si intrecciano interessi pubblici e privati …, non appare sufficiente a giustificare la deroga al
principio della domanda”.
(92) Vd., ARIETA, Procedimenti, cit., 456. V. altresì CIVININI, I procedimenti, cit.,
I, 165; Cass. 14 gennaio 1977, n. 170, in Foro it., 1977, I, 354; 29 gennaio 1976, in Giust.
civ., 1976, I, 175; 13 ottobre 1975, n. 3256, in Giur. it, 1976, I, 1, 1142.
(93) Cass. 7 marzo 1978, n. 1126, in Foro it., Rep. 1978, voce Matrimonio, n. 250,
5 luglio 1978, n. 3314, ibid., n. 249, sia pure a proposito del procedimento camerale per
la dichiarazione di esecutività delle sentenze eccelesiastiche di annullamento del
matrimonio.
43
vabile di ufficio anche nel successivo giudizio di Cassazione” (94).
Oltre il potere, nei casi previsti, di promuovere di ufficio il procedimento, il giudice minorile ha ampi poteri in ordine allo svolgimento
del procedimento, nel senso che, di ufficio e senza essere condizionato dalle istanze dei soggetti destinatari del provvedimento conclusivo,
assume informazioni, ascolta le parti, le interroga liberamente, acquisisce documenti, dispone ispezioni e consulenze tecniche (psicologiche o medico-psichiatriche), acquisisce pareri tecnici, chiede relazioni ai servizi sociali, agli organi di pubblica sicurezza e a ogni altra istituzione in grado di fornire utili notizie. La istruttoria nel procedimento camerale minorile si caratterizza sia per la capacità dei mezzi di
prova sia per la atipicità delle modalità di acquisizione delle fonti di
prova. In tutti questi casi ciò che è comunque necessario è che sia
attuato e garantito il contraddittorio, sia data alle parti la possibilità
di contestare le risultanze probatorie acquisite, di dedurre e di chiedere mezzi di prova in relazione a quelle risultanze probatorie. Precisa la Cassazione che non è essenziale “che le parti debbano necessariamente partecipare previamente all’acquisizione delle informazioni
e degli atti, essendo sufficiente anche una posticipazione dell’esercizio
delle facoltà difensive … Ma quello che assolutamente non è consentito, dal principio generale della “parità delle armi” … è che all’attività
di raccolta delle informazioni da parte del giudice possa assistere solo
una delle parti in contesa, con la conseguenza che solo ad essa viene
riconosciuta la facoltà di formulare domande e osservazioni e di esercitare l’inevitabile influenza che anche la mera presenza può avere
sulla persona sentita dal giudice” (95).
Per quanto concerne le “informazioni” va subito detto che non
significa che queste debbano essere sommarie, dovendo invece “essere scrupolose e approfondite” (96).
L’interrogativo che si è posto in dottrina è se il giudice nella attività istruttoria incontri dei limiti, nel senso che sia limitato ai fatti
allegati dalle parti oppure se, al contrario, sia libero di allegare di ufficio fatti che siano rilevanti per il giudizio ma che non emergono dagli
(94) Così, sia pure a proposito di un procedimento camerale per la dichiarazione
di esecutività di una sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, Cass. 13
ottobre 1976, n. 3256, in Giust. civ., 1976, I, 65.
(95) Cass. 17 ottobre 1995, n. 10833, in Famiglia e diritto, 1996, 25 con nota di
FIGONE, Dichiarazione giudiziale di paternità, principio del contraddittorio e interesse
del minore.
(96) CIPRIANI, Procedimento camerale, cit., 197; PAGANO, Contributi, cit., 19.
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atti di causa e non siano notori, con superamento del divieto di utilizzazione del sapere privato. Mi sembra che stante il carattere inquisitorio del procedimento camerale e l’ampia formula utilizzata dal legislatore (assume informazioni) il giudice non incontra limiti nella ricerca delle fonti di prova (97).
L’ampia formula legislativa ha nel tempo dato vita alla prassi di
demandare ad altri soggetti – quali gli organi di polizia o i servizi sociali – il compito di assumere tali informazioni. Ora, premesso che
non sembra assolutamente contraria a legge tale prassi, pare comunque dovere condividere la lettura che è stata data agli artt. 738, 3° comma, e 336, 2° comma, ossia che il soggetto che deve assumere le informazioni, ascoltando senza formalità tutti quei soggetti che si ritiene
utili ai fini della decisione, è il giudice, anche perché ciò significa che
la prova viene assunta nel processo e non anche al di fuori.
Allorché, peraltro, il giudice ritenga di dovere utilizzare tali organi
per assumere informazioni, la circostanza che la loro attività si svolge
al di fuori del processo, richiede che i risultati vengano poi discussi
all’interno del processo nel contraddittorio con le parti coinvolte. Questo anche per evitare che vi possa essere un condizionamento del giudice da parte di tali organi che normalmente non si limitano ad esporre i fatti, ma forniscono valutazioni soggettive del caso concreto.
Un aspetto di particolare rilievo, in ordine ai poteri del giudice, riguarda la figura del giudice relatore o delegato, ossia del giudice che ai
sensi dell’art. 738, 1° comma, c.p.c. “riferisce in camera di consiglio”.
Una prima interpretazione del dato normativo, strettamente letterale, afferma che il giudice che assume le informazioni ed ammette le
eventuali prove (comprese le consulenze tecniche) e davanti al quale
quindi si svolge l’istruttoria è il collegio e non anche il relatore, all’uopo nominato, il cui compito è solo quello di riferire in camera di consiglio, e ciò stante la particolare struttura del procedimento camerale
che non prevede una fase del procedimento che si svolge dinanzi ad un
giudice ed una fase decisoria che si svolge dinanzi al collegio (98).
(97) Così anche ARIETA, Procedimenti, cit., 457. Secondo CIVININI, I procedimenti, cit., I, 183 ss., invece, bisogna distinguere a seconda che il giudice abbia oppure il potere di iniziativa perché solo nel primo caso egli non incontra limiti nella allegazione dei fatti.
(98) V. al riguardo Trib. Min. Venezia, Procura Repubblica – reclamo 18 gennaio
1992, in Dir. famiglia 1992, 722. V., inoltre nello stesso senso SERGIO, Rito camerale e
collegialità, questione cruciale per la giustizia minorile, in Dir. famiglia, 1992, 728 ss.;
PAZÉ, Il processo minorile, cit., 70.
45
Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo recente della Corte di Cassazione che, con sentenza 3 settembre 1994, n. 7629 (99), ha affermato che nel giudizio camerale avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale di figli minori, “non è ammissibile la delega da parte del collegio ad uno dei suoi componenti per l’assunzione delle prove”. Peraltro, va detto che in precedenza la stessa
Corte di Cassazione, nelle poche occasioni in cui ha avuto modo di
pronunciarsi (stante la irreclamabilità dei decreti resi dalla Corte
d’Appello), aveva riconosciuto l’ammissibilità della delega, nel senso
che “un giudice può essere delegato alla raccolta di elementi da sottoporre alla piena valutazione del collegio” (100), legittimando così la
diffusa prassi di nominare un giudice – istruttore o delegato – che
assume le informazioni ed i mezzi di prova disposti dal collegio. Una
prassi che, si è detto, trova il suo riferimento normativo nell’art. 10
della l. 4 maggio 1983, n. 184, ove si prevede che, relativamente alla dichiarazione di adottabilità, “il Presidente del Tribunale per i Minorenni, o un giudice da lui delegato, ricevute le informazioni di cui all’articolo precedente, dispone di urgenza tramite i servizi locali e gli organi di pubblica sicurezza approfonditi accertamenti sulle condizioni
giuridiche e di fatto del minore, sull’ambiente in cui ha vissuto e vice
ai fini di verificare se sussiste lo stato di abbandono”. Prassi, peraltro,
avvalorata da una circolare (12 ottobre 1984, n. 7771) del C.S.M. che
ha ammesso “l’impiego di componenti privati in attività istruttoria,
per oggetto, fini e cognizioni congrui alla loro specifica preparazione
professionale, spettando al Presidente del Tribunale o del Collegio
individuare tale congruità caso per caso, sia pure nel rispetto dei criteri necessari a non violare la regola del giudice naturale”.
Ancor più di recente, sia pure solo a livello di obiter dictum, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ammesso la delega ad un giudice
del collegio, in quanto vi è un “principio generale, secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell’organo
collegiale”, principio che, “in difetto di esplicite norme contrarie, non
(99) In Foro it., 2199 con osservazioni critiche di CIVININI, che ha conseguentemente dichiarato la nullità assoluta per vizio di costituzione del giudice, nullità tuttavia che soggiace al principio di conversione delle nullità in motivi di gravame e che non
può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.
(100) Cass. 20 dicembre 1985, n. 6526, in Foro it., Rep. 1985, voce Filiazione, n.
65; 20 giugno 1978, n. 3027, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 57 e 63, nonché, in motivazione; Cass. 21 marzo 1990, n. 2350, in Giur. it., 1991, I, 1, 1345.
46
può non valere nell’ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini,
cui tale particolare tipo di procedimento e ispirato” (101).
A me sembra che la soluzione al quesito debba muovere da una
premessa: altro è ammettere le prove altro è assumerle. Se si muove da
tale premessa è inevitabile riconoscere che legittimato ad ammettere le
prove è solo il collegio, in quanto nella struttura del procedimento
camerale non vi è un giudice istruttore, giudice istruttore che invece
nel giudizio ordinario esiste e, anche quando opera all’interno del collegio (art. 48 ord. giud.), ha il potere-dovere di decidere sull’ammissione delle prove. Ma se il collegio deve ammettere le prove non è
detto che deve essere lo stesso collegio a doverle assumere, ben potendo invece il collegio delegare ad un suo componente il compito di assumere le prove ammesse, a meno che lo stesso Collegio non ritenga, per
la particolare delicatezza della questione o della prova, di assumerle
direttamente. È infatti evidente che “l’assunzione delle prove da parte
dell’intero collegio non sembra ispirata a una saggia utilizzazione delle
risorse disponibili. Anzi, coi tempi che corrono, l’assunzione collegiale si appalesa un vero e proprio spreco o, se si preferisce, un lusso che
ci si dovrebbe ben guardare dal permettersi” (102). Chiariscono le
Sezioni Unite nella decisione richiamata che “la delega non concerne
l’ammissione delle prove, demandata al giudice collegiale, il quale soltanto può valutarne l’ammissibilità e la rilevanza, bensì la loro mera
assunzione, attribuita dallo stesso collegio ad uno dei suoi componenti, il quale, incaricato della raccolta degli elementi probatori, dovrà poi
rimetterli all’organo collegiale per la definitiva valutazione”.
13. – Conclusioni.
Nel tirare le fila di quanto detto, è possibile indubbiamente riconoscere che nel procedimento camerale minorile, per la mancanza di
una predeterminazione legale di forme e termini, l’attuazione del con-
(101) Cass. S.U. 19 giugno 1996, n. 5629, in Foro it., 1996, I, 3070.
(102) Così CIPRIANI, Giudice collegiale e prove assunte da giudice delegato, in Foro
it., 1996, I, 1026. Nello stesso senso v. TOMMASEO, Rito camerale, cit., 312; CIVININI,
Dichiarazione giudiziale, cit., 3077 ss.; SACCHETTI, Sul giudice relatore dotato di poteri istruttori e direttivi nel procedimento camerale minorile, in Dir. famiglia, 1993, 717 ss.;
COSENTINO, Prassi dei Tribunali per i Minorenni, cit., 797.
47
traddittorio e del diritto di difesa risulta rimessa alla valutazione del
giudice, il quale deve comunque assicurare quel minimo essenziale di
contraddittorio che si è cercato di mettere in risalto in questa relazione. La circostanza che nelle materie affidate al Tribunale per i Minorenni sono in discussione gli interessi ed i diritti dei minori, sicché il
giudice minorile vede arricchire il proprio ruolo di una funzione non
prettamente giudiziaria, tanto che i suoi provvedimenti sono anche
diretti a proteggere i minori e ad assicurare una effettiva attuazione
dei loro diritti (103), non significa che il giudice minorile non sia un
giudice; e compito del giudice è sempre quello di applicare la legge,
nel rispetto delle garanzie e dei diritti delle persone interessate dalla
decisione (104). Sicuramente si assiste ad una ampia discrezionalità
nelle decisioni del giudice (pensiamo all’ipotesi regolata nell’art. 316
c.c., ove il giudice “suggerisce le determinazioni che ritiene più utili
nell’interesse del figlio e dell’unità familiare”; oppure nell’art. 333 c.c.,
ove il giudice “può adottare i provvedimenti convenienti”), sia perché
bisogna sempre tenere presente il primario interesse del minore, sia
perché il giudice interviene su situazioni non definite esattamente dal
legislatore (interesse del minore; pregiudizio; idoneità dell’ambiente
familiare) (105).
Ma questa discrezionalità e la circostanza che il legislatore abbia
inteso prevedere per talune materie forme di tutela speciali, differenti
da quelle ordinarie, non significano, come si è cercato di dimostrare,
che non è necessario attuare la garanzia del contraddittorio; il contraddittorio in quei procedimenti deve essere comunque attuato, sia
pure in modo differente da quanto avviene nel processo ordinario, con
forme più agili e più semplificate, ma deve essere sempre attuato.
(103) Sottolinea MORO, Minorenni (Tribunale per i), voce dell’Enc. dir, XXVI,
Milano, 1976, 568, come “il ruolo del magistrato minorile – pur restando nel solco della
tradizionale funzione giudiziaria – si arricchisca di connotati e poteri peculiari che rendono più evidente la sua funzione non di mero risolutore di conflitti intersoggettivi –
attraverso l’individuazione della norma da applicare al caso concreto – ma principalmente di promotore del diritto del singolo attraverso un’attività dinamica di reperimento di casi e una incisiva, continuativa azione per appagare i bisogni, azione che
non si esaurisce con la pronuncia ma seguita nel tempo sino al raggiungimento pieno
dello scopo”.
(104) LA GRECA, Tribunale per i Minorenni, voce del Noviss. Dig. it., XIX, Torino,
1973, 703. In senso differente sembra SERGIO, Rottura dell’unità familiare, cit., 398, il
quale afferma che “il giudice minorile non giudica se un fatto è conforme o meno al
diritto, per farne discendere le conseguenze previste dalla legge”.
(105) In tal senso anche DUSI, Presentazione, cit., 386 s..
48
IL PROCESSO CIVILE MINORILE
Relatore:
Dott.ssa Elisa CECCARELLI
Presidente del Tribunale
per i Minorenni di Bologna
1. – La competenza civile del Tribunale per i Minorenni.
L’art. 38 disp. att. c.c., così come modificato dall’art. 68 della legge
4 maggio 1983 n. 184, delimita la competenza del T.M. enumerando i
provvedimenti ad esso rimessi e indicando, per tutti gli altri provvedimenti riguardanti i minorenni, la competenza residuale del Tribunale
ordinario.
Ulteriori competenze sono attribuite al T.M. da altre norme:
– art. 34 disp. att. c.c.: domanda del figlio naturale per ottenere il
mantenimento ex art. 279 c.c.,
– art. 35 disp. att. c.c.: autorizzazione al riconoscimento del figlio
incestuoso (art. 251 c.c.), domanda di legittimazione (art. 282 c.c.),
– art. 40 disp. att. c.c.: interdizione o inabilitazione dei minorenni,
– legge 4 maggio 1983 n. 184: adozione e affidamento familiare.
Inoltre l’art. 45 disp. att. c.c. stabilisce che il T.M. è sempre il giudice del reclamo contro i provvedimenti del G.T. ad eccezione di quelli espressamente esclusi, di natura prevalentemente patrimoniale.
La giurisdizione del T.M. ha il compito di salvaguardare e gestire
gli interessi del minore, che godono di speciale tutela costituzionale e
legale tanto da potersi ormai considerare veri e propri diritti, ma nello
stesso tempo si trova a dover prendere in considerazione (per valutarne, limitarne od escluderne l’esercizio o addirittura la titolarità) il contenuto della potestà dei genitori che, per definizione costituzionale, è
un intreccio di doveri e diritti (art. 30 Cost.).
Così i provvedimenti previsti dagli artt. 316, 317-bis, 330, 333 c.c.
e dagli artt. 4, 8 e segg. legge 184/83 (in tema di affidamento familiare
e dichiarazione di adottabilità) incidono in misura più o meno pesante sulla potestà dei genitori, mentre altre pronunce (artt. 250, 251, 269,
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282 c.c., e art. 18 e segg. 25 e segg. in tema di adozione nazionale e internazionale) comportano addirittura l’attribuzione o la negazione di
status di figlio e di genitore. La riflessione sulla sostanza e sulle forme
della giurisdizione minorile non può dunque prescindere da un nodo
fondamentale, costituito dalla difficoltà di rispettare le varie posizioni
soggettive che riguardano relazioni affettive primarie ed essenziali nella vita di ogni persona, quando si trovano contrapposte con modalità
altamente conflittuali sicché è proprio in discussione il contemperamento dei contrapposti interessi (1). La giustizia minorile, nel campo
civile, sia nei contenuti che nelle forme, è certamente anomala rispetto alla giustizia civile ordinaria, mentre si atteggia in modi più simili a
quelli della giustizia penale di rito inquisitorio, in vigore sino al 1989.
Nel quadro complessivo della giurisdizione occupa un posto scomodo, in bilico tra il pericolo di cedere a tentazioni autoritarie e paternalistiche, di giustizia sommaria e sostanzialistica a favore dei minori, e il pericolo contrapposto di ridursi a salvaguardare formalisticamente esigenze garantiste degli interessi degli adulti; si trova continuamente alle prese con la necessità di utilizzare strumenti forti ed
efficaci a tutela dell’interesse del bambino senza tuttavia dimenticare
che la sua vita e i suoi interessi sono intimamente connessi a quelli dei
genitori, sicché se ne devono indagare e valutare attentamente i reciproci legami, limitando o escludendo i diritti dei genitori solo allorché
ne emerga un uso distorto e tale da comportare una grave messa a
rischio della sana crescita del figlio.
Per le caratteristiche degli interessi e dei conflitti in gioco, la legge
lascia al giudice minorile un’ampia discrezionalità indicando soltanto
le finalità a cui deve tendere: la tutela dell’interesse del minore, l’assunzione di provvedimenti convenienti, l’accertamento dello stato di
abbandono e di adottabilità.
Gli interventi in questa materia si riempiono così di contenuti diversi, a seconda dei casi.
In relazione a questa scelta del legislatore acquista particolare valore e significato la scelta parallela di attribuire l’esercizio della giustizia minorile ad un Tribunale specializzato, all’interno del quale la cul-
(1) Nell’ambito dell’Associazione dei giudici dei minori e della famiglia, è da
tempo in atto un ampio dibattito in ordine alla disciplina del processo civile avanti al
T.M., partendo dalla costatazione che la situazione attuale è insoddisfacente. Si veda
l’ampio ed argomentato studio di A. VACCARO: Rito camerale e procedimento minorile,
in Dir. famiglia e persona, gennaio 1998, pag. 220-323.
50
tura giuridica convive con quella psicopedagogica, rappresentata dai
giudici onorari. Dal punto di vista processuale le forme del procedimento davanti al T.M. non sono predeterminate dalla legge, la quale
indica soltanto lo schema scheletrico dei procedimenti in camera di
consiglio (art. 737 segg. c.c.) a cui fanno riferimento le norme che nel
corso del tempo, hanno attribuito al T.M. varie competenze (2).
Tuttavia il giudizio non può prescindere da regole procedimentali
che, per quanto indeterminate, rispettino nella sostanza le fondamentali garanzie di contraddittorio e difesa, e deve compendiarsi in un
provvedimento la cui modificabilità e revocabilità (art. 742 c.p.c.) non
esime il giudice da un’adeguata motivazione, sottoposta al reclamo degli interessati (art. 739 c.p.c.). La giurisdizione del T.M. si situa dunque in una zona di confine in cui è massima la contrapposizione tra la
gestione di interessi, che costituisce oggetto della giurisdizione volontaria e la tutela di diritti e di status che trovano invece le loro garanzie
nella giurisdizione contenziosa. Per cercare di dare un’inquadramento sistematico della giurisdizione del T.M., mi sembra quindi utile rivisitare il contenuto e le caratteristiche delle due giurisdizioni alla luce
delle considerazioni critiche della più recente dottrina e della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che è invece giunta a delineare una nuova forma di procedimento camerale applicabile, con i
dovuti aggiustamenti, anche a controversie riguardanti diritti e status,
quindi tipicamente ascrivibili alla giurisdizione contenziosa (3).
2. – L’applicazione della procedura camerale alla giurisdizione contenziosa: la critica di A. PROTO PISANI.
(Nelle considerazioni che seguono faccio testuale riferimento al
saggio di A. PROTO PISANI “Usi e abusi della procedura camerale ex
(2) L’art. 38 disp. att. c.c. che come abbiamo già visto delimita la competenza del
T.M., stabilisce che “in ogni caso il Tribunale provvede in camera di consiglio, sentito
il P.M.”. Altre norme fanno espresso richiamo alla procedura in camera di consiglio: –
art. 84 c.c.: (autorizzazione ai minorenni a contrarre matrimonio; – art. 336 c.c. procedimento per la decadenza dalla potestà e dall’amministrazione dei beni del figlio (artt.
330, 332, 334, 335 c.c.) e per la limitazione della potestà per condotta dei genitori pregiudizievole ai figli (art. 333 c.c.), – artt. 4, 10, 23, 25, 29 della legge 184/83 procedimenti
per l’affidamento familiare, la dichiarazione di adottabilità, l’affidamento preadottivo,
l’adozione nazionale e internazionale.
(3) …
51
art. 737 c.p.c.” introduttivo ai due volumi “I procedimenti in camera di
consiglio” di M. Giuliana CIVININI, nella collana di giurisprudenza sistematica di dir. proc. civ., U.T.E.T., 1994, che costituisce la più recente e completa opera sull’argomento).
La giurisdizione contenziosa, nella quale si esplicano funzioni giurisdizionali costituzionalmente necessarie (cioè che il legislatore non
può non attribuire al giudice) nel campo civilistico ha le seguenti
caratteristiche:
– si esercita quando occorre tutelare i diritti soggettivi, gli status e
gli interessi legittimi (artt. 24 e 113 Cost.),
– si svolge nelle forme legalmente previste del processo civile ordinario, c.d. a cognizione piena,
– produce un provvedimento decisorio (sentenza) avente attitudine a formare giudicato formale e sostanziale, nei cui confronti è data
la garanzia costituzionale della ricorribilità in cassazione per violazione di legge (art. 111 Cost.),
– è accompagnata, nella fase precedente al processo, da una tutela cautelare e nella fase successiva di una tutela esecutiva.
La giurisdizione volontaria riguarda invece funzioni giurisdizionali ulteriori rispetto a quelle necessarie, funzioni che il legislatore
rimette al giudice, ma che potrebbe nella sua discrezionalità attribuire ad altri, autorità amministrativa o privati.
Il giudice è chiamato non ad assicurare la tutela giurisdizionale di
diritti o interessi quando siano violati o contestati, bensì a valutare e
gestire interessi che, nei singoli casi possono essere di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi (artt. 384 c.c., 1129 c.c. e 64
disp. att. c.c., 2275 2° c.c., 2450 4° c.c., 2409 3° c.c.).
La giurisdizione volontaria ha le seguenti caratteristiche:
– si svolge secondo il rito camerale, la cui regolamentazione legale è estremamente sintetica (art. 737 segg. c.p.c.),
– il procedimento è semplificato, le sue modalità di svolgimento
sono rimesse alla discrezionalità del giudice,
– il contraddittorio rudimentale,
– la cognizione è sommaria, non fondata su prove assunte secondo regole precostituite dalla legge, ma su informazioni,
– il provvedimento conclusivo è sempre revocabile e non acquista
mai efficacia di giudicato, quindi non è ricorribile in cassazione.
52
L’autore citato rileva che il legislatore ha introdotto via via una
miriade di procedimenti speciali di rito camerale, senza preoccuparsi
di conciliare le esigenze di economia processuale con la pienezza della
tutela giurisdizionale, attuando un abuso del ricorso alle procedure
camerali dovuto a tre cause principali:
– “il legislatore del 1942, non avendo codificato la nozione dommatica di giurisdizione volontaria, ha nei fatti aperto la strada ad
un’utilizzazione neutra dello schema procedimentale previsto dall’art.
737 segg. c.p.c.”,
– “non avendo chiarezza sulle esigenze sottese alle ipotesi di inscindibile connessione tra gestione di interessi e tutela di diritti inviolabili della persona incisi da tale tutela, ha omesso di dettare uno
schema processuale generale per fattispecie di tale genere, aprendo in
tal modo la strada ad un informe proliferare di spesso ibridi processi
speciali”,
– “la crisi profonda del processo ordinario di cognizione spiega il
perché il legislatore e la giurisprudenza cadano sempre più di frequente nella tentazione di far ricorso alle forme camerali (corrette
dalla ricorribilità in cassazione del provvedimento emanato in sede di
reclamo e dalla sua attitudine al giudicato) nella speranza di sottrarre almeno un settore di diritti sostanziali alla disfunzione del rito ordinario”.
Nell’ambito dei numerosi procedimenti in camera di consiglio,
nelle più varie materie, quelli tipici della giustizia minorile vengono
definiti di sistemazione e definizione dogmatica estremamente problematica.
Non solo infatti in essi si attua la massima contrapposizione tra la
tutela di interessi particolarmente rilevanti socialmente (oggetto della
giurisdizione volontaria) e la tutela di diritti e di status (garantiti dalla
giurisdizione contenziosa); ma si tratta anche di contrapposizione non
componibile in alcun modo tramite la scissione tra le due giurisdizioni che invece è praticabile in altri settori, diversi da quello della giustizia minorile.
Infatti mentre per la compressione di altre posizioni soggettive in
procedimenti di volontaria giurisdizione (per es. ex art. 1129 o 2409
c.c., per la revoca dell’amministratore dei condomini o delle società) è
sempre possibile da parte dei titolari di tali posizioni agire per una tutela risarcitoria, nell’ambito di un successivo giudizio contenzioso,
tale rimedio non è ipotizzabile per la potestà dei genitori che, avendo
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contenuto squisitamente non patrimoniale, non può trovare alcuna
tutela risarcitoria ex post, sicché può essere fatta valere solo nell’ambito del procedimento camerale avanti al T.M..
Da questa considerazione l’autore fa discendere la necessità che
nel settore minorile, come in altri in cui sono in gioco diritti di contenuto non patrimoniale (della personalità o di libertà in genere), siano
predisposte forme di tutela che, superando la contrapposizione tra
giurisdizione volontaria e contenziosa, possa delinearsi un modello
generale di processo idoneo ad assicurare sia la efficace salvaguardia
di interessi ritenuti meritevoli di particolare tutela, sia la piena garanzia giurisdizionale di diritti inviolabili della persona umana suscettibili di essere compressi o troncati da tale predetta tutela.
Dovrebbe trattarsi di un processo, disciplinato da forme contenziose garantiste, del tipo di quello previsto da sempre per l’interdizione e l’inabilitazione, ferma restando tuttavia la possibilità di emanazione di provvedimenti temporanei in via sommaria e urgente, del tipo
di quelli previsti dall’art. 336, u.c., c.c.. Altro esempio già esistente nel
campo minorile è quello del giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità (art. 17 segg. L. 184/83) che è processo di cognizione piena a rito speciale, introdotto con ricorso, con trattazione interamente collegiale, da parte di un giudice dotato di poteri di iniziativa.
3. – Rito camerale e giurisdizione contenziosa secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione.
Più volte chiamata a decidere sul conflitto tra tutela dell’interesse
del minore e compressione della potestà e sulla legittimità dell’applicazione del rito camerale ai procedimenti in questione la giurisprudenza ha assunto posizioni molto diverse da quelle della dottrina sin
qui richiamata. La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato
che la tutela giurisdizionale dei diritti può avvenire nell’ambito di processi sommari purché essi rispettino un minimo di garanzie in punto
di convocazione delle parti, di facoltà di prova, di motivazione dei
provvedimenti e di congruità dei termini di impugnazione (4).
(4) Si vedano le sentenze della Corte Cost. 27 giugno 1968 n. 74 (Foro it., 68, I,
2056), 1 marzo 1973 n. 22 (ibid. 73, I, 1344), 10 luglio 1975 n. 202 (ibid. 75, I, 1575, 23
marzo 1981 n. 42 (ibid. 82, I, 1228), 24 marzo 1986 n. 55 (ibid. 86, I, 1168), 22 dicembre 1989 n. 573 e 14 dicembre 1989 (ibid. 90, I, 365).
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Nelle pronunce della Cassazione la potestà dei genitori, riconosciuta come diritto nei confronti dei terzi, nei rapporti interni genitori-figli si configura soltanto come potere-dovere, come ufficio di diritto privato nell’interesse dei figli, il cui esercizio è soggetto al controllo
di merito del giudice il quale può emettere provvedimenti limitativi e
ablativi nelle forme del procedimento camerale, finalizzati esclusivamente alla tutela dell’interesse preminente (quello del figlio minorenne) e sempre modificabili e revocabili, quindi non soggetti al ricorso
per Cassazione ex art. 111 Cost..
Va qui ricordata in particolare la pronuncia della Cassazione a
Sezioni Unite 23 ottobre 1986 n. 6220 (5) secondo cui i provvedimenti che limitano o escludono la potestà dei genitori (art. 317-bis c.c.) che
pronunciano la decadenza dalla potestà o la sua reintegrazione (artt.
330, 332 c.c.) che dettano disposizioni per ovviare a una condotta dei
genitori pregiudizievole ai figli (art. 333 c.c.) che dispongono l’affidamento familiare non consensuale (art. 4, 2° comma, L. 184/83) emessi (al termine di un procedimento di tipo non contenzioso, privo di un
vero e proprio contraddittorio) dal giudice di secondo grado, su reclamo contro quelli del T.M., non sono impugnabili in Cassazione ex art.
111 Cost. in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo,
non statuiscono in via decisoria e definitiva su dette posizioni stante
la loro revocabilità e modificabilità per motivi sia sopravvenuti che
preesistenti e si esauriscono in un governo di interessi sottratti all’autonomia privata senza risolvere un conflitto su diritti contrapposti (6).
Da tali provvedimenti, che costituiscono la “volontaria giurisdizione” attribuita da sempre al T.M., devono distinguersi quelli che si definiscono “contenziosi” poiché hanno ad oggetto essenzialmente l’attribuzione o negazione di status (artt. 250, 269, 274 c.c.) e che sono stati
trasferiti alla competenza del T.M. solo a seguito della modifica dell’art.
38 disp. att. c.c. introdotta dall’art. 68 della legge 4 maggio 1983 n. 184.
A questi ultimi avanti al Tribunale ordinario, primitivamente competente, si applicava indiscutibilmente il rito contenzioso, ma una volta affermata dalla legge (e confermata dalla Corte Costituzionale con
sentenza del 25 maggio 1987 n. 193) la competenza del T.M. la giurisprudenza anche di legittimità si divise circa l’applicabilità del rito di
cognizione contenziosa ordinaria oppure di quello camerale.
(5) In Giur. it., 1987, I, 1616 e in Foro it., 87, I, 3278.
(6) Cfr. anche da ultimo Cass. 20 aprile 1993 n. 4644 in Dir. Fam. e Pers., 1993,
pag. 1054.
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Infatti se da un lato le caratteristiche dei diritti controversi e della
pronuncia finale (sentenza) facevano propendere alcuni per la necessità di applicare il rito ordinario (7) i più ritenevano che, nonostante
la loro natura contenziosa, a tali procedure fosse comunque applicabile il rito camerale richiamato in generale dall’art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 68 legge 184/83.
La controversia interpretativa è stata composta dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 19 giugno 1996 n. 5629 (8) che ha
affermato l’applicabilità del rito camerale.
La pronuncia non ha mancato di suscitare critiche da parte della
dottrina, specie di quella portatrice della posizione sopra ricordata,
ma per la sua autorevolezza, costituisce un punto fermo che difficilmente potrà essere a breve modificato dalla giurisprudenza sicché è
opportuno che i giudici di merito vi si adeguino almeno per ragioni di
economia processuale.
Con questa sentenza la Corte ha superato la tradizionale corrispondenza tra volontaria giurisdizione e rito camerale da un lato e tra
contenzioso e rito di cognizione ordinaria dall’altro, per delineare
invece uno schema del procedimento camerale come “contenitore
neutro” in cui trovano spazio sia i procedimenti di volontaria giurisdizione che quelli contenziosi: per i quali ultimi si richiede però che
il procedimento in camera di consiglio sia integrato con opportuni
adattamenti a garanzia dei diritti delle parti con riferimento alle regole proprie del procedimento contenzioso.
La Cassazione si inserisce nella linea già seguita dalla Corte Costituzionale che aveva ripetutamente ritenuto legittima la scelta discrezionale del legislatore di privilegiare, anche laddove fossero controversi diritti soggettivi e status, il procedimento in camera di consiglio,
purché fossero assicurate le garanzie costituzionali del contraddittorio e della difesa (9).
Sono state così sottratte alcune controversie all’ordinario giudizio
di cognizione, con le sue lungaggini e disfunzioni, rimettendole ad un
giudice dotato di alcuni poteri d’ufficio e che procede secondo il rito
(7) Cfr. Cass. 14 febbraio 1994 n. 1448 in Foro it., 94, I, 1018.
(8) Pubblicata in Foro it., 1996, n. 10, parte 1a, col. 3070 e segg. con nota di M.G.
CIVININI e in Giust. Civ., 1996, I, pag. 2203 con nota di G. GIACALONE.
(9) Cfr. le numerose pronunzie della Corte Costituzionale (in tema di separazione,
adozione, divorzio, filiazione, procedure concorsuali sopra citate in nota 4) che hanno
ritenuto legittima la procedura camerale in casi di tutela contenziosa, tutte richiamate da Cass. Sez. Un. 5629/96.
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camerale ritenuto più adatto, date le sue caratteristiche di celerità
snellezza e concentrazione, a rispondere alla peculiarità dei diritti e
degli interessi coinvolti.
Le Sezioni Unite riconoscono “l’idoneità della procedura camerale ad essere utilizzata con i dovuti adattamenti alla tutela giudiziale
contenziosa dei diritti soggettivi in tema di contraddittorio, facoltà di
prova, sistema ordinario di impugnazione, immodificabilità della decisione assicurata dal giudicato”.
Viene in tal modo disegnato “un nuovo tipo di processo a contenuto oggettivo che, non incidendo sul rapporto sostanziale controverso, rispetta le garanzie delle parti, in ordine alla competenza per territorio (10), al diritto di difesa e di prova, all’applicazione dei termini
ordinari di impugnazione previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c.” (11).
4. – Riflessi della sentenza della Cassazione n. 5629/96 sulla giurisdizione volontaria del T.M..
La sentenza ha avuto notevoli ricadute su tutti i procedimenti di
competenza dei T.M., sia contenziosi che di volontaria giurisdizione.
Innanzi tutto ha portato alla generalizzazione del rito camerale
per tutte le procedure civili contenziose alle quali in precedenza si
applicava il rito ordinario: non solo quelle per la dichiarazione giudiziale di genitura, ma anche per il riconoscimento non consensuale del
figlio naturale (art. 250 segg. c.c.) che hanno contenuto analogo per l’identità degli interessi e dei diritti coinvolti.
Inoltre l’esigenza ineludibile che siano rispettate le garanzie minime del contraddittorio e della difesa riaffermata dalla sentenza per il
procedimento camerale in casi contenziosi, non può non riproporsi
anche con riferimento ai procedimenti di volonatria giurisdizione di
competenza del T.M..
Infine la sentenza contiene chiare indicazioni in ordine alla com-
(10) Su cui già Cass. Sez. Un. 7 febbraio 1992 n. 1373, che ha ritenuto competente per territorio il T.M. del luogo di residenza di chi è chiamato nel giudizio per la
dichiarazione di genitura e non invece il T.M. di residenza del minore, criterio normalmente applicabile per i provvedimenti di giustizia minorile.
(11) A questo proposito la Corte ritiene che l’impugnazione debba avvenire nelle
forme del ricorso ex art. 737 c.p.c., ma che detto ricorso debba essere depositato presso il giudice di appello entro trenta giorni dalla notifica della sentenza impugnata, non
entro i dieci giorni previsti dall’art. 739, 2° comma c.p.c..
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petenza collegiale e alla delegabilità di attività processuali dal collegio
ad uno dei suoi membri che attengono in generale al funzionamento
del T.M.. Infatti ha chiarito che mentre l’ammissibilità e rilevanza dei
mezzi di prova deve essere deliberata dall’organo collegiale, la loro
assunzione può essere delegata ad uno dei suoi componenti il quale
dovrà riportarli alla piena valutazione del collegio successivamente
alla loro acquisizione. Per quanto attiene all’aspetto delle garanzie, si
deve dire che il diritto al contraddittorio e alla difesa nelle le procedure tipiche della volontaria giurisdizione civile (artt. 330, 333 c.c.) non
viene più posto in dubbio in linea di principio da parte dei giudici
minorili, anche se operativamente trova attuazione in modo scarsamente soddisfacente e non priva di contraddizioni. Come ho già sopra
accennato, le decisioni in materia minorile sono caratterizzate da
un’alto livello di discrezionalità del giudice, che viene esercitata all’interno di un procedimento pressoché privo di forme legalmente predeterminate. Dal punto di vista sostanziale la giurisdizione minorile deve
fare i conti con forti sollecitazioni verso la tutela di interessi (quelli del
minore) di fatto socialmente deboli, anche se riconosciuti dalla legge
come prevalenti, rispetto alle quali sollecitazioni il giudice deve sempre trovare un giusto equilibrio tra due posizioni estreme ed ugualmente rischiose sia per il suo equilibrio (professionale ed umano) sia
per le sorti dei minori. Da un lato vi è il rischio di assumere il compito eccessivo e ansioso di difensore del minore trascurando le ragioni
delle altre figure familiari ed il loro diritto a rappresentarle nel processo, dall’altro il rischio di porsi in modo burocratico rispettando formalmente le regole processuali senza tuttavia cogliere lo spessore e la
specificità dell’intervento minorile. Premesso che l’interesse del minore deve essere sempre al centro dell’attenzione del giudice minorile,
che rispetto ad esso non può porsi in posizione indifferente o equidistante dagli interessi degli adulti, è però necessario che siano fissate
alcune regole attraverso le quali si garantisca che anche questi ultimi
interessi trovino nel procedimento uno spazio e una rappresentazione
adeguati a consentire una valutazione equa e trasparente (12).
(12) Va ricordato a questo proposito che la Convenzione Internazionale sui Diritti
dell’Infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20
novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176 (in Diritto di famiglia e delle persone, 1991, pag. 432) dopo aver proclamato che in tutte le azioni riguardanti bambini i loro maggiori interessi devono costituire oggetto di primaria considerazione (art. 3) afferma che i genitori devono essere sentiti e devono potersi difendere nei procedimenti giudiziari che riguardano i loro rapporti con i figli (art. 9).
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La giusta attuazione il diritto di difesa delle posizioni soggettive dei
genitori, lungi dall’indebolire la tutela dell’interesse prevalente dei minori, può anzi meglio salvaguardarlo rendendo le pronuncie del T.M.
più giuste e meno attaccabili anche davanti al giudice di secondo grado.
5. – Le regole applicabili ai procedimenti ablativi e limitativi della potestà
(artt. 330, 333, 336 c.c.) e ai procedimenti di adottabilità (legge 184/83).
Possono quindi individuarsi alcune regole processuali che vanno
in generale tenute presenti in tutti i procedimenti di volontaria giurisdizione e quindi anche il quelli in epigrafe.
a) la garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa che si esplica mediante:
a.1 – la convocazione dei genitori davanti al giudice contenente
l’indicazione seppur sommaria dei motivi e un termine congruo per la
comparizione, in modo da consentire loro di capire perchè il giudice
li chiama e quindi di difendersi; quando il procedimento è iniziato con
ricorso di una parte privata esso dovrebbe essere notificato all’altra
parte a cura del ricorrente.
Nella fase camerale del procedimento di adottabilità l’art. 12 legge
184/83 prevede espressamente la convocazione con decreto motivato
ed entro un congruo termine dei genitori e dei parenti tenuti a provvedere al minore.
a.2 – la possibilità di conoscere le informazioni assunte dal giudice e quindi di esaminare il fascicolo senza segreti, salvo nel caso che
vi siano parallele esigenze di procedure penali in corso, come accade
quando il T.M. interviene a tutela di bambini parti lese di reati di maltrattamento o abuso sessuale su cui è in corso l’indagine penale.
La Cassazione ha affermato che nella fase camerale del procedimento di adottabilità, a cognizione sommaria e con caratteristiche
inquisitorie (nel quale tuttavia le garanzie di difesa non possono essere totalmente pretermesse) la conoscibilità piena e integrale degli accertamenti esperiti e delle informazioni assunte può essere “differita”
all’eventuale momento in cui venga dichiarata l’adottabilità e si apra
quindi la fase dell’opposizione, a cognizione piena, nella quale è applicabile l’art. 76 disp. att. c.p.c. che consente al difensore di conoscere a
pieno il fascicolo (13).
(13) Cass. 12 maggio 1994 n. 4643 in Foro it., 96, I, 264.
59
Malgrado questa posizione non sia priva di problemi per la delicatezza della materia, in cui si tratta anche di valutare le personalità
dei genitori, mi sembra preferibile a quella che tende a coprire i risultati delle indagini per due ragioni. Da un lato il metodo inquisitorio
del procedimento, giustificato dalla necessità di salvaguardare il preminente interesse del minore, non può arrivare al punto di escludere
un contraddittorio successivo all’assunzione degli elementi necessari
per la decisione da parte di coloro che da essa vedono pesantemente
incisa la loro posizione personale. Dall’altro la trasparenza della procedura giudiziaria pone i servizi psicosociali nella necessità di lavorare con i loro utenti con chiarezza e professionalità, impostando senza
ambivalenze il loro intervento che, in quanto attivato dal T.M., comporta l’assunzione di un ruolo sia di aiuto che di controllo sociale.
a.3 – la possibilità dei genitori di difendersi facendo valere le
proprie ragioni, se lo ritengono anche con l’assistenza di un difensore.
Si tratta di facoltà, non di obbligo, di difesa legale come ha affermato la Corte Costituzionale che ha dichiarato infondata l’eccezione
di costituzionalità dell’art. 10, 5° e 6° comma legge 184/83 affermando che la mancata previsione dell’assistenza di un difensore non significa divieto ai genitori di avvalersene, ma solo che essa non è obbligatoria (14).
Si deve ritenere che possa essere riconosciuta dal giudice la rivalsa delle spese sostenute contro chi ad esse abbia dato causa (15).
Quando ricorrono i requisiti può essere chiesta ed ottenuta l’ammissione al gratuito patrocinio o, nelle procedure di adottabilità, il
patrocinio a spese dello stato (16).
(14) Cfr. Corte Cost. 10 luglio 1975 n. 202 Foro it., 75, I, 1575 e Corte Cost. n.
351/89 ibid. 1991, I, 51.
(15) La Corte App. di Milano, sezione minori, ha ritenuto applicabile l’art. 91
c.p.c. (condanna alle spese a carico di chi vi abbia dato causa) anche ai provvedimenti emessi al termine di procedure ex art. 317-bis in cui si discute tra i due genitori a chi
debba essere affidato il figlio: cfr. decreto 25 gennaio 1996, proc. n. 499/95.
(16) Ai giudizi civili di volontaria giurisdizione si applica il R.D. 30 dicembre 1923
n. 3282 sul gratuito patrocinio ancora in vigore (art. 2). L’ammissione al gratuito patrocinio comporta solo l’esenzione dalle spese della procedura (bolli, diritti di cancelleria,
tassa registro) mentre nessun onere è a carico dello stato per il compenso al difensore.
La legge in questione non indica i limiti di reddito per usufruire dell’ammissione, ma
si riferisce al concetto di non abbienza (che, secondo Cass. 11 maggio 1978 n. 2321,
significa difficoltà di sostenere le spese del giudizio). Per i procedimenti civili avanti ai
T.M. l’ammissione al gratuito patrocinio è concessa con provvedimento insindacabile
60
b) un rigoroso metodo di accertamento dei presupposti dell’intervento giudiziario che passa anche attraverso la trasparenza nell’assunzione, mediante un’accurata verbalizzazione, sia delle informazioni da parte dei servizi psicosociali che delle dichiarazioni difensive dei
genitori.
Non è superfluo ricordare qui che la collaborazione con i servizi
tipico dell’esercizio della giustizia minorile non può prescindere da
parte del giudice da una continua e approfondita verifica delle notizie
ricevute e da un attento confronto critico sulle valutazioni degli operatori psicosociali. Per altro verso le ragioni dei genitori devono essere rappresentate e considerate compiutamente, tanto più se essi sono
privi di difesa tecnica.
c) l’adozione di provvedimenti solo dopo aver effettuato una diagnosi e una prognosi sulla situazione personale e familiare del minore e sulle risorse disponibili nel singolo caso. A questo proposito ove
sia possibile (purtroppo nei casi più gravi ciò è assai difficile) dovrebbe essere tendenzialmente seguita una linea che consenta di adottare
provvedimenti utili per il minore dopo aver cercato di costruire un
consenso da parte dei genitori, necessario non solo per la loro attuazione, ma anche per individuare soluzioni che siano le meno traumatiche possibile.
d) l’utilizzo oculato e parsimonioso dei provvedimenti temporanei
e urgenti assunti senza sentire i genitori (art. 336 u.c. c.c.); nei casi in
cui siano comunque necessari, la fissazione di un termine breve entro
il quale riesaminare la situazione alla luce degli accertamenti acquisiti; in ogni caso procedendo subito dopo l’emissione del decreto urgente, alla convocazione dei genitori.
Sulla reclamabilità dei provvedimenti provvisori ex art. 336 c.c. e
ex art. 10 legge 184/83 e sulla applicabilità dell’art. 669-terdecies c.p.c.
(regime del procedimento cautelare uniforme) vi sono interpretazioni
discordi in giurisprudenza e in dottrina.
dal Presidente del Tribunale sentite le parti e il P.M. ed osservate per il resto le disposizioni del R.D.L. citato (art. 9 R.D. 20 settembre 1934 n. 1579 norme di attuazione del
R.D.L. 20 luglio 1934 n. 1404 istitutivo del T.M.). Diverse ed apposite disposizioni regolano invece il patrocinio a spese dello Stato (che prevede la liquidazione da parte del giudice degli onorari del difensore) riconosciuto solo per i procedimenti previsti dalla legge
184/83 sull’affido e l’adozione e dalla legge 30 luglio 1990 n. 217 per il processo penale e
per i procedimenti civili per il risarcimento del danno e la restituzione derivanti da reato.
61
Mentre la giurisprudenza li ritiene non reclamabili (17) parte della
dottrina è di parere contrario. Quest’ultimo non può essere condiviso
in linea di principio, non parendo tali provvedimenti compatibili con
il regime del procedimento cautelare uniforme (18).
In linea di fatto non si può trascurare il gravissimo danno che
potrebbe derivare ai minori dalla reclamabilità di provvedimenti di
questo tipo che vanificherebbe gli interventi urgenti e potrebbe creare
un susseguirsi e sovrapporsi di decisioni diverse e contrastanti da parte di giudici di gradi diversi.
Mi preme tuttavia chiarire che questo vale per i provvedimenti effettivamente provvisori ed urgenti, non per quelli che, per quanto apparentemente tali, hanno tuttavia contenuto decisorio e durata protratta nel tempo, a causa di prassi scorrette di alcuni tribunali. Per
questi tuttavia viene già riconosciuta la reclamabilità (19).
e) l’adeguata motivazione dei provvedimenti e la chiara indicazione del tipo di intervento disposto: sono da evitare formule generiche
di sostanziale delega degli interventi ai servizi sociali (es.: “affida il minore al servizio sociale della USL per attività di vigilanza e sostegno e
prescrizioni educative”) poiché un corretto gioco delle parti istituzionali richiede che il Tribunale decida e impartisca prescrizioni e che gli
operatori dei servizi sostengano e controllino l’adempimento dei provvedimenti da parte dei genitori.
Occorre altresì che il Tribunale si faccia carico del problema, non
sempre affrontato e chiarito, della concorrenza tra “affidamento” del
minore all’ente tenuto a supplire le manchevolezze dei genitori (20) e
sopravvivenza in capo ad essi dell’esercizio della potestà.
(17) Cfr. C.A. di Roma, 10 maggio 1993 con nota di M. CONTE in Dir. Fam. Pers,
1996, pag 1387 e più di recente 24 settembre 1996 in Fam. e Dir., giugno 1997, pag. 549
con commento di E. MERLIN. E ancora C.A. Milano, 31 ottobre 1997, ibid., aprile
1998, pag. 371 con commento di M.G. CIVININI.
(18) Si fa riferimento all’ampia e approfondita motivazione in A. VACCARO, Rito
camerale e procedimento minorile, in Dir. Fam., gennaio 1998, pag. 279 e segg..
(19) Cfr. C.A. Napoli, 16 febbraio 1995 ibid. e la costante giurisprudenza della C.A.
di Milano.
(20) L’art. 25 del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 ha attribuito ai Comuni le funzioni
che concernono l’organizzazione e l’erogazione dei servizi di assistenza e beneficenza
(art. 117 Cost.) e in particolare gli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza amministrativa e civile; funzioni che possono essere delegate dai Comuni alle USL (ormai costituite in aziende) e che di fatto lo sono a seconda delle diverse decisioni assunte dai vari
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Dovrebbe essere il provvedimento del Tribunale (ex art. 333 c.c.) a
chiarire le sue conseguenze rispetto all’esercizio della potestà dei genitori non essendo chiaro né agli operatori psicosociali né ai genitori che
l’affidamento dei figli ai servizi dell’ente, e neppure l’allontanamento
dalla residenza familiare, comporti una limitazione o una sospensione dell’esercizio della potestà, né tanto meno essendo giuridicamente
automatico che tali provvedimenti sospendano la rappresentanza legale dei figli da parte dei genitori.
Per fare solo un esempio in questi termini si è posto il problema
rispetto all’autorizzazione di sottoporre un bambino allontanato dai
genitori ad indagini mediche per eseguire le quali gli operatori sanitari richiedevano il consenso dei genitori; ugualmente si possono porre
problemi circa la rappresentanza legale del figlio in ambito scolastico
o per provvedimenti di tipo patrimoniale.
È quindi auspicabile che i Tribunali Minorili precisino, nei loro
decreti, i termini della limitazione dell’esercizio della potestà e del potere di rappresentanza legale dei genitori e la corrispondente attribuzione all’ente (o alle persone, nel caso di affidamento familiare) a cui
con il provvedimento il minore viene affidato.
6. – La “separazione” di genitori non coniugati: competenza del T.M.
anche per i provvedimenti patrimoniali nell’interesse dei figli?
L’art. 317-bis c.c. regola l’esercizio della potestà da parte dei genitori che hanno riconosciuto il figlio naturale attribuendolo ad entrambi se sono conviventi o, in caso contrario, a colui con il quale il figlio
convive; stabilisce altresì che “il giudice, nell’esclusivo interesse del
figlio, può disporre diversamente ed anche escludere dall’esercizio della potestà entrambi i genitori”.
Questa norma, richiamata dall’art. 38 disp. att. c.c., fonda la competenza del T.M. per l’intervento nel caso della “separazione” dei genitori naturali quando manca il loro accordo sulla sorte dei figli, sicché
l’affidamento all’uno o all’altro e le modalità di rapporti con il genitore non affidatario vengono formalizzate e rese vincolanti da una proComuni. Per la competenza penale analoga disposizione è contenuta nelle norme introduttive del nuovo processo penale minorile (art. 6 D.P.R. n. 448/88 e art. 13 D.Lgs. n.
272/89) che prevedono il coordinamento delle attività dei servizi minorili ministeriali
e dei servizi di assistenza degli enti locali.
63
nuncia giudiziaria (21). Il procedimento, promosso in genere dal genitore assistito da un legale: il Presidente nomina un relatore avanti al
quale avviene la trattazione (nella mia esperienza al T.M. di Milano e
di Bologna la trattazione collegiale è esclusa); di solito il collegio viene
investito per l’emissione di un provvedimento iniziale, provvisorio ed
urgente, e poi per la decisione finale che recepisce gli accordi dei genitori, oppure dispone in ordine all’affidamento dei figli e alle modalità
di visita.
Nella maggior parte dei casi il giudice incarica i servizi sociali di
intervenire per mediare le posizioni dei genitori nell’interesse dei figli,
sia nella fase istruttoria, che nel provvedimento finale nel quale si possono affidare i figli al servizio oppure incaricarlo di una vigilanza.
Quest’ultimo tipo di intervento è molto più diffuso nei procedimenti avanti al T.M. che nelle separazioni avanti al Tribunale ordinario (art. 155 c.c.), ma per il resto i procedimenti davanti ai due tribunali hanno contenuto perfettamente sovrapponibili quanto alle decisioni sull’affidamento dei figli.
Non è così invece per i provvedimenti di tipo patrimoniale (determinazione e imposizione al genitore non affidatario di un contributo
per il mantenimento del figlio e decisioni circa l’assegnazione dell’abitazione) i quali sono tradizionalmente esclusi dalla competenza del T.M..
La giurisprudenza ha motivato l’incompetenza sia con la mancata previsione dei provvedimenti patrimoniali negli art. 317-bis c.c. sia
con l’incompatibilità del regime del procedimento in camera di consiglio (art. 38 d.a. c.c.) perché ritiene che tali provvedimenti riguardino una controversia tra adulti: infatti il genitore che agisce farebbe
valere non un diritto del figlio, bensì il proprio diritto di regresso in
quanto coobbligato in solido con l’altro genitore al mantenimento del
figlio (22).
I diritti patrimoniali dei figli naturali, contrariamente a quanto accade per quelli nati da matrimonio, non vengono quindi riconosciuti e
tutelati nell’ambito del procedimento per l’affidamento all’atto della
cessazione della convivenza dei genitori, ma possono essere azionati
soltanto separatamente, avanti ad altro giudice (Tribunale ordinario).
(21) Cfr. T.M. L’Aquila, 31 gennaio 1994 in Nuovo Diritto, 1994, pag. 280 con nota
di MANERA.
(22) In questo senso si è pronunciata l’unica sentenza nota della Cassazione (n.
4273 del 20 aprile 1991 in Giur. it., 91, I, 1, 634) e la prevalente giurisprudenza di merito di primo e secondo grado.
64
Nella prassi dei vari T.M. si cerca di ovviare all’irrazionalità del sistema estendendo la trattazione anche al tema del contributo al mantenimento da parte del genitore non affidatario, acquisendo possibilmente un suo riconoscimento del debito ed inserendo nel provvedimento la prescrizione a suo carico di versare l’assegno nella misura
concordata.
Non sempre tuttavia si riesce a raggiungere un accordo e in ogni
caso che il sistema non vale quando manca una spontanea esecuzione
del provvedimento, che comporta il ricorso ad una nuova procedura di
accertamento del credito, anche se nelle forme sommarie di cui all’art.
633 segg. c.p.c..
Sembra evidente che vi è una differenza nelle modalità di tutela
dei diritti patrimoniali dei figli naturali e dei figli legittimi, per la quale
si pone il problema se essa possa ritenersi compatibile con i principi
costituzionali di uguaglianza e di ragionevolezza coordinati con i princìpi specificamente riguardanti la tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)
e la posizione dei figli (art. 30 Cost.).
La risposta mi sembra possa essere negativa malgrado la diversa
decisione della Corte Costituzionale che è intervenuta sul tema con
due recenti sentenze (n. 23/96 e n. 451/97) (23).
La prima è stata provocata dal T.M. di Genova che aveva rilevato
da una parte che con la domanda di un contributo per il mantenimento del figlio il genitore affidatario non fa valere il proprio diritto
di regresso contro l’altro genitore, coobbligato in solido, bensì fa valere (come legale rappresentante) il diritto soggettivo autonomo del figlio, corrispondente al dovere dei genitori (artt. 30 Cost., 261, 277, 279
c.c.); d’altra parte aveva considerato che le questioni riguardanti il
contributo al mantenimento vengono rimesse al giudice della separazione e del divorzio (art. 155 c.c., art. 6 legge 898/70 e successive modifiche) nelle forme della procedura camerale, le stesse applicate dal
T.M. per il procedimento ex art. 317-bis c.c..
La decisione della Corte Costituzionale n. 23/96 pur avendo respinto l’eccezione aveva tuttavia una portata limitata e non preclusiva
(23) Corte Cost. 5 febbraio 1996 n. 23 (pres. Ferri, est. Granata) pubblicata in Dir.,
Fam. Pers., 1996, pag. 1327 (con l’ordinanza di rimessione del T.M. di Genova, 6 febbraio 1995 e nota di P. BORDONARO) e in Famiglia e diritto, n. 3/96, pag. 207, con
commento di A. FIGONE; e ancora Corte Cost. 30 dicembre 1997 n. 451 (pres. Granata, est. Santosuosso) in Famiglia e diritto, n. 2/98, pag. 114 segg. con commento di F.
TOMMASEO.
65
di ulteriori sviluppi poiché la questione era stata dichiarata inammissibile nei termini in cui era stata sollevata, vale a dire (come la stessa
Corte aveva avuto cura di precisare) in quanto circoscritta alle sole
controversie alimentari sorte avanti al T.M. successivamente e separatamente alla decisione in ordine all’affidamento dei figli (24).
Per questo il medesimo T.M. di Genova ha nuovamente proposto
l’eccezione nell’ambito di un procedimento in cui erano state azionate
entrambe le domande (di affidamento del figlio e di assegno alimentare per lui) e la Corte Costituzionale ha emesso la seconda sentenza,
dichiarando non più l’inammissibilità bensì l’infondatezza della questione (451/97).
La motivazione si può così riassumere:
1 – viene ribadito il principio (già più volte affermato in altre pronunce) che la ripartizione della competenza tra i vari organi giudiziari rientra nella discrezionalità del legislatore,
2 – la competenza del Tribunale ordinario in materia di mantenimento del figlio si giustifica perché si tratta di giudice più adatto, per
esperienza specifica, a decidere una controversia di contenuto economico tra adulti, seppur con effetti sull’interesse del minore,
3 – è vero che in altri casi al T.M. viene attribuita anche competenza a decidere su domande a contenuto patrimoniale (art. 277 c.c.)
ma si tratta di eccezione espressamente stabilita in considerazione
della particolarità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e
maternità e non può valere come principio generale,
4 – non è persuasivo, “stante la diversità strutturale delle posizioni”, l’argomentazione del Tribunale remittente fondata sul confronto
tra la posizione dei figli legittimi e quella ritenuta deteriore dei figli
naturali: infatti “la situazione dei coniugati non coincide con quella
dei conviventi” poiché i primi possono sciogliere i loro legami solo con
l’intervento del giudice,
5 – l’obbligatorietà dell’intervento giudiziario rende ulteriormente
ragionevole la scelta del legislatore di affidare al Tribunale ordinario
tutti i provvedimenti di cui agli art. 155 e 156 c.c.,
(24) La Corte giustifica la duplicazione dei giudizi nel caso di figli naturali perchè
i genitori non sposati possono liberamente por fine alla convivenza e quindi manca un
processo necessariamente unitario che coinvolga il momento della separazione, quello
della sorte dei figli e quello del regolamento patrimoniale anche relativamente al loro
mantenimento.
66
6 – l’attribuzione al T.M. della decisione relativa ai figli è conseguenza plausibile e non irrazionale di tale diversità,
7 – la necessità di accedere a diversi organi giudiziari non si traduce in diminuzione della tutela (ed infatti il remittente non ha richiamato l’art. 24 della Costituzione) tant’è che, se vi sono ragioni di urgenza, la pendenza del procedimento avanti al T.M. non impedisce il
ricorso a strumenti cautelari davanti al Tribunale ordinario,
8 – la divaricazione di competenze riguarda anche i figli nati da matrimonio per i quali sussiste la competenza del T.M. ex artt. 330, 333 c.c..
La motivazione non è convincente e contiene non poche incoerenze interne.
Innanzi tutto non si tratta di mettere in discussione il principio
della discrezionalità del legislatore in ordine all’attribuzione di competenze ai vari giudici, ma di rilevare l’incoerenza di un sistema che in
questo caso determina la scissione davanti a due giudici di decisioni
strettamente connesse (perché riguardanti il medesimo minore) e che
in altri casi vengono contestualmente assunte (artt. 155, 277 c.c.).
Né tale incoerenza può essere ragionevolmente giustificata, come
sembrano fare i giudici della Consulta, da un asserita mancanza di
esperienza del giudici minorili a decidere questioni patrimoniali, giudizio che rivela una scarsa fiducia nelle loro capacità professionali.
La contraddizione con il diverso regime previsto nel caso dell’art.
277 c.c. è palese e non può risolversi in modo apodittico definendolo
“eccezionale”: al contrario si potrebbe dire (come infatti ha rilevato il
T.M remittente) che proprio tale norma è funzionale ad un sistema che
preveda l’intervento di un solo giudice. Del pari il diverso regime per i
figli naturali non può giustificarsi con analogo trattamento dei figli
legittimi (punto 8 della motivazione) poiché gli interventi limitativi
della potestà (art. 333 c.c.) spettano proprio al giudice della separazione quando si propongono nell’ambito di quella procedura (art. 317,
2° comma e art. 155 c.c., in particolare 6° comma) mentre il ricorso al
T.M. riguarda i casi in cui non si discute del legame matrimoniale (25)
(25) Cfr. da ultimo la sentenza della Cassazione 11 aprile 1997 n. 3159 in Dir.
Fam. e Pers., 1997, pag. 42 e segg. e in Famiglia e diritto, 1997, n. 5, 431 con commento di A. CHIZZINI. La sentenza, che si muove nella linea tracciata da Sez. Un. 2 marzo
1983 n. 1551 (in Dir. Fam., 83, 38) ha cercato di individuare criteri che consentano di
chiarire i limiti delle competenze del Tribunale della separazione e del T.M.. La questione sul piano operativo è tutt’altro che risolta e pone ancora a una volta il problema
della incongruenza della attuale dispersione di competenza in campo minorile.
67
e comunque il caso eccezionale in cui sono in discussione non i modi
di esercizio, bensì il mantenimento della titolarità della potestà in
capo ai genitori (art. 330 c.c.). Infine l’affermazione della Corte al
punto 7 sembra dettata da una sconcertante astrattezza ed “ingenuità”: è ben noto a chi non neghi la realtà che il dover ricorrere a due
tribunali diversi è tutt’altro che indifferente (sotto il profilo economico e dei tempi di intervento che incidono strutturalmente sulla effettività della difesa) per l’utente della giustizia, specie se di modeste condizioni economico sociali, come sono prevalentemente i conviventi.
Come si vede le argomentazioni della Corte sono deboli e non prive di contraddizioni logico giuridiche.
Ma quello che pare francamente inaccettabile è l’argomento forte
della motivazione (punti 4, 5, 6) vale a dire l’affermazione che la diversità di trattamento dei figli deriva dalla loro collocazione all’interno di
una famiglia legittima oppure di una relazione non matrimoniale.
Affermare ciò equivale a contraddire in radice il principio cardine
di uguaglianza dei figli nati dentro e fuori del matrimonio fondato sull’art. 30 della Costituzione e recepito pienamente dal “nuovo” diritto di
famiglia riformato nel 1975. Ciò appare tanto più evidente alla luce di
una successiva recentissima pronuncia della stessa Corte Costituzionale (n. 166/98) che, nel ribadire quel principio, ne fa applicazioni particolarmente interessanti ed in parte innovative a proposito dei diritti
dei figli naturali e della loro tutela. Chiamata a decidere sulla costituzionalità del combinato disposto degli artt. 151, 1° comma e 155 c.c.
nella parte in cui non prevede che l’assegnazione della casa al genitore
affidatario del figlio naturale, la Corte ha riconosciuto che “la mancanza di una specifica norma che regoli le conseguenze, riguardo ai
figli, della cessazione del rapporto di convivenza di fatto dei genitori
non impedisce di trarre da una interpretazione sistematica delle
norme in tema di filiazione la regula iuris da applicare in concreto,
senza necessità di ricorrere all’analogia né ad una declaratoria di incostituzionalità; infatti l’interprete trova già nel sistema la norma che gli
consente di regolamentare “ex latere filii” le conseguenze della cessazione della convivenza: la linea guida cui deve attenersi è l’interesse del
figlio al mantenimento e all’abitazione, correlato alla posizione di
dovere facente capo al genitore e derivante dal sistema degli artt. 261,
147 e 148 c.c. in correlazione con l’art. 30 della Costituzione (26).
(26) Cfr. Corte Cost. 13 maggio 1998 n. 166 (pres. Granata, est. Contri) in Famiglia e Dir., 1998, n. 3, pag. 205; cfr. anche Trib. Milano, 23 gennaio 1997, rel. Cosentini,
68
Questa sentenza sottolinea e riconosce lo spazio e la legittimità di
una interpretazione sistematica costituzionalmente orientata fondata
sul principio di uguaglianza dei figli con riguardo ad aspetti sostanziali di disciplina e dai quali si possono trarre conseguenze anche di
ordine processuale nella prospettiva di una parità di tutela.
Mi sembra quindi che, nonostante le due citate pronunce di rigetto (proprio per questo neppure formalmente preclusive) la linea tracciata dalla Corte indichi che si può pervenire all’affermazione della
competenza del T.M. per la tutela anche patrimoniale dei figli naturali, sulla base di una interpretazione fondata sull’attento riesame del
sistema normativo alla luce dei principi costituzionali.
Infatti, partendo dalle affermazioni dell’ultima sentenza (n.
166/98) si deve rilevare che:
– la concentrazione dei giudizi avanti ad un solo giudice attiene
all’effetività della tutela giudiziaria (art. 24 Cost..) ed è presupposto
necessario per garantire al minore una effettiva e rapida tutela dei suoi
interessi personali ed economici; tale presupposto, pacifico per i figli
legittimi non può non valere, per simmetrica esigenza di razionalità,
anche per i figli naturali (27);
– è vero che la determinazione del contributo dovuto dal genitore
non affidatario per il mantenimento del figlio e l’assegnazione dell’abitazione costituiscono controversie di tipo contenzioso, ma ciò non
esclude che possano essere trattate con il rito della camera di consiglio che ormai, dopo la decisione delle Sez. Unite della Cassazione n.
5629/96 sopra richiamata, si attaglia anche al contenzioso (28);
– che poi si tratti di controversia tra adulti mi pare si possa escludere poiché è evidente che il diritto fatto valere è innanzi tutto del
figlio minorenne anche se può essere azionato solo tramite la rappresentanza sostanziale e processuale del genitore affidatario, che a sua
volta adempie pienamente al dovere di mantenimento che incombe
anche a lui, così come all’altro genitore.
in Fam. e Dir., 6/97 pag. 560. Sul tema dei diritti dei figli naturali e in genere sulla
“famiglia di fatto”, cfr. G. FERRANDO, in Fam. e Dir., n. 2/98 pag. 183 segg.. Sulla regolamentazione della famiglia di fatto vi sono progetti di legge su cui riferisce G. RENNA
in Fam. e Dir., gennaio 1998 pag. 86 segg..
(27) In questo senso cfr. F. TOMMASEO, sopra citato in nota.
(28) Anche avanti al Tribunale ordinario le modifiche della separazione e i divorzi congiunti, per quanto a contenuto patrimoniale contenzioso, vengono trattati nelle
forme del procedimento in camera di consiglio.
69
In definitiva non si tratta in primo luogo (né questo è il preminente interesse che il sistema tutela) di assicurare il soddisfacimento
del diritto di regresso di un genitore verso l’altro, bensì di garantire al
minore il mantenimento da parte di entrambi i suoi genitori.
Ed infatti sul punto la sentenza 166/98 distingue la controversia
tra i genitori non più conviventi (alla quale non riconosce alcuna tutela equiparabile a quella prevista per la separazione dei coniugati) e
quella in cui si azionano diritti patrimoniali dei figli alla quale invece
attribuisce una posizione autonoma e autonomamente tutelata.
Mi sembra quindi che si possa aprire una discussione ed un confronto circa la possibilità di pervenire, mediante una interpretazione
sistematica ed adeguatrice a princìpi interni all’ordinamento costituzionale ed ordinario, ad affermare (e praticare motivatamente) la
competenza del T.M. a decidere anche sull’assegno di mantenimento
del figlio e sull’assegnazione dell’abitazione nel momento della regolamentazione della potestà ex art. 317-bis c.c..
A conforto di tale interpretazione può essere richiamato anche il
principio generale per cui le cause accessorie e comunque connesse
devono essere trattate unitariamente (art. 31 e segg. c.p.c.) che rende
anomala anche processualmente una trattazione separata, avanti a
due giudici diversi, delle due questioni intimamente connesse dell’affidamento e del mantenimento dello stesso minore.
Occorre tuttavia precisare che la conclusione a cui si è qui giunti
non è condivisa se non da pochi nella dottrina e nella prassi giudiziaria, dove prevale un atteggiamento contrario, in cui convergono da un
lato il pregiudizio che i giudici minorili non siano adatti a decidere
cause di contenuto patrimoniale, dall’altro la preoccupazione proprio
dei giudici minorili di assumersi una nuova competenza che andrebbe ad aggravarli ulteriormente.
7. – Procedimenti per il riconoscimento dello status di genitore.
Sono di competenza del T.M. sia il procedimento promosso dal
genitore che voglia riconoscere il figlio naturale per ottenere dal Tribunale la sentenza che tiene luogo del consenso mancante da parte
dell’altro genitore che lo ha già riconosciuto (art. 250, 4° comma, c.c.)
sia il procedimento per la dichiarazione giudiziale della genitura nella
sua doppio fase di giudizio di ammissibilità (art. 274 c.c.) e di merito
(art. 269 c.c.).
70
a) Al procedimento ex art. 250 c.c. ritengo sia ormai pacificamente
applicabile il rito camerale, oltre che per il disposto dell’art. 38 disp.
att. c.c. anche (come ho già detto sopra) per effetto della ricordata sentenza 5629/96 delle Sezioni Unite della Cassazione.
Poiché la norma stabilisce che “il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio” nell’indagare sulla legittimità del rifiuto il T.M. deve fare esclusivo riferimento
al concreto interesse del minore e quindi “valutare il complesso dei
diritti che a lui derivano dall’ulteriore riconoscimento, considerando
che esso non incide in sè sul rapporto con l’autore del precedente riconoscimento, né impone a quest’ultimo di riprendere la convivenza con
l’altro genitore o di troncare eventuali legami con terzi; al fine indicato pertanto non rilevano valutazioni comparative dei due genitori, né
apprezzamenti negativi circa la personalità o la condotta di chi intende effettuare il riconoscimento, se non nei limiti in cui possano evidenziare che l’acquisto di quei diritti sia foriero per il minore stesso
più di nocumento che di vantaggio” (29).
Ancora, poiché il riconoscimento del figlio, sebbene condizionato
dal suo interesse (e, se ultrasedicenne, dal suo stesso consenso senza
del quale il riconoscimento non ha effetto) costituisce un diritto del
genitore ne consegue che per il sacrificio di tale diritto non è sufficiente l’interesse del minore a conservare o a non veder turbata la serenità di vita che conduce con il genitore che lo ha riconosciuto per primo, ma è necessaria la presenza di un fatto impeditivo di importanza
proporzionale al diritto sacrificato e tale da far ritenere che il trauma
presumibilmente riportabile dal minore sarebbe così grave da pregiudicare il suo sviluppo psicofisico” (30).
In relazione alla posizione centrale dell’interesse del minore è previsto che egli sia “sentito in contraddittorio con il genitore che si oppone” come dice testualmente l’art. 250 c.c., con una disposizione che in
realtà, nella prassi giudiziaria, rimane spesso inattuata (31).
(29) Cfr. Cass. 15 marzo 1994 n. 2463 in Foro it., Rep. 1994, voce Filiazione.
(30) Cass. 13 novembre 1986 n. 6649, 6 giugno 1990 n. 6093, 24 gennaio 1991 n.
687, 4 febbraio 1993 n. 1412, 29 dicembre 1994 n. 11263, quest’ultima in Foro it., Rep.
1994, voce Filiazione.
(31) Si esclude che il minore infrasedicenne sia litisconsorte necessario nel giudizio, qualità che spetta solo ai due genitori e al P.M.; sul punto e sulle conseguenze processuali nel caso che al minore sia stato nominato un curatore speciale si veda Cass.
11 febbraio 1993 n. 1741 in Dir. Fam. Pers., 93, 984.
71
b) L’azione dichiarativa della genitura, prima di competenza del
Tribunale ordinario (come le altre azioni di stato) è stata attribuita
alla competenza del T.M. solo con l’entrata in vigore dell’art. 68 legge
184/83 che ha inserito anche la procedura ex art. 269 c.c., quando
riguardi minorenni, fra quelle indicate nell’art. 38 disp. att. c.c..
Il cambio di competenza è stato molto criticato dalla dottrina e
dalla giurisprudenza che ne ha eccepito l’incostituzionalità rilevandone l’irragionevolezza poiché l’accertamento sulla genitura risulta del
tutto indifferente al dato estrinseco costituito dall’età del generato attenendo a un fatto biologico storico ed oggettivo senza alcun condizionamento alle esigenze psicologiche del procreato.
L’eccezione è stata però respinta dalla Corte Costituzionale in considerazione dei particolari poteri demandati al giudice quando l’azione riguardi un minorenne: il potere cioè di verificare la validità del
consenso del minore ultrasedicenne (art. 273, 2° comma, c.c.) e quello di dare i provvedimenti utili per il mantenimento e l’educazione del
figlio (art. 277, 2° comma, c.c.) (32).
Inoltre la Corte ha rilevato che la stessa legge che contiene la norma introduttiva della competenza minorile (art. 68 legge 184/83) pone
in risalto i rapporti tra la dichiarazione giudiziale di genitura e le procedure di adozione (33).
La competenza del T.M. non è dunque più discutibile e, sotto il
profilo territoriale, si radica non nel luogo di residenza del minore,
bensì in quello del convenuto (34).
b.1 – Al medesimo Tribunale spetta decidere sull’ammissibilità
dell’azione nella fase preliminare regolata dall’art. 274 c.c.: per quanto
tale norma non sia ricompresa tra quelle citate dall’art. 38 disp. att.
c.c., la giurisprudenza ha ritenuto che, trattandosi di giudizio prodromico a quello di cui all’art. 269 c.c., dovesse attribuirsi alla competenza del medesimo giudice (35).
(32) Corte Cost. 25 maggio 1987 n. 193 in Foro it., 1988, I, 2802 e 2817.
(33) L’art. 11, ultimo comma, della legge 184/83 prevede che, intervenuta la
dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo il giudizio per la dichiarazione di genitura è sospeso di diritto e si estingue ove segua la pronuncia di adozione divenuta definitiva.
(34) Cfr. la già citata Cass. Sez. Un. 7 febbraio 1992 n. 1373.
(35) Cfr. Cass. 17 maggio 1990 n. 4298, 24 agosto 1990 n. 8713. Recentemente Cass.
27 settembre 1997 n. 9505 (Fam. Dir., n. 1/98, pag. 5) ha affermato la natura di presupposto processuale rispetto alla fase di merito della dichiarazione di ammissibilità.
72
L’azione per la dichiarazione della paternità o maternità è ammessa solo “quando concorrono specifiche circostanze tali da farla apparire giustificata: la legge vuole in tal modo evitare la proposizione di
domande temerarie o manifestamente infondate e tutelare il preteso
padre da possibili iniziative ricattatorie; parimenti al fine di tutelare la
sua onorabilità prevede che il giudizio sull’ammissibilità si svolga in
camera di consiglio, con inchiesta sommaria che deve essere mantenuta segreta.
È pacifico in giurisprudenza che la pronuncia di ammissibilità
non richiede l’acquisizione di elementi forniti di un elevato grado di
efficacia probatoria, ma soltanto il concorso di circostanze in base alle
quali si possa prospettare la mera probabilità che l’azione sia riconosciuta fondata (36).
L’ammissibilità deve essere dichiarata valutando altresì se l’azione
proposta sia nell’interesse del minore “o non rischi piuttosto di pregiudicarne gli equilibri affettivi, l’educazione e la collocazione sociale,
incovenienti che non sempre e non interamente possono essere evitati dopo la costituzione dello status di filiazione con i provvedimenti
previsti dall’art. 277, 2°, c.c.”.
In questo senso si è espressa la Corte Costituzionale ritenendo
che, una volta attribuita la competenza al Giudice Minorile per l’azione di status promossa nell’interesse di minorenni, lo stesso debba
esplicare la sua funzione istituzionale valutando, nella fase di ammissibilità, se l’azione intentata da un genitore per imporre all’altro una
paternità o una maternità che quegli rifiuta di riconoscere, sia effettivamente nell’interesse del minore (37).
Sembra che la valutazione dell’interesse del minore debba essere
fatta dunque con riferimento al comportamento del genitore che lo ha
riconosciuto, per evitare che egli coinvolga il figlio in iniziative avventate e pericolose, ma anche con riguardo alla condotta del presunto
padre.
(36) Cfr. per tutte Cass. 2 marzo 1993 n. 2579 in Giur. it., 94, I, 1, 264 e da ultimo
Cass. 5 agosto 1997 n. 7193 in Fam. e Dir., 1/98, pag. 35 e Cass. 21 gennaio 1998 n. 513
in Fam. e Dir., 3/98, pag. 228.
(37) Cfr. Corte Cost. 20 luglio 1990 n. 341 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art.
274, 1° comma, c.c. nella parte in cui non prevede che l’azione sia ammessa solo quando sia ritenuta rispondente all’interesse del figlio (in Foro it., 92, I, 25 segg. con nota di
P. FORMICA). Secondo la Cassazione la sentenza della Corte Cost. opera direttamente
“l’addizione inclusiva“ della valutazione dell’interesse del minore nel giudizio di
ammissibilità (Cass. 15 giugno 1994 n. 5814).
73
A precisare meglio i criteri in base ai quali deve avvenire la valutazione dell’interesse del minore la Cassazione ha recentemente affermato che l’accertamento giudiziale di tale interesse (nel quale rientra anche la veridicità del rapporto di filiazione) “non può ridursi da un lato
ad un controllo del tutto apparente, ad una mera enunciazione di stile
e, dall’altro, ad una preclusione immotivata di un accertamento attributivo di uno status in nome di un interesse fondato su incerti parametri di riferimento”. L’interesse del minore deve invece essere accertato con una valutazione concreta e non presuntiva con riguardo “alle
esigenze globali, presenti e future, di formazione e di arricchimento
della sua personalità, nel contesto familiare e socioeconomico di
appartenenza, e deve essere ancorata a fatti concreti, quali il benefico
ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore, che
può essere escluso soltanto dall’accertata condotta gravemente pregiudizievole del convenuto per il figlio e tale da motivare la decadenza
dalla potestà sul medesimo ovvero dalla provata esistenza di gravi e
fondati rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico dello stesso, per la
sua educazione e per il suo inserimento lavorativo e sociale” (38).
Come si vede per valutare l’interesse del minore alla proposizione
dell’azione vengono usati i medesimi criteri individuati dalla giurisprudenza per valutare la legittimità del rifiuto del consenso al riconoscimento nell’ambito del procedimento ex art. 250 c.c..
I due giudizi sono tuttavia per così dire specularmente diversi.
Nel secondo il genitore che ha riconosciuto il figlio si oppone al
riconoscimento da parte dell’altro ed ha quindi l’onere di fornire gli
elementi utili a dimostrare che dal fatto del secondo riconoscimento
deriverebbe un danno grave al figlio.
Nel primo giudizio invece è il genitore che reclama l’accertamento della genitura dell’altro nel proprio interesse: la valutazione circa
la consonanza di tale interesse con quello del figlio è quindi, sotto il
profilo probatorio, più complessa, non potendosi ritenere che la
prova dell’inesistenza dell’interesse del minore debba essere fornita
dal resistente poiché se così fosse si attribuirebbe la tutela dell’interesse del minore proprio a colui che rivendica la sua estraneità al rapporto con lui.
Ed infatti la giurisprudenza ha rilevato che l’interesse del minore
non può essere strumentalizzato dal soggetto passivo della domanda
(38) Cass. 23 febbraio 1996 n. 1114 in Dir. Fam. Pers., 1996, pag. 965 con nota di
F. MECHELLI.
74
di reclamo di stato come mezzo di difesa, col sostenere che sarebbe
contrario all’interesse del minore avere un genitore che contesta e
rifiuta il proprio ruolo, poiché nel proporre tale eccezione il presunto
genitore sosterrebbe un proprio interesse, di sottrarsi alle sue responsabilità, in conflitto con quello del minore (39).
In conclusione pare di poter dubitare che l’accertamento dell’interesse del minore all’azione di stato possa effettivamente avvenire in
base ai rigorosi criteri sopra enunciati dalla Cassazione, a meno che
l’acquisizione dei gravi elementi contrari non avvenga su iniziativa del
P.M. o d’ufficio.
Nella prassi si può dire che l’interesse del minore viene dato normalmente per scontato, dal momento che l’accertamento delle sue origini difficilmente potrebbe ritenersi poco interessante per lui sia in sè
che per le sue conseguenze quanto meno economiche.
E d’altronde la sopra richiamata giurisprudenza della Cassazione
si è formata nei casi in cui la mancata valutazione dell’interesse del
minore è stata eccepita dal resistente, nel tentativo di strumentalizzazione denunciato dalla giurisprudenza sopra ricordata. In questi casi,
come si evince dalla motivazione delle pronunce, è stato ritenuto che
la valutazione fosse stata effettuata mediante l’accertamento dell’inesistenza di fattori contrari, ad esempio dei quali è stato portato soltanto il fatto che la madre del minore fosse coniugata (cfr. Cass. n.
1444/96 precitata).
Sembra dunque che il richiamo all’interesse concreto del minore
sia in questo settore forzato e poco realistico, determinato e quasi obbligato dalla scelta della Corte Costituzionale (sentenza 193/87) di
mantenere, più per ragioni di opportunità che di coerenza giuridica,
la competenza del T.M..
Una volta operata quella scelta ed attribuito il giudizio al giudice
specializzato, la conseguenza che esso debba fare, anche in questo caso, il suo mestiere di tutore dell’interesse del minore, è sembrata quasi
automatica, Né la Corte si è preoccupata di motivarla altrimenti.
Non si vuole qui certamente contestare la sistemazione data a questa materia, ma soltanto sottolineare come, nei fatti, ben difficilmente
si possa pervenire a non ammettere il reclamo di stato ritenendolo
contrario all’interesse del minore.
(39) Cass. 28 giugno 1994 n. 6216 in Dir. Fam. Pers., 1994, 1248, App. Roma, 9
novembre 1993, ibid. 95, 146, T.M. Napoli, 6 maggio 1992, ibid. 92, 1051, T.M. Torino,
26 febbraio 1992, ibid. 92, 1086.
75
b.2 – Per quanto riguarda il giudizio di merito va detto che la
prova della paternità e della maternità può essere data con ogni
mezzo, così come recita l’art. 269 c.c. nella nuova versione introdotta
con la riforma del diritto di famiglia del 1975, mentre in precedenza si
potevano utilizzare soltanto alcune presunzioni legali con esclusione
di ogni altro mezzo probatorio (40).
Prova principe è quella ematologica che consente ormai di determinare in una percentuale del 99,99% la probabilità dell’ipotesi di paternità e che rende pressoché superflua l’assunzione di altre prove (41).
Recentemente la Cassazione ha affermato che il rifiuto da parte del
presunto padre di sottoporsi al prelievo di sangue per l’effettuazione delle
prove ematologiche, combinato con le dichiarazioni della madre, può
essere ritenuto dal giudice un espediente per ostacolare la dimostrazione
della paternità e può assurgere a prova della stessa in base a criteri logici e in conformità con quanto dispone l’art. 116, 2° comma, c.p.c. (42).
Ne consegue, sul piano operativo, che l’ammissione della prova
ematologica deve essere preceduta dall’interpello del presunto padre
circa la sua disponibilità a sottoporsi al prelievo di sangue; solo in
caso negativo le altre prove acquistano rilevanza.
b.3 – La sentenza che dichiara la genitura produce gli effetti del
riconoscimento ed implica l’assunzione di tutti i doveri propri della
procreazione legittima (art. 261 c.c.) a partire dalla nascita del figlio:
quindi, come afferma la giurisprudenza consolidata, il genitore che
abbia mantenuto il figlio ha titolo per ottenere il rimborso pro quota
da parte dell’altro (43).
(40) Legittimati passivi sono anche gli eredi del presunto genitore: cfr. Cass. 12
settembre 1997 n. 9033 in Fam. Dir., gennaio 1998, pag. 22.
(41) Cfr. da ultimo Cass. 3 settembre 1997 n. 8451 in Fam. Dir., gennaio 1998, pag. 30.
(42) Cfr. Cass. 24 febbraio 1997 n. 1661 in Famiglia e Diritto, n. 2/97, pag. 105 con
nota di V. CARBONE. La Cassazione precisa che la decisione non è in contrasto con la
recente pronuncia della Corte Costituzionale (19 luglio 1996 n. 257 in Foro it., 97, I,
1716) in quanto quest’ultima riguarda soltanto l’estensione di accertamenti tecnici o
ispezioni in via preventiva (art. 696 c.p.c.) anche a coloro nei cui confronti essi sono
richiesti, subordinandoli al loro consenso. Cfr. ancora Cass. 27 agosto 1997 n. 8059,
Fam. Dir., gennaio 1998, pag. 79.
(43) Da ultimo Cass. 2038/94, 2065/94, 2907/94, ma contra Cass. 7644/95 che ritiene invece che i provvedimenti circa il mantenimento del figlio decorrano dalla domanda essendo estensibile all’obbligo di mantenimento il principio dettato in tema di alimenti dall’art. 445 c.c.. Quest’ultima sentenza è criticata da Trib. S.M. Capua Vetere, 31
ottobre 1996 in Famiglia e Diritto, n. 2/97, pag. 134 con nota di A. FIGONE.
76
Oltre ai provvedimenti patrimoniali il Tribunale può anche darne
altri, utili per l’istruzione e l’educazione del figlio.
Ritengo che, per il combinato disposto degli artt. 277 e 262 c.c. il
Tribunale possa, nella sentenza dichiarativa della genitura, decidere in
ordine all’assunzione del cognome da parte del minore.
8. – Veridicità del riconoscimento.
Viene in gioco ed interessa con riferimento ad interventi del T.M.
sia in base all’art. 264 c.c. sia in relazione all’art. 74 della legge 4 maggio 1983 n. 184 sull’adozione anche con riferimento all’art. 252 c.c..
Sul punto si è recentemente pronunciata la Corte Costituzionale
respingendo la questione di legittimità dell’art. 263 c.c. (in relazione
agli artt. 2, 3, 30, 31 Cost.) nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del
minore.
La Corte ha affermato che la verità del rapporto di filiazione è un
valore necessariamente da tutelare anche nell’interesse del minore il
quale ha diritto ad acquisire uno stato corrispondente alla realtà biologica e nell’interesse generale di impedire l’elusione delle norme sull’adozione mediante riconoscimenti fraudolenti.
Ha altresì precisato che gli eventuali legami affettivi del minore
seguiti ad un falso riconoscimento possono essere ugualmente salvaguardati utilizzando strumenti di tutela tipo l’adozione in casi particolari (art. 44 lett. c legge 184/83) (44).
Tale pronuncia non va ignorata nel momento in cui, come non di
rado accade, il T.M. rilevi (per esempio nell’ambito di procedimenti ex
art. 262 c.c. per l’attribuzione del cognome al figlio riconosciuto oppure per l’adozione ex art. 44 lett. b per adozione da parte del marito della madre) che vi è stato un riconoscimento non vero.
A quel punto la legge prevede che, per iniziativa del P.M. minorile, il Tribunale possa nominare un curatore che promuova avanti al
Tribunale ordinario il procedimento dichiarativo (art. 264 c.c.).
(44) Corte Cost. 22 aprile 1997 n. 112, pres. Granata, est. Contri, in Fam. Dir., 5/97,
pag. 411 (remittente il Tribunale di Napoli) con commento di A. FIGONE. Cfr. però le osservazioni critiche di D. VINCENZI AMATO in Giur. Costituzionale, 1997, pag. 1077 segg..
77
Per quanto riguarda gli interventi del T.M. ex art. 74 legge 184/83,
esso prevede che siano disposte opportune indagini per accertare la
veridicità del riconoscimento da parte di persona coniugata di un
figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore; in questo caso il
Tribunale ha il potere, anche d’ufficio, di nominare un curatore perchè promuova l’azione di impugnazione del riconoscimento.
Si tratta di una spinosa questione che riguarda i modi illegali di
procurarsi un bambino eludendo le norme sull’adozione nazionale e
internazionale che è stata posta, in passato, in alcuni casi, uno dei
quali (“il caso Serena Cruz” verificatosi a Torino ormai quasi dieci
anni fa) particolarmente clamoroso, che ha sollevato enormi polemiche nell’opinione pubblica e sollecitato interventi anche autorevoli da
posizioni nettamente contrapposte, da un lato di coloro che rivendicavano l’interesse generale e anche dei minori a un rigoroso rispetto
della legge, dall’altro di coloro che avrebbero preferito salvaguardare
rapporti affettivi che, per quanto fondati sul falso, sembravano meritevoli di essere mantenuti (45).
Ultimamente sono da registrare pronunce su una linea opposta al
rigore dei giudici torinesi (e di altri che sono intervenuti in casi meno
clamorosi) e che sembra indulgere invece a tutela degli interessi di chi
froda la legge. In questo senso sembrano due recenti pronunce del
T.M. Napoli (46).
Con la prima il Tribunale si limita ad arrendersi alle lungaggini di
un procedimento (durato oltre sei anni) e revoca l’allontanamento di
un minore dal padre a suo tempo emesso per le dubbie circostanze in
cui egli lo aveva riconosciuto.
La seconda appare invece preoccupante perchè, sia pure in un
caso in cui appariva del tutto verosimile la ricostruzione dei fatti data
dal ricorrente (che chiedeva la legittimazione del figlio riconosciuto da
lui e dalla madre polacca tornata al suo paese), afferma tuttavia che
l’art. 74 sarebbe applicabile solo nel caso del figlio non riconosciuto
dall’altro genitore e non sarebbe invece applicabile in via estensiva al
riconoscimento di entrambi i genitori.
(45) Cfr. T.M. Torino, 2 febbraio 1989 e 28 febbraio 1989, C.A. Torino, 31 gennaio
1989, 15 marzo 1989 e 21 aprile 1989 in Foro it., pag. 276 segg.. Si veda anche l’interessante rassegna delle contrastanti pronunce su casi di affidamento dei bambini stranieri, ibid. pag. 270 segg..
(46) T.M. Napoli, 12 giugno 1996, D’AGOSTINO, in Dir. di Famiglia, 1997, 208 e
T.M. Napoli, 30 settembre 1996, Marsiglia, ibid. 97, 1006, con nota di COSENTINO.
78
La tesi non può essere condivisa: come aveva osservato il T.M. di
Torino l’ufficiale di stato civile è tenuto alla segnalazione al T.M. (in
base all’art. 74, 1° comma) solo quando il riconoscimento è da parte di
un solo genitore, ma ciò non toglie che il Tribunale possa sempre
disporre indagini (anche quando il riconoscimento è di entrambi i
genitori) nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento come si evince
dal 2° comma dell’art. 74 e come risulta evidente in applicazione del
principio analogico dal momento che la situazione del riconosciuto da
entrambi i genitori ma abbandonato dall’uno e ceduto al secondo (e al
coniuge di lui) è sotto questo profilo del tutto identica a quella del
riconosciuto da un solo genitore, talchè una diversità di conseguenze
processuali risulterebbe ingiustificata e incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza (47).
Trattandosi di tema in qualche modo connesso con quello della
veridicità del riconoscimento va ricordato che è stato ormai ampiamente superato il problema della riconoscibilità da parte della madre
coniugata dei figli nati in costanza di matrimonio ma non del marito,
problema che dopo l’entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia del
’75, era stato posto con riferimento alla presunzione di legittimità di
cui all’art. 231 c.c. (48).
(47) Riporto testualmente la condivisibile motivazione di T.M. Torino, 2 febbraio
1989 sopra citato, in Foro it., 90, pag. 297.
(48) Cfr. Cass. 27 agosto 1997 n. 8059 e precedenti citati in Famiglia e Diritto, gennaio 1998, pag. 79 segg..
79
IL PROCESSO CIVILE MINORILE
Relatore:
Dott. Cesare CASTELLANI
Giudice del Tribunale per i Minorenni di Torino
Ruolo e funzioni del giudice onorario nel processo civile minorile in
una prospettiva di attuazione dei principi di collegialità e specializzazione.
1. – Da molti anni si discute attorno alla configurazione del ruolo
e delle funzioni dei giudici onorari (o componenti privati), nell’ambito delle procedure civili di competenza del Tribunale per i Minorenni,
in particolare di quelle di volontaria giurisdizione ai sensi degli articoli 330 e seg. cod. civ..
Il dibattito che si è sviluppato in dottrina, giurisprudenza e nell’ambito dell’Associazione italiana dei giudici per i minorenni e per la
famiglia, nel quale sono emerse posizioni differenziate, è stato assai
vivace sia per la rilevanza sul piano quantitativo, sia per la particolare
importanza di queste procedure, attraverso cui si realizza la primaria
funzione della giustizia minorile nei compiti, riconosciuti dalla Costituzione e dalle Convenzioni Internazionali, di protezione dell’infanzia
e dell’adolescenza, sia per la stretta interdipendenza tra esigenze di
specializzazione e, dunque, di integrazione di saperi (diritto/psicologia, ecc.) e perseguimento effettivo dei valori che vengono in discussione.
Se una ricognizione sul piano puramente fattuale mette immediatamente in luce l’esistenza di prassi notevolmente differenziate tra
un ufficio giudiziario e l’altro (1), è agevole riconoscere che tanta
disparità ha potuto concretizzarsi in primo luogo per la povertà di
riferimenti legislativi.
La normativa base sull’istituzione e il funzionamento del Tribuna-
(1) FACCIOLI-MESTIZ, Indagine sui giudici onorari minorili in Italia, in Minori
Giustizia, 1995, 2, 70 s.. Si veda anche il numero speciale dedicato ai giudici onorari di
Minori Giustizia, 1991, n. 4 ed, in particolare, sul punto, ABRUZZESE, Le modalità di
impiego, 24.
81
le per i Minorenni (R.D.L. 20 luglio 1934 n. 1404, come modificato
dalla l. 27 dicembre 1956 n. 1441) si limita a disporre, all’articolo 2,
che il Tribunale “è composto da un magistrato di Corte d’Appello, che lo
presiede, da un magistrato di Tribunale e da due cittadini, un uomo e
una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia,
che abbiano compiuto il trentesimo anno di età”.
Nessuna indicazione viene data, a parte l’aspetto minimo delle
modalità di composizione dell’organo nelle attività giurisdizionali che
la legge riserva espressamente al collegio, sull’impiego dei giudici onorari nelle svariate attività, non solo decisionali, demandate al Tribunale. A questi ultimi, in altre parole, non viene conferita alcuna competenza specifica. Scarsi aiuti si ricevono passando in rassegna la normativa di tipo ordinamentale e quella, più specifica, di tipo sostanziale e processuale, applicabile nella materia che interessa.
A livello procedurale gli articoli 330 e seg. del codice civile offrono all’interprete scarne indicazioni: revocabilità dei provvedimenti
(art. 334 comma 2°), soggetti legittimati a investire l’autorità giudiziaria, tipo di atto introduttivo (ricorso: art. 336 comma 1°), possibilità di
assumere informazioni, acquisizione del parere del pubblico ministero, necessaria audizione del genitore nei cui confronti il provvedimento esplica i propri effetti, decisione in camera di consiglio (art. 336
comma 2°), possibilità di emettere, anche d’ufficio, provvedimenti
temporanei nell’interesse del minore (art. 336 comma 3°).
Come si vede è difficile trarre spunti sul ruolo specifico del giudice onorario nelle procedure civili o dai quali argomentare l’esistenza
di una qualche diversità di posizione tra giudici onorari e togati. Stesso discorso vale per la norma base che radica la competenza del Tribunale per i Minorenni (art. 38 disp. att. cod. civ.).
Poiché ci troviamo nella materia dei procedimenti in camera di
consiglio, il rito applicabile è pacificamente quello previsto in via
generale dagli articoli 738 seg. del cod. proc. civ. (cfr. espressamente
art. 742-bis).
È su queste norme che si è concentrata la maggiore attenzione
degli interpreti. Tuttavia la forte eterogeneità delle conclusioni a cui si
è pervenuti sta a testimoniare ancora una volta come la questione specifica di cui ci stiamo occupando – modi e qualità del coinvolgimento
dei giudici onorari e loro posizione rispetto ai c.d. togati nelle procedure di volontaria giurisdizione – non possa, allo stato, trovare una
sistemazione teoria soddisfacente sulla base del dato strettamente
ermeneutico.
82
Dalle disposizioni in esame si ricavano, indubbiamente, importanti indicazioni prima fra tutte l’individuazione della figura del giudice relatore. Si apprende, in particolare, che si tratta di una persona
che deve essere designata dal presidente del collegio, scegliendo tra
coloro che ne fanno parte, e la cui funzione viene, attenendosi al dato
normativo esplicito, circoscritta al compito di riferire sul caso in camera di consiglio, dunque nella fase della discussione (art. 738 1°
comma).
Lo stesso articolo, all’ultimo comma, stabilisce altresì che “il giudice” può assumere informazioni. Qui appare evidente la genericità
della formula, se riferita a un organo non monocratico e, più ancora,
se a composizione mista come il Tribunale per i Minorenni.
Non deve stupire più di tanto che, in questa situazione di incertezza a livello normativo, e in presenza di problemi pressanti e di grande rilievo, anche ai fini dell’organizzazione degli uffici giudiziari
minorili, ai molti quesiti lasciati irrisolti dal legislatore abbia cercato
di porre rimedio l’attività “regolamentare” del Consiglio Superiore della Magistratura. Comprensibili le critiche di parte della dottrina per
un intervento forse improprio in relazione all’incidenza su posizioni di
vero e proprio diritto soggettivo, ma valide le motivazioni, anche per
dare più chiara dignità alla figura e allo status del giudice onorario,
abbandonando impostazioni puramente paternalistiche del passato,
legate a un ruolo di semplice portatore di una maggiore “umanità” nelle procedure giudiziarie riguardanti i minori.
Senonché, proprio per la carenza di solide basi di riferimento normativa, il Consiglio si trova ad emettere alcune circolari che – aspetto
su cui si sono appuntati i comprensibili rilievi critici di commentatori
(2) – in una certa misura si pongono in contrasto tra loro. Con la circolare n. 7771 del 12 ottobre 1984, rispondendo ad un quesito del T.M. di
Roma, il Consiglio delibera “di ammettere l’impiego dei componenti privati in attività istruttoria, per oggetto, fini e condizioni congrue alla loro
specifica preparazione professionale, spettando al presidente del tribunale
o del collegio individuare tale congruità caso per caso, sia pure nel rispetto dei criteri necessari a non violare la regola del giudice naturale” (3).
Passando pochi anni e il Consiglio muta il proprio orientamento.
In presenza di opposte valutazioni in ordine all’approvazione delle
(2) OCCHIOGROSSO, L’incerto “status” dei giudici onorari, in Minori Giustizia,
1991, n. 4, 3 s..
(3) Minori Giustizia, ult. cit., 74.
83
tabelle tra un T.M. e un Consiglio giudiziario, in data 12 luglio 1990
stabilisce “che le tabelle di distribuzione degli affari secondo criteri prestabiliti devono riferirsi solo ai magistrati togati dell’ufficio cui, di regola, devono essere affidate le funzioni di relatore o di istruttore, e non
anche ai componenti privati; che, una volta stabiliti i criteri di distribuzione degli affari solo fra i magistrati togati, il presidente del Tribunale
Minorile ha il potere in casi del tutto eccezionali di derogarvi, assegnando specifici affari ad uno dei componenti privati; che il magistrato
togato al quale l’affare è stato originariamente assegnato può segnalare
con una richiesta al presidente del tribunale le specifiche esigenze di servizio che consigliano l’assegnazione del singolo affare a un componente
privato in deroga ai criteri generali prestabiliti, senza che occorra una
autonoma iniziativa del presidente” (4).
2. – Si è già accennato all’eterogeneità e molteplicità delle esperienze rispetto all’impiego dei giudici onorari nelle procedure civili
presso i diversi tribunali. Può essere utile riportare in modo schematico le varie prassi, seguendo un ordine di progressiva “responsabilizzazione” di tale componente:
a) semplice partecipazione del giudice onorario al collegio, in
camera di consiglio, all’atto della decisione;
b) subdelega al giudice onorario da parte del giudice togato o del
presidente di singoli atti istruttori (es. audizione del minore, dei genitori, di operatori dei servizi), senza ulteriore coinvolgimento;
c) delega al giudice onorario dell’intera attività istruttoria, senza
vincolo di partecipazione alla camera di consiglio in cui verrà assunta
la decisione;
d) delega al giudice onorario dell’intera attività istruttoria e sua
presenza irrinunciabile alla camera di consiglio nella quale il collegio,
del quale è chiamato a far parte, assume la decisione.
Sono stati incisivamente posti in luce i gravi limiti di alcune di
queste prassi, che si pongono in contrasto con princìpi fondamentali
che regolano la giurisdizione e che hanno portato alla scelta dell’inserimento di cittadini privati esperti nel Tribunale per i Minorenni (5).
La prassi sub a) svilisce completamente la figura professionale del
(4) Minori Giustizia, 1990, n. 3, 36.
(5) LOSANA-BOUCHARD, La collegialità nella prassi del Tribunale per i Minorenni
di Torino, in Minori Giustizia, 1994, n. 1, 115.
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componente esperto, chiamato ad emettere opinioni e pareri senza la
possibilità di avere una cognizione approfondita della vicenda sulla
quale è chiamato a pronunciarsi (è assai difficile che le camere di consiglio siano precedute da uno studio personale degli atti da parte di
ciascun componente, indispensabile per emettere valutazioni sul
piano psicodiagnostico).
Le prassi sub b) e c) si pongono in netto contrasto con il principio
dell’immutabilità tra giudice che assume le prove e giudice che decide (art. 174 cod. proc. civ.), con rischi di errata valutazione degli elementi probatori e delle caratteristiche effettive della vicenda. Inoltre
esse inducono forti frustrazioni sul piano professionale, poiché chi è
chiamato a seguire una fase del processo non contribuisce alla decisione e nulla viene a sapere degli sviluppi successivi.
Procedendo come sub c) vi sono rischi di compromissione del
principio di imparzialità poiché il giudice, nel contatto continuativo e
individuale con gli operatori dei servizi territoriali, può perdere di
vista la posizione di organo giudicante e la terzietà che la caratterizza.
Oppure può esservi la tendenza a far prevalere sulla funzione decisionale atteggiamenti impropri, legati alla specifica professionalità del
singolo giudice onorario, ad esempio ad assumere un ruolo di sostegno terapeutico nei confronti di una o più parti (minore, genitori).
Come si dirà solo la prassi sub d) risulta immune da possibili rilievi critici sul piano del rispetto dei princìpi, anche se, per attuarla,
occorre pagare qualche prezzo a livello celerità delle procedure. La
delicatezza degli interessi in gioco, peraltro, giustifica ampiamente, ad
avviso di chi scrive, tale scelta innovativa.
3. – Nei primi anni ’90 vengono compiuti dei tentativi per ottenere il riconoscimento, a livello giurisprudenziale, dell’inderogabilità dei
princìpi della collegialità e specializzazione del T.M., anche con riferimento alla fase istruttoria civile.
Il pubblico ministero presso il Tribunale per i Minorenni di Venezia propone reclamo alla locale Corte d’Appello per vedere affermati
tali principi sulla base di varie argomentazioni che possono essere così
sintetizzate (6).
Si assume, in particolare, che il decreto di limitazione della potestà, emesso ai sensi degli artt. 330 e seg. cod. civ. dal Tribunale per i
(6) Reclamo 18 gennaio 1992, est. Dusi, Dir. Fam. e Pers., 1992, 722, con nota adesiva di SERGIO, Rito camerale e collegialità, questione cruciale per la giustizia minorile.
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Minorenni di Venezia, sarebbe nullo per violazione dei principi che
regolano la costituzione del giudice nelle procedure in camera di consiglio. Nel caso di specie l’istruttoria, attraverso l’audizione delle parti,
era stata compiuta individualmente dal giudice “relatore” designato
dal presidente, il quale aveva assunto, secondo una prassi assai diffusa nei tribunali minorili, il ruolo di giudice “delegato”.
Il pubblico ministero reclamante osserva che solo il collegio nella
sua interezza possiede quei connotati di specializzazione (nel senso di
integrazione di saperi) che costituiscono la ragion d’essere della previsione di giudici onorari all’interno del tribunale e che, non essendo
prevista, nelle procedure camerali, una distinzione tra fase istruttoria
e fase decisoria, è il collegio che deve farsi carico delle diverse attività
processuali.
La figura del giudice “delegato” rappresenterebbe una deformazione del dato normativo, introdotta attraverso mere prassi organizzative degli uffici. Invero l’art. 738 c.p.c. fa cenno solo alla figura del
giudice “relatore”, per agevolare la trattazione del caso in camera di
consiglio. Riferendosi all’assunzione di informazioni – questo è l’argomento più pregnante – la norma fa riferimento al “giudice” e tale non
può essere, in un organo collegiale e specializzato come il T.M., che il
collegio nella sua pienezza.
La Sezione Minorenni della Corte d’Appello di Venezia non accoglie il reclamo (7). Per la verità si tratta di un provvedimento motivato in modo poco soddisfacente rispetto alle articolate argomentazioni
contenute nel reclamo.
La Corte osserva che l’assunto centrale atto a dimostrare che il
“giudice” chiamato ad assumere le informazioni secondo l’art. 738
c.p.c. sarebbe il collegio non è chiaramente esplicito dalla norma e che
ragioni legate all’economia processuale debbono far propendere per la
legittimità dell’assunzione delle prove da parte del “relatore” che, altrimenti, non si vede su cosa dovrebbe riferire in camera di consiglio.
Nel frattempo un’autorevole dottrina aveva preso posizione contro
la tesi della necessaria collegialità in fase istruttoria (8). Il SACCHETTI si richiama alla dottrina processualistica secondo la quale l’informalità è una delle caratteristiche della procedura camerale, finalizza-
(7) Corte d’Appello di Venezia, Sez. Minorenni, 13 marzo 1992, in Quest. Giust.,
1993, n. 1, 214.
(8) SACCHETTI, Sul giudice relatore dotato di poteri istruttori e direttivi nel procedimento camerale minorile, in Dir. Fam. Pers., 1993, 717.
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ta alla rapidità di decisioni volte alla realizzazione di interessi di rilievo pubblicistico. In questo ambito la nomina del relatore da parte del
presidente è uno strumento snello ed efficace, dovendosi riconoscere
a tale figura la facoltà di assumere le opportune informazioni (9).
L’autore si richiama altresì all’incidenza che, sulla questione,
esplica la normativa speciale sull’adozione dei minori. Sin dall’introduzione dell’adozione speciale, nel 1967, e poi con la legge 84/1983 si
è andata affermato all’interno dei Tribunali per Minorenni una prassi
consolidata che, trovando la propria legittimazione nelle norme sui
poteri del giudice delegato (art. 10), si è via via diffusa alla generalità
delle procedure.
Imporre la collegialità in maniera diffusa, infine, comporterebbe
un aggravio di impegno per i giudici onorari che potrebbe risultare
non tollerabile, le procedure si complicherebbero e la stessa funzionalità dei tribunali minorili sarebbe messa in crisi, almeno negli aspetti
pratici e organizzativi.
4. – Il dibattito teorico sopra riportato ha avuto delle ripercussioni all’interno del Tribunale per i Minorenni di Torino dal 1992. Una
riflessione interna sulla condizione del giudice onorario ha preso
spunto dalla diffusione di un questionario, che ha evidenziato la presenza di notevoli malumori e di frustrazioni in seno alla componente
privata, ma non solo.
Appariva auspicabile, nella volontà dei più, una maggiore responsabilizzazione degli onorari, con una migliore utilizzazione delle loro
competenze specifiche.
Pur essendovi la consapevolezza che l’interpretazione delle norme
non poteva condurre in modo inequivoco all’affermazione del principio della collegialità dell’istruttoria in termini rigidi, si ritenevano non
più tollerabili alcune modalità di procedere come l’esclusione dalla
camera di consiglio del giudice onorario che aveva compiuto attività
istruttoria, l’alternarsi di figure nella gestione dei fascicoli e la frammentazione conseguente, l’assenza di un’effettiva collegialità nella
conoscenza degli atti al momento di assumere le decisioni, soprattutto quelle più delicate come l’allontanamento del minore dalla famiglia,
la decadenza della potestà genitoriale, la dichiarazione di adottabilità.
(9) REDENTI, Diritto processuale civile, Vol. III, Milano, 1957, 355; VISCO, I provvedimenti di giurisdizione volontaria, Milano, 1961, 70; PAJARDI-GALIOTO, I procedimenti camerali, Milano, 1992, 56.
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Con l’accordo del presidente e di tutti i giudici vi è stata quindi
una riorganizzazione dell’ufficio, fondata sul principio della costituzione di gruppi stabili di lavoro (le sezioni, in numero di tre), composti dal magistrato togato e da un gruppo di giudici onorari allo stesso
stabilmente collegati.
Si è quindi perseguita la valorizzazione dell’attività collegiale,
anche in fase istruttoria, seppur non in termini di regola assoluta e
inderogabile.
Un aspetto fondamentale di queste innovazioni è costituito dal
ruolo del Collegio, che diviene il titolare del fascicolo e della sua gestione, pur con possibilità di delegare singole attività a uno o, meglio
ancora, almeno a due suoi componenti (un togato e un onorario).
Vi è stato accordo di tutti i giudici nel riconoscere che l’integrazione dei saperi è un aspetto fondamentale non solo nel momento
decisionale conclusivo, ma anche nei vari passaggi e approfondimenti istruttori. L’espressione di una corretta psicodiagnosi, la formulazione di prognosi di recuperabilità e adeguatezza genitoriali difficilmente possono prescindere dal colloquio personale con la parte (genitore), che il giudice onorario ha quindi potuto espletare con maggiore
frequenza, spesso congiuntamente al giudice togato.
Altre volte l’onorario, con la propria sensibilità, ha favorito la conduzione di un colloquio (ad esempio per l’ascolto del minore), senza
che ciò privasse il giudice togato della possibilità di essere presente e
conoscere a sua volta la persona.
Soprattutto vi è stata la consapevolezza che la subalternità della
figura del giudice onorario porta inevitabilmente con sé una inadeguata “lettura” della condizione psicoevolutiva del minore e, di conseguenza, una insufficiente risposta ai suoi bisogni nei casi in cui, come
spesso avviene nelle nostre procedure, questi si pongono in conflitto
con quelli degli adulti (genitori).
La qualità delle decisioni, soprattutto nei casi più gravi e delicati,
ha tratto enorme giovamento da queste innovazioni, delle quali i giudici non possono più fare a meno.
I passaggi continui da una mano all’altra dei fascicoli, le discussioni in camera di consiglio in cui solo una persona era informata sul
caso, i messaggi disomogenei ai servizi o alle parti processuali tra
momento di assunzione delle informazioni e momento decisorio sono,
fortunatamente, un ricordo del passato.
Ora è il collegio, composto dallo stesso gruppo di giudici, che
prende in esame la procedura nel momento del suo avvio, che fissa i
limiti dell’attività istruttoria, che assume le decisioni conclusive. Ciò
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almeno nei casi che si presentano problematici (che non sono una
minoranza). Più spiccata appare la complessità del caso più la collegialità viene rispettata in modo rigoroso.
Il bilancio è assai positivo, anche perché la stabilità del gruppo di
lavoro favorisce la profondità della discussione e la compressione dei
diversi punti di vista.
Vi era qualche preoccupazione ad attuare le convocazioni delle
parti avanti a un numero elevato di giudici, ma l’esperienza ha dimostrato che, se condotta con la dovuta sensibilità, l’audizione in questa
forma non penalizza la spontaneità delle dichiarazioni, che può anzi
essere favorita dalle competenze comunicative e psicologiche degli
onorari presenti in camera di consiglio (del resto nelle udienze di
opposizione all’adottabilità questa è la regola).
Situazioni di pregiudizio che giustificano l’intervento a tutela del minore e tipologie di provvedimenti di limitazione della potestà (con particolare riferimento ai casi di maltrattamento e abuso sessuale).
1. – Il modo migliore per trattare il tema dei diritti delle parti adulte, in rapporto alle esigenze di realizzazione dell’interesse del minore,
mi è sembrato quello di analizzare, seppur schematicamente, attesa
l’estensione della materia, quelle che sono alcune tra le più ricorrenti
situazioni di pregiudizio, soffermandosi sulle peculiarità dell’istruttoria e sui provvedimenti che più frequentemente vengono emessi dal
Tribunale per i Minorenni. Si tratta di un tema di importanza assoluta poiché è nell’attività di volontaria giurisdizione che si attuano principalmente i compiti di protezione e tutela dell’infanzia e dell’adolescenza. Inoltre le esigenze di formazione sono, al proposito, molto
sentite per l’indeterminatezza dei riferimenti normativi e la conseguente discrezionalità che caratterizza l’attività del giudice minorile in
questa delicata materia.
La condotta pregiudizievole dei genitori che giustifica l’emissione
di provvedimenti di limitazione della potestà ai sensi degli artt. 330 e
seg. cod. civ. può assumere forme molto diverse ed essere ricollegabili a comportamenti carenti assunti deliberatamente, a omissioni o,
spesso, a veri e propri disturbi della personalità o patologie psichiche
o tossicomaniche dei genitori.
2. – Talora sono presenti trascuratezze a livello educativo o carenze nelle cure materiali alla persona del bambino, nei vari aspetti del-
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l’igiene, dell’alimentazione, del trattamento sanitario, dell’abbigliamento, della predisposizione di un adeguato ambiente di crescita.
Queste situazioni si presentano tra le meno complesse da affrontare. Il provvedimento che viene più frequentemente emesso è quello
contenente prescrizioni ai genitori, per lo più finalizzate a porre
rimedio direttamente a tali carenze o, più di frequente, a prestare la
propria collaborazione affinché possano attuarsi interventi di sostegno e di controllo nei confronti del nucleo familiare da parte dei servizi del territorio (servizio sociale, neuropsichiatria infantile, consultorio familiare, assistenza domiciliare, educativa territoriale). La non
particolare complessità di queste situazioni dipende dal fatto che proprio attraverso questi interventi è sovente possibile raggiungere l’obiettivo di un miglioramento delle condizioni in cui cresce il minore.
In situazioni di questo genere, ma in presenza di segnali più allarmanti di disagio da parte del minore, risultano appropriati interventi
più incisivi di limitazione della potestà, quali l’affidamento familiare (art. 2 seg. L. 184/83), sia nella forma residenziale che in quella,
intermedia, dell’affidamento diurno.
Queste soluzioni, imperniate sull’affiancamento di un nucleo
familiare diverso (da scegliere preferibilmente nell’ambito della parentela allargata, ove siano individuabili soluzioni sufficientemente tutelanti per il bambino) a quella naturale o legittima, allo scopo di sopperire agli aspetti carenti senza privare la famiglia di origine della
relazione con il minore, risultano appropriate anche nei casi di inadeguatezza sul piano psicologico o relazionale, sempreché non si sia di
fronte alle forme più gravi del vero e proprio abbandono morale, giustificante la dichiarazione di adottabilità.
3. – In presenza di una patologia psichiatrica di uno o di entrambi i genitori il Tribunale per i Minorenni deve porre particolare attenzione agli aspetti dell’accudimento e della tutela della stessa integrità
psicofisica del bambino, valutando attentamente la natura della
malattia mentale e gli specifici riflessi sulle funzioni genitoriali, apprestando tutte le misure atte ad evitare che il minore venga affidato alla
cure del genitore psichiatrico, soprattutto nelle fasi acute della malattia. Si dovrà poi porre attenzione, attraverso puntuali prescrizioni, al
rispetto e alla costanza del trattamento terapeutico (negli aspetti farmacologici e psicoterapeutici) da parte del paziente-genitore, essenziale a preservare il più possibile le competenze e capacità residue da
destinare alla crescita del figlio.
È bene essere consapevoli che, salvo rare eccezioni, gli operatori
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dei servizi di salute mentale tendono a schierarsi a sostegno del genitore loro utente e a considerare il mantenimento del rapporto con il
figlio come uno degli aspetti volti alla compensazione della patologia
dell’adulto. Ciò comporta, non di rado, ritardi nell’intervento a tutela
o sottovalutazione dei rischi evolutivi per il bambino.
Se vi sono perplessità al riguardo è bene procedere a un approfondimento attraverso lo strumento più obiettivo della consulenza tecnica.
4. – Le procedure riguardanti i minori nati da genitori tossicodipendenti sono assai numerose.
L’argomento è stato oggetto in questi anni di approfondite riflessioni, soprattutto da parte dei Ser.T., che hanno messo in luce le dinamiche che si producono con la nascita del bambino nella madre o
nella coppia tossicodipendente (10).
Due sono gli aspetti fondamentali di cui tener conto in queste
situazioni. Il primo è rappresentato dalla consapevolezza che il
momento della gestazione e della nascita di un figlio può rappresentare un’occasione unica per la madre tossicodipendente per avviare un
percorso di riabilitazione dall’abuso di sostanze. Occorre quindi fare il
possibile per stimolare le potenzialità che si mobilitano in questo particolare momento e, su questo piano, i provvedimenti autoritativi del
Tribunale per i Minorenni possono produrre un decisivo rafforzamento delle strategie di intervento a livello terapeutico.
Il secondo aspetto, che costituisce il portato di un’esperienza
quasi ventennale, è l’incompatibilità tra la tossicodipendenza, almeno
nelle forme più gravi dell’abuso di eroina o cocaina prolungate nel
tempo, e l’assunzione delle responsabilità di crescita ed educazione di
un figlio.
Non è che i genitori tossicodipendenti ricorrano a forme di maltrattamento fisico o non siano capaci di affettività verso i figli. Il fatto
è che le stesse modalità quotidiane di vita del tossicodipendente, che
ruotano attorno al ciclo carenza-ricerca-assunzione della sostanza,
non consentono di offrire al bambino cure e attenzioni sufficienti. Il
tossicodipendente vive in funzione della sostanza e ha ben poco spazio mentale residuo da destinare al figlio.
(10) Cfr. MALAGOLI TOGLIATTI-MAZZONI, Maternità e tossicodipendenza, Giuffrè, 1993; CASTELLANI, Gli interventi a tutela dei figli di tossicodipendenti, in Minori
Giustizia, 1993, n. 3, 34; GINELLI, Ragazze madri ex tossicodipendenti e bambini in
comunità, in Minori Giustizia, 1994, n. 4, 56.
91
In questi genitori si riscontrano vere e proprie alterazioni a livello
psichico, gravi trascuratezze (come, tipicamente: abbandonare il bambino da solo per andare alla ricerca della droga o dimenticare di alimentarlo o cambiarlo al momento opportuno), modalità di relazione
con il figlio assolutamente discontinue e, proprio per questo, assai
disturbanti e portatrici di vissuti di abbandono.
Vi sono poi gli aspetti pregiudizievoli a livello socio-ambientale,
basti pensare alla destinazione di ogni risorsa economica al procacciamento della sostanza.
Infine, in molti casi, l’abuso di droghe non è che un sintomo di più
profondi disagi a livello psicorelazionale, alla base dei quali stanno
negative esperienze infantili e familiari, che non hanno consentito
all’adulto di introitare un adeguato modello di genitore e, conseguentemente, di far fronte ai bisogni del figlio sul piano affettivo e pedagogico.
Alla luce di queste considerazioni le modalità di protezione del
minore si articolano di norma in una serie di provvedimenti tipici di
limitazione della potestà. Per lo più il primo provvedimento sarà di
tipo prescrittivo, per responsabilizzare il genitore all’interruzione dell’uso di sostanze e a prestare una collaborazione reale al programma
riabilitativo, nei suoi vari aspetti (controlli delle urine, assunzione di
farmaci sostitutivi o antagonisti, colloqui psicologici di sostegno).
Di fronte alle situazioni più gravi, quando il bambino nasce con
sindrome di astinenza neonatale (S.A.N.) da stupefacenti, segno che la
madre non è stata in grado di interrompere l’assunzione neppure
durante la gravidanza, cagionando così al figlio gravi sofferenze sin
dai primi momenti di vita, un provvedimento che può apparire indispensabile è l’inserimento del minore in una comunità terapeutica ove
la madre possa affrontare, senza interruzione del legame con il figlio,
il percorso di riabilitazione dalla tossicodipendenza.
A volte, tuttavia, il genitore non risulterà pronto all’avvio di questa
esperienza e sarà necessario trovare una sistemazione alternativa
(affidamento familiare, inserimento in comunità) per il tempo che
occorre alla madre o a entrambi i genitori per affrontare i propri problemi.
Qualora, dopo l’emissione di uno o più di questi provvedimenti i
genitori non diano prova di poter iniziare un percorso di cambiamento e restino ancorati alle modalità di vita tipiche del tossicodipendente, oppure, avviato il programma, non riescano a portarlo avanti, sarà
inevitabile l’avvio della procedura per la verifica dello stato di abbandono e l’eventuale adottabilità del minore. Segnalo che, percentual-
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mente, mi pare che proprio l’ipotesi della tossicodipendenza grave dei
genitori sia quella più ricorrente nei casi che si concludono con la
dichiarazione di adottabilità.
5. – Le situazioni in cui il minore appare vittima di violenza sessuale o maltrattamento fisico si presentano tra le più complesse e
caratterizzate da alcune peculiarità sulle quali è necessario soffermarsi (11).
È un dato di comune esperienza, ad esempio, che l’allontanamento del minore dalla propria famiglia costituisce una decisione
più frequente nelle vicende riguardanti l’abuso sessuale o il maltrattamento fisico (12).
Le ragioni sono facilmente comprensibili: la violazione dell’integrità fisica del bambino non può che essere considerata un segnale di
grave inadeguatezza genitoriale e richiede una pronta risposta per sottrarre il medesimo, tantopiù in presenza di lesioni personali, a volte
anche gravi, a un ambiente familiare caratterizzato da relazioni patologiche o dal ricorso a pratiche distorte.
Si tratta – è quasi ovvio ricordarlo – di comportamenti palesemente “pregiudizievoli” per il figlio, che, se non integrano, come spesso avviene, un vero e proprio reato (artt. 571, 572, 581, 582, 609-bis e
(11) Sul maltrattamento dei minori esiste una letteratura assai ampia. Anche a
distanza di anni mi pare di grande attualità R.S. KEMPE-C.H. KEMPE, Le violenze sul
bambino (tit. originale Child Abuse), Londra, 1978, ora in edizioni Sovera Multimedia,
Roma, 1989. Altre opere importanti da consultare sono: S. CIRILLO-P. DI BLASIO, La
famiglia maltrattante, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989; C. COLESANTI-L. LUNARDI, Il maltrattamento del minore, Giuffrè, Milano, 1995; A. CRIVILLÈ, Genitori violenti, bambini maltrattati, Liguori Editore, Napoli, 1995; F. MONTECCHI, Gli abusi all’infanzia, in La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994; A.C. MORO, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1989; G.B. TRAVERSO, Il comportamento violento sulla donna e sul minore, Giuffrè, Milano, 1988. Per quando riguarda l’abuso sessuale sui minori si rinvia alle
seguenti opere: M. MALACREA-A. VASSALLI, Segreti di famiglia, 1990, Raffaello Cortina Editore; C. ROCCIA-C. FOTI, L’abuso sessuale sui minori, 1994, Edizioni Unicolpi; J. GOODWIN, Abuso sessuale sui minori, 1985, in Centro Scientifico Torinese; S. CIRILLO-P. DI BLASIO-P. TONINI, Elementi di diritto penale per operatori sociali, 1994,
Giuffrè Editore. È consigliata inoltre la lettura di un testo che, pur essendo meno “tecnico” è denso di spunti di riflessione: I. CAPUTO, Mai devi dire, 1995, Casa Editrice
Corbaccio.
(12) Cfr. Atti del XIII° Convegno dell’Associazione Italiana dei Giudici per i minorenni e per la famiglia, Bellaria, 1994, pubblicati a cura di Bouchard, F. Angeli, 1997,
e, in particolare, la relazione introduttiva di SACCHETTI, L’allontanamento: diritti del
bambino e diritti degli altri.
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seg. cod. pen.), ricadono comunque nella previsione dell’art. 333 cod.
civ. o, nei casi più gravi, degli artt. 8-10 L. 184/83.
In presenza di una segnalazione di abuso o maltrattamento la questione se allontanare o meno il minore costituisce un passaggio obbligato (anche per escluderne la necessità) della valutazione del Tribunale.
L’allontanamento del minore dai genitori costituisce una delle
espressioni più incisive della limitazione della potestà da parte del Tribunale ed è spesso oggetto di polemiche e attacchi, anche aspri, a livello di organi di informazione e dell’opinione pubblica.
Non è inutile ribadire che due sono le funzioni essenziali del provvedimento in questione che, forse, sarebbe più opportuno, con meno
enfasi, denominare separazione del minore dai propri genitori: porre
al riparo, almeno in via temporanea, il bambino dal ripetersi di condotte ai suoi danni nell’àmbito familiare; disporre di un contesto di
tipo “neutro”, al di fuori da intuibili condizionamenti, per poter
approfondire la condizione fisica e psicoemotiva del bambino, l’esatta portata dei fatti, la qualità del rapporto con i propri genitori.
Si tratta indubbiamente di una decisione grave per i suoi risvolti,
che richiede grande equilibrio nel bilanciamento tra le diverse istanze,
non ultima quella di preservare il bambino stesso dai sensi di colpa
che egli inevitabilmente vivrà, pensando di essere stato portato via da
casa proprio perché “cattivo”. Può essere quindi utile soffermarsi su
alcuni aspetti cruciali del percorso decisionale, rispetto ai quali occorre molta consapevolezza da parte del giudice:
a) Gradualità dell’intervento. In linea di massima all’allontanamento si dovrebbe pervenire solo dopo aver tentato di aiutare il nucleo
familiare problematico con interventi sul piano socioassistenziale
(prescrizioni, interventi educativi o di sostegno terapeutico) e in
assenza di risultati positivi, oppure per il rifiuto di collaborazione
della famiglia o, ancora, per la dimostrata incapacità della stessa di
attuare un cambiamento sul piano comportamentale e relazionale.
b) Situazioni di urgenza. La valutazione della reale urgenza,
ossia del momento in cui vi sono i presupposti oggettivi per attuare il
distacco del minore dalla famiglia, è assai delicata. Esiste un duplice
rischio: che l’urgenza sia indotta più che altro dall’operatore del servizio locale o psicologico, che può proiettare sul caso la propria emotività e la propria ansia, o, all’opposto, che l’operatore resti “intrappolato” nelle dinamiche familiari e tenda, ingiustificatamente, a rinviare
l’intervento a protezione del minore, per un’eccessiva alleanza con le
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figure genitoriali. Contro questi errori di prospettiva esiste un importante rimedio: la valutazione a livello di rete dei diversi operatori coinvolti e il contributo interdisciplinare delle conoscenze (leggi componente privato esperto) nel momento della decisione e anche nella fase
istruttoria.
c) Necessità del progetto. Occorre evitare il più possibile di dare
corso a un allontanamento del minore senza un progetto in ordine alla
sua sistemazione per il tempo a venire. Una misura così drastica non
andrebbe attuata “al buio”, senza un’idea su quali strade imboccare
(famiglia alternativa, sostegno alle funzioni genitoriali per un loro
recupero, periodo di vita in comunità di accoglienza).
L’allontanamento può assumere un valore “costruttivo” solo se viene pensato come un passaggio temporaneo, una tappa di un più ampio
progetto volto alla ricostituzione del nucleo, se capace di una ridefinizione delle dinamiche familiari del passato (13).
L’indeterminatezza delle prospettive è uno dei fattori più negativi,
poiché genera confusione anche negli operatori dei servizi e, di riflesso, sofferenza nello stesso minore che non riesce a prefigurare quale
sarà il proprio futuro.
d) Sistemazione del minore. Si tratta di un aspetto tutt’altro che
secondario. Una comunità per minori non è una casa-famiglia, così
come l’affidamento a terzi non equivale a una collocazione nell’àmbito della parentela allargata. Occorre, anche nel caso in cui sia inevitabile orientarsi verso una comunità di accoglienza, conoscerne il più
possibile le caratteristiche e le capacità di rispondere alle deprivazioni specifiche di quel minore.
e) Posizione dei fratelli. L’accertamento, in una famiglia con più
figli, che uno di essi ha subito abusi sessuali o maltrattamenti rende
indispensabile, oltre alla protezione in suo favore, una valutazione
sulla situazione psicoaffettiva dei fratelli, anche in relazione alla loro
età e al sesso. Potrebbero emergere anche nei confronti di questi ultimi condotte pregiudizievoli, tali da giustificare un provvedimento del
Tribunale, anche se non necessariamente dello stesso tipo.
f) Ascolto del minore. Si tratta di un tema di grandissima rilevanza, che non può essere affrontato in questa sede nelle sue varie
implicazioni. Ritengo che un importante criterio da seguire per deci-
(13) GHEZZI-VADILONGA, La tutela del minore, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
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dere se e con quali modalità incontrare il minore e raccoglierne le dichiarazioni in ambito giudiziario minorile (per la testimonianza in
sede penale, che risulta imprescindibile, valgono osservazioni diverse)
sia quello dell’età e della maturità del minore stesso. Un contatto personale con il giudice può essere, in molti casi, per lo meno rassicurante, per dare un volto e una maggiore umanità a un qualcosa che
può altrimenti essere vissuto come “entità” distante e che non comprende i propri bisogni ed aspirazioni. Nello stesso tempo ritengo non
vada troppo enfatizzato questo passaggio, soprattutto nei casi di bambini piccoli (sino a 5 o 6 anni). Per questi minori può essere troppo
stressante dover assumere una posizione esplicita rispetto alla propria
condizione di sofferenza in seno alla famiglia. In questi casi l’ascolto
del minore non può che coincidere con l’ascolto del suo disagio interiore, attraverso le verbalizzazioni, ma anche e soprattutto le sintomatologie, i vissuti, i test proiettivi da parte di personale qualificato.
g) Modalità dell’allontanamento. L’ipotesi ottimale sarebbe poter rendere consapevoli i genitori che, almeno temporaneamente, è
nell’interesse del minore beneficiare di una sistemazione eterofamiliare. L’esperienza insegna tuttavia che, in molti casi, è assai difficile ottenere un qualche consenso su questo piano.
Il Tribunale deve soffermarsi su questo tema e tener conto, realisticamente, che l’informazione preventiva alla famiglia può far scattare comportamenti di totale chiusura in sé del nucleo (soprattutto nei
casi di personalità persecutorie o di soggetti con esperienze di devianza), anche nei confronti degli operatori dei servizi, così da rendere l’esecuzione dell’allontanamento, ove ritenuta inevitabile, molto più
drammatica. Va valutato anche il rischio che la ricerca del consenso
finisca per determinare la perdita di contatto con il minore, che può
essere spostato dal nucleo familiare con la complicità di amici o di
parenti residenti altrove.
Inoltre, per quanto riguarda le vittime di abuso, è assai improbabile che un’informativa alla famiglia non scateni forti pressioni per
indurre il minore a ritrattare ogni confidenza precedentemente fatta,
bloccato quindi sul nascere ogni possibilità di esatta comprensione
della vicenda.
Il ricorso alla forza pubblica deve rappresentare un’extrema ratio,
per i casi in cui gli operatori dei servizi corrano rischi effettivi per la
propria incolumità personale. È buona regola che il provvedimento
non venga eseguito dallo stesso operatore a cui è demandato il ruolo
di sostegno al nucleo familiare.
96
Nella fase dell’esecuzione si può fare molto per contenere il disagio del bambino: 1) riattivando al più presto, con le dovute cautele, il
rapporto con i genitori o almeno con quello non abusante o maltrattante; 2) preservare al minore altre relazioni significative, come quelle con gli insegnanti, i compagni di scuola, un operatore con cui esista
un buon rapporto.
h) Sostegno al minore. Il bambino o l’adolescente ha diritto a un
sostegno dopo la fase critica del distacco dalla famiglia. Anche se in
alcune situazioni si nota, dopo pochi giorni, un notevole sollievo e un
recupero di equilibrio nel minore che viveva in un contesto familiare
troppo stressante e denso di conflitti, non mancano sentimenti di
colpa e una confusione di vissuti interni rispetto alle figure genitoriali, per cui si rende necessaria un’attività di “riordino” ed elaborazione.
Andranno spiegate in primo luogo le ragioni della misura adottata dal
Tribunale, attribuendo all’istituzione le “responsabilità” della decisione, ma il più delle volte per sostegno deve intendersi qualcosa di più
incisivo, un supporto psicoterapeutico individuale che, oltretutto,
potrà fornire importanti elementi conoscitivi per le future decisioni
nell’interesse del minore. Va sottolineato che, in materia di violenza
sessuale, l’art. 609-decies c.p. stabilisce espressamente che l’assistenza
affettiva è psicologica alla vittima è assicurata dai servizi istituiti dagli
enti locali.
Altra peculiarità, dalle conseguenze importantissime, e la contestualità di procedure giudiziarie (processo penale, procedura avanti al Tribunale per i Minorenni), che porta con sé particolari esigenze
di coordinamento.
Si è detto come la situazione di pregiudizio possa infatti corrispondere a vere e proprie ipotesi di reato, con l’instaurarsi, in parallelo alla procedura presso il Tribunale per i Minorenni (si richiama l’obbligo di denuncia previsto dall’art. 331 cod. proc. pen.) o presso il Tribunale Civile Ordinario (giudice della separazione), di indagini preliminari o di un vero e proprio processo penale a carico del genitore
abusante o maltrattante.
La contestualità di interventi giudiziari di carattere civile e penale obbliga i diversi giudici a impegnarsi su piani di lavoro innovativi e
piuttosto complessi, soprattutto per la carenza di una disciplina legislativa rispetto ai vari problemi che ci si trova ad affrontare. Profonde
sono le diversità strutturali e le finalità delle procedure civili a tutela
del minore e del processo penale (basti pensare al diverso atteggiarsi
97
del diritto di difesa) e sarebbe importante che il legislatore proseguisse sulla strada dell’individuazione di regole di coordinamento intrapresa, in materia di reati sessuali, con l’art. 609-decies cod. pen. (obbligo di informativa al Tribunale per i Minorenni, necessaria assistenza
al minore vittima di reato).
Ad ogni buon conto non può sfuggire la consapevolezza che
entrambe le procedure vengono ad incidere sulla vita di quel determinato minore e degli altri componenti della sua famiglia sicché, in
diverse realtà locali, sono maturate esperienze, più o meno incisive, di
coordinamento tra le diverse autorità giudiziarie (14).
Proprio qui sta l’aspetto nodale della questione: pur mantenendo
la massima aderenza alle regole processuali e ai diversi ruoli nell’ambito di ciascuna delle procedure (civile e penale), i giudici debbono
imparare a comunicare tra loro attraverso un continuo confronto e
scambio di informazioni.
La chiusura formalistica nel proprio ruolo e il rifiuto del dialogo
possono invero produrre conseguenze altamente negative per l’equilibrio del minore e per le relazioni intrafamiliari, essendovi continuamente il rischio che le decisioni interferiscano creando disomogeneità
di interventi o veri e propri contrasti, con l’effetto di far fallire le diverse strategie processuali e i progetti a tutela del minore vittima del reato.
In questa sede non posso che limitarmi a segnalare quali sono i
punti di contatto tra le procedure e gli aspetti più importanti su cui
deve svilupparsi tale confronto (che, per quanto riguarda il settore
penale non può che avvenire con la figura del pubblico ministero,
dovendosi preservare l’organo giudicante da qualsiasi interferenza che
possa produrre squilibrio nella dialettica processuale tra le parti).
a) Segnalazione al Tribunale per i Minorenni. In caso di denuncia penale per maltrattamento fisico, frequentemente raccolta dalle
autorità di polizia, manca una norma del tipo di quella prevista dal 1°
comma dell’art. 609-decies cod. pen. per la violenza sessuale e, pertanto, non esiste un obbligo di informare il Tribunale per i Minorenni. È
di tutta evidenza, peraltro, come tale segnalazione, nel caso in cui l’in-
(14) Si vedano gli scritti di FORNO, L’accertamento dell’abuso nel procedimento
penale, in Minori Giustizia, 1995, n. 1, 70 e La nuova legge contro la violenza sessuale.
Valutazioni e osservazioni critiche con riferimento alla tutela dei minori, ivi, 1995, n. 4,
13. Si veda anche, a proposito del “Protocollo di intesa” sottoscritto a Torino, Un’intesa fra uffici giudiziari per i casi di abuso sessuale sui minori, in Minori Giustizia, 1995,
n. 4, 117.
98
dagato non sia persona estranea al nucleo familiare, sia più che mai
opportuna dovendosi verificare, in presenza di fatti di questo tipo, la
loro entità e la qualità delle relazioni all’interno della famiglia (potendosi, oltretutto, configurare una situazione di abbandono morale, che
obbliga il pubblico ufficiale alla segnalazione ai sensi dell’art. 9 L.
184/83).
b) Collocazione del minore. È un punto di fondamentale importanza perché tocca, al contempo, gli aspetti della protezione del bambino o dell’adolescente maltrattato o abusato e quella della tutela del
medesimo come fonte di prova nell’ambito delle indagini preliminari
o del processo.
Le decisione conseguenti interferiscono a tutto campo con quelle
relative alla libertà personale dell’indagato e alle vicende della stessa,
anche in rapporto all’eventuale esistenza di un genitore sufficientemente protettivo e alle esigenze di contenere i sensi di colpa del minore connessi all’allontanamento, che, talora, può essere scongiurato in
caso di emissione di provvedimenti limitativi della libertà personale
(non necessariamente attraverso la custodia in carcere: artt. 283, 284
cod. proc. pen.).
Un confronto su queste diverse esigenze tra pubblico ministero
penale e giudice minorile appare dunque imprescindibile, prima ancora di attuare le tipiche misure protettive in situazione di urgenza.
Non si può più accettare che la regola sia l’allontanamento del
minore dalla famiglia se esiste un genitore sufficientemente adeguato,
o che questo e il bambino siano costretti a perdere la disponibilità dell’abitazione come necessaria conseguenza della denuncia penale (va
dato atto che alcuni centri locali stanno attuando progetti di case di
accoglienza per madri e figli abusati o maltrattati).
c) Comunicazione e scambio di atti processuali. È un altro
aspetto essenziale. Il giudice minorile procede con amplissima libertà
nell’acquisizione di mezzi di prova; l’art. 336 cod. civ. si limita a dire
che provvede in camera di consiglio “assunte informazioni”. Ogni atto
delle indagini preliminari o del processo penale è dunque utilizzabile
per ricostruire le vicende interne alla famiglia del minore e il grado di
adeguatezza dei genitori (si pensi agli accertamenti di tipo peritale
sulle eventuali lesioni personali).
Allo stesso modo il pubblico ministero penale può trarre dagli atti
del fascicolo del Tribunale (verbali di audizione di genitori o parenti,
relazioni di indagine sociale, approfondimenti psicologici) importanti
indicazioni sul piano probatorio, con la facoltà, all’occorrenza, di rin-
99
novarle o approfondirle direttamente. Va segnalata, al riguardo, l’importante disposizione dell’art. 236 cod. proc. pen. sull’acquisizione di
atti relativi alla personalità della parte offesa.
d) Testimonianza del minore. Anche in questo caso appare evidente, attraverso il confronto con le situazioni di violenza sessuale ai
danni di minori, una disparità a livello normativo. Per queste ultime
situazioni può ben dirsi che la regola sia ormai costituita dall’audizione in forma “protetta” (da vetro unidirezionale) con incidente probatorio (artt. 392 comma 1-bis e 398 comma 5-bis c.p.p.) e con la presenza dell’esperto in psicologia infantile in qualità di ausiliario del giudice (498 comma 4° c.p.p.).
Nulla è detto, invece, con riferimento ai reati che vengono abitualmente contestati nei casi di maltrattamento fisico. È difficile però
non riconoscere come, in questi casi, sussistano esigenze di tutela psicologica del minore del tutto analoghe.
Allo stato attuale non si può che confidare nel diffondersi di una
particolare sensibilità culturale e nella valorizzazione, da parte dei
giudici, di quelle norme alle quali la giurisprudenza di merito si richiamava, a proposito della testimonianza, è rappresentato dall’individuazione del momento in cui procedere all’audizione. L’autorità giudiziaria minorile è quella che possiede maggiori informazioni sulle condizioni psicologiche della vittima e sui vissuti traumatici che possono
ostacolare, in un certo momento, la testimonianza. Un confronto su
questo punto appare più che mai utile, anche perché l’esperienza insegna che le testimonianze introdotte in modo improvvisato o intempestivo spesso si risolvono in drammatici silenzi, che non fanno che
aggiungere sofferenze per il minore.
e) Consulenze tecniche. È quasi inevitabile che l’indagine conseguente a una segnalazione o a una vera e propria denuncia per sospetto abuso sessuale sia seguita da approfondimenti di carattere peritale.
Capita spesso di rilevare che indagini siano affidate a consulenti
tecnici sia dal giudice penale che da quello minorile, con rischi di
duplicazioni inutili, sovrapposizioni, se non di responsi contraddittori a tutto discapito della tutela del minore.
Si deve chiarire che la perizia per accertare la capacità a testimoniare del bambino in base alle proprie condizioni psicoevolutive è di
competenza del giudice penale e va disposta con il rispetto dei diritti
di difesa.
Invece l’indagine sulla più complessiva situazione familiare del
minore e sulla qualità delle relazioni con le figure genitoriali è dispo-
100
sta dal Tribunale per i Minorenni ed è finalizzata non alla verifica se
un reato sia stato effettivamente commesso ai danni del minore, ma
ad acclarare quali siano i provvedimenti più adatti in materia di affidamento del medesimo in relazione alla recuperabilità o meno delle
figure genitoriali. Si tratta, in questo caso, di approfondimenti che
possono essere effettuati nella forma della perizia o, alternativamente,
con richiesta agli operatori dei servizi sociali e psicologici dell’ente
locale.
f) Sviluppi del procedimento penale. Il Tribunale per i Minorenni deve essere informato sull’andamento e sugli esiti delle indagini
preliminari e del processo ed, in particolare, delle vicende più significative quali l’applicazione di misure cautelari, la revoca o cessazione
delle stesse, il rinvio a giudizio, le sentenze (anche per le valutazioni
in ordine all’eventuale dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale), l’eventuale concessione dei benefici di legge. Proprio per effetto di queste decisioni possono infatti venirsi a determinare nuove
situazioni di pregiudizio o necessitanti comunque un controllo da
parte del Tribunale e dei servizi locali e l’eventuale adozione di provvedimenti di limitazione della potestà o sull’affidamento del minore.
6. – È stata posta la questione della configurabilità di un potere
di segretazione di atti istruttori del fascicolo della procedura di
volontaria giurisdizione.
Se è indiscutibile la necessità di procedere con le modalità indicate in precedenza, attraverso l’acquisizione di atti significativi del procedimento penale, ci si trova di fronte alla difficoltà legata al regime
di segretezza che caratterizza gli atti di questo tipo sino alla richiesta
di rinvio a giudizio (art. 416 comma 2° c.p.p.) o, quantomeno, di incidente probatorio (art. 393 comma 2-bis c.p.p.), passaggi che implicano il deposito del fascicolo del pubblico ministero.
Nella procedura di volontaria giurisdizione o di adottabilità non
vige un analogo regime e la parte ha diritto a conoscere il contenuto
del fascicolo, attività certamente essenziale per l’esplicazione del diritto difesa. Si veda, in generale, l’art. 76 disp. att. c.p.c., che prevede
altresì il diritto delle parti costituite di estrarre copia degli atti.
La questione si pone, oltre che nei casi di connessione con il procedimento penale, in alcune delicate situazioni in cui sarebbe auspicabile che la parte privata non venisse informata delle valutazioni che
vengono effettuate sul suo conto da un servizio preposto alla sua cura
o riabilitazione (es. servizio psichiatrico). Le opinioni espresse, se
101
conosciute dal genitore-paziente, potrebbero, in qualche caso, compromettere il rapporto terapeutico, con gravi rischi conseguenti.
Allo stato della normativa si deve prendere atto che non esiste una
soluzione pacifica e che soddisfi adeguatamente tutte le diverse esigenze, talora contrapposte (tutela del minore, piena informazione del
giudice minorile sugli elementi di pregiudizio, esercizio della difesa
nelle procedure di carattere civile). La giurisprudenza ha affrontato il
tema in alcune pronunce, con le quali si è affermato che il diritto di
difesa nelle procedure civili o di adottabilità, che trova nella conoscibilità degli atti del fascicolo un presupposto essenziale, può tuttavia
essere talora compresso, almeno in via provvisoria e in un prestabilito arco temporale, in presenza di esigenze di tutela di diritti costituzionalmente garantiti quali la salvaguardia dell’integrità psicofisica
del minore.
Osserva la Cassazione (15) che deve ritenersi “rimesso al giudice
procedente il prudente contemperamento della tutela immediata dei
diritti del minore con le garanzie della difesa, che, comunque, non
possono essere totalmente pretermesse nemmeno nei procedimenti di
c.d. “volontaria giurisdizione”. Ed è perciò comprensibile che, in siffatta fase, la conoscibilità piena ed integrale degli accertamenti esperiti e delle informazioni assunte possa essere, per così dire, differita” a un eventuale momento successivo. La citata pronuncia riguardava la fase inquisitoria della procedura di adottabilità.
In un caso di segretazione degli atti di procedimento penale per
violenza sessuale la Sezione Minorenni della Corte d’Appello di Torino
(decreto 7 ottobre 1996), a seguito di impugnazione della difesa alla
quale era stato impedito di esaminare ed estrarre copia di alcuni atti
trasmessi dal pubblico ministero, in un caso in cui il Tribunale per i
Minorenni aveva sospeso temporaneamente le possibilità di visita alla
figlia da parte del padre, sottoposto a indagini preliminari, ha seguito
recentemente lo stesso orientamento.
(15) Cass., Sez. I, 12 maggio 1994 n. 4643, in Giust. Civ., 1994, 2134.
102
RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE
TRA TRIBUNALE PER I MINORENNI,
TRIBUNALE ORDINARIO E GIUDICE TUTELARE
Relatore:
Dott.ssa Giovanna MARCAZZAN
Consigliere della Corte di Appello di Roma
Premessa.
I criteri di ripartizione delle competenze tra gli organi giudiziari
legittimati ad emettere provvedimenti civili nell’interesse dei soggetti
minori di età non sono oggi facilmente riconducibili – a mio avviso –
a scelte ponderate e razionali ma appaiono piuttosto il frutto di una
progressiva evoluzione del diritto minorile e della famiglia, che si è
tradotta nel tempo in modifiche sostanziali della struttura ordinamentale previgente e nell’introduzione di leggi disciplinanti specifiche
materie (solo per citare le più importanti: legge sull’adozione e l’affidamento, riforma del divorzio, legge sull’interruzione volontaria della
gravidanza ecc.), che hanno avuto come effetto quello di una eccessiva frantumazione delle competenze, sì che oggi si verificano, nonostante gli sforzi della prassi giudiziaria e della giurisprudenza, incongruenze nel quadro normativo e sovrapposizioni di interventi che possono risultare di fatto pregiudizievoli proprio per la tutela di quel diritto del minore ad una corretta e serena evoluzione della personalità,
nell’ambito di un sistema familiare e relazionale affettivamente ed
educativamente valido, che appare il principio ispiratore della disciplina legislativa in materia minorile.
Nè ci si può illudere che la frantumazione di competenze tra vari
organi giudiziari comporti esclusivamente difficoltà di ordine pratico
(difficoltà per gli utenti di individuare l’autorità competente, possibile
sovrapporsi di interventi contrastanti ecc.), poiché essa invece sottende una difficoltà; di pervenire a scelte precise di carattere sostanziale
e programmatico nel campo del diritto minorile e della famiglia, scelte che mi sembrano invece ormai improcastinabili.
A ben vedere – al di là delle affermazioni di principio e della famosa regola secondo cui ogni decisione relativa al minore deve essere
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assunta con riferimento esclusivo all’interesse del medesimo, ritenuto
preminente rispetto a tutti gli altri interessi o diritti in gioco – non può
non rilevarsi una persistente difficoltà del nostro ordinamento ad
abbandonare definitivamente, in campo minorile, una visione della
giurisdizione intesa quale risoluzione del conflitto tra i diritti soggettivi degli adulti – ed in cui i diritti del bambino sono comunque in funzione della prospettazione fattane dai genitori (tipico esempio si ha
nel procedimento di separazione e divorzio) – a favore di una giurisdizione, invece, di piena garanzia dei diritti relazionali del bambino,
complessivamente e globalmente considerato in tutte lo sue esigenze
e necessità (affettive, educative, psicologiche e materiali) e quale ne sia
il contesto familiare di provenienza (famiglia tradizionale fondata sul
matrimonio, famiglia naturale fondata sulla convivenza di fatto, famiglia allargata ecc.). La difficoltà di pervenire finalmente ad una riforma organica del diritto minorile e della famiglia che preveda la concentrazione delle attuali competenze frantumate in un organo giudiziario, preparato competente e specializzato, che preveda al suo interno oltre che professionalità e conoscenze diverse anche una differenziazione delle competenze tra giudice monocratico e collegiale, e la
difficoltà di stabilire alcune precise regole procedurali a garanzia dell’effettività del contraddittorio e dei diritti di difesa tecnica delle parti
anche nel campo della c.d. “volontaria giurisdizione”, è a mio avviso
sintomo di una non ancora operata scelta sostanziale e di fondo e dell’incapacità del nostro ordinamento di prendere atto con la necessaria
tempestività delle profonde e rapide modificazioni intervenute nel
contesto sociale (si pensi solo al sempre maggiore affermarsi della
famiglia di fatto), oltre che dell’affacciarsi di nuove tematiche, che non
possono essere affrontate con gli strumenti tradizionali (e qui mi riferisco alle nuove tecniche di procreazione artificiale).
Ne esce un sistema sbilanciato. Da un lato abbiamo un ordinamento quasi schizofrenico nella ripartizione delle competenze tra Tribunale per i Minorenni, Tribunale Ordinario e Giudice Tutelare nel
campo della protezione dei diritti sia personali che patrimoniali del
minore (la tripartizione delle competenze si perpetua infatti anche in
campo patrimoniale, come poi vedremo), tanto che sono state individuate 55 tipologie di decisioni attribuite alla competenza del Tribunale per i Minorenni, 27 al Tribunale Ordinario e 48 al Giudice Tutelare,
d’altro lato persiste invece un vuoto legislativo nell’affrontare sia vecchi
nodi irrisolti (quale quello dell’esecuzione dei provvedimenti relativi ai
minori) che i nuovi temi imposti dall’evolversi del costume sociale.
Non può poi non rilevarsi che i tradizionali schemi di suddivisio-
104
ne delle competenze tra Tribunale per i Minorenni (giudice dell’abbandono e dell’adozione, del comportamento pregiudizievole del genitore e degli interventi ablativi o limitativi della potestà genitoriale)
Tribunale Ordinario (giudice della separazione e del divorzio e dell’affidamento del minore in tale sede) e Giudice Tutelare (preposto alla tutela del minore orfano, alla autorizzazione di atti di natura patrimoniale e alla vigilanza sui provvedimenti dal T.M. e dal T.O. assunti in
tema di esercizio della potestà ed amministrazione dei beni del minore), se pure in linea generale tutt’ora validi, appaiono da un lato scalfiti dall’attribuzione al Tribunale Minorile di competenze, prima estranee, in materia più prettamente contenziosa (si pensi solo alle azioni
di stato per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, ed ai connessi provvedimenti in tema di mantenimento del minore) e d’altro lato dall’estensione al Tribunale Ordinario della possibilità
di far ricorso agli istituti – quale quello dell’affidamento etero-familiare previsto dalla L. 184/83 – che, modellati per l’intervento di altre autorità giudiziarie (T.M. e G.T.) e richiedendo un controllo ed una vigilanza continua, mal si attagliano ad un giudice che, con l’emissione
della Sentenza di separazione o divorzio, si spoglia della cognizione
del procedimento.
Egualmente per quanto sostiene al G.T., l’attribuzione di compiti
di vigilanza sugli istituti che ospitano minori, con obbligo di segnalazione al T.M. di eventuali situazioni di abbandono, la previsione di
competenze in tema di affidamento familiare c.d. consensuale, la non
chiara funzione per quanto attiene alle tutele provvisorie dei minori
dichiarati adottabili, le delicate ma non meglio specificate funzioni di
vigilanza attribuitegli dall’art. 337 c.c., il mancato coordinamento di
alcune disposizioni in tema di protezione in campo patrimoniale, l’aggiungersi di ulteriori delicati compiti in tema di integrazione della
volontà del minore, non accompagnate nè da una previsione di esclusività delle funzioni nè da chiare norme di coordinamento con l’attività del Tribunale per i Minorenni o del Tribunale Ordinario, rendono
a volte difficile delimitarne i campi di intervento.
Sotto altro profilo, di natura sostanziale, la trasformazione rapidissima del contesto sociale e l’avvenuta sempre maggiore affermazione, accanto alla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio, della famiglia di fatto, rende ormai insoddisfacente la sopravvivenza della tradizionale distinzione tra filiazione legittima e filiazione naturale che
tutt’ora permea la nostra legislazione e che è un’altra delle linee guida
della ripartizione delle competenze tra Tribunale per i Minorenni e
Tribunale Ordinario.
105
Se pure equiparati sotto il profilo dei diritti sostanziali, non sembra potersi dubitare che persiste, nel nostro ordinamento, una diversa considerazione dell’interesse del minore, a seconda che si tratti di
figlio legittimo o naturale, che si traduce non tanto nell’attribuzione
della competenza a decidere sull’affidamento ad autorità giudiziarie
diverse (Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni ex art. 317bis), quanto nel carattere meramente eventuale e non obbligato dall’intervento dell’autorità giudiziaria nell’ipotesi di cessazione della
convivenza dei genitori naturali (con rilievo ai fini dell’esercizio della
potestà anche della situazione di mero fatto ed addirittura della priorità del riconoscimento) e soprattutto nell’omessa valutazione globale delle esigenze e necessità del minore, con il persistere, a mio avviso non più tollerabile, della distinzione tra esigenze affettive ed educative ed esigenze di carattere alimentare e materiale (tema su cui poi
tornerò).
Un’altra considerazione, cui ho sopra accennato, si impone. Se da
un lato viene vista con sempre maggior favore l’attribuzione di ogni
competenza in materia minorile ad un giudice realmente ed effettivamente specializzato o comunque l’applicazione generalizzata ad ogni
procedimento che coinvolga il minore (anche se attribuito alla cognizione di un giudice diverso) del rito della camera di consiglio (ritenuto per le sue caratteristiche, il più adeguato alla specificità della
materia), d’altro lato persiste invece una assoluta insufficenza ed inadeguatezza delle norme procedurali che regolano detto rito, sì che
viene in sostanza rimesso alla discrezionalità del singolo giudice, ed
in campi importantissimi, la garanzia del diritto alla difesa tecnica
delle parti.
Pur non nascondendomi la complessità del problema, che coinvolge sia la sfera delle private convinzioni morali ed etiche che la sfera
dell’interesse pubblico ed in cui convergono troppi temi e paure anche
inconscie (timore di una eccessiva intrusione dei giudice nell’ambito
della famiglia e delle scelte educative operate dai genitori, timore di
una abnorme dilatazione delle competenze del Tribunale per i Minorenni con creazione di un giudice separato ed isolato dalla magistratura ordinaria, timore di accentuazione di presunte tendenze egemoniche del giudice minorile, ecc.) ritengo che sia però ormai indispensabile ed urgente ricondurre a coerenza ed unità un sistema che ormai
ne è privo, creando finalmente quel Tribunale dei Minori e della famiglia, di cui da anni tutti parliamo.
Fatta questa premessa e nell’affrontare più specificamente il tema
che mi è stato affidato, cercherò non tanto di esaminare tutte le varie
106
competenze, attribuite all’una o all’altra autorità giudiziaria, dando
per scontata la conoscenza da parte di tutti voi dell’attuale disposto
dell’art. 38 disposizioni di attuazione del codice civile (così come modificato dall’art. 68 della L. 184/83) che costituisce la norma portante
del sistema di ripartizione, quanto di soffermarsi sugli aspetti più problematici o sugli ambiti di possibile maggiore interferenza degli interventi e delle decisioni attinenti ai minori ed alla famiglia. Certo non
può non sottolinearsi l’anomalia di una modifica della ripartizione
delle tradizionali competenze introdotta, quasi incidentalmente, da
una legge programmativamente destinata a disciplinare esclusivamente l’adozione e l’affidamento etero-familiare del minore, il che
spiega forse alcune delle incongruenze che mi sforzerò di sottolineare.
Non mi occuperò quindi nel mio intervento né del tema dell’abbandono e dell’adozione (in cui è pacifica la competenza esclusiva del
T.M.) né del tema della tutela in senso tecnico dei minori orfani e
degli interdetti (demandata al G.T.) ed anche ai provvedimenti del
T.M., limitativi o ablativi della potestà genitoriale ex artt. 330 e 333
c.c., accennerò nei limiti della possibile interferenza con le competenze del T.O..
La famiglia unita: le scelte di indirizzo della vita familiare, l’intervento
del giudice e le competenze.
La riconosciuta parità tra i coniugi e l’esercizio congiunto della
potestà sui figli introdotta dalla legge di riforma del diritto di famiglia
del ’75, hanno indotto il legislatore ad ipotizzare il possibile insorgere
di contrasti sull’indirizzo della vita familiare e sulle decisioni di maggiore importanza per i figli, offrendo alcuni schemi di soluzione del
conflitto, di cui non è facile comprendere la logicità.
L’art. 145 c.c., la cui collocazione nel capo attinente alla regolamentazione dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, sembrerebbe limitare l’àmbito del conflitto ai soli coniugi (ma ciò è smentito dalla prevista possibilità dei giudice di sentire i figli conviventi che
abbiano superato il sedicesimo anno di età) prevede un anomalo intervento da parte addirittura del Pretore, cui viene attribuita in prima
battuta, una funzione conciliativa ed, in seconda battuta, una funzione decisoria, ma solo ove sia richiesto espressamente e congiuntamente da entrambi i coniugi. Sull’utilità di tale norma (di fatto abbastanza desueta) ed in specie sull’opportunità di una competenza del
Pretore è lecito dubitare.
107
L’art. 316 c.c. prevede invece, ove il contrasto attenga all’esercizio
della potestà sui figli, l’intervento, sempre su ricorso dei genitori, del
Tribunale per i Minorenni riconoscendo peraltro la legittimazione del
padre, in caso di incombente pericolo di pregiudizio per il figlio, all’adozione dei provvedimenti urgenti ed indifferibili (e qui certo potrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale di tale previsione) e d’altro
lato attribuendo al T.M. non già un potere di decisione (il T.M. si limita a suggerire le determinazioni che ritiene più utili) ma di delega della
decisione (se il contrasto persiste attribuisce il potere di decisione al
genitore che, nel caso specifico, ritenga più idoneo a curare l’interesse
del figlio). Anche in questo caso la formulazione della norma suscita
perplessità così come non è facile stabilire il confine (specie per il riferimento al pericolo di grave pregiudizio per il figlio) tra l’intervento
del T.M. ai sensi dell’art. 316 c.c. e quello, con ben più ampi poteri,
previsto dall’art. 333 c.c..
L’art. 318 c.c. (e se ne parla qui per evidenti ragioni di connessione) attribuisce invece agli G.T., sempre su ricorso dei genitori, il compito di richiamare il figlio che si sia allontanato senza permesso dalla
casa familiare. Ora la fuga del minore è non solo spesso sintomo di
una situazione di grave disagio o di scelte educative genitoriali del
tutto inidonee (scelte su cui il G.T. peraltro non ha competenza alcuna per intervenire) ma è indicativa comunque di una situazione di
rischio che, a mio avviso, merita l’attenzione, ben più incisiva quanto
alla possibilità di assumere i necessari provvedimenti del Tribunale
per i Minorenni. Se da un lato è chiara la timidezza del legislatore, fors’anche giustificata, nell’intervenire nei contrasti intra familiari e la
finalizzazione delle disposizioni citate alla preservazione dell’unità
della famiglia, d’altro lato non è facile individuare la logica della differenziazione di competenze.
La frattura della coppia genitoriale: i provvedimenti sull’affidamento del
minore e sull’esercizio della potestà.
Sembra addirittura superfluo ricordare che attualmente il Tribunale Ordinario è competente in tutti i casi di separazione, divorzio e
annullamento del matrimonio sia per l’affidamento dei figli sia per la
determinazione del contributo per il mantenimento a carico del genitore non affidatario. Nei casi di cessazione della convivenza di fatto,
invece, il Tribunale per i Minorenni è competente in ordine all’affidamento dei figli, mentre il Tribunale Ordinario è competente per le sta-
108
tuizioni economiche. Al G.T. è poi attribuito dall’art. 337 c.c. un compito di vigilanza sull’osservanza delle condizioni stabilite dal Tribunale per l’esercizio della potestà genitoriale e l’amministrazione dei beni
dei minori. Detta norma, che, per la sua ubicazione (è infatti situata in
chiusura di una serie di disposizioni che prevedono provvedimenti limitativi o ablativi della potestà genitoriale emessi dal Tribunale per i
Minorenni), sembrerebbe riferirsi ai soli provvedimenti del T.M. è
stata interpretata estensivamente così da ricomprendere anche la vigilanza su tutte le condizioni stabilite dal Tribunale Ordinario – nel corso dei giudizi di separazione e divorzio – in punto affidamento dei figli
minori e connessi diritti ed obblighi dei genitori.
Non mi soffermerò ulteriormente sull’esigenza di garantire l’unitarietà dell’intervento giudiziario nei confronti dell’intero nucleo
familiare nei casi di disgregazione della coppia genitoriale e sulla
mancanza di giustificazione delle attuali diversità di competenze per
l’affidamento dei figli nelle ipotesi di separazione della coppia coniugata e di cessazione della famiglia di fatto (problema che attiene
all’auspicata riforma), limitandomi a rilevare che proprio nell’ambito
della frattura del matrimonio, pur essendo apparentemente chiara
sotto un profilo giuridico astratto la suddivisione delle competenze,
di fatto, si verifica poi il maggior rischio di interferenza tra gli interventi del Tribunale Ordinario, del Tribunale per i Minorenni e del
G.T.. È infatti assai frequente, in caso di separazione conflittuale, il
contestuale ricorso delle parti in conflitto a tutte e tre le autorità giudiziarie (al Tribunale Ordinario per la modifica dei provvedimenti, al
Tribunale per i Minorenni per gli interventi ex artt. 330 e 333 c.c. e al
G.T. per l’intervento di vigilanza ex art. 337 c.c.) con possibilità di
decisioni contrastanti e comunque con l’indubbio pericolo di incrementare anziché di risolvere la conflittualità, a tutto discapito dei figli minori pesantemente coinvolti.
Emblematico in tal senso è il tema della revisione dei provvedimenti del giudice della separazione. Nonostante sia stato più volte affermato che la competenza a conoscere della domanda di revisione
delle disposizioni relative all’affidamento dei figli adottate dal giudice
civile in sede di separazione, di scioglimento o di nullità del matrimonio spetta al Tribunale Ordinario e non al Tribunale per i Minorenni,
cui devono ritenersi riservate esclusivamente le ipotesi in cui, come
causa della modifica delle condizioni di affidamento, si richieda un
intervento ablativo o limitativo della potestà genitoriale a norma degli
artt. 330 e 333 c.c., non vi è dubbio che è poi in pratica e spesso difficile individuare criteri certi di distinzione delle competenze. Nella
109
maggior parte dei casi, a fondamento della richiesta di modifica dell’affidamento o delle modalità di frequentazione, viene assunto il comportamento pregiudizievole dell’uno o dell’altro genitore nei confronti
del figlio minore, per cui difficilmente può farsi riferimento al criterio
della causa petendi. Ma egualmente ardua risulta l’applicazione del
criterio del petitum, ove si consideri l’estrema indeterminatezza dei
provvedimenti riservati alla competenza del Tribunale per i Minorenni ai sensi dell’art. 333 c.c..
Eguali problematiche si pongono con riferimento alla determinazione della competenza a decidere sul ricorso del genitore non affidatario avverso le decisioni che ritiene pregiudizievoli all’interesse del
figlio. È indubbio che l’art. 155 c.c. radica la competenza avanti al Tribunale Ordinario, ma anche in questo caso, e specie ove il procedimento di separazione non sia più pendente (dovendosi in linea generale ritenere eccezionale un intervento del T.M. nel corso del giudizio
avanti al Tribunale Ordinario), appare non semplice la distinzione tra
scelta e condotta pregiudizievole. Il pericolo di decisioni contraddittorie e di strumentalizzazione dell’attività dei vari giudici appare evidente.
Sempre sotto il profilo della distribuzione delle competenze, mi
sembra poi abbastanza incoerente con il sistema disegnato dall’ordinamento e con le stesse connotazioni dell’istituto, come ho già accennato all’inizio, la riconosciuta possibilità del Tribunale Ordinario di
adottare un provvedimento di affidamento etero-familiare del minore
ex lege 184/83 (art. 6, comma 8, della legge sul divorzio applicabile anche in sede di separazione).
Ove infatti venga accertata l’inadeguatezza di entrambi i genitori
e la conseguente impossibilità di procedere all’affidamento del figlio
all’uno o all’altro, sembrerebbe evidente la necessità per il giudice civile di declinare la propria competenza a favore del Tribunale per i Minorenni.
La necessaria indicazione della presumibile durata dell’affidamento etero-familiare di natura giudiziale, la necessità della vigilanza
continua e dell’individuazione del servizio territoriale a ciò delegato,
con obbligo di riferire al giudice, ed in particolare la prevista cessazione dell’affidamento con provvedimento della stessa autorità che lo
ha disposto, sono tutti elementi, a mio avviso, incompatibili con una
competenza destinata a risolversi con l’emissione del provvedimento.
Quanto meno andava previsto un qualche raccordo con la disciplina dettata dai primi 5 articoli della L. 184/83, nel rispetto della
distinzione ivi effettuata tra affidamento c.d. consensuale e affida-
110
mento c.d. giudiziale. Ed invece salta fuori inopinatamente una competenza del G.T..
La disposizione del 10° comma dell’art. 6 della legge sul divorzio
(nel testo modificato dalla l. n. 74/87 che, dopo aver stabilito che all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento provvede il giudice
del merito ed in caso di affidamento etero-familiare anche d’ufficio,
prevede poi “che a tal fine (quale?) copia del provvedimento di affidamento sia trasmesso al G.T.” mi è sempre parsa incomprensibile.
Intendo soffermarmi un attimo su detta norma perché è sintomatica del vezzo del nostro legislatore di introdurre, quasi di straforo,
importanti princìpi in ordine alle competenze senza alcun coordinamento con le norme già esistenti.
Si è inteso con la prima parte di detta disposizione (che prevede la
competenza del giudice del merito all’attuazione del provvedimento di
affidamento) risolvere la vexata quaestio dell’esecuzione forzata dei
provvedimenti relativi ai minori, abbandonando gli schemi dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare?
Permane detta competenza del giudice del merito anche dopo che
lo stesso, emessa la decisione definitiva o comunque dotata, come si
dice, di “tendenziale stabilità” si è spogliato della cognizione del procedimento? Quali le forme e le modalità?.
E, per quanto attiene alla trasmissione, tramite il P.M., al G T., ci
si riferisce a tutti i provvedimenti di affidamento o solo a quello di affidamento etero-familiare? In quest’ultimo caso qual’è la competenza
del G T.? Escluso il visto di esecutività (di per sé assurdo, trattandosi
di affidamento giudiziale e non consensuale) deve il G.T. limitarsi alla
vigilanza? Quale autorità porrà fine all’affidamento? Oppure il G.T. è
semplicemente una longa manus del giudice del merito, il quale per
l’attuazione d’ufficio del provvedimento si serve di detto organo? Certo
io non sono riuscita a trovare una interpretazione coerente.
Diversi sono invece i rilievi che possono farsi ove si passi ad esaminare il tema delle competenze in tema di affidamento del figlio
minore, e connessi diritti ed obblighi dei genitori, in caso di disgregazione della famiglia di fatto. Certo, stante la rilevanza del fenomeno,
non può ritenersi ammissibile che la materia continui ad essere regolata dalla scarna regoletta dell’art. 317-bis. Il persistere del vuoto legislativo se può ritenersi in parte giustificato se riguardato sotto il profilo degli adulti, ponendosi un problema di rispetto della scelta di
libertà dagli stessi effettuata, non può trovare invece alcuna giustificazione se riguardata dalla parte del figlio minore.
Il carattere del tutto residuale dell’intervento del T.M. in tema di
111
affidamento del figlio naturale, il persistere, del tutto incomprensibile
(specie alla luce della competenza riconosciuta al T.M. di adottare i
conseguenti provvedimenti di natura economica in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale o di riconoscimento
del figlio naturale ex artt. 250 e 252 c.c.), della ripartizione delle competenze (con conseguente necessità del genitore, in genere la madre,
di adire prima il T.M. per l’affidamento e successivamente il T.O. per
la determinazione del contributo di mantenimento), la mancanza di
qualsiasi previsione in ordine, ad es., alle esigenze abitative del minore, pongono di fatto il figlio naturale in una situazione deteriore
rispetto al figlio legittimo non più giustificabile.
Vorrei prima di chiudere questa parte soffermarmi un attimo sul
compito di vigilanza del G.T.. La sempre maggiore e pressante richiesta di intervento del G.T. – specie nelle grosse Preture ove vi sono
magistrati che svolgono in via esclusiva tale ruolo – ai sensi dell’art.
337 c.c. per la vigilanza sulle condizioni stabilite dal T.O. o dal T.M. in
tema di affidamento dei figli, diritti di visita e frequentazione del genitore affidatario, prescrizioni in tema di esercizio della potestà ecc. è a
mio avviso indicativa, non solo dell’inadeguatezza dell’attuale procedimento di separazione e divorzio e del disposto dell’art. 317-bis (e dei
provvedimenti ivi assunti) ma anche di una effettiva e sentita esigenza di valutazione unitaria di tutte le problematiche conseguenti alla
disgregazione della coppia genitoriale con riferimento prevalente alla
incidenza sullo sviluppo della personalità del figlio.
Il ricorso ad un giudice, privo di poteri decisori autonomi, ma che,
per sua natura e per le sue caratteristiche istituzionali, deve ispirare il
proprio intervento esclusivamente alla protezione dell’interesse del minore, è sintomo importante del graduale farsi strada, anche nella classe forense, della necessità di abbandonare l’ottica del conflitto, spostando l’attenzione sulle esigenze e necessità del figlio, visto come
entità e personalità autonoma. Significativa in tal senso è la spontanea
accettazione ed indivituazione nel G.T. (e parlo sempre di uffici con
giudici addetti in via esclusiva) dell’organo più idoneo a procedere, ove
necessario, anche all’esecuzione forzata dei provvedimenti, con riconoscimento che il momento esecutivo è uno dei momenti di maggior
rischio per il minore e che gli schemi e le competenze attualmente previste in tema di esecuzione mal si attagliano alla materia minorile.
Certo, intervenendo il G.T. non già in una situazione cristallizzata
e compiutamente valutata, definita e regolata dal provvedimento giudiziale bensì in una situazione dinamica ed in continua evoluzione, si
pongono delicati problemi sui limiti e sui poteri dell’intervento.
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Le altre tipologie di affidamento del minore, il ricovero in Istituto e la vigilanza sugli Istituti.
Se si eccettua quanto osservato sull’anomala competenza riconosciuta in sede di separazione e divorzio al Tribunale Ordinario, la
ripartizione delle competenze interessa, in questo campo, esclusivamente il G.T. ed il Tribunale per i Minorenni.
Come è noto la L. 184/83, nei primi cinque articoli, disciplina l’istituto dell’affidamento familiare, con ciò intendendosi l’affidamento
etero familiare e cioè a persone estranee all’àmbito della famiglia nel
concetto allargato, comprensivo dei parenti entro il 4° grado.
L’art. 2 prevede infatti che nel caso in cui il minore sia temporaneamente privo di ambiente familiare idoneo possa essere affidato o ad
una famiglia – possibilmente con altri figli minori – o ad una persona
singola o ad una comunità di tipo familiare (in ordine preferenziale).
Solo residuale dovrebbe essere la possibilità di ricovero in Istituto.
La ripartizione delle competenze tra il G.T. ed il T.M., con riferimento all’affidamento familiare, avviene esclusivamente sulla base
dell’esistenza o meno del consenso dei genitori (o dell’unico genitore o
del tutore) all’affido, rimanendo invece identiche le caratteristiche
precipue dell’istituto e cioè la temporaneità e la finalità, che è quella
del reinserimento del minore nella famiglia di origine.
Nel c.d. “affidamento consensuale” l’emanazione del provvedimento di affido è di competenza del Servizio Locale (Comune, Provincia, U.S.L.) ed il G.T. si limita a renderlo esecutivo con proprio
decreto. Nel c.d. “affidamento giudiziale” la competenza all’emissione
del provvedimento spetta invece al T.M..
Indiscussa la necessità del provvedimento del Tribunale Minorile,
essendo da tutti riconosciuto che l’affidamento a terzi del figlio contro
la volontà dei genitori implica comunque una compressione della potestà genitoriale, si è invece molto discusso sia sulla opportunità che
sulla natura e portata del controllo del G.T..
Senza addentrarmi in disquisizioni giuridiche dirò solo che, a mio
avviso, l’intervento di controllo del G.T. (controllo di legittimità esteso
alla verifica della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge) non
comporta una eccessiva giurisdizionalizzazione dell’istituto ma svolge
invece una funzione, quanto mai opportuna, di garanzia.
L’affido cessa con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto (e quindi dell’Ente Locale o del T.M.), con obbligo del G.T., ove
al termine del previsto periodo di affidamento consensuale (o anche
prima se la prosecuzione dell’affido risulti pregiudizievole) non sia
113
possibile il rientro del minore in famiglia, di richiedere al T.M., che
acquista così competenza esclusiva, gli ulteriori interventi necessari
nell’interesse del minore.
Mi dispiace non potermi soffermare sulla rilevanza di questo istituto, che ha grandi potenzialità non ancora sviluppate appieno, e sull’importanza del ruolo di promozione e propulsione che può svolgere il
G.T., mi limito a segnalare che i punti in discussione tra G.T. e T.M.
attengono al concetto di temporaneità (del disagio della famiglia d’origine e correlativamente della presumibile durata dell’affidamento consensuale) ed alla legittimità di una eventuale proroga (o meglio rinnovo, reso esecutivo dal G.T.) alla scadenza, temi certo delicati poiché
coinvolgono gli àmbiti delle rispettive competenze (un affidamento
familiare, anche se consensuale, di durata troppo protratta potrebbe
sottendere una situazione di abbandono o semi abbandono, così come
l’affidamento familiare consensuale di un neonato o di un bambino in
tenera età richiede certo una particolare attenzione quanto alla prognosi, ai tempi ed alle modalità del rapporto con la famiglia di origine).
Strettamente connesse con la competenza del G.T. in tema di affido familiare, sono le funzioni di vigilanza attribuite a detto giudice
sugli Istituti che ospitano minori, al fine di segnalare al T.M. le situazioni di possibile abbandono.
Questo compito, che assume particolare rilievo ove si consideri
che il ricovero del minore in istituto in caso di gravi difficoltà della
famiglia rimane ancora l’intervento assistenziale di gran lunga quantitativamente più rilevante, viene svolto adeguatamente solo in quegli
uffici giudiziari (pochi) ove sia prevista la figura del giudice tutelare
con funzioni esercitate in via esclusiva. Si innesta quindi il grosso problema (che peraltro attiene a molte delle competenze riconosciute al
Giudice Tutelare) o di una effettiva specializzazione di detto organo
(con eventuale previsione di una distribuzione non più mandamentale) o di un ripensamento di alcune delle funzioni attribuitegli (qual’è
quella in esame) che appaiono più strettamente connesse con l’attività
istituzionale del Tribunale per i Minorenni.
La ripartizione delle competenze nella protezione degli interessi patrimoniali del minore.
Tralasciando di occuparmi dei minori in tutela, in cui il controllo
sull’amministrazione dei beni del minore ha carattere pregnante e
concerne tutte le scelte effettuate dal tutore in campo patrimoniale ed
114
in cui la ripartizione delle competenze avviene prevalentemente tra
G.T. e Tribunale Ordinario, e limitando l’esame ai minori c.d. in potestà, osservo che anche in questo campo si rinnova quella ripartizione
delle competenze tra Giudice Tutelare, Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni, secondo uno schema che ricalca, anche se solo in
parte, quanto già abbiamo osservato in tema di esercizio della potestà
e di scelte connesse in campo educativo e personale, in particolare per
quanto attiene alla distinzione tra decisione pregiudizievole e condotta pregiudizievole.
I princìpi ispiratori del sistema di protezione possono essere individuati, da un lato nel riconoscimento della piena capacità dei genitori (o di quello che esercita in via esclusiva la potestà) a compiere sia
congiuntamente che disgiuntamente tutte le scelte in campo patrimoniale nell’interesse del figlio minore con riferimento agli atti di ordinaria amministrazione (i genitori amministrano i beni del figlio, hanno l’usufrutto legale sui beni del figlio stesso e lo rappresentano in tutti
gli atti di ordinaria amministrazione) e d’altro lato nella necessità di
intervento del giudice per il compimento di tutti gli atti di straordinaria amministrazione, intervento integrativo della volontà dei genitori
(autorizzazione al compimento dell’atto) o sostitutivo nell’ipotesi di
conflitto di interessi (con nomina di un curatore speciale al minore).
Sotto il primo profilo (atti di ordinaria amministrazione) il possibile insorgere di contrasti tra i genitori in ordine alle scelte in campo
patrimoniale viene risolto con il richiamo all’art. 316 c.c., e cioè con la
competenza del Tribunale per i Minorenni limitata peraltro a suggerire la soluzione più idonea con delega, comunque, in caso di persistere
del contrasto, della decisione ad uno dei genitori. Sotto il secondo profilo (atti di straordinaria amministrazione) viene prevista una generale competenza del G.T., il quale prima di autorizzare i genitori al compimento dell’atto deve verificarne la rispondenza all’interesse del minore (art. 320, 3° e 4° comma) e deve altresì determinare le modalità
di reimpiego dei capitali riscossi. La generalizzata competenza autorizzatoria del G.T. soffre eccezioni esclusivamente nell’ipotesi di impresa commerciale e, secondo l’orientamento giurisprudenziale, anche nell’ipotesi di vendita di beni ereditari (a causa del mancato coordinamento tra art. 320 c.c. e 749 c.p.c). La competenza infatti all’autorizzazione alla continuazione in via definitiva all’esercizio dell’impresa commerciale così come alla vendita dei beni ereditari viene
riservata al Tribunale Ordinario, su parere del G.T.. Sul punto mi limiterò ad osservare che il controllo del G.T. è necessariamente di natura
occasionale (compimento di singoli atti), non consente una visione
115
complessiva delle scelte effettuate dai genitori o da genitore esercente
la potestà, e che specie nelle grosse Preture, è difficile verificare nelle
diverse, occasioni tutti gli atti autorizzativi richiesti per un singolo
minore così come vigilare sull’effettivo adempimento agli obblighi di
reimpiego, con il rischio di un intervento meramente burocratico. La
previsione poi di una competenza sia pure di carattere residuale del
Tribunale Ordinario non mi sembra del tutto giustificata e si impone
altresì una limitazione della necessità di intervento autorizzatorio del
G.T. per tutti quegli atti, o dovuti ex lege, o comunque chiaramente
accrescitivi del patrimonio del minore. Più variegata appare la ripartizione delle competenze nell’ipotesi genericamente riconducibili nel
concetto di conflitto di interessi tra genitori e figli.
L’art. 320 prevede infatti la nomina di un curatore speciale al minore nell’ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali tra figli soggetti
alla stessa potestà, o tra i figli ed entrambi i genitori (o quello che esercita in via esclusiva la potestà), attribuendo la competenza alla nomina al G.T..
L’art. 321 prevede invece la nomina di un curatore speciale al minore nell’ipotesi in cui i genitori (o quello di essi che esercita in via
esclusiva la potestà) non vogliano o non possano compiere uno o più
atti nell’interesse del figlio, attribuendo la competenza, quanto meno
in base al disposto dell’art. 38 disp. di att. c.c., al Tribunale Ordinario.
Anche se qui si pone il non risolto problema di coordinamento tra
l’art. 38 e l’art. 45 delle disposizioni di attuazione c.c. (articolo quest’ultimo che indica il provv. ex art. 321 tra i decreti del G.T. impugnabili avanti al T.O. ).
L’art. 334 c.c. preve infine, in caso di cattiva amministrazione del
patrimonio del figlio, la rimozione di uno o di entrambi i genitori dall’amministrazione, con nomina di un curatore speciale, rimettendo
detti provvedimenti sulla competenza esclusiva del Tribunale per i Minorenni. Se a ciò si aggiungano le competenze sparse attribuite al Tribunale per i Minorenni – art. 90 (nomina di un curatore speciale al
minore per l’assistenza nelle convenzioni matrimoniali), art. 171 (prescrizioni per l’amministrazione del fondo patrimoniale); art. 194 (divisione dei beni della comunione legale e costituzione di usufrutto, nell’interesse del figlio, su parte dei beni spettanti all’uno o all’altro coniuge) – a fronte della competenza generalizzata del T.O. in tema di rapporti patrimoniali, non sembra potersi dubitare della necessità di una
riconsiderazione della materia.
In particolare, anche lasciando perdere la nomina del curatore ex
art. 320 c.c. (il conflitto di interessi ivi ipotizzato è infatti più formale
116
e giuridico che di carattere sostanziale), andrebbe quanto meno prevista l’attribuzione alla medesima autorità giudiziaria delle ipotesi regolate dagli artt. 321 e 334 c.c., essendo facilmente intuibile che il rifiuto del genitore a compiere uno o più atti nell’interesse del figlio può
essere indice di una cattiva gestione degli interessi del figlio e quindi
della necessità di una complessiva valutazione.
Peraltro va anche notata una certa difficoltà da parte del T.M. a
farsi carico di aspetti più prettamente patrimoniali, risultando non
solo in sostanza desuete le norme che ho citato ma rarissimi i provvedimenti in tema di amministrazione del patrimonio del minore, forse
al di là di quanto giustificato dal modificato quadro della consistenza
patrimoniale familiare. Difficoltà che si evidenziano ulteriormente nelle rare ipotesi in cui viene attribuita al T.M. la competenza a determinare il contributo per il mantenimento del figlio (ad es. i provvedimenti connessi alla dichiarazione giudiziale della paternità e maternità naturale) ed in cui viene fatto dal T.M. ricorso ad una determinazione equitativa, quasi mai supportata da una analisi comparativa
della situazione economica delle parti.
Le competenze del G.T. previste da leggi speciali.
Non posso chiudere il mio intervento senza indicare (ma proprio
di semplice indicazione si tratta) infine altre due competenze del G.T.,
previste da leggi speciali.
Di queste di gran lunga la più importante e più delicata è senza
dubbio quella relativa all’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne. Il compito attribuito al Giudice Tutelare di autorizzare
la minorenne a decidere l’interruzione della gravidanza, all’insaputa
dei genitori o contro la volontà di questi ultimi, meriterebbe peraltro
un approfondimento impossibile in questa sede.
Di diversa natura è invece la competenza in tema di autorizzazione al rilascio dei passaporti ai genitori aventi figli minori (salvo in
costanza di matrimonio e con consenso reciproco) ed ai minori stessi
(ove privi del consenso di entrambi i genitori) che – apparentemente di
natura amministrativa – coinvolge invece l’esame di delicati problemi
in ordine all’adempimento da parte dei genitori separati o divorziati
agli obblighi loro imposti nei confronti dei figli (trasferimento all’estero dei figli, fuga all’estero, sottrazione agli obblighi alimentari ecc.).
117
IL GIUDIZIO PER LA DICHIARAZIONE GIUDIZIALE
PER LA GENITURA NATURALE. IL RITO APPLICABILE.
L’ISTRUTTORIA
Relatore:
Dott. Alfio FINOCCHIARO
Consigliere della Corte di Cassazione
SOMMARIO: 1. Riconoscimento e dicharazione giudiziale. – 2. La disciplina del riconoscimento. In generale. – 3. L’assenso del figlio ed il consenso del genitore. –
4. Il rifiuto del consenso ed il giudizio innanzi al tribunale. – 5. (segue): il
procedimento. – 6. La natura giuridica del riconoscimento. – 7. Il riconoscimento congiunto o separato. – 8. Capacità di riconoscere il figlio naturale. – 9. Limiti alla non riconoscibilità della prole incestuosa. – 10. Inammissibilità del riconoscimento. – 11. Il riconoscimento di figlio adulterino
da parte della donna coniugata. – 12. Forma del riconoscimento. – 13. Irrevocabilità del riconoscimento. – 14. Effetti del riconoscimento e decorrenza degli effetti. – 15. Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. – 16. Impugnazione da parte del riconosciuto. – 17. Impugnazione per
violenza e per interdizione. – 18. Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale. – 19. Le prove della paternità e della maternità. – 20. Legittimazione e termine. – 21. Azione nell’interesse del minore e dell’interdetto.
– 22. L’ammissibilità dell’azione. – 23. Rapporti fra giudizio di ammissibiltà
e giudizio di merito.
1. – Riconoscimento e dichiarazione giudiziale. – Lo status di figlio
naturale non si acquisisce con la nascita, ma necessita o del riconoscimento da parte del genitore o il procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (1), non essendo ammesso nel
nostro ordinamento il principio accolto in altre legislazioni del riconoscimento obbligatorio da parte della madre (2). Scomparso, con la
riforma del diritto di famiglia, il divieto di riconoscimento della prole
(1) Secondo VERCELLONE, La filiazione, in Trattato di diritto civile fondato da
VASSALLI, Torino 1987, 82, anche in assenza di riconoscimento o dichiarazione giudiziale la situazione di filiazione naturale non è irrilevante per il diritto, argomentando dall’art. 279 c.c..
(2) Vedine indicazioni in VERCELLONE, op. cit., 84, nota 1.
119
adulterina (3), è rimasto, nel nostro ordinamento il solo divieto di riconoscimento della prole incestuosa.
Si tratta di un divieto che presenta molti profili di incostituzionalità (4), in relazione ai quali la giurisprudenza ha ritenuto di non intervenire, mentre il legislatore, forse sopraffatto da altri problemi, non ha
provveduto.
2. – La disciplina del riconoscimento. In generale. – Il riconoscimento può essere fatto, tanto congiuntamente, quanto separatamente,
dal padre e dalla madre (5) – che abbiano compiuto i sedici anni (art.
250, comma 5, c.c.) – anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento (art. 250, comma 1, c.c.).
Se il figlio ha già compiuto i sedici anni il riconoscimento non ha
effetto senza il suo assenso (art. 250, comma 2, c.c.).
Se il figlio è di età inferiore e non è stato riconosciuto dall’altro
genitore non vi è alcun ostacolo al riconoscimento.
Nell’ipotesi in cui l’altro genitore abbia riconosciuto il figlio e questo sia infrasedicenne il riconoscimento non può avvenire senza il consenso di chi ha già effettuato il riconoscimento. Tale potere di veto non
è senza limiti, essendo demandato al Tribunale, su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, di accertare la fondatezza
del rifiuto e di provvedere – in caso di infondatezza dell’opposizione –
con sentenza che tenga luogo del consenso mancante.
3. – L’assenso del figlio ed il consenso del genitore. – La distinzione
fra assenso e consenso la si può ricavare sulla base delle conseguenze
che derivano dalla loro mancanza (6). La mancanza dell’assenso del figlio ultrasedicenne non incide sulla validità del riconoscimento, ma
solo sui suoi effetti (7), con la conseguenza dell’irrevocabilità del rico-
(3) Per chi voglia approfondire tutta la tematica posta dal riconoscimento della
prole adulterina rinviamo ad A. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Dir. famiglia, II, Milano 1984, 1594 ss..
(4) Vedili in A. FINOCCHIARO, op. cit., 1662 ss.. Per l’incostituzionalità anche COSTANZA, Filiazione, II) Filiazione naturale, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma 1989, 1.
(5) È esclusa la validità di un riconoscimento fatto da rappresentanti legali o volontari: MAJELLO, op. cit., 47; A. FINOCCHIARO, op. cit., 1658; VERCELLONE, op.
cit., 95.
(6) DELLA VALLE, Delle persone e della famiglia, artt. 231-455, Milano 1989, 74,
nega qualsiasi diversità fra assenso e consenso, ritenendo che, dalla loro mancanza, il
riconoscimento è inefficace.
(7) COSTANZA, op. cit., 4.
120
noscimento e della possibilità per il figlio di manifestarlo successivamente, con produzione degli effetti del riconoscimento dal momento
in cui è stato fatto. L’attribuzione del potere di assenso al figlio costituisce un limite ai c.d. riconoscimenti interessati, ma la disciplina introdotta favorisce oltre ogni limite il figlio, il quale può beneficiare di
tale riconoscimento, quando più gli aggrada (8). Ciò può costituire
una sanzione per il genitore che troppo a lungo si è dimenticato del
proprio figlio naturale, ma non favorisce quegli intenti solidaristici a
cui debbono essere ispirati anche i rapporti di parentela naturale.
L’assenso costituisce esercizio di un diritto soggettivo potestativo
del figlio e non è in alcun modo sindacabile.
Il consenso del genitore è previsto come una potestà concessa per
la tutela dell’interesse del figlio, sindacabile dal Tribunale che deve
accertare la sussistenza delle condizioni ove venga negato (9).
Il genitore è titolare di un potere più ampio di quello del figlio dal
momento che, senza il suo consenso, il riconoscimento non può avvenire (10) e, quindi, ove ciò malgrado, avvenga, è da ritenere che sia
impugnabile (11), ma, nello stesso tempo è più limitato dal momento
che il rifiuto del consenso è giustificato solo quando ciò risponde
all’interesse del minore.
L’assenso si presenta come un’approvazione (12) e cioè un negozio
unilaterale, mediante il quale un soggetto, esprimendo la propria adesione ad un atto altrui, influisce sulla sua efficacia, costituisce una
condicio iuris del negozio (o atto) approvato, si distingue dalla convalida del negozio annullabile, anche sotto il profilo della funzione, con
la conseguenza che il vizio del negozio principale può essere fatto vale-
(8) Ad esempio in occasione della morte del genitore, quando può cioè partecipare alla successione ereditaria in concorso con gli altri coeredi, senza essere onerato da
obblighi di assistenza.
(9) È da ricordare che ANDRIOLI, in Foro it., 1975, V, 174, aveva parlato di interesse legittimo, ma la distinzione, come è stato esattamente rilevato, è priva di rilevanza pratica, in relazione ad un atto di diritto privato (Così, esattamente, MAJELLO,
Filiazione naturale e legittimazione, in Commentario del Codice Civile, a cura di SCIALOJA e BRANCA, Bologna-Roma, 1982, 43, nt. 2.
(10) COSTANZA, op. cit., 4, parla di requisito di validità dell’atto.
(11) Contra MOSCHELLA, Sull’efficacia del riconoscimento del figlio naturale
secondo in nuovo testo dell art. 250 c.c., in Diritto di famiglia, raccolta di scritti in onore
di NICOLÒ, Milano 1982, 253; FERRANDO, in Trattato di diritto privato, diretto da
RESCIGNO, IV, Torino 1982, 149, per i quali il riconoscimento senza consenso sarebbe solo inefficace e non nullo.
(12) DELLA VALLE, op. cit., 73.
121
re anche dopo l’approvazione, con la conseguenza che quest’ultima,
venendo a mancare il suo oggetto e risultando priva di funzione, diviene a sua volta invalida (13).
Il consenso è, invece, una autorizzazione integrativa assimilabile
all’autorizzazione amministrativa, perché il diritto di riconoscere appartiene già al soggetto passivo dell’autorizzazione, onde si deve escludere che il consenso attribuisca all’altro genitore la legittimazione ad
operare il riconoscimento. La possibilità data a quest’ultimo di superare il rifiuto del consenso con un provvedimento dell’autorità giudiziaria pone una più stretta analogia tra tale consenso e l’autorizzazione amministrativa o, per meglio dire, fra le loro funzioni (14).
L’assenso segue il riconoscimento, mentre il consenso lo precede,
ma ciò non esclude che – attesa la loro autonomia rispetto al riconoscimento cui accedono – possono essere prestati in momenti diversi,
senza particolari effetti sul riconoscimento stesso (15).
In mancanza dell’assenso del figlio il genitore non può promuovere l’azione di accertamento della paternità o della maternità naturale,
trattandosi di azione non prevista nel nostro ordinamento e tenendo
presente che l’assenso è stato introdotto nel nostro ordinamento nell’esclusivo interesse del figlio.
L’assenso può essere dato anche dopo la morte del genitore che ha
effettuato il riconoscimemto, con la conseguenza che poiché il riconoscimento è irrevocabile e la sua esistenza non dipende dalla permanenza della volontà di chi lo ha effettuato, la prestazione dell’assenso
fa retroagire gli effetti del riconoscimento al momento in cui è avvenuto (16), salva l’ipotesi in cui il riconoscimento è contenuto in un
testamento, che ha effetto dal giorno della morte del testatore (17).
(13) VERCELLONE, op. cit., 111, parla di fattispecie a formazione progressiva, in
cui i due atti sono autonomi, e ritiene: a) che il rapporto di filiazione si costituisce solo
con l’assenso; b) che il riconoscimento è valido fin da quando è fatto; c) che il riconoscimento è irrevocabile; d) che il riconoscimento è impugnabile per qualsiasi motivo,
anche prima della prestazione dell’assenso.
(14) Nello stesso senso, TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia
italiano, Torino 1978, 330, nota 30; BIANCA, Diritto civile, II, Milano 1981, 240.
(15) Secondo DELLA VALLE, op. cit., 74, l’assenso deve essere contestuale al riconoscimento, ma la tesi non ha alcuna base testuale.
(16) MOSCHELLA, op. cit., 234; CARRARO, in Commentario al diritto italiano
della famiglia, a cura di CIAN-OPPO-TRABUCCHI, IV, Padova 1992, 105 s..
(17) CARRARO, op. loco cit.. In senso contrario MAJELLO, op. cit., 42, per il quale
in caso di riconoscimento testamentario l’assenso non è necessario. Per una critica a
questa tesi A. FINOCCHIARO, op. cit., 1628, nota 78.
122
Se il riconoscimento è avvenuto prima che il figlio abbia compiuto i sedici anni e non è intervenuto il consenso del genitore che, per
primo, ha effettuato il riconoscimento, quest’ultimo non è più necessario, al compimento del sedicesimo anno del figlio, al quale solo compete il potere di esprimere l’assenso (18).
Analogamente, negato il consenso ed intervenuta una sentenza
che ritenga giustificato il rifiuto, il figlio, dopo il compimento del sedicesimo anno, può esprimere l’assenso, in difformità da quanto precedentemente deciso (19).
Al contrario, ove il genitore che ha già riconosciuto il figlio dia il
proprio consenso al successivo riconoscimento dell’altro genitore, il
figlio – essendosi ormai costituito lo stato di figlio naturale – non più,
raggiunto il sedicesimo anno di età, eliminare l’effetto giuridico validamente costituitosi, con un suo semplice atto di volontà (20).
La forma dell’assenso o del consenso – atteso il carattere integrativo di queste manifestazioni di volontà – sono quelle stesse previste
per il riconoscimento dall’art. 254 c.c. (21), senza alcuna possibilità,
per il principio della libertà delle forme degli atti giuridici, di una
manifestazione tacita della volontà (22).
In quanto actus legitimi, l’assenso e il consenso, così come il riconoscimento, non tollerano l’apposizione di condizioni, che se apposte
non hanno valore (vitiatur sed non vitiat) (23).
La morte del figlio ultrasedicenne, prima o dopo il riconoscimento, ma prima della prestazione dell’assenso, esclude che per l’efficacia
del riconoscimento sia necessario un atto di approvazione da parte di
altri soggetti, segnando la morte di termine finale di inefficacia del riconoscimento effettuato senza l’assenso (24). Analogamente di assen-
(18) CARRARO, op. cit., 104.
(19) CARRARO, op. loco cit..
(20) CARRARO, op. cit., 105.
(21) FERRANDO, op. cit., 150.
(22) Così invece BIANCA, op. cit., 238 s..
(23) DELLA VALLE, op. cit., 94. Per l’affermazione, invece, che l’apposizione di
clausole limitative al riconoscimento rende nulla l’intera dichiarazione TAMBURRINO, op. cit., 331; VERCELLONE, op. cit., 108.
(24) BIANCA, op. cit., 238, nota 93; MOSCHELLA, op. cit., 257; MAJELLO, op.
loco cit.. In senso contrario e cioè per la necessità, in questo caso, dell’assenso dei discendenti CARRARO, op. cit., 106. Per una critica a questa tesi A. FINOCCHIARO, op.
cit., 1630 s..
Prospetta invece tre soluzioni VERCELLONE, op. cit., 115, pur rilevando il loro
alto grado di arbitrarietà a) mancanza di equipollenti alla prestazione dell’assenso,
123
so non c’è bisogno quando il figlio sia interdetto per infermità di mente
(25). Anche la morte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento determina il venir meno del potere di quest’ultimo di
paralizzare il riconoscimento da parte dell’altro genitore, senza che sia
possibile l’attribuzione di questo potere ad altri soggetti in via sostitutiva del genitore venuto meno (26), non potendosi condividere la tesi
giurisprudenziale secondo cui il decesso o la sopravvenuta incapacità
naturale del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento
non rende libero il secondo riconoscimento, ma implica che la valutazione dell’interesse morale e materiale del figlio a tale ulteriore riconoscimento compete a chi assuma la rappresentanza del minore e cioè
al tutore o al curatore speciale (27).
Il consenso è necessario se il genitore che ha effettuato il primo
riconoscimento è vivo al momento del secondo, mentre se lo stesso è
morto, il genitore che effettua il riconoscimento per secondo non ha
bisogno di alcun consenso nè di alcun intervento sostitutivo del Tribunale (28), per la tutela dell’interesse del minore, come se il primo
riconoscimento non fosse avvenuto (29).
È infatti da rilevare:
– che in occasione del primo riconoscimento – che è pienamente
libero – questo preteso interesse non viene in alcun modo tutelato, con
la conseguenza che o si parte dalla premessa della necessità della tutela di questo interesse in ogni caso ed allora dovrebbe prospettarsi una
questione di costituzionalità per la parte in cui la norma non prevede
la deliberazione dello stesso (30), oppure si deve ritenere che, in caso
quando il riconoscimento avviene in vita del figlio; b) morto il riconosciuto spetta ai
discendenti prestare un efficace assenso; c) i discendenti possono prestare l’assenso
entro due anni dalla morte del riconosciuto o dalla data in cui il riconoscimento è stato
reso noto).
(25) CARRARO, op. cit., 107.
(26) MOSCHELLA, op. cit., 260; MAIELLO, op. cit., 45.
(27) Cass. 10 novembre 1988 n. 6059, Giust. civ., 1989, I, 313; Dir. fam., 1989, 39;
VERCELLONE, op. cit., 117.
(28) Secondo quanto sostenuto da Trib. Min. Palermo, 17 marzo 1982, Dir. fam.,
1982, 959.
(29) Conforme CARRARO, op. cit., 111. Secondo VERCELLONE, op. cit., 117,
occorre il consenso del tutore del figlio, nominato perché è morto il genitore che l’aveva per primo riconosciuto.
(30) Ma la questione sarebbe manifestamente infondata per essere il riconoscimento uno dei modi per attuare il precetto costituzionale nei confronti dei figli nati
fuori del matrimonio.
124
di morte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento,
non è necessario né il consenso del tutore, né l’intervento sostitutivo
del tribunale;
– che le norme le quali prevedono che la valutazione dell’interesse
del minore, in caso di mancanza o di impedimento del genitore legittimato (artt. 264, 273, 284, 314, 320 etc. c.c.), non si possono applicare, in via analogica, all’ipotesi contemplata dall’art. 250, comma 4, c.c.,
che si presenta, come eccezionale rispetto a quelle richiamate, tenendo anche presente il carattere personalissimo del consenso del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento e, quindi, l’impossibilità di demandarlo ad altri soggetti in sostituzione del soggetto legittimato ad esprimerlo.
In caso di interdizione o d’incapacità del genitore che per primo
ha effettuato il riconoscimento sono applicabili le stesse conclusioni
raggiunte in tema d’interdizione ed incapacità del figlio ultrasedicenne in tema di assenso.
Qualora il genitore che deve prestare il consenso, pur senza rifiutarlo, non lo presti, l’altro genitore può ricorrere al giudice ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. (31), non potendosi ritenere che il primo genitore possa impedire indefinitamente il secondo riconoscimento.
4. – Il rifiuto del consenso ed il giudizio innanzi al Tribunale. – Mentre il primo riconoscimento è consentito senza alcun limite e senza
necessità di alcun accertamento dell’idoneità del genitore – salvo che
ciò avvenga quando il figlio abbia raggiunto il sedicesimo anno di età
– e ciò evidentemente nel presupposto che per il minore sia preferibile avere un genitore, piuttosto che non averne alcuno, il secondo riconoscimento, anche se avvenga a brevissima distanza dal primo, può
essere paralizzato, nei suoi effetti dal rifiuto del consenso da parte del
genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio.
Tale rifiuto è giustificato dall’interesse del figlio, con la conseguenza che il genitore che se lo vede opporre può adire il Tribunale
perché lo stesso accerti la infondatezza del rifiuto e, qualora lo ritenga ingiustificato emetta una pronuncia che tenga luogo del consenso
mancante.
L’interesse del minore non è però da solo suffficiente a risolvere
ogni problema dal momento che il suo concetto è variamente delimi-
(31) In questo senso anche CARRARO, op. loco cit.; FERRANDO, op. loco cit..
125
tato, nel concreto operare, come parametro di giudizio, dal contemperamento con il diritto-dovere del genitore al riconoscimento della
propria prole naturale, quale emerge dall’art. 30, commi 1 e 2, Cost.,
che, nell’affermare il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire
ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio, stabilisce che la
legge provvede in caso di incapacità dei genitori a che siano assolti i
loro compiti.
Dalla norma costituzionale emerge che il diritto di effettuare il
riconoscimento della prole naturale – a prescindere se si tratti di primo o secondo riconoscimento – è pur sempre un potere del genitore
(32) che risponde, in linea di principio, all’interesse del figlio, che dallo
stesso vede realizzato il proprio diritto al mantenimento, all’istruzione
ed alla educazione e che tale potere, in tanto può essere escluso (con
ciò stesso realizzando l’interesse del figlio), in quanto sia provata – sia
pure sulla base di un giudizio ex ante – l’incapacità del genitore all’adempimento dei suoi compiti (33).
Interpretando in siffatto modo la normativa vigente, alla luce dei
principi costituzionali, si evita di porre una ingiustificata disparità di
trattamento fra i due genitori, in funzione del diverso momento in cui
operano il riconoscimento, in quanto entrambi sono soggetti agli stessi controlli circa l’idoneità all’esercizio della potestà genitoriale, con la
sola differenza che mentre colui che ha riconosciuto per primo potrà
essere privato della potestà sulla base di un giudizio ex post, il genito-
(32) Cass. 16 giugno 1990 n. 6093, Giust. civ., 1990, I, 2286; Nuova giur. civ. commentata 1991, I, 234, con nota di DI NARDO, Diritto del genitore all’affermazione della
sua paternità e interesse del minore al riconoscimento da parte del genitore naturale *; Dir.
fam. 1991, 484 (il diritto al secondo riconoscimento costituisce un diritto soggettivo
primario, con la conseguenza che lo stesso può essere sacrificato non per l’interesse del
minore a non vedersi turbata la serenità della vita che conduce con il genitore che l’ha
riconosciuto per primo, ma solo per la presenza di un fatto impeditivo di importanza
proporzionata al valore del diritto sacrificato così che il trauma presumibilmente
riportabile dal minore sarebbe così grave da pregiudicare in modo serio il suo sviluppo psicofisico). Nello stesso senso: Cass. 29 dicembre 1994 n. 11263, Giur. it., 1995, I,
1472, con nota di ARRIGO, In tema di riconoscimento del figlio naturale: diritto-dovere
del genitore ed interesse naturale *.
(33) Conforme FERRANDO, L’interesse del minore nel riconoscimento del figlio naturale, in Dir. fam., 1982, 190, la quale peraltro ritiene legittimo il rifiuto del consenso,
a prescindere da qualunque responsabilità del genitore che vuole riconoscere, ove esista un processo educativo in atto che può essere turbato dal secondo riconoscimento
(op. cit., 188), senza tener presente che, in siffatto modo, si finisce per denegare un diritto a prescindere da quelle ipotesi di comprovata incapacità che sole ne legittimano
il sacrificio. Contrario alla tesi sostenuta nel testo VERCELLONE, op. cit., 121.
126
re che vuole effettuare il riconoscimento per secondo può subire il sacrificio totale della potestà genitoriale prima ancora che essa si possa
esercitare o venga messa alla prova, ma pur sempre e solo sulla base
di quella comprovata incapacità evidenziata da un comportamento
antecedente il riconoscimento, senza che tale disparità di trattamento
residuo sia costituzionalmente rilevante essendo giustificata razionalmente dal diverso momento in cui operano i due riconoscimenti (34).
Ove si accetti questa ricostruzione dell’istituto, sono da disattendere quelle decisioni che, nell’insistere esclusivamente sull’interesse
del minore – senza considerare il contrapposto diritto-dovere del genitore al riconoscimento, hanno finito per dare rilievo ad un interesse
meramente contingente e di puro fatto, senza tenere presente che il
diritto in generale – e quello di famiglia in particolare – è essenzialmente contemperamento fra contrapposte posizioni ugualmente degne di tutela e di protezione, mentre meritano di essere seguite quelle
decisione per le quali vi è interesse del minore a non vedersi riconosciuto dal proprio genitore soltanto in quelle situazioni nelle quali,
stante il rilevante pregiudizio creato in capo al minore, se vi fosse stato
il riconoscimento, si sarebbe dovuto dichiarare al decadenza dalla potestà parentale o l’adozione di provvedimento limitativi della stessa.
La precedente affermazione circa la sussistenza di un diritto-dovere al riconoscimento, anche per la realizzazione dell’interesse del
minore al mantenimento, all’istruzione e all’educazione, consente di
prendere posizione sul problema dibattuto in dottrina e giurisprudenza, se il secondo riconoscimento risponda in linea di principio all’interesse dei minore, seguendo quelle decisioni che tale affermazione
contengono (35) – anche se per motivi diversi da quelli addotti – e disattendendo un più recente indirizzo per il quale la normativa in
esame non è informata al criterio di privilegiare il riconoscimento di
entrambi i genitori, essendo diretta esclusivamente ad accertare se il
secondo riconoscimento risponda all’interesse del minore, prescindendo da qualunque aprioristica considerazione di favore del secondo
(34) Sulla costituzionalità della diversa disciplina fra il primo e il secondo riconoscimento: Cass. 13 novembre, 1986, n. 6649, Giust. civ., 1986, I, 2677; Giur. it., 1987,
I, 1, 1837, con nota di CIRILLO, Filiazione naturale: riconoscimento volontario e dichiarazione giudiziale (manca nelle norme costituzionali una tutela piena ed incondizionata del diritto al riconoscimento, che valga a non consentire un contemperamento con
gli interessi del figlio); Cass. 12 ottobre 1987 n. 7535.
(35) Cass. 9 novembre, 1978, n. 5116, Giust. civ., 1979, I, 260; Cass. 16 dicembre,
1981, n. 6660, ivi 1982, I, 626.
127
riconoscimento (36). La disposizione, cioè, non parte da alcuna presunzione di rispondenza del duplice riconoscimento all’interesse minorile,
essendo tale presunzione un portato dell’interpretazione giurisprudenziale diretto a spiegare la sussistenza del diritto al riconoscimento che,
per la nostra tesi, ha la sua base nella normativa costituzionale.
Se il secondo riconoscimento costituisce un diritto-dovere del genitore che può essere paralizzato dal contrario interesse del minore –
nel senso innanzi precisato – appare evidente che, sotto il profilo probatorio, l’onere della prova delle circostanze che giustificano la mancanza di riconoscimento incombono al genitore convenuto, mentre
l’attore può limitarsi a dedurre la propria intenzione di riconoscere la
prole, già riconosciuto dall’altro, e la mancanza di consenso di quest’ultimo (37).
L’adozione della tesi da noi prospettata per il quale l’interesse del
figlio assume rilievo solo in presenza di situazioni che evidenzino l’incapacità del genitore che vuole riconoscerlo ad assumere la potestà
genitoriale, comporta che la precedente condotta verso il figlio del genitore che vuole effettuare il riconoscimento (38), ma che non, assuma i connotati anzidetti, il vantaggioso inserimento del minore nella
famiglia dell’altro genitore (39), la mancanza di un valido rapporto
(36) Cass. 25 maggio, 1982, n. 3180, Dir. fam., 1982, 826; Cass. 22 giugno, 1983, n.
4273, Giur. it., 1984, I, 1, 76; Giust. civ., 1984, I, 223, con nota di A. FINOCCHIARO, Il
secondo riconoscimento: interesse del minore, diritto-dovere del genitore onere della prova*; Cass. 9 agosto, 1985, n. 4407. Cfr. però, Cass. 5 febbraio, 1985, n. 790 (in via normale e presumibile l’interesse del minore è nel senso di acquisire anche il riconoscimento del secondo genitore, sia sotto il profilo sentimentale, sia per i connessi diritti
all’istruzione, educazione e mantenimento, con la conseguenza che la legittimità del
rifiuto può essere affermata solo in presenza di specifici e seri motivi, che evidenzino
la contrarietà del riconoscimento stesso all’indicato interesse, di per sè non ravvisabili
nella mera circostanza del precedente matrimonio di uno o di entrambi i genitori).
(37) Cass. 9 novembre, 1978, n. 5116, cit.; Cass. 16 dicembre, 1981, n. 6660, cit..
Secondo Cass. 25 maggio, 1982, n. 3180, cit., e Cass. 22 giugno, 1983, n. 4273, cit., esisterebbe un ampio potere inquisitorio del giudice che gli consente di supplire all’iniziativa della parte oltre i limiti ed oltre il rispetto degli oneri tipici della concezione privatistica del processo civile.
(38) Per l’irrilevanza della condotta pregressa tenuta dal genitore che vuole effettuare il secondo riconoscimento, Cass. 12 ottobre 1987, n. 7535; nonchè Cass. 13 dicembre 1989, n. 5575 e Cass. 4 febbraio 1993, n. 1412 (che attribuiscono rilevanza al
comportamento del genitore al solo fine dell’affidamento del minore all’altro genitore).
(39) Cfr. Cass. 13 novembre 1986, n. 6649, cit., che pone tale vantaggioso inserimento nella famiglia del genitore che aveva effettuato il primo riconoscimento, in considerazione anche dei rilevanti rapporti affettivi con il coniuge dello stesso, come motivo giustificativo del rifiuto del consenso, per la tutela dell’interesse del minore. In senso
128
affettivo fra il ricorrente e la prole, la considerazione del convivente
con la madre, che per prima ha effettuato il riconoscimento, come
unica figura paterna, la possibilità di distorsioni della personalità per
l’inserimento di una nuova figura genitoriale, valutazioni comparative
dei due genitori (40) possono spiegare rilievo solo al diverso fine dell’affidamento del figlio stesso (41), ma non sono di per sè tali da escludere la ricorrenza dell’interesse suddetto.
5. – (segue): il procedimento. – Il procedimento è di carattere contenzioso deponendo in questo senso: a) il tipo di contrasto esistente
fra le parti (si contesta infatti non già il modo di regolare una certa
situazione, ma il diritto costituzionalmente riconosciuto di riconoscere la propria prole naturale); b) l’espressa previsione dell’intervento del
P.M. (che nei procedimenti camerali è solamente sentito); c) il contraddittorio con il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento (42) (mentre nei procedimenti camerali non si parla mai di
contraddittorio); d) il tipo di provvedimento che conclude il procedimento.
parzialmente difforme, però, Cass. 13 marzo 1987, n. 2654, Giur. it., 1988, I, 1, 1023,
con nota di AMATO, Convenienza del riconoscimento e procedimento giudiziale ex art.
250 cod. civ., (il rifiuto del consenso non è giustificato per il fatto che il minore si sia
inserito stabilmente nella famiglia del genitore che per primo abbia effettuato il riconoscimento, dovendo tale elemento essere valutato unitamente ad altri, con riguardo
principalmente agli effetti che il riconoscimento di entrambi i genitori può produrre in
termini di educazione, istruzione e mantenimento del minore è tenuto, in ogni caso,
presente che l’esigenza di evitare turbamenti e conflittualità psicologiche pregiudizievoli all’armonioso sviluppo della personalità dello stesso deve prevalere sul fatto oggettivo della generazione); nonché, nello stesso senso, Cass. 24 gennaio 1991, n. 687; Cass.
14 maggio 1991, n. 5386, Foro it., 1992, I, 457; Cass. 21 agosto 1993, n. 8861, Giust. civ.,
1993, I, 2614.
(40) Cass. 15 marzo 1994, n. 7463, secondo cui non rilevano, ai fini dell’accertamento dell’interesse del minore, valutazioni comparative dei due genitori, né apprezzamenti negativi circa la personalità o la condotta di chi intende effettuare il secondo
riconoscimento, se non nei limiti in cui possano evidenziare che l’acquisto dei diritti
derivanti dal secondo riconoscimento sia foriero, per il minore stesso, più di nocumento che di vantaggio.
(41) Cass. 16 dicembre 1981, n. 6660, Giust. civ., 1982, I, 626.
(42) Sulla qualità di litisconsorte necessario del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, anche nell’ipotesi in cui sia stato dichiarato decaduto dall’esercizio della potestà genitoriale, non afferendo il chiesto consenso all’esercizio di tale
potestà, ma soltanto allo status di genitore che abbia già effettuato il riconoscimento,
Cass. 6 dicembre 1987, n. 1181, Dir. fam., 1987, 591, con nota di CRISCUOLI-GRIPPAUDO, Status genitoriale e riconoscimento di figlio naturale.
129
Dalla natura contenziosa del procedimento deriva:
– che, al fine di valutare la validità della sentenza emessa in relazione alla partecipazione del P.M. occorre applicare il principio
secondo cui, nei giudizi civili, in cui è previsto l’intervento obbligatorio del P.M., il disposto della legge è osservato con la comunicazione
degli atti all’ufficio del P.M., senza che induca la nullità del giudizio il
fatto che il P.M. non sia concretamente intervenuto (43), senza poter
far capo al diverso principio – proprio dei procedimenti di volontaria
giurisdizione – secondo cui, nelle ipotesi in cui il P.M. deve essere sentito, il suo parere ha contenuto di un atto doveroso che non può essere omesso costituendo elemento essenziale del procedimento;
– che il giudice è vincolato alle iniziative probatorie delle parti,
senza che la valutazione dell’interesse del minore giustifichi poteri
inquisitori del giudice anche oltre i limiti dell’assunzione di informazioni, consentita nei procedimenti camerali (44);
– che il minore non è parte necessaria del giudizio (45), dal momento che unico titolare del potere di concedere o negare il consenso
è solamente il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento,
con la conseguenza che allo stesso minore non deve essere nominato
un curatore speciale, che lo rappresenti in giudizio, essendo solamente prevista la sua audizione (46), da disporre anche d’ufficio, ma il
mancato espletamento di tale incombente deve essere espressamente
(43) Cass. 16 dicembre 1981, n. 6660, Giust. civ., 1982, I, 626.
(44) Contra: Cass. 25 maggio 1982, n. 3180, cit.; Cass. 22 giugno 1983, n. 4273, cit..
(45) COSTANZA, op. cit., 4.
(46) Sulla non necessità della nomina di un curatore speciale, in quanto il minore non assume la qualità di parte, MAJELLO, op. cit., 45; Cass. 16 dicembre 1981, n.
6660, Giust. civ., 1982, I, 626; Cass. 25 maggio 1982, n. 3180, ivi, 1982, I, 2663, ove l’enunciazione del principio che il minore deve essere soltanto ascoltato, con l’unico limite costituito dall’incapacità del minore a rendere dichiarazioni per ragioni di età o per
altre cause, con obbligo per il giudice di spiegare le ragioni che non rendono realizzabile l’audizione, onde consentire il controllo della motivazione; Cass. 13 marzo 1987,
n. 2654, Giur. it., 1988, I, 1, 1026, con nota di AMATO, Convenienza del riconoscimento e procedimento giudiziale ex art. 250 c.c.; Cass. 16 giugno 1990, n. 6093, Dir. fam.,
1991, 484; Nuova giur. civ. commentata, 1991, I, 234, con nota di DI NARDO, Diritto del
genitore all’affermazione della sua paternità e interesse del minore al riconoscimento da
parte del genitore naturale. Non si pone in contrasto con la richiamata giurisprudenza
Cass. 11 febbraio 1993, n. 1741, Dir. fam., 1993, 984, per la quale, qualora a seguito della proposizione della domanda il Presidente del Tribunale nomini un curatore speciale al minore e questi intervenga nel processo, formulando proprie deduzioni e prendendo specifiche conclusioni, si determina una situazione di litisconsorzio processuale, assimilabile a quella prodotta dall’intervento in causa di un terzo per ordine del giudice,
130
dedotto dalle parti, non trattandosi di nullità rilevabile d’ufficio, ma di
prescrizione rivolta unicamente a soddisfare l’esigenza istruttoria di
accertare se il rifiuto del consenso risponda o meno all’interesse del
figlio (47). È solamente con il raggiungimento del sedicesimo anno di
età che il minore può incidere sull’efficacia del riconoscimento, negando o prestando l’assenso, mentre in precedenza lo stesso minore ha
solo un interesse di fatto alla vicenda processuale (48);
– che la sentenza che conclude il giudizio è appellabile (49) e non
reclamabile (50) alla Corte d’Appello, nei termini ordinari d’impugnazione;
– che tale sentenza è, sotto alcuni aspetti, una sentenza emessa
rebus sic stantibus, dovendosi distinguere a seconda che l’opposizione
sia stata respinta o accolta.
Nel primo caso, ove vengano dedotti fatti nuovi, il genitore può
riproporre la domanda, qualora il genitore che per primo abbia effetcon la conseguente nullità della sentenza di appello, rilevabile anche d’ufficio, nell’ipotesi in cui nel giudizio di gravame non sia stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti del detto curatore quando l’impugnazione non risulti proposta
anche nei suoi confronti. Per l’affermazione secondo cui il minore assume la veste di
parte nel giudizio BAVIERA, Il diritto minorile, II, Milano 1976, 671.
(47) Cass. 29 dicembre 1993, n. 11263, Giur. it., 1995, I, 1, con nota di ARRIGO,
In tema di riconoscimento del figlio naturale: diritto-dovere del genitore ed interesse del
minore.
(48) Il raggiungimento del sedicesimo anno in corso di giudizio da parte del minore non determina l’interruzione del processo, ma comporta la reiezione della domanda, per il venir meno di una delle condizioni dell’azione.
(49) Cass. 13 ottobre 1986, n. 5980, Giust. civ., 1987, I, 1450; Dir. fam., 1987, 102;
Cass. 3 dicembre 1988, n. 6557, Giust. civ., 1988, I, 2806; Dir. fam., 1989, 64, ove l’affermazione che qualora sia stato proposto il reclamo ed il procedimento di secondo
grado si sia svolto con il rito camerale deve esdudersi il verificarsi di nullità, qualora il
ricorso introduttivo risulti notificato, con il decreto di fissazione dell’udienza entro il
termine d’impugnazione, sia stato rispettato il termine di comparizione o la sua inosservanza sia sanata dalla comparizione della controparte con l’assistenza di difensore
(da considerarsi equivalente alla costituzione in giudizio) e, infine, non si deduca e
dimostri una concreta lesione del diritto di difesa per effetto dell’adozione del rito
camerale; Cass. 13 dicembre 1989, n. 5575; Cass. 24 gennaio 1991, n. 687 (la notifica
della sentenza va effettuata, ai fini del decorso del termine breve per l’appello, a norma
degli art. 170 e 285 c.p.c.).
(50) Per la reclamabilità della sentenza Cass. 14 gennaio 1981, n. 327, Foro it.,
1991, I, 687, con osservazione di SALMÈ; Cass. 22 aprile 1981, n. 2383, Giust. civ.,
1982, I, 1025, con nota di BIANCO, Sul reclamo avverso il provvedimento del Tribunale
per i Minorenni ex art. 250, comma 4, c.c.; Foro it., 192, I, 1383; COSTANZA,
op. cit., 4.
131
tuato il riconoscimento insista nel suo rifiuto (51); mentre nell’ipotesi
in cui alla decisione di accoglimento non sia seguito il riconoscimento (52), il genitore che per primo abbia effettuato il riconoscimento
può, attraverso la deduzione di motivi nuovi ottenere una sentenza
che modifichi il precedente accertamento (53), mentre se il riconoscimento è avvenuto la decisione non può essere posta nel nulla.
Nel giudizio di opposizione non può essere proposta una eccezione riconvenzionale da parte del genitore che per primo ha effettuato il
riconoscimento tendente a contestare la veridicità del riconoscimento
da parte dell’attore e cioè che lo stesso non è l’autore della procreazione del figlio che vuole riconoscere, perché presupposto necessario
per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità è che
un riconoscimento ci sia stato, mentre una indagine puramente incidentale sulla veridicità del secondo riconoscimento è consentita al limitato fine di riscontrare la legittimazione attiva del ricorrente (54).
Qualora però, malgrado l’inammissibilità della domanda, il Tribunale Minorile abbia accertato la veridicità del riconoscimento, e da ritenere che ove a tale giudizio abbia partecipato anche il minore la relativa pronuncia fa stato anche nel giudizio ex art. 263 c.c., mentre in
mancanza di tale partecipazione si è in presenza di una pronuncia
inutiliter data e quindi non preclusiva di un nuovo e diverso giudizio
di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
6. – La natura giuridica del riconoscimento. – La dottrina non ha
raggiunto univocità di soluzioni circa la natura giuridica del ricono-
(51) Nello stesso senso Cass. 21 agosto 1993, n. 8861, Giust. civ., 1993, I, 2614. Per
la non riproponibilità della domanda rigettata ATTARDI, in Commentario alla riforma
del diritto di famiglia, a cura di CARRARO-OPPO-TRABUCCHI, I, 2, Padova 1977,
1000; VERCELLONE, op. cit., 121, il quale però ritiene che, pure in presenza di decisione negativa, il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento può dare il suo
consenso e, quindi, rendere possibile il riconoscimento stesso.
(52) È pacifico che la sentenza tiene solo luogo del consenso mancante e non è
costitutivo del rapportoo di filiazione (VERCELLONE, op. cit., 113).
(53) Non può convenirsi con quanto affermato in sede di merito da Trib. Min.
Milano, 17 novembre 1980, Dir. fam., 1981, 782, secondo cui il ricorso ex art. 250, comma 4, c.c., se accolto, vale come dichiarazione di riconoscimento del figlio naturale,
non potendosi applicare in via analogica l’art. 254, comma 2, c.c., atteso il carattere
eccezionale di quest’ultima norma.
(54) Cass. 16 dicembre 1981, n. 6660, Giust. civ., 1982, I, 626 *; Cass. 13 marzo
1987, n. 2654, cit.; Cass. 23 febbraio 1991, n. 1958; VERCELLONE, op. cit., 113; COSTANZA, op. cit., 4; DELLA VALLE, op. cit., 75.
132
scimento (55) e fra le varie posizioni – dal momento che la nuova disciplina introdotta a seguito della riforma non reca elementi risolutivi
a favore dell’una o dell’altra tesi – ci sembra preferibile quella che vede
nel riconoscimento un atto non negoziale (56).
Il carattere di atto unilaterale non ricettizio del riconoscimento
non è smentito dalla previsione dell’assenso o del consenso, dal momento che questi atti sono a loro volta unilaterali e non si integrano
con il riconoscimento quali elementi di una fattispecie complessa.
Il riconoscimento continua ad essere atto unilaterale anche se non
più assolutamente discrezionale come per il passato, ma variamente
limitato dalla necessaria tutela del superiore interesse del figlio riconoscendo. La limitazione della discrezionalità influisce sul concreto
esercizio del potere, non sulla natura dell’atto.
Tale carattere non ricettizio sussiste non solo nell’ipotesi in cui sia
necessario il consenso, che deve precedere il riconoscimento, ma anche ove sia necessario l’assenso. Il carattere ricettizio di una dichiarazione va ravvisato nel fatto che la stessa produce il suo effetto dal momento in cui perviene a conoscenza della persona alla quale è destinata, pertanto, pur costituendo la comunicazione al figlio, del riconoscimento effettuato, un onere del genitore che richiede l’assenso, non
è la sola comunicazione che determina l’efficacia del riconoscimento,
sicché si deve ritenere il carattere non ricettizio dello stesso.
7. – Il riconoscimento congiunto o separato. – Il riconoscimento può
avvenire sia congiuntamente che separatamente.
Ove avvenga congiuntamente non opera il principio della necessità del consenso dell’altro genitore.
L’ammissibilità del riconoscimento congiunto risponde ad esigenze di carattere pratico, senza alcuna conseguenza sul piano dell’efficacia giuridica (57).
(55) Per un’ampia rassegna delle varie posizioni rinviamo a A. FINOCCHIARO, in
A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., II, 1633 ss., cui adde, nel senso della natura non negoziale del riconoscimento, COSTANZA, op. cit., 3.
(56) Per VERCELLONE, op. cit., 137, il riconoscimento costituisce esercizio del
diritto potestativo del genitore biologico di costituire il rapporto giuridico o paternità
o maternità naturale, la cui realizzazione è subordinata alla dichiarata conforme
volontà del figlio maggiore dei sedici anni e, se riconoscendo è un bambino minore dei
sedici anni già riconosciuto, alla dichiarata valutazione positiva del riconoscimento
rispetto all’interesse del figlio.
(57) MAJELLO, op. cit., 39; FERRANDO, in Trattato, cit., 136.
133
In caso di riconoscimento congiunto, i due atti restano concettualmente distinti come atti unilaterali imputabili ai soggetti che li hanno
compiuti con la conseguenza che la nullità del riconoscimento dell’uno non riverbera i suoi effetti sulla validità del riconoscimento dell’altro (58). Ciò comporta anche conseguenze sull’assenso del figlio, dal
momento che lo stesso, se ultrasedicenne, può prestarlo per l’uno e
non per l’altro.
8. – Capacità di riconoscere il figlio naturale. – La capacità di riconoscere il figlio naturale si acquista al compimento del sedicesimo
anno.
Il riconoscimento è atto personale del genitore, tale da escludere
ogni possibilità di sostituzione da parte di rappresentante legale o
volontario (59), con la conseguenza che il riconoscimento compiuto
dal rappresentante legale del minore o dall’infrasedicenne è assolutamente inesistente, dal momento che in caso di incapacità di agire – rispetto ad atti personali che escludono la rappresentanza – sussiste una
limitazione della capacità giuridica, in quanto prima del raggiungimento della capacità prescritta, la persona non ha l’attitudine a diventare titolare delle situazioni scaturenti dall’atto (60).
È nullo e può essere impugnato nel termine di un anno il riconoscimento compiuto da un incapace per interdizione giudiziale (art.
266 c.c.). È pienamente libero di riconoscere l’interdetto legale, l’incapace e l’inabilitato.
9. – Limiti alla riconoscibilità della prole incestuosa. – Il legislatore
del 1975 ha mantenuto il divieto di riconoscimento della prole incestuosa, negli stessi limiti previsti dal testo originario, nell’ipotesi in cui
i genitori fossero in malafede all’epoca del concepimento (61), ma l’ha
ulteriormente aggravato prevedendo – nell’ipotesi in cui il riconosci-
(58) DELLA VALLE, op. cit., 73.
(59) MAJELLO, op. cit., 47.
(60) MAJELLO, op. cit., 49, ritiene inesistente il riconoscimento posto in essere
dal rappresentante legale, mentre ritiene efficace il riconoscimento posto in essere dall’infrasedicenne, ove non annullato a seguito di un ordinario giudizio di cognizione,
sulla base del rilievo che la disposizione configura una speciale capacità di agire e non
una speciale incapacità giuridica.
(61) Per tempo del concepimento si deve intendere il tempo dell’unione sessuale
da cui è derivato il concepimento, con la conseguenza che se il vincolo di affinità è
sorto dopo tale unione il figlio non è incestuoso (MAJELLO, op. cit., 63 s.).
134
mento è ammesso – la necessità di un provvedimento autorizzativo del
tribunale ed aggiungendo quale ulteriore ipotesi il venir meno del vincolo di affinità a seguito di pronuncia di nullità del matrimonio da cui
l’affinità derivava, senza tenere presente che, in tale ipotesi, per il passato, questa prole non aveva carattere incestuoso.
Il divieto alla riconoscibilità di questa prole non era giustificato
sulla base dell’art. 30, comma 3, Cost. e tale divieto appare vieppiù incostituzionale a seguito della affermata riconoscibilità della prole
adulterina (62). La buona fede che legittima il riconoscimento è semplicemente attestata dalla parte (63).
Il riconoscimento è autorizzato dal giudice avuto riguardo all’interesse del figlio ed alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio (art. 251, ultimo comma, c.c.).
L’autorizzazione costituisce non già autorizzazione (64), ma approvazione del riconoscimento (65).
La competenza per materia è del Tribunale per i Minorenni se il
figlio da riconoscere è minore (art. 35 disp. att. c.c.), mentre è del Tribunale Ordinario se il figlio è maggiorenne (arg. ex art. 38, comma 2,
disp. att. c.c.) (66). La procedura è quella propria dei procedimenti camerali: audizione obbligatoria del P.M.; decisione con decreto, reclamabile alla sezione per il minorenni della Corte d’Appello (in caso di
minori) o alla Corte d’Appello (in caso di maggiorenne); non ricorribilità per cassazione del decreto emesso in sede di reclamo.
Il giudice deve valutare adeguatamente tanto l’interesse del figlio
ad ottenere lo stato di figlio naturale riconosciuto, quanto il contrapposto interesse a non subire pregiudizi di ordine psicologico o sociale che
possano derivare da un accertamento dell’incestuosità della nascita.
Questa autorizzazione può concorrere con il consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio o con l’assenso del figlio ultrasedicenne (67).
(62) Per un’ampia indicazione della dottrina critica su tale divieto A. FINOCCHIARO, op. ult. cit., 1664 s. e partim note 5-7.
(63) MAJELLO, op. cit., 56; FERRANDO, op. cit., 156.
(64) Così invece VERCELLONE, op. cit., 88.
(65) CARRARO, op. cit., 117.
(66) BAVIERA, op. cit., 664 s.; ATTARDI, op. cit., 933; MAJELLO, op. cit., 59. Contra e per l’affermazione secondo cui non sarebbe necessaria l’autorizzazione in caso di
riconoscimento di ultrasedicenne, CARRARO, op. cit., 117 s. (Per una critica a questa
tesi A. FINOCCHIARO, op. cit., 1670 s.).
(67) Conformi: BAVIERA, op. loco cit.; CARRARO, op. loco cit..
135
Ove il riconoscimento venga fatto da uno solo dei genitori l’incesto difficilmente potrà risultare (68), sicchè il riconoscimento conserverà la sua effcacia fino a quando non venga impugnato. Nell’ipotesi
in cui dal successivo riconoscimento risulti l’incestuosità della prole,
il primo riconoscimento conserva la propria validità finchè non venga
eliminato con la sentenza che accolga la contestazione, mentre il secondo riconoscimento è inammissibile.
10. – Inammissibilità del riconoscimento. – In nessun caso è ammesso il riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o
legittimato in cui la persona si trova (art. 253 c.c.).
Il divieto si applica anche agli adottati ex lege 184/1983, che acquistano lo stato di figli legittimi (69).
Per l’acquisto dello stato di figlio legittimo non è sufficiente il concepimento in matrimonio, ma è necessario che lo stesso sia integrato
dal titolo di stato di legittimità (atto di nascita o possesso di stato) (70).
Dall’accettazione di queste conclusioni deriva:
– che il padre naturale può riconoscere il figlio nato da relazione
con donna coniugata, qualora sia stato denunciato come nato da
madre ignota e che tale riconoscimento resta valido finché non sia accolto il reclamo di legittimità o venga annullato per difetto di veridicità;
– che il figlio denunciato come nato da donna coniugata, godendo
di uno stato di legittimità, non può essere riconosciuto dal padre naturale se non a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di impugnativa di paternità.
L’inammissibilità del riconoscimento contrastante con una precedente attribuzione di stato di figlio legittimo o naturale si distingue
dall’illegittimità del riconoscimento per difetto di veridicità o per difetto di stato di riconoscibilità: la prima è determinata da una preclusione di carattere formale, la seconda da motivi di ordine sostanziale (71).
(68) Ma se l’origine incestuosa è accertata il riconoscimento deve essere dichiarato inammissibile: VERCELLONE, op. cit., 90 s..
(69) CHECCHINI, in Commentario al diritto italiano della famiglia, IV, cit., 124.
(70) Cass. 25 luglio 1972, n. 2532, Giust. civ., 1972, I, 1708; MAJELLO, op. cit., 76;
BIANCA, op. cit., 230. Per una rassegna della dottrina sulle condizioni per l’acquisto
dello stato di legittimo A. FINOCCHIARO, op. cit., 1700.
(71) MAJELLO, op. cit., 82.
136
11. – Il riconoscimento di figlio adulterino da parte della donna
coniugata. – Il problema se la donna coniugata abbia la possibilità di
escludere, all’atto della dichiarazione all’ufficiale dello stato civile, la
legittimità del proprio figlio, affermando che lo stesso è nato dall’unione con uomo diverso dal marito e riconoscere in siffatto modo il
nato come proprio figlio naturale o se invece tale riconoscimento sia
possibile nella ricorrenza di particolari condizioni, ha dato luogo a
contrastanti soluzioni in dottrina e in giurisprudenza (72).
A sostegno della prima tesi si è invocato:
– l’eliminazione del divieto di riconoscere la prole adulterina;
– la possibilità per la madre di non dichiarare il proprio stato di
libera o coniugata all’ufficiale di stato civile, con la conseguenza che
quest’ultimo deve ricevere la dichiarazione di riconoscimento e formare l’atto di nascita di figlio naturale riconosciuto.
Dai sostenitori della seconda tesi si è affermato che, ove si acceda
alla teoria per la quale il concepimento in costanza di matrimonio fa
acquistare ipso iure lo stato di legittimo al figlio, la madre non può riconoscere come figlio naturale il figlio così nato ostandovi il disposto
dell’art. 253 c.c., mentre ove si acceda all’altra costruzione dogmatica
secondo la quale per l’acquisto dello stato di legittimo non è sufficiente il concepimento in matrimonio ove lo stesso non sia integrato dal
titolo di stato di legittimità (atto di nascita o possesso di stato), la soluzione non può essere diversa dal momento che seppure da donna
coniugata possono nascere figli legittimi e figli adulterini, gli stessi
hanno lo stato di legittimi se, dall’atto di nascita risulta che sono nati
da donna coniugata.
Secondo quest’ultima teoria, quindi, la donna coniugata può riconoscere il proprio figlio come naturale nelle seguenti ipotesi:
– denuncia del figlio come nato da padre naturale (che lo riconosce) e da madre ignota (o che non vuole essere nominata);
– nascita del figlio dopo i trecento giorni dagli eventi di cui all’art.
(72) Per un’ampia rassegna A. FINOCCHIARO, op. cit., 1703 ss., cui adde, in senso
favorevole alla possibilità dell’immediato riconoscimento da parte della madre,
COSTANZA, op. cit., 5; Trib. Trapani, 1 marzo 1982, Giur. merito, 1984, 587; Trib. Trento, 10 gennaio 1984, Giur. it., 1985, I, 2, 717; Cass. 5 aprile 1996, n. 3194 * e, nel senso
della impossibilità della madre di attribuire al figlio, nato in costanza di matrimonio,
lo stato di figlio naturale, contro la presunzione di legittimità di cui all’art. 231 c.c.,
VERCELLONE, op. cit., 99.
137
234 c.c. purché non sia stata vittoriosamente esperita l’azione ivi
prevista;
– dopo che sia stata vittoriosamente esperita l’azione di disconoscimento di paternità, qualora il figlio sia stato denunciato come nato
da donna coniugata in costanza di matrimonio.
12. – Forma del riconoscimento. – Il riconoscimento del figlio naturale è fatto nell’atto di nascita oppure con apposita dichiarazione posteriore alla nascita o al concepimento, davanti a un ufficiale di stato
civile o davanti al giudice tutelare o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo (art. 254, comma 1, c.c.).
Il riconoscimento è contenuto nell’atto di nascita quando la dichiarazione di riconoscimento si effettua contestualmente alla dichiarazione di nascita.
Nell’ipotesi di riconoscimento del figlio nascituro da parte del padre è necessario che lo stesso venga riconosciuto anche dalla madre
per evitare di incorrere nel divieto di cui all’art. 258 c.c. (73), dal momento che l’unico modo per individuare il nascituro è quello di indicarne la madre (74).
Il riconoscimento può essere compiuto anche innanzi al giudice
tutelare, ma ciò esclude la competenza di qualsiasi altro organo dello
stesso potere (75).
L’atto pubblico previsto dall’art. 254 c.c. è soltanto quello ricevuto
da notaio o da altro pubblico ufficiale al quale siano conferite funzioni di stato civile (76).
È da ritenersi invalido il riconoscimento contenuto in un atto di
battesimo o in un atto di matrimonio canonico trascritto, perché il mi-
(73) Per VERCELLONE, op. cit., 104, in caso di riconoscimento di concepito, il
divieto di indicazione dell’altro genitore è sospeso, salvo l’obbligo della cancellazione
quando si verifica la nascita.
(74) MAJELLO, op. cit., 87; MOSCHELLA, op. cit., 261; VERCELLONE, op. cit.,
103; COSTANZA, op. cit., 3 (la quale, per un lapsus calami, parla addirittura di un riconoscimento anteriore al concepimento).
(75) DELLA VALLE, op. cit., 88.
(76) Quali il console, l’ufficiale abilitato a ricevere atti di stato civile dalla legge
speciale di guerra; le autorità che possono ricevere la denuncia di nascita nei casi di
nascita in viaggio per mare, per ferrovia o per aria. Nel senso invece che quello che
conta è la solennità della dichiarazione e la certezza della conformità tra dichiarazione e documento e che derivano dalla qualifica del ricevente e dalle formalità che debbono accompagnare la ricezione, al di là delle specifiche funzioni di stato civile, VERCELLONE, op. cit., 107.
138
nistro di culto cattolico non rientra fra i soggetti abilitati a ricevere atti
di stato civile diversi da quello di matrimonio (77).
Il riconoscimento può essere contenuto anche in un testamento,
anche se privo del suo contenuto tipico, costituito da attribuzioni patrimoniali a causa di morte, mediante l’istituzione di erede o di legatario, purchè non sorgano dubbi sull’identificazione dell’atto come
scheda testamentaria.
Se contenuto in un testamento il riconoscimento ha effetto dopo
la morte del testatore, per l’efficacia post mortem del testamento (78).
Il riconoscimento testamentario è comunque inefficace se manca
l’assenso del figlio ultrasedicenne e non può avvenire se non c’è il consenso del genitore che ha già effettuato il riconoscimento.
Per la determinazione dell’età del figlio si considera quella che ha
quest’ultimo al momento della morte del genitore.
Nell’ipotesi di testamento pubblico nullo come tale, non è ammissibile operare la conversione del riconoscimento mortis causa in un
riconoscimento inter vivos per atto pubblico, se tale testamento non è
valido come atto notarile (79). È invece da ammettere la validità del
riconoscimento contenuto in un testamento olografo se la nullità di
tale testamento riguarda la mancanza di autografia o di sottoscrizione di altre disposizioni testamentarie, per l’autonomia del riconoscimento rispetto alle dichiarazioni tipiche.
Può riconoscere per testamento anche chi non ha raggiunto il diciottesimo anno, perché per la validità delle disposizioni non patrimoniali contenute in un testamento è richiesta la sola forma testamentaria, con la quale non può confondersi il requisito della capacità (80).
La domanda di legittimazione di un figlio naturale presentata al
giudice o la dichiarazione della volontà di legittimarlo espressa dal
genitore in un atto pubblico o in un testamento importa riconoscimento, anche se la legittimazione non abbia luogo (art. 254, comma
2, c.c.).
Si tratta di una dichiarazione tacita di riconoscimento contenuta
nella domanda di legittimazione o nella dichiarazione dell’intenzione
(77) DELLA VALLE, op. cit., 88 s. esclude il riconoscimento contenuto nell’atto di
battesimo, mentre lo ammette se contenuto in un atto di matrimonio concordatario.
Ammette invece il riconoscimento innanzi al parroco COSTANZA, op. cit., 3, richiamando App. Cagliari, 19 gennaio 1979, Foro it., 1979, I, 2746.
(78) MAJELLO, op. cit., 91.
(79) MAJELLO, op. cit., 93.
(80) MAJELLO, op. cit., 95.
139
di legittimare il figlio resa nella debita forma. Proprio perché si è in
presenza di una valutazione tipica compiuta dall’ordinamento di un
comportamento della parte, la stessa non può essere applicata al fine
di ritenere equivalente al riconoscimento il ricorso ex art. 250, comma
4, c.c..
Lo speciale effetto derivante dalla presentazione della domanda di
legittimazione opera anche qualora la stessa sia presentata ad un giudice incompetente per materia o per territorio in quanto l’incompetenza del giudice adito non esclude l’esistenza di una dichiarazione
tacita di riconoscimento.
Affinché la domanda di legittimazione possa produrre gli effetti
del riconoscimento è necessario il consenso dell’altro genitore che
abbia gia effettuato il riconoscimento.
Mancando la forma richiesta ad substantiam si è in presenza di un
riconoscimento inesistente (81), con la conseguenza che qualora l’atto
sia trascritto o annotato nei registri dello stato civile, lo stesso può
essere eliminato con il procedimento di rettificazione.
13. – Irrevocabilità del riconoscimento. – Il riconoscimento è irrevocabile e quando è contenuto in un testamento ha effetto dal giorno
della morte del testatore, anche se il testamento è stato revocato.
L’irrevocabilità si basa sul valore accertativo dell’atto (82) e si giustifica anche in ipotesi di riconoscimento contenuto in un testamento,
proprio per la sua autonomia rispetto alle altre disposizioni contenute nel testamento stesso.
L’irrilevanza della revoca del testamento si applica anche qualora
il testamento sia stato distrutto. È vero che ciò comporta la difficoltà
– se non addirittura l’impossibilità – di dare la prova del riconoscimento contenuto nella scheda testamentaria, ma se tale prova sia fornita, alla impossibilità della trascrizione e dell’annotazione del riconoscimento si supplisce con la trascrizione e l’annotazione della sentenza, che ha accertato l’esistenza del riconoscimento (83).
14. – Effetti del riconoscimento e decorrenza degli effetti. – Il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui è stato
fatto, salvo i casi previsti dalla legge (art. 258, comma 1, c.c.).
(81) COSTANZA, op. cit., 3 parla di riconoscimento improduttivo di effetti.
(82) MAJELLO, op. cit., 101; DELLA VALLE, op. cit., 92.
(83) MAJELLO, op. cit., 103.
140
Malgrado la disposizione sembri confermare il principio secondo
cui non si può parlare di una parentela naturale, attesa anche l’indissociabilità della famiglia e della parentela, dall’esistenza di una legittimità che è data dal matrimonio (84), si è sostenuto che la parentela
naturale ha rilevanza al pari alla parentela legittima, per il rispetto del
principio costituzionale d’uguaglianza (85), invocandosi a sostegno
anche una pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 565 c.c. del 1942 nella parte in cui
esclude dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in
mancanza di altri successibili, e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali riconosciuti o dichiarati (86).
A nostro parere il principio circa l’inestensibilità della parentela
naturale – seppure non di carattere assoluto, come ha affermato il giudice delle leggi – si presenta insuperabile, mentre l’inciso (salvo i casi
previsti dalla legge) – proprio per il suo carattere di norma di rinvio ad
altre disposizioni di legge – si limita ad evidenziare la situazione esistente e non consente in alcun modo di fondare sullo stesso la rilevanza giuridica della parentela naturale o la capacità espansiva di
tale parentela, attesa l’impossibilità di superare, sulla sua base, il dato
testuale delle varie norme che a tali rapporti non attribuiscono rilievo
(87). Il sistema del codice è costituito da una serie di disposizioni che
danno un limitato rilievo alla parentela naturale in linea retta (artt.
148, 433, 467 c.c.) e che non consentono di attribuire a quest’ultima la
stessa rilevanza di quella legittima.
Il problema è di ordine costituzionale: si tratta di accertare non
già se la parentela naturale possa o debba avere la stessa estensione di
quella legittima, ma se la tutela della filiazione naturale sia coerente
con il dettato costituzionale ogni qualvolta si escluda il rilievo della
parentela naturale, ove non sia in questione l’esigenza della compatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima, tenendo presente che Corte Cost. n. 55 del 1979 è intervenuta su una situazione
ove il diritto dei fratelli (o sorelle naturali) del de cuius si contrappo-
(84) TRABUCCHI, Natura, legge, famiglia, Riv. dir. civ., 1977, I, 11.
(85) BIANCA, op. cit., 20 e 241.
(86) Corte Cost. 4 luglio 1979, n. 55, Foro it., 1979, I, 1941; Giust. civ., 1979, III, 114.
(87) COSTANZA, op. cit., 2, dubita della correttezza giuridica della tesi che attribuisce rilevanza giuridica al rapporto di parentela fra fratelli naturali, ma rileva che
non si può negare che due figli, riconosciuti da entrambi i genitori e che abbiano convissuto con essi non siano portatori di un legame di cui la legge non può non prendere atto.
141
neva non già al diritto di altri parenti legittimi del defunto, ma a quello dello Stato (88).
La legge non indica – salvo il caso del riconoscimento contenuto
in un testamento – la decorrenza degli effetti del riconoscimento, con
la conseguenza che per taluni tali effetti decorrerebbero dalla nascita,
mentre per altri il riconoscimento produce effetto dal giorno del suo
perfezionamento.
Le indicazioni relative all’altro genitore contenute nell’atto di riconoscimento non possono essere ricevute e vanno cancellate sotto comminatoria di una sanzione pecuniaria, dovendosi ritenere depenalizzata – ai sensi della l. n. 706 del 1975 – la contravvenzione prevista dall’art. 258, ultimo comma, c.c..
15. – Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. – Il
riconoscimento può essere impugnato, anche dopo la legittimazione,
per difetto di veridicità, dall’autore del riconoscimento, da colui che è
stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse, con un’azione
imprescrittibile (art. 263 c.c.).
Tale impugnazione, siccome diretta ad attaccare lo stato del figlio,
sul presupposto che non gli spetta, va configurata come contestazione
dello stato (89), con la conseguenza che la stessa deve essere proposta
in via principale, non potendo essere risolta incidentalmente, con effetti limitati ad una controversia di ordine patrimoniale.
L’azione si basa sull’inesistenza del rapporto di filiazione, asserito
nell’atto di riconoscimento, ma vi è la tendenza ad estenderla anche
nei casi di riconoscimento operato contro il divieto di legge (90-91).
Le disposizioni di cui all’art. 263 c.c., pertanto, si devono applicare
anche all’impugnazione per difetto di consenso, ma non anche all’impugnazione per difetto di assenso, dal momento che tale difetto, non
incidendo sulla validità del riconoscimento, ma solo sulla sua effficacia,
non consente alcun impugnazione del riconoscimento per tale motivo.
Anche in ipotesi di mancanza di autorizzazione del tribunale per il
riconoscimento dei figli incestuosi si può fare ricorso all’impugnazione
(88) Per un’ampia rassegna delle posizioni dottrinati favorevoli alla tesi dell’estensione della famiglia naturale, al di là dei limiti fissati dall’art. 258 c.c., cfr. A.
FINOCCHIARO, op. cit., 1726 ss..
(89) Ma in senso contrario CHECCHINI, op. cit., 150.
(90) Cass. 21 aprile 1966, n. 1020, Giust. civ., 1966, I, 1300; Cass. 17 marzo 1970,
n. 690, Foro it., 1970, I, 1677; DELLA VALLE, op. cit., 103..
(91) Ora, soprattutto, con riferimento al riconoscimento della prole incestuosa.
142
di cui all’art. 263 c.c., ma la domanda deve essere respinta qualora, in
corso di giudizio, venga richiesta ed ottenuta l’autorizzazione.
Ai fini della prova l’attore deve dimostrare che il riconosciuto non
è stato procreato dall’autore del riconoscimento, mentre è estraneo al
giudizio l’accertamento dell’identità del vero genitore.
Il difetto di veridicità può essere dimostrato con ogni mezzo –
escluso però il giuramento e la confessione, attesa l’indisponibilità del
diritto – e, quindi, per testimoni, per presunzioni o attraverso la prova
ematologica.
La legittimazione attiva spetta allo stesso autore del riconoscimento e ciò non è in contrasto con il principio dell’irrevocabilità del
riconoscimento (92), in quanto l’impugnazione non contraddice alla
volontà già manifestata, ma mira a scoprire una falsa situazione di
fatto, e cioè la non corrispondenza al vero della dichiarazione di riconoscimento a causa della mancanza del presupposto di fatto della procreazione (93).
La legittimazione è inoltre riconosciuta allo stesso figlio, nonchè
a chiunque vi abbia un interesse di natura patrimoniale o morale, purchè legittimo e attuale (94) e quindi, ai parenti dell’autore del riconoscimento, agli eredi del presunto genitore, ai legatari o donatari per
sottrarsi all’azione di riduzione, al P.M. (95), all’altro genitore, nonché
al preteso genitore, il quale solamente dal venir meno del riconoscimento può procedere al nuovo riconoscimento.
Per quanto riguarda quest’ultimo soggetto, il giudice, sotto il profilo della prova dell’interesse, deve mirare all’accertamento dell’esistenza o meno, nell’attore di un serio proposito di riconoscere il figlio,
desumendolo o da un riconoscimento già compiuto (ma inefficace) o
da altri elementi concludenti (96), ma qualora dagli atti emerga che il
nuovo riconoscimento non sarebbe veridico, risultando impossibile la
paternità dell’attore, l’azione va dichiarata inammissibile, per l’insussistenza dell’interesse (97).
Legittimati passivi sono il riconosciuto e il soggetto il cui riconoscimento si vuole contestare, qualora l’impugnazione provenga da un
(92) CHECCHINI, op. cit., 152.
(93) Così, esattamente, STELLA RICHTER-SGROI, Delle persone e della famiglia,
I, t.2, Torino 1967, 176.
(94) BIANCA, op. cit., 243.
(95) Esclude la legittimazione attiva del p.m. VERCELLONE, op. cit., 124.
(96) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 179.
(97) STELLA RICHTER-SGROI, op. loco cit..
143
terzo, ma non anche l’altro genitore che ha effettuato il riconoscimento (98). Al minore deve essere nominato un curatore speciale, anche se
l’altro genitore ha riconosciuto il figlio, per essere lo stesso in potenziale conflitto d’interessi. È discusso se tale curatore debba essere nominato dal giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c.c. (99) o dal presidente del tribunale ex art. 78 ss. c.p.c. (100).
L’accoglimento della domanda – con l’accertamento della inesistenza del rapporto di filiazione – va venire meno lo stato di figlio naturale ed impedisce un ulteriore riconoscimento da parte dello stesso
soggetto la cui procreazione è stata esclusa, nonché una qualsiasi azione da parte del figlio di reclamo dello stato di figlio naturale (101).
Il rigetto della domanda consolida definitivamente lo status erga
omnes e quindi anche nei confronti dei portatori di un interesse legittimo ed attuale (102).
Qualora, però, la domanda sia stata accolta per mancanza di consenso, il genitore il cui riconoscimento è stato annullato può sempre
compiere un successivo riconoscimento o ottenendo il consenso
prima mancante o richiedendo al Tribunale – sempre che il riconoscimento risponda all’interesse del minore – una sentenza che tenga
luogo del consenso mancante. Se poi è necessario, per essere il figlio
diventato ultrasedicenne, l’assenso di quest’ultimo, il genitore, una
volta ottenutolo, può compiere il riconoscimento.
Proposta l’impugnazione per mancanza di consenso, la stessa
deve essere respinta:
– qualora nel corso del giudizio il genitore, del cui consenso si
invoca la mancanza, dia successivamente tale consenso o intervenga
una sentenza che tenga luogo del consenso mancante;
– qualora il figlio riconosciuto avendo raggiunto il sedicesimo anno
di età – dia il suo assenso al riconoscimento già compiuto e viziato.
Impugnato il riconoscimento per mancanza del consenso ed instaurato il giudizio per ottenere la pronuncia che tenga luogo del consenso mancante, quest’ultimo si pone in posizione di pregiudizialità
rispetto al primo (103).
(98) MAJELLO, op. cit., 146; VERCELLONE, op. cit., 124.
(99) Trib. Genova, 9 marzo 1979, Giur. it., 1982, I, 2, 236.
(100) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 182; MAJELLO, op. cit., 149.
(101) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 183.
(102) STELLA RICHTER-SGROI, op. loco cit.; VERCELLONE, op. cit., 125.
(103) A. FINOCCHIARO, op. cit., 1765.
144
16. – Impugnazione da parte del riconosciuto. – Colui che è stato
riconosciuto non può, durante la minore età del figlio o lo stato d’interdizione per infermità di mente, impugnare il riconoscimento. Tuttavia il giudice, con provvedimento in camera di consiglio, su istanza
del P.M. o del tutore o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio o del figlio stesso che abbia compiuto il sedicesimo
anno di età, può dare l’autorizzazione per impugnare il riconoscimento, nominando un curatore speciale (art. 264 c.c.).
Con l’impugnazione diretta ai sensi dell’art. 263 c.c. il genitore che
ha effettuato il riconoscimento fa valere un diritto proprio, mentre con
l’impugnazione di cui all’art. 264 c.c. fa valere un diritto del figlio. Al
di là comunque di questa distinzione è da segnalare la superfluità
della previsione.
È poi da segnalare la stranezza della disciplina per cui il minore
ultrasedicenne che ha il potere di dare l’assenso, non ha la capacità di
impugnare personalmente il riconoscimento (104).
L’art. 264 c.c. si applica non solamente per l’impugnazione per
difetto di veridicità (105), ma per ogni tipo di impugnazione del riconoscimento e ciò anche per il principio, costantemente affermato in
dottrina (106) e in giurisprudenza (107), secondo cui l’azione prevista
dall’art. 263 c.c. è proponibile per tutti i casi di riconoscimento operati contro un divieto di legge.
La sospensione della legittimazione ad agire per tutto il tempo in
cui dura lo stato d’incapacità coinvolge non solo il riconosciuto, ma
anche il suo rappresentante legale (108), in quanto quest’ultimo può
trovarsi in conflitto d’interessi con il riconosciuto, circa l’impugnativa
del riconoscimento (109).
La competenza ad autorizzare l’impugnazione spetta, stranamente, al Tribunale per i Minorenni, in presenza della competenza del Tribunale Ordinario a conoscere dell’impugnazione.
17. – Impugnazione per violenza e per interdizione. – Il riconoscimento può essere altresì impugnato per violenza, dall’autore del rico-
(104)
(105)
(106)
(107)
(108)
(109)
Rileva tale inconveniente anche CARRARO, op. cit., 155.
Come ritiene BAVIERA, op. cit., 672.
MAJELLO, op. cit., 135; FERRANDO, op. cit., 165,
Cass. 17 marzo 1970, n. 690, Giust. civ., 1970, I, 662.
STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 184; MAJELLO, op. cit., 154.
MAJELLO, op. cit., 154 s..
145
noscimento, entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata (art.
265, comma 1, c.c.) e, se l’autore del riconoscimento è minore, l’azione può essere promossa entro un anno dal conseguimento della maggiore età (art. 265, comma 2, c.c.).
Per chi segue la natura negoziale del riconoscimento l’istituto è
diretto a tutelare la libertà di volere dell’autore dell’atto (110), mentre
per chi nega tale natura il rimedio previsto tutela la discrezionalità
dell’atto o la sua volontarietà (111).
In funzione delle varie teorie si attribuisce diversa rilevanza all’errore e al dolo quali vizi dell’atto (112).
Si ritiene che la violenza debba avere lo stesso contenuto della violenza che vizia il consenso contrattuale (113), con la conseguenza
della sua rilevanza anche se proviene da un terzo.
Il termine per la proposizione dell’azione è di decadenza.
La sentenza che accoglie l’impugnazione non preclude un nuovo
riconoscimento, nè la possibilità da parte del figlio per instare per la
dichiarazione giudiziale (114).
Il riconoscimento può essere impugnato per l’incapacità che deriva da interdizione giudiziale (115) dal rappresentante dell’interdetto e,
dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento entro
un anno dalla data della revoca (art. 266 c.c.).
Tale impugnazione si giustifica, secondo i sostenitori della teoria
negoziale, con l’esigenza di garantire l’espressione di una consapevole
volontà da parte dell’autore dell’atto (116), mentre da parte di chi è
contrario a tale tesi – che comporta l’inammissibilità dell’impugnazione del riconoscimento per incapacità naturale (117) – si sostiene che
l’impugnativa realizza l’esigenza di garantire l’attendibilità dell’accer-
(110) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 185.
(111) MAJELLO, op. cit., 157.
(112) Vedine indicazioni in MAJELLO, op. loco cit.. Secondo COSTANZA, op. cit.,
6, l’esclusione dell’impugnazione per errore, dolo e incapacità naturale deriva dalla
funzione del riconoscimento e degli interessi che esso tutela e che non attengono tanto
alla sfera del genitore naturale, ma del figlio e dell’intera collettività.
(113) CHECCHINI, op. cit., 159. DELLA VALLE, op. cit., 197, esclude l’applicabilità della normativa in tema di timore reverenziale.
(114) CHECCHINI, op. cit., 160.
(115) È però valido e non impugnabile il riconoscimento compiuto dall’interdetto legale: STELLA RICHTER-SGROI, op. cit.165; A. FINOCCHIARO, op. cit., 1659;
VERCELLONE, op. cit., 96.
(116) Cfr., citazioni in CHECCHINI, op. cit., 161.
(117) Per una critica a questa esclusione CHECCHINI, op. cit., 161 ss..
146
tamento contenuto nell’atto di riconoscimento, che fa capo allo stesso
riconosciuto e ai terzi (118).
L’impugnazione per violenza o per interdizione, argomentando a
contrario dall’art. 263, comma 2, c.c., non è ammessa dopo la legittimazione e ciò non perchè la legittimazione costituisce una convalida
tacita del riconoscimento (119), ma in applicazione del principio generale dell’irrevocabilità del riconoscimento.
18. – Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale. – La
paternità e la maternità naturale possono essere giudizialmente
dichiarate – con produzione degli stessi effetti del riconoscimento volontario (120) – nei casi in cui il riconoscimento è ammesso (art. 269,
comma 1, c.c.). La radicale modifica dell’istituto, introdotta con la
riforma del diritto di famiglia, con l’esclusione di ogni limite alla dichiarazione giudiziale, ha fatto sorgere problemi di costituzionalità, in
riferimento all’art. 30 Cost., ormai definitivamente superati (121),
anche tenendo presente che la disposizione non reca alcun pregiudizio ai diritti dei membri della famiglia legittima.
La dichiarazione non è ammessa nell’ipotesi di filiazione incestuosa non riconoscibile o qualora si ponesse in contrasto con lo stato
di figlio legittimo o legittimato in cui la persona si trova, nonchè nell’ipotesi in cui lo stesso abbia già lo stato di naturale riconosciuto.
L’azione non può essere riproposta qualora sia stata rigettata, nel
merito, per insussistenza del rapporto di filiazione.
La competenza va determinata secondo i principi generali sul foro
del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c. (122).
Esiste contrasto in giurisprudenza se il giudizio si svolga o meno
secondo il rito camerale. A nostro parere il giudizio è contenzioso
(123) con la conseguenza che la decisione e soggetta ad impugnazio-
(118) MAJELLO, op. cit., 163.
(119) Così MAJELLO, op. cit., 170.
(120) Cass. 2 marzo 1994, n. 2065.
(121) Per una rassegna delle varie posizioni dottrinali si rinvia a A. FINOCCHIARO, op. cit., 1777 ss..
(122) Cass. 7 febbraio 1992 n. 1373, Giust. civ., 1992, I, 594; Giur. it., 1992, I, 1,
1702, con osservazioni di DEANGELI; Nuova giur. civ. commentata, 1993, I, 42, con
nota di GIUSSANI, La competenza per il giudizio di ammissibilità della domanda di
dichiarazione della paternità naturale *.
(123) Come è dimostrato anche dal fatto che l’intervento del P.M. è realizzato con
l’informazione dell’esistenza del procedimento: Cass. 20 dicembre 1994, n. 10951, Giur.
it., 1995, I, 1184. Secondo Cass. 7 febbraio 1996, n. 986 si è in presenza di un procedi-
147
ne nei termini previsti dall’art. 325 c.p.c. e con l’ulteriore conseguenza
che se l’impugnazione è stata proposta con ricorso depositato in cancelleria, la stessa va considerata tempestiva ove la notificazione dello
stesso e del decreto contenente la fissazione dell’udienza avvenga nei
detti termini perentori (124). Il contrasto è stato recentemente composto dalle S.U. che hanno affermato la soggezione del procedimento
al rito camerale, anzichè al rito contenzioso ordinario, con la precisazione che i termini per appellare sono di trenta giorni decorrenti dalla
notifica della sentenza e che l’impugnazione va proposta con ricorso
(anzichè con citazione), con la conseguenza che, se l’impugnazione è
proposta con citazione, l’atto introduttivo conserva valore, purchè l’atto sia depositato nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza (125).
19. – Le prove della paternità e della maternità. – La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo (art. 269,
comma 2, c.c.).
L’abrogazione delle ipotesi tassative previste nel testo originario –
che non costituivano praesumptiones iuris tantum della paternità
(126), ma solo il presupposto (unitamente al decreto di cui all’art. 274
c.c.) per l’utile esperimento dell’azione – non esclude che tali ipotesi
possano essere utilizzate dal giudice come indizi e possano essere
poste a fondamento di una pronuncia di accoglimento della domanda, allorchè siano idonee, per la loro attendibilità a sorreggere la decisione (127).
mento contenzioso che si svolge con il rito camerale, ma allo stesso non si le disposizioni proprie del processo di cognizione ordinaria e, segnatamente, quelle di cui agli art.
189 e 190 c.p.c..
(124) Cass. 25 luglio 1992, n. 8981. Contra: Cass. 6 agosto 1991, n. 8567, Giust. civ.
1991, I, 2909; Dir. fam. 1992, 189; Cass. 19 marzo 1997, n. 3416, Dir. fam. 1992, 619; Cass.
11 settembre 1993, n. 9477, Cass. 11 settembre 1993, n. 9477, Giust. civ. 1994, I, 90; Nuova giur. civ. commentata 1994, I, 780, con nota di DI NARDO, Rinunzia agli atti e rinunzia all’azione nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
(125) Cass. 19 giugno 1996, n. 5629, Famiglia e diritto, 1996, 305, con nota di
TOMMASEO, Rito camerale e giudizio di merito nel reclamo di stato di figlio naturale
davanti al Tribunale Minorile *.
(126) Così invece, STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 198; MAJELLO, op. cit., 178.
(127) In applicazione di tale principio: a) è stata data rilevanza al possesso di
stato di figlio naturale, che, seppure non contemplato dal vigente diritto di famiglia, è
pur sempre ipotizzabile, sul piano concettuale, come elemento di giudizio rilevante ai
fini della prova della relazione di filiazione fra la persona che reclama la paternità e
quella alla quale tale paternità viene attribuita e ciò soprattutto ove presenti anche il
148
La convivenza more uxorio non costituisce più una delle condizioni tassative per l’accertamento della paternità e da ciò deriva che i rapporti fra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento, anche
se non integrano tale convivenza, sono suscettibili di valutazione ad
integrazione di altri elementi probatori (128).
Alla libera valutazione delle prove è stato apposto un limite dall’ultimo comma dell’art. 269 c.c. (129), per il quale la sola esistenza dei
rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento
non costituiscono prova della paternità naturale, ciò però non esclude
che tali rapporti, ove siano integrati da altri elementi che si aggiungono a quelli già provati (130), o da circostanze che finiscono per dare
una maggiore consistenza ai fatti indicati nell’ultimo comma (131),
possono essere valutati dal giudice del merito come elementi di conferma del proprio convincimento circa la sussistenza della paternità
naturale (132). Nell’ambito e in attuazione del principio della libertà
della prova assumono una particolare importanza le prove ematologiche e genetiche e ciò soprattutto da quando la S.C., con una importante decisione (133), seguita da altre successive (134), ne ha riconotractatus e la fama (Cass. 30 marzo 1981, n. 1823; Cass. 1 giugno 1982, n. 3344, Dir.
fam., 1982, 834); b) è stata ammessa la possibilità di fondare il proprio convincimento
sulle risultanze della sentenza penale o civile dal momento che i dati evincibili da tale
sentenza sono utilizzabili quali elementi presuntivi, che il giudice adito può e deve rivalutare, col rispetto delle norme del contraddittorio, alla stregua delle altre prove offerte dalle parti (Cass. 9 agosto 1977, n. 3641, Foro it., 1977, I, 2453; Cass. 11 gennaio
1978, n. 86). In argomento Cass. 13 agosto 1993, n. 8679.
(128) Cass. 8 febbraio 1982, n. 721. La convivenza more uxorio di una persona
coniugata può stabilirsi anche se detta persona sia separata solo di fatto: Cass. 21 aprile 1983, n. 2736, Giur. it., 1983, I, 1, 1072.
(129) Cass. 22 novembre 1991, n. 12574; Cass. 13 agosto 1993, n. 8679.
(130) Quali: la dichiarazione scritta del presunto padre (Cass. 17 aprile 1982, n. 2342,
Dir. fam., 1982, 807); la mancanza di prova dell’exceptio plurium concumbentium nel
periodo del concepimento (Cass. 27 maggio 1982, n. 3245, Giust. civ., 1983, I, 1571); il possesso di stato di figlio naturale (Cass. 15 novembre 1977, n. 4980, Dir. fam., 1978, 423).
(131) Si pensi ai rapporti fra i genitori qualificati come convivenza more uxorio.
(132) Cass. 9 giugno 1995, n. 6550, Arch. civ., 1996, 207.
(133) Cass. 11 dicembre 1980, n. 6400, Giust. civ., 1981, I, 3, con nota di A.
FINOCCHIARO, Le prove ematologiche e genetiche quale mezzo per dimostrare la paternità *; Dir. fam., 1981, 434; Foro it., 1981, I, 22 e 719, con nota di COMPORTI e MARTINI, Il nuovo orientamento della Cassazione sulle prove del sangue; Riv. dir. civ., 1981,
II, 49, con nota di BENCIOLINI, La svolta della Cassazione nell’ammissione delle prove
biologiche per la ricerca della paternità. Rilievi medico legali; Giur. it., 1982, I, 1, 736, con
nota di DELITALA, Le indagini ematologiche nella ricerca della paternità *.
(134) Cass. 10 gennaio 1981, n. 218, Dir. fam., 1981, 465; Giust. civ., 1981, I, 1055 e
2059, con nota di A. e M. BELVEDERE; Foro it., 1981, I, 699; Cass. 21 aprile 1983, n. 2736.
149
sciuto l’importanza non solo per escludere ma anche per affermare la
paternità, ricomponendo quella frattura esistente fra affermazioni
giurisprudenziali e conquiste scientifiche. Le richiamate decisioni
consentono al giudice – anche se ritenga raggiunta la prova dell’exceptio plurium concumbentium, che per il passato giustificava la relezione della domanda, negandosi il valore positivo delle prove ematologiche e genetiche – è tenuto ad ammettere tali prove, ove richieste, dal
momento che la specificità delle stesse possono dimostrare, oltre ogni
ragionevole dubbio, che il figlio sia nato proprio dal presunto padre
(135) ed, analogamente, è da ritenere che la mancata prova dell’exceptio plurium concumbentium (136) non consenta di affermare la paternità del convenuto (137), ove quest’ultimo richieda – proprio al fine di
escluderla – l’ammissione delle anzidette prove.
Il particolare valore probatorio di questi mezzi dà al giudice la facoltà di trarre argomenti di prova dal rifiuto della parte di sottoporvisi (138), ma impone allo stesso l’obbligo di particolare motivazione
nell’accettare le conclusioni delle predette indagini, in considerazione
del loro elevato grado di probabilità, ma non di certezza assoluta.
Comunque anche per la prova ematologica valgono i principi generali con la conseguenza che il giudice non deve ammetterla ove ritenga la sussistenza di elementi sufficienti a fondare il suo convincimento (139). La maternità è dimostrata provando l’identità di colui
che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna la
quale si assume essere madre. Ai fini dell’accoglimento della domanda è sufficiente fornire comunque la prova della maternità (140),
anche sulla base di presunzioni, a prescindere dall’accertamento del
parto e dell’identità del richiedente e del partorito (141).
(135) Cass. 11 dicembre 1980, n. 6400, cit.. Ma in senso contrario, Cass. 21 aprile
1983, n. 7736; Cass. 22 settembre 1983, n. 5631.
(136) L’onere della prova della relativa eccezione incombe sul convenuto: Cass. 22
ottobre 1994, n. 8719, Arch. civ., 1995, 818.
(137) In questo senso, invece, Cass. 19 aprile 1982, n. 2408; Cass. 27 maggio 1982,
n. 3245, cit.; nonchè, in dottrina, MAJELLA, op. cit., 191.
(138) Cass. 11 dicembre 1980, n. 6400, cit.; Cass. 28 giugno 1994, n. 6217, Foro it.,
1996, I, 251, con osservazioni di PORCARI; Cass. 9 giugno 1995, n. 6550. Contra, Cass.
5 gennaio 1984, n. 20.
(139) Cass. 23 gennaio 1993, n. 791, Giur. it., 1993, I, 1, 1914, con osservazioni di
PIETRUCCI; Cass. 14 gennaio 1995, n. 432.
(140) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 233; MAJELLO, op. cit., 198.
(141) Cass. 11 novembre 1974, n. 3519; Cass. 26 febbraio 1983, n. 1465; MAJELLO, op. cit., 194; FERRANDO, in Trattato, cit., 177.
150
Raggiunta la prova della procreazione è irrilevante, al fine di negare la dichiarazione giudiziale, la circostanza che il genitore eccepisca
il suo disvolere e cioè il rifiuto di concepimento da parte del presunto
padre e tali conclusioni non sono in contrasto con l’art. 3 Cost. (142).
20. – Legittimazione e termine. – L’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità è imprescrittibile riguardo al figlio
(art. 270, comma 1, c.c.).
La legittimazione attiva spetta esclusivamente al figlio (143), come risulta dal fatto che solamente dopo la sua morte, sorge il diritto
dei suoi discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti a promuovere l’azione non promossa dal figlio entro due anni dalla morte
(art. 270, comma 2, c.c.) o a proseguire l’azione già promossa da quest’ultimo.
Il diritto di promuovere l’azione si trasmette ai discendenti iure
proprio e non iure hereditatis e ciò per il fatto che l’interesse all’accertamento del rapporto di filiazione è un interesse di natura strettamente personale e quindi tale da riguardare soltanto quelle persone che, in
virtù dell’accertamento del rapporto di filiazione, possono vantare diritti nei confronti dei genitori naturali.
Il discendente naturale acquista la legittimazione solamente nell’ipotesi che il suo stato sia riconosciuto (o dichiarato).
In mancanza di tale riconoscimento (o dichiarazione) il discendente può – ai fini del rispetto del termine – proporre la relativa domanda chiedendo contestualmente l’accertamento – con efficacia di
giudicato – del proprio stato di figlio naturale con la conseguenza che
se il giudice adito è competente per entrambe le domande si avranno
due pronunce di accertamento di stato, la seconda delle quali presuppone necessariamente l’accoglimento della prima.
Se il giudice adito è incompetente a conoscere della domanda pregiudiziale lo stesso dovrà rimettere quest’ultima causa al giudice competente, assegnando un termine per la sua riassunzione, e sospendere
la causa per la quale è competente, in attesa della decisione sulla causa
pregiudiziale. L’accoglimento di quest’ultima domanda permetterà al
giudice di procedere all’ulteriore istruzione della causa c.d. pregiudi-
(142) Cass. 18 novembre 1992, n. 12350, Nuova giur. civ. commentata, 1993, I, 933,
con nota di MAGGIOLO, Dichiarazione giudiziale di paternità naturale e “elemento di
responsabilità” *.
(143) Cass. 21 dicembre 1967, n. 2993; Cass. 2 marzo 1993, n. 2756, Dir. fam., 997.
151
cata, mentre la sua relezione comporterà anche il rigetto di tale causa
per difetto di azione.
La domanda per la dichiarazione giudiziale va proposta, ai sensi
dell’art. 276 c.c., nei confronti del presunto genitore o, in mancanza
di lui, nei confronti dei suoi eredi, i quali sono litisconsorti necessari, nel relativo giudizio, in quanto portatori di un interesse immediato e diretto a non vedere pregiudicate le rispettive posizioni successorie (144).
Qualora, poi, l’attore sia esso stesso erede universale del genitore
deceduto, non può convenirsi con chi ha ritenuto improponibile l’azione per mancanza di un persona passivamente legittimata nel giudizio (145), è necessario o convenire in giudizio i parenti prossimi del
defunto o, in loro mancanza, far luogo alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. (146).
Il termine per la proposizione della domanda da parte dei
discendenti è di decadenza (147) e, pertanto, allo stesso non si applicano le causa di sospensione o di interruzione previste per la prescrizione (148).
Non è infondato un dubbio di costituzionalità, in riferimento all’art. 24, comma 2, Cost. per il fatto che il termine decorre sempre e
comunque dalla morte del figlio, anche nell’ipotesi in cui, a tale momento, gli stessi non siano a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile l’azione.
Ai fini dell’osservanza del termine è sufficiente la proposizione
prima della sua scadenza del giudizio di ammissibilità di cui all’art.
274 c.c., per la sostanziale unità del procedimento nelle due fasi in cui
si articola (149).
In caso di morte del figlio dopo la proposizione del giudizio, lo
stesso può essere proseguito dai suoi discendenti secondo le regole del
processo interrotto.
La mancata prosecuzione non esclude il diritto dei discendenti di
proporre autonomo giudizio, sempre che non ne siano decaduti.
(144) Cass. 3 aprile 1996, n. 3111.
(145) MAJELLO, op. cit., 217.
(146) Cass. 7 giugno 1954, n. 1863, Giust. civ., 1954, 1325.
(147) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 227; MAJELLO, op. cit., 197.
(148) STELLA RICHTER-SGROI, op. loco cit..
(149) Cass. 20 novembre 1973, n. 3127, Foro it., 1974, I, 701; Giur. it., 1974, I,
1033. Per gli argomenti che sorreggono questa soluzione A. FINOCCHIARO, in A. e M.
FINOCCHIARO, op. cit., 1803 s..
152
21. – Azione nell’interesse del minore e dell’interdetto. – L’azione per
ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità
può essere promossa, nell’interesse del minore, dal genitore che esercita la potestà di cui all’art. 316 c.c. o dal tutore, il quale però deve
chiedere l’autorizzazione al giudice, il quale può anche nominare un
curatore speciale (art. 273, comma 1, c.c.).
Il genitore può promuovere l’azione senza bisogno di alcuna autorizzazione, senza nomina di un curatore speciale (150) e senza necessità di fare alcuna dichiarazione circa il fatto di agire nell’interesse del
minore, bastando che dal contesto dell’atto risulti la volontà di agire
nell’interesse del minore stesso (151).
Se il minore è soggetto a tutela è necessaria l’autorizzazione del
giudice – da individuare nei Tribunale Ordinario per l’azione nell’interesse dell’interdetto e nel Tribunale per i Minorenni per l’azione nei
confronti del minore (art. 68 l. n. 184 del 1983 e 38 disp. att. c.c.) (152)
e non anche nel giudice tutelare (153) – il quale deve valutare la convenienza dell’azione ove si tenga presente che il tutore, non legato al
minore da alcun vincolo di parentela; potrebbe essere sensibile più
alla convenienza patrimoniale che non alla convenienza morale dell’azione (154).
L’autorizzazione del tribunale non esclude la necessità del giudizio di delibazione di cui all’art. 274 c.c. (155).
La coincidenza nello stesso giudice della competenza tanto ad
emettere l’autorizzazione quanto a delibare l’ammissibilità della domanda comporta la possibilità di un unico ricorso con la duplice richiesta. La procedura, così come la decisione è adottata come le stesse forme (decreto reclamabile alla Corte d’Appello), ma mentre il giudizio di ammissibilità è ricorribile per cassazione, per l’autorizzazione
tale ulteriore impugnazione è esclusa.
Se il minore ha compiuto i sedici anni è necessario anche il suo
consenso – tanto per promuovere, quanto per proseguire l’azione
(art. 273, comma 2, c.c.) – e quindi anche per il giudizio di ammissi-
(150) Cass. 19 marzo 1992, n. 3416, Dir. fam., 1992, 619.
(151) MAJELLO, op. cit., 202; Cass. 13 novembre 1979, n. 5880, Giust. civ., 1980,
I, 1366; Dir. fam., 1980, 476; Foro it., 1980, I, 1031; Cass. 3 marzo 1983 n. 1571.
(152) MAJELLO, op. cit., 204; A. FINOCCHIARO, op. ult. cit., 1808.
(153) Secondo la tesi di MOROZZO DELLA ROCCA, Dichiarazione giudiziale di
paternità o di maternità, divagazioni sull’art. 273 cod. civ., Dir. fam., 1982, 250.
(154) MAJELLO, op. cit., 203.
(155) STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 235.
153
bilità (156) ad eccezione dell’ipotesi in cui il minore, raggiunti i sedici anni, sia incapace di intendere e di volere (157).
Fino al compimento del sedicesimo anno di età del minore, il genitore esercente la potestà o il tutore sono legittimati, nell’interesse del
rappresentato, a proporre l’azione, senza alcun intervento dell’interessato. Dopo il raggiungimento di tale età, gli stessi, pur rimanendo gli
unici legittimati all’azione non hanno però una legittimazione piena,
in quanto l’esercizio del loro diritto di azione è subordinato al consenso del minore, con la conseguenza che la sua mancanza fa venire
meno retroattivamente la legittimazione piena in precedenza esistente e con l’ulteriore conseguenza che nessuna rilevanza può attribuirsi
alla mancanza di dissenso in ordine all’azione.
Il consenso del minore ultrasedicenne si pone come condizione
dell’azione, attinente alla legittimazione del rappresentante legale che
può sorgere in corso di causa (ove l’azione sia stata proposta nell’interesse di un minore infrasedicenne) e la cui sussistenza va accertata al
momento della decisione (158). L’accertamento della sua presenza costituisce una questione preliminare di rito ed influisce sulla decisione
di primo grado, anche se la stessa sia stata adottata quando di tale
consenso non c’era bisogno per essere il figlio ancora infrasedicenne.
La mancanza di consenso – da accertarsi d’ufficio dal giudice, attesa
la natura pubblicistica degli interessi in contesa – determina una pronuncia di rigetto della domanda per carenza di azione da parte dei
soggetti che l’hanno inizialmente proposta, senza alcun pregiudizio di
ordine sostanziale per il figlio che potrà successivamente riproporla e
con piena tutela dell’originario convenuto (159).
La madre di un nascituro non può essere autorizzata ad agire per
la dichiarazione giudiziale di paternità contro l’asserito padre (160),
sia per il carattere eccezionale dell’art. 254 c.c., sia perchè la rappresentanza del genitore ex art. 320 c.c. nei confronti dei nascituri presuppone la titolarità da parte di quest’ultimo degli atti civili da porre
(156) Cass. 16 aprile 1991, n. 4034.
(157) MAJELLO, op. cit., 205.
(158) Cass. 2 marzo 1993, n. 2576, Dir. fam., 1993, 997; Foro it., 1996, I, 254, con
osservazioni di PORCARI; Cass. 6 maggio 1995, n. 4982.
(159) A. FINOCCHIARO, op. ult. cit., 1810 ss.. In senso contrario MAJELLO, op.
cit., 204 s. e solo parzialmente contrario, MOROZZO DELLA ROCCA, op. cit., 253 ss..
(160) In questo senso invece Trib. Brindisi, 1 febbraio 1982, Giur. it., 1983, I, 2,
350, con nota adesiva di MEZZANOTTE, Diritti del nascituro e dichiarazione giudiziale
di paternità.
154
in essere, mentre la dizione dell’art. 273 c.c. esclude la titolarità, in
capo al nascituro del diritto ad ottenere la dichiarazione giudiziale di
paternità, sia perchè la mancanza del figlio rende impossibile non solo
fornire una prova tranquillante da parte della madre, ma priva il padre
della possibilità di dedurre quelle prove volte ad escludere l’asserita
paternità. Il raggiungimento della maggiore età in corso di giudizio
non fa venire meno la competenza del Giudice Minorile, in applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis (161).
22. – L’ammissibilità dell’azione. – L’azione per la dichiarazione
giudiziale di paternità o di maternità naturale è ammessa solo quando
concorrono specifiche circostanze tali da farla apparire giustificata
(art. 274 c.c.) (162). Il legislatore della riforma si è limitato a sostituire le parole specifiche circostanze alla parola indizi contenuta nel testo
originario, ma la modifica è stata ritenuta dalla dottrina di carattere
non sostanziale (163) e la giurisprudenza di legittimità, malgrado la
contrapposizione delle specifiche circostanze agli indizi, è costante nell’affermare che l’ammissibilità dell’azione deve essere negata soltanto
qualora, in mancanza di qualunque serio concreto elemento che possa
essere posto in correlazione con l’asserito concepimento del figlio
naturale, essa si mostri, prima facie, palesemente infondata, avventata
o temeraria, con la conseguenza che l’azione deve essere ammessa
qualora sussista un minimo di elementi di fatto che, pur potendo non
essere decisivi o risolutivi per il vero e proprio accertamento della
paternità o maternità, siano suscettibili di sviluppo, di approfondimento e di integrazione nel successivo giudizio, in modo da rendere
attendibile l’assunto del richiedente e da giustificare il ricorso all’azione giudiziaria, per accertare, in pienezza di cognizione e di contraddittorio, l’effettiva sussistenza dell’asserito rapporto parentale (164).
(161) Cass. 26 novembre 1991, n. 12667; Cass. 22 luglio 1994, n. 6826; Cass. 8
novembre 1994, n. 9277.
(162) Cass. 14 febbraio 1991 n. 1557, Giust. civ., 1991, I, 1160; Cass. 10 agosto
1992, n. 9442, Dir. fam., 1993, 99.
(163) BIANCA, op. cit., 257 e nota 158; FERRANDO, in Trattato, cit., 183; DELLA
VALLE, op. cit., 121. Secondo MAJELLO, op. cit., 206 la circostanza sembra alludere ad
un accadimento, senza alcun riferimento alla sua veridicità, mente l’indizio sembra
riferirsi a circostanze di cui si sia potuto verificare sommariamente l’attendibilità.
(164) Cass. 5 marzo 1982, n. 1379, Dir. fam., 1982, 797; Giust. civ., 1983, I, 2465;
Cass. 14 aprile 1983, n. 2600; Cass. 2 giugno 1983, n. 3777; Cass 24 maggio 1995, n.
5663. Critica, invece, queste conclusioni Cass. 3 marzo 1983, n. 1571.
155
Il giudizio di delibazione, comunque, qualunque sia il valore da
attribuire alle specifiche circostanze, appare un residuo storico, incoerente con la concezione, ormai accolta dall’ordinamento, del diritto
all’accertamento della filiazione naturale (165), del quale sarebbe opportuna l’abrogazione, dal momento che – come è stato esattamente
rilevato (166) – la segretezza delle indagini, per la tutela del convenuto, più non sussiste una volta che si ammetta, come deve ammettersi,
il ricorso per cassazione, avverso il decreto emesso, in sede di reclamo,
dalla Corte d’Appello, con la conseguente discussione del ricorso in
pubblica udienza. La particolare ampiezza delle deduzioni istruttorie
possibili a seguito dell’ampliamento della prova della paternità e della
maternità naturale finisce poi per dilatare tale giudizio, mentre la possibilità per il ricorrente di riproporre, sulla base di nuove prove, il giudizio di ammissibilità, pone il convenuto in condizione di essere soggetto, senza alcun limite, a nuove azioni di disturbo.
Su questa base e prendendo spunto dai principi enunciati dallo
stesso giudice delle leggi (167), sui limiti di costituzionalità di un giudizio di ammissibilità, la S.C. ha ritenuto di potere giungere in via giurisdizionale alla modifica dell’ordinamento ritenendo la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.
274 c.c., in riferimento agli artt. 2 e 30 Cost., nella parte in cui, prevedendo la sottoposizione della domanda diretta alla dichiarazione giudiziale di paternità al previo giudizio di ammissibiltà, limita il diritto
costituzionalmente garantito di colui che vuole ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, senza che tale limite sia giustificato dalla tutela dei fondamentali diritti della persona dai
pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria e lede
– per il modo con il quale la norma opera nel nostro ordinamento – i
diritti inviolabili della persona (168).
(165) BIANCA, op. cit., 258.
(166) MOROZZO DELLA ROCCA, Per l’abrogazione dell’art. 274 cod. civ., (Dedicato ad un parlamentare di buona volontà) Dir. fam., 1981, 949 ss. *.
(167) Corte Cost. 12 luglio 1965, n. 70, Giust. civ., 1965, III, 212; Giur. it., 1965, I,
1, 1265; Foro it., 1965, I, 1369; Riv. dir. matr., 1965, 536, con nota di BORGHESE, Questioni costituzionali in materia di difesa e di contraddittorio; Giur. cost., 1965, 863, con
nota di CHIARLONI, Diritto di azione e diritto di difesa nel procedimento preliminare per
la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale; e ivi, 881, con nota di
NOCILLA, Sentenza interpretativa di accoglimento o sentenza di accoglimento parziale
dell art. 274 c.c..
(168) Cass. 2 ottobre 1987, n. 623 (ord.), Giur. cost., 1887, II, 1215 *.
156
Ma la Corte Costituzionale, equivocando sulle intenzioni della
Corte di Cassazione, che aveva chiesto la totale incostituzionalità della
disciplina, ha dichiarato inammissibile la relativa questione, assumendo che l’ordinanza investiva la scelta operata dal legislatore e che non
era consentito un intervento di essa Corte fra le tante astrattamente
possibili (169).
La mancanza di un parlamentare di buona volontà e il diniego di
un intervento della Corte Costituzionale, ha spinto la Corte di Cassazione, con successive pronunce, a negare l’incostituzionalità dell’art.
274 c.c. sotto diversi profili (170).
La possibilità di dare la prova della paternità o della maternità con
ogni mezzo riverbera i suoi effetti anche nella fase preliminare di ammissibilità e, pertanto, anche in tale fase, al fine della dimostrazione
delle specifiche circostanze, la parte è libera di dedurre ogni elemento
utile per il giudizio è, quindi, anche la prova ematologica, la quale
dovrà essere esperita ove sulla stessa si possa fondare il giudizio di
ammissibilità (171).
Ai fini dell’accertamento del fumus boni iuris lo stesso può essere
ricavato dal fatto che i rapporti carnali fra la madre e il preteso padre
all’epoca del concepimento sia accertato da un precedente giudicato
penale, semprechè tale fatto concorra con altri elementi di convincimento, ravvisabili, ad esempio, nella induzione della madre a pratiche
abortive da parte del preteso padre (172) oppure se tale rapporto sia
durato per lungo tempo, senza che risultino, neppure indirettamente
o indiziariamente, relazioni della donna con altri uomini (173), nonché dalla sola dichiarazione della madre e dalla sola esistenza di rapporti tra l’uomo e la donna, anche nel periodo corrispondente a quello del concepimento, dal momento che l’impossibilità di fondare su
tali circostanze il giudizio di merito non esclude la loro rilevanza ai
(169) Corte Cost. 30 dicembre 1987, n. 671, Giust. civ., 1988, I, 311 *; Dir. fam.,
1988, 655.
(170) Cass. 27 febbraio 1989, n. 1052; Cass. 12 marzo 1990, n. 2009; Cass. 27
luglio 1996, n. 6821.
(171) Cass. 9 febbraio 1981, n. 793, Foro it., 1981, I, 1296, con osservazioni di
SALMÈ. Per l’inammissibilità della prova ematologica nella fase dell’ammissibilità
TRABUCCHI, Presupposti e prove biologiche del rapporto di filiazione, Riv. dir. civ., 1978,
II, 408; MAJELLO, op. cit., 191. Per una critica a questi AA., A. FINOCCHIARO, op. cit.,
1830, nota 41.
(172) Cass. 12 dicembre 1981, n. 6568; Cass. 12 luglio 1983, n. 4734; Cass. 23 aprile 1983, n. 2805.
(173) App. Genova, 7 luglio 1976, Dir. fam., 1976, 1698; Giur. merito, 1977, 791.
157
fini del giudizio di ammissibilità (174). La sostanziale inutilità del giudizio di ammissibilità ha indotto la S.C. ad emettere decisioni per le
quali sono ritenute sufficienti a superare il vaglio di ammissibilità: le
dichiarazioni rese dalle parti, ove da esse si possono enucleare presunzioni idonee e sufficienti a fare apparire probabile l’esito del giudizio (175); le informazioni assunte in sede di inchiesta verbale (176),
con la conseguenza che l’ammissibilità va negata soltanto quando, in
mancanza di qualunque serio e concreto elemento che possa porsi in
relazione con l’assunto concepimento del figlio naturale, essa non presenti alcuna apprezzabile possibilità di esito positivo (177).
La previsione del potere del giudice di assumere le informazioni
del caso (art. 274, comma 2, c.c.), da un lato, non importa l’obbligo del
giudice di procedere personalmente all’audizione dei soggetti da cui
provengono le dichiarazioni dei fatti relativi alle circostanze specifiche da considerare nei singoli casi, ma esige soltanto che il giudice
debba acquisire, attraverso gli strumenti di indagine più idonei, nell’esercizio del suo potere discrezionale, le informazioni correlate alle
diverse fattispecie concrete al fine di fondare il giudizio di ammissibilità (178) e, dall’altro, consente al giudice di superare i limiti della corrispondenza della decisione alle allegazioni delle parti, senza, peraltro,
obbligarlo, alla relativa assunzione (179).
L’obbligo, poi, del tribunale di sentire il P.M. e le parti è rispettato
quando l’ufficio ne abbia regolarmente disposto la comparizione ancorchè queste ultime ritengano di non comparire o quando sia stato
addotta una giustificazione dell’assenza, che il tribunale ritiene attendibile (180).
(174) Cass. 4 febbraio 1993, n. 1413; Cass. 3 marzo 1983, n. 1571; Cass. 10 marzo
1994, n. 2346, Foro it., 1995, I, 2976, con nota di CIVININI, Sulla natura sostanziale o
processuale della norma che impone la valutazione dell’interesse del minore all’esercizio
dell’azione per la ricerca della sua paternità o maternità naturale *; Cass. 3 aprile 1995,
n. 3898.
(175) Cass. 24 aprile 1992, n. 4960, cit., infra.
(176) Cass. 25 luglio 1992, n. 8989, Dir. fam., 1993, 89.
(177) Cass. 17 febbraio 1996, n. 1235.
(178) Cass. 14 marzo 1981, n. 1430; Cass. 2 marzo 1993, n. 2579, cit..
(179) Cass. 10 novembre 1981, n. 5950; Cass. 22 aprile 1982, n. 2485, Dir. fam.,
1982, 808; Cass. 3 marzo 1983, n. 1571.
(180) Cass. 2 luglio 1981, n. 4283. Per quanto riguarda l’intervento del P.M. l’audizione dello stesso si realizza – in considerazione della natura contenziosa del procedimento – con la comunicazione degli atti all’ufficio di quest’ultimo: Cass. 17 novembre 1983, n. 6859.
158
A seguito di un intervento manipolatore della Corte Costituzionale – che ha dichiarato incostituzionale l’art. 274, comma 1, c.c., nella
parte in cui, se si tratta di un minore infrasedicenne, non prevede che
l’azione promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo
quando sia ritenuta rispondente all’interesse del figlio (181) – è stato
ritenuto che l’azione è ammissibile, in presenza di minore infrasedicenne, qualora sia ritenuta dal giudice corrispondente all’interesse del
minore, aggiungendosi che tale valutazione deve essere compiuta dall’angolo visuale del minore in riferimento ad entrambe le figure genitoriali, per cui ne risulta ampliata la sfera affettiva del minore stesso,
con la conseguenza che l’esistenza del detto interesse può essere esclusa o nelle ipotesi in cui si riscontrino, nel genitore del quale si intenda
far dichiarare la paternità, gli estremi di una condotta pregiudizievole, tale che darebbe luogo, in via ordinaria, alla decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero in presenza di fondati rischi sugli equilibri
affettivi, l’educazione e la collocazione del minore (182).
L’accertamento dell’interesse del minore va effettuato nel giudizio
di ammissibilità, senza alcuna possibilità di compierlo, nel giudizio di
merito, anche nell’ipotesi in cui la pronuncia di incostituzionalità sia
intervenuta successivamente la decisione del primo giudizio (183).
Il principio secondo cui l’inchiesta ha luogo senza alcuna pubblicità e deve essere mantenuta segreta, vale nei confronti dei terzi, ma
non anche nei confronti delle parti alle quali è assicurata la conoscenza e l’esame di tutti i fatti e circostanze accertati nel corso dell’istruttoria segreta anche per mezzo di accertamenti d’ufficio e peritali (184).
(181) Corte Cost. 20 luglio 1990, n. 341, Vita not., 1990, 436, con nota di A. FINOCCHIARO, Sulla pretesa necessità della valutazione giudiziale dell’interesse del minore nella fase preliminare dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità
naturale *; Giust. civ., 1990, I, 2487, con nota di B. SASSANI, L’opportunità dell’accertamento del rapporto di filiazione (l’interesse del minore infradiciottenne vince la sua battaglia di fronte alla Consulta) *; Giur. it., 1991, I, 1, 625, con nota di TRIA, Il procedimento per la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale alla luce della
sentenza costituzionale n. 341 del 1990 *; Dir. fam., 1990, 1084, con nota di AMBROSINI, Dichiarazione giudiziale di paternità e interesse del minore *; Foro it., 1992, I, 25.
(182) Cass. 25 maggio 1993, n. 5865; Cass. 28 giugno 1994, n. 6216, Dir. fam.,
1994, 1239; Cass. 24 maggio 1995, n. 5663; Cass. 11 dicembre 1995, n. 12642; Cass. 23
febbraio 1996, n. 1444; Cass. 24 settembre 1996, n. 8413.
(183) Cass. 25 febbraio 1993, n. 2364, Dir. fam., 1993, 993; Cass. 24 agosto 1994,
n. 7483; Cass. 19 giugno 1993, n. 6931.
(184) Cass. 26 luglio 1978, n. 3752; Cass. 26 marzo 1994, n. 2978; Cass. 17 ottobre
1995, n. 10833.
159
Al termine dell’inchiesta gli atti e i documenti della stessa sono depositati in cancelleria ed il cancelliere deve dare avviso alle parti, le
quali, nel termine di quindici giorni da detto avviso, hanno facoltà di
esaminarli e di depositare memorie illustrative (art. 274, comma 3,
c.c.). Qualora però le parti, prima del decorso di detto termine, abbiano presentato tali memorie, sulla base dell’esame degli atti, legittimamente il tribunale pronuncia il decreto sull’ammissibilità dell’azione
senza attendere l’intero decorso del termine (185). L’omesso deposito
degli atti e dei documenti non determina alcuna nullità della procedura, ove risulti con certezza che tali atti e documenti siano stati conosciuti dagli interessati (186) e, comunque, a tale deposito può provvedere anche la Corte d’Appello, in sede di reclamo, senza necessità di
disporre la rimessione al giudice di primo grado (187).
Dal carattere contenzioso del procedimento e dalla conseguente
esigenza del rispetto del contraddittorio non deriva l’applicabilità delle
norme dettate dal procedimento ordinario (188), nè, in particolare, dei
termini di comparizione, dal momento che l’art. 274 c.c. prevede il rito
della camera di consiglio (189). Anche nel giudizio di ammissibilità, la
raccolta degli elementi probatori, da sottoporre alla piena valutazione
del collegio, può essere delegata ad un giudice (190).
Il decreto con il quale si provvede sull’ammissibllità dell’azione
deve essere motivato – come parimenti motivato deve essere il decreto emesso dalla Corte d’Appello in sede di reclamo (191), da proporre
nel termine perentorio di dieci giorni dalla notifica (192) e non nel ter-
(185) Cass. 20 giugno 1978, n. 3027.
(186) Cass. 10 novembre, 1981 n. 5950.
(187) Cass. 5 luglio 1980, n. 4285; Cass. 30 marzo 1994, n. 3143.
(188) Cass. 2 marzo 1993, n. 2579, cit., (il contraddittorio è rispettato ove si assicuri alle parti la possibilità di partecipare al processo e di fare valere le proprie ragioni,
sia in sede di udienza camerale che al termine dell’inchiesta, mentre è escluso il diritto
di replica alle deduzioni avversarie); Cass. 12 ottobre 1993, n. 10068, Dir. fam., 1993, 865
(il contraddittorio deve ritenersi salvaguardato per il solo fatto che il ricorso introduttivo sia portato a conoscenza della controparte, il che può avvenire non solo attraverso
un’espressa notifica (di ricorso e decreto di comparizione) disposta dal giudice adito,
ma anche un mezzo equipollente che alla detta parte parimenti consenta la completa
conoscenza dell’atto introduttivo e l’organizzazione di una tempestiva difesa tecnica).
(189) Cass. 23 aprile 1975, n. 1588.
(190) Cass. 20 giugno 1978, n. 3027; Cass. 16 maggio 1994, n. 4784, Dir. fam.,
1994, 1239; Cass. 19 giugno 1996, n. 5629. cit..
(191) Cass. 17 dicembre 1980, n. 6521.
(192) Sulla decorrenza del termine breve dalla notificazione e non dalla comunicazione del decreto, Cass. 12 gennaio 1993, n. 267, Giur. it., 1993, I, 1442; Cass. 28 gen-
160
mine di trenta giorni previsto per le sentenze (193), senza alcuna possibilità di ricorrere direttamente per Cassazione (194) – e tale motivazione è sufficiente qualora il giudice giustifichi la decisione anche in
relazione alle difese svolte dalle parti, tenendo cioè conto, sia pure unitariamente e complessivamente, delle circostanze e degli elementi decisivi addotti dalle parti stesse (195).
Innanzi alla Corte d’Appello – come del resto anche innanzi al tribunale (196) – non è necessaria la previa audizione delle parti ove non
ritenuta necessaria (197) e qualora nel giudizio di primo grado vi sia
stata violazione del principio del contraddittorio la causa dovrebbe
essere rimessa al primo giudice (198).
Avverso il decreto della Corte d’Appello è ammissibile il ricorso
per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., per violazione di legge (199)
– da proporre nel termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione (200) – con la conseguenza che la motivazione può essere censurata nella sola ipotesi in cui si assuma la sua mancanza o la mera
apparenza e non già per farne valere lacune o inadeguatezza (201).
La decisorietà e la definitività del decreto ritualmente emesso non
esclude comunque che si tratti pur sempre di una pronuncia emessa
allo stato degli atti, con la conseguenza che il giudicato formatosi sulla
pronuncia di inammissibilità non impedisce la riproposizione di una
nuova istanza sulla base della deduzione di circostanze ed elementi
probatori nuovi (202).
naio 1994 n. 869. Opera invece il termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c., qualora il decreto non sia stato notificato: Cass. 13 dicembre 1982, n. 6821, Giust. civ., 1983, I, 798;
Cass. 17 novembre 1983, n. 6859.
(193) Cass. 16 giugno 1983, n. 4130.
(194) Cass. 6 marzo 1987, n. 2371; Cass. 24 maggio 1995, n. 5649.
(195) Cass. 24 gennaio 1981, n. 545, Giust. cit., 1981, I, 1400; Dir. fam., 1981, 689.
(196) Cass. 4 febbraio 1993, n. 1401.
(197) Cass. 7 febbraio 1992, n. 1370.
(198) In senso contrario Cass. 24 aprile 1992, n. 4960, Foro it., 1993, I, 3351, con
osservazioni di TRISORIO LIUZZI.
(199) Cass. 19 dicembre 1985, n. 6491, Dir. fam., 1986, 477; Cass. 29 marzo 1989,
n. 1503; Cass. 28 novembre 1992, n. 12723.
(200) Cass. 17 ottobre 1995, n. 10833.
(201) Cass. 10 agosto 1992, n. 9442, cit.; Cass. 12 ottobre 1993, n. 10068, Dir. fam.,
1994, 865; Cass. 28 giugno 1994, n. 6207, Foro it., 1995, I, 1263; Cass. 27 febbraio 1996,
n. 1517.
(202) Cass. 16 febbraio 1981, n. 933; STELLA RICHTER-SGROI, op. cit., 244;
MAJELLO, op. cit., 214. Cfr., altresì, Cass. 19 gennaio 1993, n. 600, che ha ritenuto non
operante il giudicato formatosi sul giudizio di ammissibilità sulla base delle ipotesi tassative previste da testo originario dell’art. 269 c.c..
161
23. – Rapporti fra giudizio di ammissibilità e giudizio di merito. –
L’espletamento della fase di ammissibilità, fino al suo definitivo esaurimento non integra una condizione dell’azione (203), ossia una condizione che rende possibile l’esercizio del potere decisorio del giudice
e che, come tale, può utilmente sopravvenire anche soltanto prima
della decisione nel successivo giudizio di merito, ma costituisce un
presupposto processuale, assimilabile agli altri requisiti necessari che
attengono alla costituzione e allo svolgimento del rapporto processuale, perchè il decreto che conclude la fase preliminare, che deve interamente precedere il giudizio di merito, attribuisce alla parte istante un
potere di natura processuale, con la conseguenza che la parte suddetta, prima della pronuncia definitiva del decreto di ammissibilità, è
priva del potere giuridico di chiedere l’accertamento giudiziale della
filiazione naturale e che la domanda, nonostante ciò proposta, deve
essere dichiarata improponibile dal giudice della fase di merito (204).
Per quanto riguarda i rapporti fra giudizio di ammissibilità e giudizio di merito la più recente giurisprudenza di legittimità è nel senso
della sostanziale autonomia fra i due giudizi, da ciò traendo varie conseguenze e, precisamente:
– che l’affermazione della competenza (o della giurisdizione) del
giudice dell’ammissibilità ove non impugnata nel corso del relativo
giudizio, non può essere più messa in discussione nel successivo giudizio di merito, il quale può (e deve) svolgersi innanzi al giudice avente competenza (e giurisdizione) sulla base della situazione esistente al
momento della proposizione della relativa domanda (205), non
potendo ritenersi vincolante per il giudice della fase contenziosa
(203) Cass. 22 novembre 1980, n. 6217, Giust. civ., 1981, I, 2703, con nota di SCALISI, Ammissibilità dell’azione ex art. 274 c.c. e giudizio di merito; Cass. 9 ottobre 1987,
n. 7518; MAJELLO, op. cit., 208 ss.; CHIARLONI, Diritto di azione e diritto di difesa nel
procedimento preliminare per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternita naturala, Giur. cost., 1965, 875.
(204) A. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 1822 ss., nonchè le
S.U. che hanno composto il contrasto esistente nell’ambito delle sezioni semplici: Cass.
23 febbraio 1990, n. 1398, Giust. civ., 1991, I, 719, con nota di MANERA, Il giudizio di
ammissibilità come presupposto processuale all’azione di dichiarazione giudiziale di
paternità o maternità naturale *. In questo senso, per il passato, Cass. 10 luglio 1978, n.
3441, Foro it., 1979, I, 409; Dir. fam., 1978, 1210; Cass. 3 marzo 1983, n. 1571, Foro it.,
1983, I, 2825; nonchè, più di recente, Cass. 27 luglio 1996, n. 6821.
(205) Cass. 17 aprile 1991, n. 4094; Cass. 17 giugno 1993, n. 6758; Cass. 6 agosto
1994, n. 7309; Cass. 24 agosto, 1994 n. 7487.
162
piena la competenza (o la giurisdizione) affermata dal giudice della
delibazione, tenuto conto della incontestabile diversità del rispettivo
oggetto (206);
– che le eventuali nullità del procedimento camerale e del decreto
del tribunale che ammette l’azione medesima, quale quella derivante
dalla mancata partecipazione di un litisconsorte necessario, possono
essere fatte valere in sede di impugnazione del decreto stesso, non
anche nel procedimento di merito, che si instaura sul presupposto non
più controvertibile di detta ammissibilità (207);
– che l’estinzione del giudizio di merito non travolge il provvedimento sull’ammissibilità dell’azione (208).
Dall’autonomia dei due giudizi e dal loro diverso oggetto discende
che qualora la fase preliminare si concluda con l’affermazione della
proponibilità dell’azione di merito, tale pronuncia non costituisce giudicato opponibile nella successiva azione e non impedisce che sulla
stessa si pronunci il collegio che della stessa deve conoscere.
Infatti:
– si è in presenza di un provvedimento inesistente come sentenza,
perchè sottoscritto dal solo presidente e non anche dall’estensore;
– la decisorietà e la definitività del decreto sussiste in quanto decide sull’ammissibilità di una successiva domanda, ma non anche quando, travalicando i limiti istituzionali del potere conferito dalla norma,
decida su questioni che non siano in rapporto di pregiudizialità necessaria con la pronuncia di ammissibilità, anche se non pregiudiziali o
preliminari rispetto alla successiva decisione di merito (209).
(206) Cass. 30 dicembre 1991, n. 14023, Giust. civ., 1992, I, 337 * (che ha ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione in una fattispecie in cui sulla stessa era
intervenuta pronuncia, implicita o esplicita, sulla giurisdizione, nella fase di ammissibilità); Cass. 26 ottobre 1993, n. 10657. In senso contrario Cass. 15 luglio 1995, n. 7749.
(207) Cass. 7 novembre 1985, n. 5407.
(208) Cass. 28 novembre 1992, n. 12723.
(209) Per ulteriori argomenti a sostegno di quanto sostenuto nel testo A. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 1824 ss.. In senso contrario Cass. 13 luglio
1995, n. 7644.
163
L’AUDIZIONE DEL MINORE
NEL PROCESSO CIVILE COME DIRITTO
E COME STRUMENTO PROBATORIO
Relatore:
Dott.ssa Maria Lidia DE LUCA
Consigliere della Corte di Appello di Napoli
1. – Introduzione.
La Convenzione O.N.U. dell’89 sui diritti dell’infanzia ha costituito un tappa molto importante nell’evoluzione del diritto minorile, tuttora teso all’obiettivo di riconoscere al minore la dignità di persona già
nella dimensione esistenziale dell’età evolutiva. Il minore non ha più
peso, non acquista visibilità solo perché cucciolo o speranza di uomo.
Egli ha già – nell’oggi del suo divenire – peculiarità, valori, interessi,
che corrispondono ad altrettanti diritti.
Questi diritti il minore deve poter esercitare in ragione del progressivo sviluppo della sua capacità di autonomia ed autodeterminazione. Il primo interesse di qualsiasi persona, infatti, è il rispetto della
sua personalità intesa per l’appunto come capacità di autodeterminarsi con la conseguenza che gli organi preposti alla tutela devono impegnarsi per valorizzare questa capacità ed ottenere il riconoscimento.
È significativo a tale proposito che la Convenzione abbia ripudiato il termine “minore” (anche se per noi l’appellativo adottato – “bambino” – risulta semanticamente inaccettabile per coprire tutta la fascia
dell’età minore) perché sottolinea eccessivamente una situazione di incompiutezza, di dipendenza, quasi di rapporto gerarchico tra un adulto onnipotente ed un minore, privo proprio per la sua “minorità” di
ogni capacità e quindi sostanzialmente anche di valore (1).
È significativo che la Convenzione abbia riconosciuto espressamente e direttamente al minore diritti di libertà: di pensiero, di espressione, di coscienza e religione con i soli limiti derivanti dal rispetto dei
diritti dei terzi e delle norme di ordine pubblico.
(1) Alfredo Carlo MORO “Il Bambino è un Cittadino”, pag. 21.
165
Il dibattito sul riconoscimento di tali diritti, per la verità, non è
estraneo alla nostra cultura. Il problema che si è posto, però, in questi
anni di costruzione del diritto minorile, ha investito piuttosto l’esercizio di tali diritti quando questo postulasse un affrancamento del minore dalla potestà genitoriale.
E si deve registrare, anche per l’influsso di sempre più approfondite acquisizioni scientifiche, una linea di tendenza protesa al riconoscimento di un’autonomia decisionale del soggetto in età evolutiva
con conseguenti possibili manifestazioni di volontà, giuridicamente
rilevanti.
Il riconoscimento di una maturità anticipata in relazione ad alcuni rapporti, che impegnano la persona nella dimensione del profondo
– matrimonio, procreazione, filiazione – ha indotto il legislatore ad attribuire al minore la titolarità di consensi e divieti alle iniziative degli
adulti o interventi giudiziari, concretantisi alcune volte – piuttosto
rare invero – nella titolarità dell’azione: il minore che abbia compiuto
16 anni ad esempio può rivolgersi autonomamente, anche contro la
volontà dei genitori, al giudice per ottenere l’autorizzazione al matrimonio; la minorenne di età anche inferiore – purché la natura l’abbia
messa in grado di concepire – può decidere di abortire e indirizzarsi
al giudice tutelare all’insaputa dei genitori.
Non sempre – è questa la mia personale opinione – le scelte del
legislatore sono state coerenti nell’obiettivo di promuovere il minore
nell’esercizio di un’autentica libertà e cioè di una libertà responsabile.
Basta infatti considerare che oggi anche una bambina di 13 anni ha
diritto ad una sessualità agita nei rapporti con i coetanei, può eliminare il frutto del concepimento, come si è accennato, ma non può farsi
carico del concepito se non ha compiuto i 16 anni.
Tali contraddittori messaggi finiscono con lo scatenare la reazione dei cosiddetti “protettori” (tra virgolette), di coloro che identificano sempre il minore come un essere debole e dipendente, che deve
essere gestito dall’adulto.
Viene oggi riconosciuta al minore anche una sorta di “semicapacità’’. Anche quando non è capace di autodeterminarsi egli è pur sempre in grado di elaborare e comunicare una propria personale valutazione della situazione nella quale è coinvolto, dando così un contributo
significativo e rilevante alla decisione.
Evidentemente è partito da questo convincimento il legislatore,
ogni volta che ha disposto che il minore deve o può essere sentito dal
giudice nell’àmbito della procedura.
Le considerazioni sin qui svolte mi consentono di entrare nel vivo
166
della mia relazione distinguendo i vari livelli di partecipazione del minore al processo: sia come titolare del diritto controverso ed, in alcuni casi, dell’esercizio del diritto stesso sia come “informatore, testimone, strumento probatorio” tra virgolette. E mi consentono anche di
pormi un primo interrogativo alla luce di quanto disposto dall’art. 12
della Convenzione.
Questo, infatti, ha riconosciuto al minore la capacità di formarsi
una propria opinione e di esprimerla liberamente, facendo obbligo
agli Stati Parti di offrire al minore stesso la possibilità di essere ascoltato in tutti i procedimenti giudiziari o amministrativi che lo coinvolgono.
Bisogna quindi chiedersi se questa norma – di immediata applicazione – abbia ed in che misura ampliato le ipotesi, già previste nel
nostro ordinamento, di audizione del minore.
2. – La partecipazione del minore al processo.
Va detto subito che le ipotesi in cui il minore entra nel processo a
pieno titolo, perché legittimato a proporre l’azione o perché chiamato
ad esprimere un consenso all’attività dell’adulto, non presentano, ovviamente, grosse difficoltà sotto il profilo interpretativo della manifestazione di volontà. Il peso e la valenza da attribuirvi è, infatti, già predeterminato dal legislatore. A meno che, come nell’ipotesi di autorizzazione al matrimonio, il giudice non sia chiamato anche a vagliare la
maturità del minore in rapporto alla decisione assunta.
Sono costretta qui a fare un’arida elencazione, e non so nemmeno
quanto esaustiva, delle ipotesi cui ho accennato:
– al compimento dei 14 anni il minore: a) deve manifestare il proprio consenso all’affido preadottivo alla coppia prescelta (art. 22 L.
184/83) ed al termine dell’affido ripetere la manifestazione di consenso in vista dell’adozione (art. 25 citata legge); b) manifestare il consenso all’adozione in casi particolari (art. 45).
– al compimento dei 16 anni il minore può: a) chiedere l’autorizzazione al matrimonio, b) promuovere l’azione di disconoscimento di
paternità previa nomina di un curatore speciale da lui stesso richiesta
in dissenso anche con la madre (art. 244 c.c.); c) impugnare per difetto di veridicità il proprio riconoscimento (art. 264 c.c.); d) conferire o
negare il consenso alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (art. 273 c.c.) o alla sua legittimazione (art. 284 c.c.); e) opporsi al
167
proprio riconoscimento di figlio naturale (art. 250 c.c.) o all’inserimento di un figlio naturale nella propria famiglia legittima (art. 252
c.c.); f) se figlio naturale, nei casi in cui non può essere accertata giudizialmente la paternità, agire a mezzo di un curatore speciale per ottenere il mantenimento, educazione ed istruzione.
In tutte le ipotesi, che ho elencato sopra, il legislatore ha riconosciuto – lo ribadisco – al minore che abbia compiuto 14 o 16 anni la
capacità di autodeterminarsi: il suo parere è vincolante per il giudice.
Lo sbarramento dei 12 anni rende obbligatoria l’audizione del
minore – il legislatore usa l’espressione “sentire il minore” – prima della declaratoria di adottabilità (artt. 10 e 15 L. 184/83), dell’affidamento preadottivo, dell’eventuale revoca dello stesso e dell’adozione – anche “in casi particolari” (22, 23, 25 e 45 L. 184); l’audizione da parte
del servizio locale nella procedura di affido familiare (art. 4, cit. legge).
Bastano invece 10 anni perchè scatti l’obbligo del Giudice Tutelare (art. 371 c.c.) di sentire il minore sulla scelta del luogo dove deve
essere allevato, dell’indirizzo da dare ai suoi studi o all’avviamento
professionale, mentre ne occorrono 14 perchè il giudice – il T.M. più
precisamente – sia tenuto ad ascoltare il minore sui contrasti insorti
tra i genitori nell’esercizio della potestà parentale (art. 316 c.c.). Legata poi ai casi di stretta necessità è l’audizione del minore nelle cause
di divorzio ai fini dell’emissione dei provvedimenti presidenziali ed
anche in vista del provvedimento definitivo di affidamento ai sensi dell’art. 6, comma 9 delle legge dell’87, che ha modificato la precedente
disciplina del divorzio.
Facoltativa per il giudice; rimessa cioè alla sua discrezionalità,
l’audizione del minore infradodicenne in tutte le ipotesi (che ho elencato sopra) in cui la sua audizione sia prevista come obbligatoria dalla
L. 184 al compimento del dodicesimo anno di età.
Così come facoltativa è l’audizione – da parte del G.T. – del minore sedicenne in caso di disaccordo dei genitori sul luogo dove stabilire
la residenza familiare o sull’indirizzo da dare alla vita della famiglia.
A questo punto un altro interrogativo scaturisce dal confronto dei
due diversi tipi di intervento del minore nel processo. E cioè, quando
il minore non è abilitato ad esercitare l’azione o ad incidere sulla decisione con un consenso o un diniego, che significato deve attribuirsi
all’espressione “sentire il minore”, che peso deve essere dato alla sua
manifestazione di volontà. Tanto più che, secondo il citato art. 12 della
Convenzione, all’opinione liberamente espressa dal minore “deve essere dato il giusto peso relativamente alla sua età e maturità”.
168
3. – L’intervento del minore nel processo dopo la Convenzione O.N.U.
dell’89.
Terminata questa noiosa esposizione dell’attuale configurazione
del nostro ordinamento giuridico, vorrei tentare di dare una risposta
al primo interrogativo posto sopra. Quando va sentito il minore dopo
che la Convenzione O.N.U. ha acquistato in Italia forza di legge?
È stato generalmente riconosciuto che l’art. 12 della Convenzione
– introducendo come obbligatoria l’audizione del minore nel procedimento civile – è venuto a riempire un vuoto normativo del nostro ordinamento, che non contempla una previsione generalizzata che disciplini l’audizione del minore nelle procedure che lo coinvolgono. Tanto
che si è ritenuto da un’autorevole fonte interpretativa (2) che – a seguito della ratifica della Convenzione – debba essere sempre prevista
come obbligatoria l’audizione del minore a partire dall’età di 12 anni
a meno che il giudice con provvedimento motivato non la ritenga pregiudizievole o ininfluente. Problemi particolari sono stati affrontati in
relazione all’audizione del minore nei procedimenti ex art. 336 c.c., nei
giudizi di separazione e divorzio e nelle procedure ex art. 317-bis c.c..
Utilizzando la norma convenzionale come fonte di interpretazione si è ritenuta obbligatoria l’audizione del ragazzo dodicenne, come
previsto nel procedimento adottivo, anche nei procedimenti ex art. 330
e segg c.c..
I fautori dell’autodeterminazione del minore si sono anche chiesti
se l’attuale esclusione della legittimazione attiva del minore stesso in
detti procedimenti sia conforme alla normativa della Convenzione. La
questione credo sia ancora aperta. Personalmente ritengo che la scelta del ragazzo, che chiede di “punire” tra virgolette i genitori, potrebbe essere motivata dal ribellismo tipico dell’adolescente e lo scontro
giudiziario diretto finirebbe con l’acuire e consolidare conflittualità
non autenticamente patologiche. Concordo quindi con coloro (3) che
hanno ritenuto opportuno anzi indispensabile che le doglianze del minore passino – prima di arrivare al giudice – attraverso “l’opera di
interpretazione e mediazione dei servizi locali ed infine attraverso il
setaccio del P.M.”, che si assumerà la responsabilità dell’azione.
(2) Relazione della Commissione di studio sui problemi ordinamentali della giustizia minorile, incaricata dal ministro Conso, presieduta da L. FADIGA.
(3) Paolo VERCELLONE, La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo e
l’ordinamento interno italiano, in Minori e Giustizia, n. 2/93.
169
Per quanto concerne le situazioni di disgregazione familiare – per
scissione della coppia, unita in matrimonio o convivente di fatto – nel
silenzio della legge, le prassi dei tribunali, in ordine all’affidamento dei
figli, sono le più varie.
Alcuni, soprattutto i giudici minorili, ascoltano i minori di qualsiasi età, spesso attraverso i servizi. Altri hanno molta resistenza all’ascolto temendo che il minore si senta comunque gravato dalla responsabilità della scelta del genitore affidatario.
Anche per queste ipotesi è stata prospettata (4) l’audizione obbligatoria del minore dodicenne e, quello che mi sembra più interessante, la nomina – sempre in conformità alla normativa internazionale: il
citato art. 12 prevede anche la possibilità di un’audizione indiretta a
mezzo di un rappresentante – di un curatore speciale che faccia sentire la voce del bambino troppo piccolo per far valere le proprie esigenze travolte dall’accesa conflittualità dei genitori.
4. – L’ascolto del minore.
Il punto da chiarire adesso è se la partecipazione del minore alle
procedure che lo coinvolgono nei termini interpretativi, che ho sopra
riportato, realizzi ed in che misura l’interesse del minore a far sentire
la propria voce. Interesse che la Convenzione ha attribuito al bambino, senza differenziazione di fasce d’età, ponendo come unico limite
l’accordo con le procedure della legislazione nazionale.
Esiste ancora un ampio margine di discrezionalità del giudice
nella decisione se ascoltare o meno il minore in rapporto alla sua età?
E se le norme internazionali danno così rilevante importanza alla
partecipazione del minore al giudizio, che peso – ritorno qui sul secondo interrogativo posto – va oggi dato all’opinione ed ai desideri del
minore?
Per risolvere il quesito mi sembra importante interrogarsi sulla
natura delle procedure civili a tutela del minore.
“La giurisdizione civile, nel suo schema consueto, affida alle parti,
in quanto portatrici di diritti soggettivi, non solo l’iniziativa del processo, ma anche la prospettazione e la dimostrazione della realtà portata in giudizio (…) al giudice c.d. ordinario poco deve importare che
la realtà “rappresentata” nel processo civile coincida con la verità (…)
(4) Paolo VERCELLONE, vedi nota precedente.
170
la neutralità del giudice rispetto alle parti si risolve nell’indifferenza
rispetto alla loro situazione autentica, nella neutralità rispetto all’autenticità del reale.
Per contro, quando la giurisdizione civile ha a che fare con il minore, diventa essa stessa teleologica, perchè viene investita di un fine
ben preciso, che riguarda ogni suo momento: tutelare l’interesse del
minore (…). Qui si affida al giudice il compito di cogliere la realtà
nella sua “verità”, facendola emergere dalle pieghe più nascoste e dalle
motivazioni più profonde e contraddittorie” (5).
E questa verità, pur non ignorando il giudice i diritti di cui sono
portatori sia il genitore che il minore, si concretizza nelle situazioni,
rapporti, relazioni affettivo-educative dei soggetti coinvolti.
Il giudice minorile – e mi riferisco anche al giudice ordinario
quando si occupa di affidamento di minori – non è tenuto ad individuare un vincitore o un soccombente; il compito assegnatogli dall’ordinamento è di assicurare che le relazioni in gioco “funzionino” in modo da garantire la crescita e lo sviluppo armonioso della personalità
del minore.
È su questa relazione che egli è chiamato ad intervenire con un
compito pedagogico e prescrittivo, esplicitamente previsto dalla 184,
ma che può leggersi anche nelle pieghe degli artt. 330 e 333 c.c., dal
momento che, nel conflitto genitore-figlio, “il suo intervento sarà veramente utile e costruttivo, se indirizzato non tanto a decidere cosa può
fare il genitore e cosa può fare il ragazzo, quanto piuttosto a ricostruire una nuova e più adeguata relazione in cui ciascuno dei contendenti sappia cedere qualcosa per crescere insieme’’ (6). Ed è alla relazione più soddisfacente per il minore, che il giudice è chiamato oggi
dagli esperti a riferirsi, come criterio ottimale per l’affidamento del
figlio rispetto al vecchio parametro di un’astratta “idoneità genitoriale”, fondata sulle qualità personali e morali del genitore.
Il riferimento alla relazione come oggetto della procedura minorile
determina, a mio parere, la conseguenza che il minore – che di questa
relazione è soggetto privilegiato ed il cui interesse costituisce il criterio
guida del giudice – non può mai rimanere fuori, assente dal processo.
Anche se l’ascolto verrà realizzato ovviamente con modalità diverse in
ragione della sua età.
(5) Paolo DUSI, Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore,
pagg. 10, 11.
(6) Alfredo Carlo MORO, op. cit., pag. 50.
171
Conviene a questo punto cercare di dare un significato all’espressione “sentire’’ il minore cui il legislatore fa riferimento.
È importante sottolineare che gli addetti ai lavori parlano di
ascolto del minore, indicando così un processo che coinvolge profondamente l’interlocutore adulto. Coinvolgimento efficacemente raffigurato da una suggestiva ricostruzione etimologica della parola ascolto,
risultato della mescolanza del verbo latino “colere” e della forma indoeuropea “aus” – “as”: orecchio (7). Ascoltare quindi consisterebbe nel
“coltivare mentalmente ciò che si registra nell’orecchio, tanto che la
parola dell’altro – come un seme – venga raccolta e non dispersa, protetta e non deformata”.
Allora è chiaro che ascoltare il minore vuol dire mettersi nell’atteggiamento giusto, cercare di comprendere le sue reali esigenze, il progetto esistenziale per lui indispensabile allo sviluppo di una personalità matura ed armoniosa.
Non bisogna dimenticare però che – nell’ascolto – il minore è al
tempo stesso la persona nel cui interesse il giudice interagisce, “entra
nella relazione”, ed è anche “lo strumento” – la parola è brutta, forse è
meglio parlare di informatore, testimone privilegiato – attraverso il
quale il giudice raccoglie elementi: eventi, comportamenti, fatti – utili
per la decisione. Bisognerebbe anzi dire, facendo ricorso ad un’immagine un po’ ardita, che il minore può definirsi quasi “corpo del reato”,
dal momento che il suo “io” fisico, esistenziale, emozionale denuncia
la carenza o la ricchezza delle relazioni stabilite con lui dagli adulti.
Identificare nel minore un testimone della vicenda che lo riguarda è sembrato ad alcuni riduttivo rispetto alla promozione del suo processo di autonomizzazione ed autodeterminazione, che anche il giudice deve favorire. Se il minore è solo testimone insomma la sua voce
non ha peso.
Il contrasto però è solo apparente.
Il bambino piccolo, con il comportamento, l’adolescente, anche
con le parole ed il racconto del suo vissuto, esprimono al giudice delle
esigenze.
La dignità che il minore assume nel processo dipende dal rispetto
che il giudice concretamente manifesta per tali esigenze.
Quando entrano in gioco i rapporti familiari e personali, il giudice deve intervenire nella relazione, oggetto della procedura come si è
detto, “in punta di piedi”, ponendosi come interlocutore autorevole e
(7) Claudio FOTI, Quando si dice ascolto, in Minori e Giustizia, n. 2/93.
172
degno di fiducia, ma scendendo da quel “gradino piu sù” dal quale di
solito esercita la funzione del giudicare. Egli entra in un processo circolare che vede coinvolti genitori, parenti, minore ed esperti ed il suo
atteggiamento, il suo stare dentro la relazione è già un passo verso la
soluzione del conflitto.
Questo perchè, quando i problemi sono attinenti la persona, una
soluzione autoritativa non è mai efficace.
Qualche esempio rapportato a quelle che sono considerate le
audizioni piu difficili, perchè a rischio di trauma per il minore, chiarirà forse il mio pensiero: l’ascolto del minore prima della declaratoria
di adottabilità e l’ascolto del minore vittima di un’accesa conflittualità
familiare.
Per quella che è la mia esperienza, in verità, nella maggioranza dei
casi l’ascolto del minore adottabile – in ordine alla decisione di troncare i legami con la famiglia di origine – non presenta gravi difficoltà.
Si sa bene che il bambino, gravemente e profondamente trascurato
nelle sue esigenze primarie di affetto, di identificazione e di appartenenza (è solo in questi casi di gravi carenze ed assenza di cura che si
arriva infatti a recidere i legami familiari) è egli stesso esistenzialmente proteso verso un’altra famiglia, una famiglia “vera” – come spesso
chiede al giudice senza alcuna sollecitazione.
Certo in età preadolescenziale – dai 10 anni in su – ma anche in
età inferiore può manifestarsi nel minore un processo di identificazione, ancora in via di consolidamento, in figure genitoriali, che, anche se gravemente carenti e destrutturanti, sono state in qualche modo presenti nella sua vita ed interiorizzate come punti di riferimento e
radici vitali. È ipotizzabile che il giudice ignori tutto questo ed imponga autoritativamente al minore, solo perchè non ha compiuto 12 anni
o 14 anni, un’altra famiglia? Imponga con un provvedimento la nascita di altri rapporti, altri affetti?.
L’alternativa ovviamente è un affido familiare. E molto spesso attraverso l’esperienza di una realtà familiare “vera” matura nel minore
il consenso, come proprio desiderio ed esigenza di una “famiglia degli
affetti”. Intendo dire che anche quando il giudice si rende conto che le
esigenze avvertite e comunicate dal minore non corrispondono a quello che egli intravede come il “bene” del minore stesso: quando si rende
conto che – ed è questo il secondo esempio – il rifiuto, opposto ostinatamente ad un genitore, esprime in realtà il timore di essere a sua
volta rifiutato, abbandonato ovvero è l’espressione di un malinteso bisogno di lealtà e di appartenenza all’altro genitore, anche in questi
casi, a mio avviso, il giudice deve saper aspettare e rispettare.
173
Non credo infatti che si possa risolvere coattivamente un’ambivalenza psicologica nei termini di un “dover essere” etico-giuridico.
Anche a fronte di situazioni affettive, distortamente consolidatesi
ad opera degli adulti, il giudice deve almeno temporaneamente riconoscere la propria impotenza.
Il peso, la consistenza da attribuirsi alla voce del minore – diciamo pure al “sentire” il minore – si gioca tutto su questa attesa paziente del giudice, per consentirgli di partecipare attivamente al cambiamento delle sue condizioni di vita.
Attesa però non significa inerzia. Limitare l’ascolto ad una semplice presa d’atto dei desideri e delle aspettative del minore, accettandoli passivamente, non significa precisamente tutelarne e promuoverne lo sviluppo.
È necessario quindi trovare degli spazi che permettano “al minore di leggere egli stesso in modo più adeguato la sua realtà”, degli spazi
in cui egli sia aiutato a riflettere su di essa “senza timore di alienarsi
l’approvazione di quegli adulti di cui ha bisogno” (8). Spazi di mediazione, che coinvolgano necessariamente, proprio per l’efficacia della
mediazione stessa – tutte le figure conflittuali di riferimento.
Il provvedimento del giudice deve avere in questi casi carattere
interlocutorio, di rinvio “fattuale” a strutture di mediazione che gestiscano il conflitto aiutando il minore a fare chiarezza. Sottolineo
solo per inciso come sia funzionale a tale tipo di provvedimento il rito camerale delle procedure minorili, che non richiede una decisione
gravata dalla pesantezza del giudicato, da sbarramenti meramente
formali.
Questo vuol dire, in parole povere, no ai bambini trasferiti coattivamente da un genitore all’altro, da una famiglia all’altra – ai bambini
obbligati a “vedere o visitare” il padre o la madre – si agli incontri del
minore e/o i genitori presso il consultorio o altra struttura di territorio,
dove si allentino tensioni e contraddizioni e si ristabilisca un canale di
comunicazione che consenta una gestione accettabile dei rapporti.
5. – Le modalità dell’ascolto. La formazione del giudice.
Ovviamente l’ascolto del minore nei termini, che sopra ho descritto, presenta non poche difficoltà, che vanno dalle capacità attitudina-
(8) Annamaria DELL’ANTONIO, Ascoltare il minore, pag. 135.
174
li e tecniche di chi ascolta, ai contesti ambientali ed agli spazi temporali dedicati all’ascolto.
Dal punto di vista dell’adulto interlocutore ascoltare il minore richiede saper stabilire con lui una relazione-comunicazione per cercare di comprenderne il vissuto, “decodificando i suoi frequenti messaggi nascosti” (9). E ciò nella consapevolezza che spesso, nel suo raccontare, il minore non è in grado di distinguere l’oggettività del ricordo dalla rielaborazione emozionale che egli stesso ne ha operato.
Richiede segnalare la propria disponibilità, cercando di calarsi
nella realtà, nella situazione emotiva vissuta dal minore, mantenendo
però sempre una separatezza mentale che impedisce l’identificazione
del proprio “io bambino” con quello del minore.
Richiede prima ancora – in parole molto più povere – se è un giudice che ascolta, dipanare subito le ansie del bambino o del ragazzo
spiegandogli perchè si trova lì e non a scuola, che cosa è il luogo in cui
si trova e chi è quel “signore” che gli parla.
Questo ascolto, definito empatico, richiede un’attitudine naturale
all’incontro-accoglienza, che può affinarsi con l’esperienza, ma che,
personalmente, non credo possa acquisirsi metodologicamente. Ritengo faccia parte del bagaglio culturale ed esistenziale della persona.
Ovviamente il giudice, che si occupa dei minori o più in generale
dei problemi della persona, deve possedere questa attitudine, oltre ad
una certa preparazione specialisitca che gli consenta di orientarsi nelle problematiche personali e familiari.
A tale proposito è stato molto opportunamente sottolineato (10)
come le norme, che hanno introdotto la necessità di appositi corsi per
magistrati minorili (art. 5 disp. att. cod. proc. pen. minorile), fanno riferimento alla formazione più che alla specializzazione del giudice. Ed
il termine usato sta ad indicare con evidenza oltre ad un’attività per
così dire esterna di preparazione anche un lavoro introspettivo di verifica della propria personale attitudine.
La metodologia non può creare dal nulla un’attidudine, che è anche una disponibilità interiore, come dicevo. Questa disponibilità però, quando esiste, va coltivata ed affinata. Sarebbe perciò utile inserire – cosa che sinora non mi sembra sia stata fatta – in questi corsi di
formazione l’insegnamento di tecniche della comunicazione e dell’a-
(9) Annamaria DELL’ANTONIO, op. cit..
(10) Italo CIVIDALI, La formazione e l’aggiornamento dei magistrati “superiori”, in
Minori e Giustizia, n. 3/95.
175
scolto, magari anche attraverso delle simulate. Così come sarebbe
molto utile per il giudice, che approda per la prima volta al T.M., effettuare un periodo di tirocinio per verificare sperimentalmente l’acquisizione di queste tecniche.
Concordo perciò pienamente con chi (11) ha ritenuto indispensabile ed urgente “la creazione di una struttura permanente di formazione, la cui frequentazione deve diventare ed essere considerata presupposto indefettibile per l’accesso, motivato e consapevole, all’ufficio
giudiziario minorile”.
Accennavo poco fa alla necessità di spazi e di tempi adeguati per
l’ascolto del minore, introducendo così il tema delle modalità dell’ascolto.
Una volta affermato che la voce del minore deve sempre entrare
nel processo si pone il problema del come.
Le sfaccettature di questo problema sono tante.
Chi deve ascoltare il minore? È il problema della delega dell’ascolto. Risolto diversamente dal G.M. e dal G.O.
Altri interrogativi su questo tema nascono poi per i dubbi tuttora
esistenti sulla “struttura” tra virgolette del giudice minorile, quelli che
riguardano cioè “la collegialità”, con particolare riferimento come vedremo alle Corti d’Appello.
Per quanto riguarda gli spazi fisici e temporali direi che il G.O.: si
trova in particolari difficoltà poichè è costretto a trattare i problemi di
affidamento di minori assieme a cause di natura molto diversa, considerate, di solito, molto più importanti dai capi degli uffici perchè di
rilevante entità economica.
Si discute ancora (12) se, utilizzando la previsione dell’art. 23 del
D.P.R. 616/77 – secondo il quale rientrano nella competenza dei servizi sociali “le attività relative … agli interventi in favore dei minorenni
soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza … civile” – il giudice della separazione prima di
emettere i provvedimenti di cui all’art. 708 c.p.c. possa chiedere informazioni ai servizi psico-sociali di territorio. Questa prassi è attualmente adottata da pochissimi giudici ordinari, che si ritengono abili-
(11) Luciano GRASSO, Scienze umane e scienze giuridiche – la composizione dei
collegi minorili: disfunzioni, problemi e prospettive, in Diritto di famiglia e delle persone,
n. 1/97.
(12) Paolo DUSI, Criteri di affidamento e strumenti processuali di accertamento, in
Minori e Giustizia, n. 1/94.
176
tati ad utilizzare gli stessi strumenti del giudice minorile, poichè i provvedimenti di affidamento “della prole”, come recita testualmente l’art.
155 c.c., devono essere pronunciati nell’esclusivo interesse del minore.
Viene così raggiunto, almeno prima dei provvedimenti presidenziali,
l’obiettivo dell’ascolto del minore quanto meno in forma indiretta.
Le cose si complicano dinnanzi al giudice istruttore, designato dal
presidente dopo il fallimento del tentativo di conciliazione. Il giudizio
prosegue, infatti, con il rito di cognizione ordinaria. Con la conseguenza che l’audizione del minore, qualora il giudice istruttore la
disponga, dovrà avvenire in presenza delle parti e dei loro difensori.
Accade talvolta che costoro rinunciano volontariamente a presentare
all’udienza. Non sempre però e, forse proprio per tale motivo, il giudice della separazione e del divorzio ricorre volentieri ad una diversa
forma di ascolto: la consulenza tecnica.
6. – Le modalità dell’ascolto e la consulenza tecnica.
Penso sia opportuno soffermarci su alcuni problemi sollevati in
ordine alla consulenza tecnica – strumento di accertamento proprio
del procedimento contenzioso ordinario, utilizzato nella procedura
della camera di consiglio anche dai giudici minorili – come mezzo per
ascoltare la voce “vera” del minore nei casi più complessi, in altre parole per dare corpo alle sue reali esigenze, realizzare il suo esclusivo
interesse (interesse posto a fondamento di tutta la legge 184 e criterio
di riferimento dettato dall’art. 155 c.c. per l’affidamento dei figli, come
già accennato).
La consulenza psicologica differisce da tutte le altre perché il suo
oggetto è la persona, anzi le relazioni interpersonali tra il minore e gli
adulti che si occupano di lui. Si tratta di una materia viva, palpitante
che non si lascia facilmente conoscere come un banale processo chimico o la struttura di un edificio. Una materia, che, per il rispetto
dovuto alla persona, soprattutto la persona del minore, va maneggiata molto delicatamente.
I problemi processuali e sostanziali scaturiscono tutti da questa
differenza.
Non si ritengono (13) ad esempio applicabili alla consulenza psicologica tutte le modalità previste dal rito contenzioso ordinario. Mi
(13) Paolo DUSI, vedi nota precedente.
177
riferisco in particolare alla possibilità di ogni interessato di nominare
un proprio consulente, che apporti argomentazioni ed osservazioni
anche in contrasto a quanto dedotto dal c.t.u..
Gli interventi del consulente di parte, che il c.p.c. abilita ad accompagnare sempre per così dire il c.t.u., “se condotti nell’ottica contenziosa in cui sono nati – rischiano di sottoporre il minore ad un
bombardamento di domande strumentali alla tesi del genitore-parte e
di esporlo a grave disturbo e disorientamento” (14). Si ritiene perciò
più opportuno mantenere o ricondurre questo tipo di consulenza nell’ambito delle informazioni di cui all’art 738 comma 3 c.c.: escludendo
il diritto del consulente di parte a presenziare alle operazioni del c.t.u.
o all’udienza, perchè è affidato al giudice il compito di individuare l’interesse del minore e ritenendosi garantito il diritto di difesa attraverso le argomentazioni che il consulente può sviluppare a commento degli elaborati e della relazione peritale.
Quel che mi sembra però più interessante rilevare è che, mentre la
materia inerte non oppone difese a chi la osserva, le persone si sentono esaminate, giudicate dal consulente, che appare loro come un braccio del giudice. Tendono allora a “colorire”, i fatti narrati perchè risaltino le loro qualità in contrasto con i difetti ed i limiti dell’altro.
Questo accade solitamente tra i coniugi che si separano. Ma anche
in altre situazioni che vedono un genitore contrapposto ad un intero
gruppo familiare. Ho avuto diverse esperienze di minori contesi dal
genitore uxoricida – graziato o comunque scarcerato – e dal nucleo familiare del genitore defunto, che si è preso cura del minore magari sin
dall’età più tenera.
È stato giustamente osservato (15) che dalle difficoltà, cui ho fatto
cenno sopra, non si esce se non attribuendo alla consulenza tempi e
modalità diverse.
Bisogna inventarsi una forma di collaborazione diversa tra il giudice e lo psicologo che vada avanti per fasi intermedie e non abbia urgenza di sfociare in un provvedimento, sentito dalle parti come premio o castigo. Una consulenza, che pur non costituendo presa in carico di carattere terapeutico, convinca le parti a trovare punti di equilibrio comuni. E questo è possibile solo nella misura in cui ciascuno dei
(14) Paolo DUSI, vedi nota precedente.
(15) Annamaria DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici concernenti i minori nelle procedure civili ed il ruolo dello psicologo, in “Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore, a cura di P. DUSI.
178
contendenti si rassicuri sullo scopo della consulenza, non più vissuta
come un giudizio ineluttabile di esclusione ed acquisti fiducia in una
ricerca comune di possibili nuovi aggiustamenti, tendenti a valorizzare tutte le disponibilità. La stessa consulenza diventa così strumento
di mediazione almeno come “fattrice” di consenso, magari di accettazione di una mediazione formale presso una struttura di territorio.
Mi capita sempre più spesso di leggere in Corte provvedimenti di
colleghi del T.M. di carattere interlocutorio, che rinviano le parti ai
Consultori per un’opera di mediazione.
Tali provedimenti sono resi possibili ai giudici minorili dal rito camerale, che attribuisce loro la gestione delle acquisizioni e dei tempi
del processo nel modo più adeguato all’interesse del minore. Laddove
non credo possano essere adottati – allo stato – dal giudice della separazione e del divorzio, dinnanzi al quale prevalgono gli elementi del
contenzioso, dovuti alle richieste ed aspettative di carattere patrimoniale, e dinanzi al quale, pertanto, in applicazione del rito ordinario,
saranno le stesse parti a gestire i percorsi ed i tempi delle procedure.
Le esigenze avvertite dagli psicologi per una rivisitazione della c.t.u.
sono recepite in alcune proposte di legge che prevedono la creazione
presso ciascun tribunale ordinario di strutture di mediazione: un consiglio di tutela, composto da psicologi, psichiatri, pedagogisti ed assistenti sociali ovvero l’istituzione di appositi consultori specializzati
nella mediazione, attivati presso gli uffici del giudice tutelare delle
preture (16).
7. – Le modalità dell’ascolto e la collegialità.
Il giudice minorile risolve molto piu facilmente i problemi dell’ascolto per la sua composizione mista e per la possibilità di fare riferimento alle strutture di territorio.
Quanto alla collaborazione dei servizi, tuttavia, si pongono i soliti
problemi derivanti dalla diversa attrezzatura del territorio. È inutile
ripetere che vi sono comuni della Campania, ma potrei dire tranquillamente della Calabria, della Sicilia e della Puglia – tanto per citare le
cosiddette regioni a rischio – nei quali manca anche la figura dell’assistente sociale e dove nei Consultori non è presente lo psicologo. In
tali circostanze, è chiaro, diventa difficilissimo l’ascolto del minore nel
(16) Tra le altre proposte di legge MAZZUCCA, TORTOLI e CARTELLI.
179
proprio ambiente, elemento a volte utilissimo se non indispensabile
per la decisione.
Altro problema che si presenta nelle procedure strettamente minorili è quello della struttura – per così dire – del giudice abilitato all’ascolto.
Deve occuparsene il collegio o un giudice singolo, relatore o delegato comunque lo si voglia chiamare, e poi è opportuno delegare sempre un giudice esperto o anche il giudice togato è abilitato ad ascoltare il minore grazie alla conquistata specializzazione.
I problemi sono tuttora aperti e le soluzioni nei diversi tribunali
sono le più varie.
È noto che, per una contrastata interpretazione dell’art 738 c.p.c.
e delle altre poche norme che disciplinano il rito camerale, parte degli
addetti ai lavori ritengono che investito del procedimento e dei relativi poteri istruttori sia soltanto il collegio. Sarà dunque sempre il collegio ad esaminare gli atti ed a gestire l’intera procedura, salvo la possibilità di deleghe ad un singolo giudice per alcuni atti già predeterminati dal Presidente del Tribunale.
Nella maggior parte dei Tribunali è presente invece la figura del
giudice delegato dal Presidente del Tribunale (non del collegio) per gli
affari di una certa parte di territorio. Questo giudice, di solito un giudice togato, porta avanti l’istruttoria e riferisce al collegio per le varie
decisioni da adottare, sia interinali - come ad es. la nomina di un c.t.u.
– che definitive.
Non pretendo di risolvere qui il dilemma. Anche se voglio ricordare che con una sentenza a sezioni unite, abbastanza recente (n. 5629
del 19 giugno 1996) la Cassazione ha ammesso la possibilità di delegare al giudice relatore la raccolta di elementi probatori “anche nelle
ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi”.
E questa sentenza sembra dare ragione a chi ritiene (17) che “l’organo monocratico è imposto ogni volta che la natura degli atti da compiere ne impedisce la concentrazione davanti al collegio (…) in esso
(nel procedimento minorile cioè) audizioni e verifiche dirette ed indirette possono reiterarsi a distanza di tempo e comparizioni personali
e contatti con il giudice conseguire ad estemporanee iniziative esterne. Alla pronuncia definitiva si perviene progressivamente”.
Quel che mi preme sottolineare, comunque, è che alle relazioni di
(17) Lamberto SACCHETTI. Sul giudice istruttore dotato di poteri istruttori e direttivi nel procedimento camerale minorile, in Diritto di famiglia e delle persone, 3/93.
180
ascolto deve essere sempre abilitato un giudice singolo e questa opinione mi sembra ampiamente motivata da tutte le caratteristiche dell’ascolto che ho esposto sopra.
Rimane però da stabilire se sia utile o addirittura indispensabile
delegare sempre l’ascolto al giudice esperto. Ed in questo caso se conviene comunque che all’esperto si affianchi il togato.
Le prassi dei vari Tribunali sono le più diverse e spesso anche
all’interno dello stesso Tribunale non tutte le situazioni d’ascolto sono
gestite allo stesso modo.
Personalmente ritengo che il giudice togato debba avere l’umiltà di
ricorrere molto spesso alla collaborazione del collega “esperto”. Parlo
di umiltà perchè mi è capitato di imbattermi in colleghi, che, forti della
loro esperienza, ritenevano di risolvere tutto proponendo al bambino
“il disegnino della famiglia”. Ed anche in bambini, che, traumatizzati
dai troppi disegnini, prima ancora che io aprissi la bocca mi apostrofavano: “guarda che io il disegno della famiglia non te lo faccio!”
Credo che l’esperto possegga le chiavi per osservare – l’osservazione lo ripeto è una modalità dell’ascolto – adeguatamente il comportamento dei bambini, i loro atteggiamenti, i giochi, il modo di relazionarsi agli adulti. Credo che l’esperto possegga le chiavi per dialogare
con bambini e ragazzi invischiati e persi nel labirinto della conflittualità senza correre il rischio di destabilizzarli ulteriormente con un interrogatorio. Credo in definitiva che sentire il minore non vuol dire domandargli semplicisticamente e brutalmente, come purtroppo ancora
accade “con chi vuoi andare?” o “vuoi essere adottato?”
Con questo però non intendo legittimare l’alibi di alcuni colleghi
togati che “si tirano fuori”, tra virgolette, per paura di sporcarsi le mani con i sentimenti degli altri nel timore di mettere in discussione i
propri stessi sentimenti, il proprio vissuto.
E questo per due motivi.
Il primo è che il giudice deve entrare nella relazione, come ho già
detto – comunicando non solo con il minore, ma anche con gli adulti
e gli esperti. È questo un percorso irrinunciabile perchè il suo provvedimento abbia speranza di essere accettato. In particolare per quanto
riguarda il minore, l’esperienza ci ha messo di fronte a bambini, che,
dopo un iniziale turbamento, si sono sentiti tranquillizzati dalla presenza di un adulto – il giudice – che stava lì per occuparsi di lui, per
risolvere i suoi problemi facendosene carico.
Il secondo è che il giudice togato è colui al quale spetta garantire
l’osservanza leale e corretta delle regole del giuoco.
È infatti vero che la sua funzione precipua – rispetto a quella del
181
giudice esperto – rimane quella di “garante”. Egli entra nella relazione
per cercarne assieme ai soggetti coinvolti uno sviluppo ottimale. Da
lui ci si aspetta però anche che assicuri, garantisca per l’appunto, a tutti
ed in ugual misura adeguati spazi di ascolto e di difesa ivi compresa la
possibilità di apportare contributi alla formazione della decisione. Il che
significa poi l’osservanza delle regole del contraddittorio. Ma proprio
a tal fine è importante che il giudice togato sia sempre presente per
orientare ed orientarsi verso ulteriori approfondimenti e temi di indagine. Ascoltando ed osservando, spesso in silenzio, l’incontro del giudice esperto con il minore, dopo un successivo colloquio chiarificatore, potrà emergere con chiarezza la necessità di risentire un genitore
o disporre una c.t.u. perchè occorrono approfondimenti tecnici particolarmente complessi.
Non escludo peraltro che vi possono essere situazioni di particolare tensione che richiedono estrema riservatezza per poter stabilire
una comunicazione. Alludo ad esempio all’ascolto del minore abusato, per il quale anche nell’àmbito del processo penale vengono adottate tecniche particolari – tra l’altro l’utilizzo dello specchio unidirezionale – per assicurare la presenza accanto al minore del solo esperto.
Non posso trattenermi ulteriormente – per ovvii motivi di tempo –
sull’ascolto del minore abusato. Mi sembra però indispensabile sottolineare, considerata la molteplicità degli accertamenti e dei giudici,
che intervengono sul problema, che si stabiliscano – per evitare la
duplicazione di stressanti interrogatori del minore – precisi protocolli
d’intesa, al riguardo, tra il T.M. e la Procura ordinaria.
8. – Le modalità dell’ascolto e la Corte d’Appello.
L’ascolto del minore presso il giudice d’appello diventa particolarmente problematico per motivi legati alla carenza di effettiva specializzazione di questo giudice ed anche, a mio avviso, per motivi procedurali.
Non tutti sanno forse che l’Associzione dei giudici per i minorenni e per la famiglia si è impegnata già da qualche tempo sottolineando al Consiglio Superiore la necessità di riorganizzare le sezioni minorili d’appello secondo le prescrizioni dettate dalle disposizioni di attuazione del cod. proc. pen. minorile, trovando per la verità presso il
Consiglio disponibilità ed accoglienza.
Il Consiglio ha adottato una prima circolare nel luglio del ’95 (relativa alla formazione delle tabelle di composizione degli uffici giudi-
182
ziari per il biennio 96-97), che richiedeva l’assegnazione in via esclusiva dei magistrati specializzati alla sezione minorile, quando lo consentiva l’entità degli affari, e comunque l’assegnazione alle sezioni specializzate della materia relativa a separazione e divorzi. Questa circolare, però, è rimasta del tutto inosservata. Tanto che il Consiglio Superiore agli inizi di quest’anno ha sottolineato, con apposito documento
indirizzato ai Consigli giudiziari presso le varie Corti, le esigenze, cui
ho accennato sopra, ed ha richiesto chiarimenti ed osservazioni al riguardo. La situazione è ancora in itinere.
Tutto ciò per ottenere che, come previsto dal legislatore (citato
D.L. 28 luglio 1989, n. 272), non vada dispersa la specifica esperienza
e preparazione dei giudici minorili d’appello, destinati attualmente,
per esigenze d’ufficio, ad occuparsi di tematiche molto distanti dalla
loro competenza.
Il problema che esiste a monte però è che alle sezioni minorili
d’appello si accede di solito per motivi molto diversi da un reale interesse per la materia specialmente da parte dei presidenti, che considerano quasi sempre questa presidenza di “transito” per altri incarichi
più importanti.
Tutto ciò ha molto a che vedere con l’ascolto del minore perchè
con l’attuale regime mi sono trovata con presidenti che interrogavano,
questa volta è la parola esatta, un bambino di sette anni utilizzando il
pronome “voi”. A mio avviso particolarmente per la magistratura d’appello dovrebbe essere prevista come obbligatoria la frequenza ai corsi
di formazione – anche per i presidenti lo sottolineo – prima di accedere all’ufficio.
Altri problemi come accennavo sono di carattere procedurale.
Per il giudizio di reclamo vige, ora anche per effetto della riforma,
il principio della trattazione collegiale del processo. La conseguenza è
che proprio quando la conflittualità è più accesa – si ricorre, infatti, in
appello quando non si è accettato il provvedimento del T.M. – il minore è costretto a comparire dinnanzi a ben sei persone (cinque giudici
più il P.G.), rimanendo quanto meno disorientato e confuso. È intuitivo che con tali modalità e condizioni non può realizzarsi “l’ascolto”.
È vero che si può fare ricorso ai servizi di territorio, quando esistono. Questi, però, si sono già “pronunciati” a seguito degli interventi, richiesti dal T.M.. Si corre, perciò, il rischio che un loro ulteriore
intervento, letto da qualcuna delle parti nella logica dello schieramento, renda ancora più conflittuale l’atmosfera a discapito della formazione del consenso, che rimane obiettivo primario anche per il giudice superiore.
183
È anche vero che si può disporre una c.t.u.. Ma a parte l’opportunità di ricorrere sistematicamente a questo mezzo di ascolto, che è pur
sempre dispendioso, va osservato che anche per formulare i quesiti di
una c.t.u. è necessario molto spesso prima sentire ed osservare il minore.
Quel che succede nella prassi è che alcuni presidenti “illuminati”
delegano un giudice, più spesso un togato ed un esperto, per l’ascolto
del minore. Questo sistema di delega dovrebbe quindi, a mio avviso,
essere ritualizzato con opportune modifiche della procedura.
Lo stesso problema per la verità si pone, ed in modo anche più
drammatico, per le Corti d’Appello ordinarie in relazione alle cause di
separazione e divorzio. Il giudizio si svolge, com’è noto con il rito
camerale. Tuttavia, poichè la recente riforma ha imposto al giudice
d’appello la collegialità anche nell’assunzione dei mezzi istruttori (art.
350 c.p.c. e, considerata la preponderanza dell’elemento contenzioso,
il minore viene qui ascoltato in presenza non solo dei quattro giudici,
i tre componenti il collegio ed il P.G., ma anche dalle parti e dei loro
difensori.
Sembra indispensabile anche qui un ritocco della procedura ove
non si costituisca, con conseguente unificazione dei riti, il tanto vagheggiato – almeno da parte di alcuni – Tribunale della famiglia.
Concludo molto brevemente osservando che dalla mia relazione
emerge la necessità – al fine di realizzare l’interesse del minore di cui
tanto si parla – di alcuni interventi urgenti. Di carattere legislativo, per
la modifica delle procedure e di carattere organizzativo: di assetto
degli uffici. Interventi – questi ultimi – molto più rapidamente realizzabili, anche se impegnativi. Mi auguro che le istituzioni interessate
vogliano dare il buon esempio prestando un reale e fattivo ascolto
alle esigenze del minore.
184
L’ASCOLTO DEL MINORE
NEI PROCEDIMENTI CIVILI
Relatore:
Prof.ssa Anna Maria DELL’ANTONIO
Ordinario di psicodinamica dello sviluppo
e delle relazioni familiari nell’Università di Roma
Il tema dell’ascolto del minore nei procedimenti giudiziari per la
sua tutela diventa sempre più attuale con il comparire di leggi e di convenzioni internazionali che lo prevedono o lo raccomandano. Già la
legge sull’adozione del 1983 prevedeva il consenso del minore all’adozione e all’affido dopo il compimento del quattordicesimo anno di età
e il suo ascolto al dodicesimo anno, e – se opportuno e possibile – anche prima. Alla fine degli anni ottanta la Convenzione dell’O.N.U. sui
diritti del fanciullo, ratificata e quindi accettata dall’Italia, stabiliva che
“gli Stati Parti della Convenzione devono assicurare al bambino/a capace di formarsi una propria opinione, il diritto di esprimerla liberamente e in qualsiasi materia, dovendosi dare alle opinioni del bambino/a il giusto peso relativamente alla sua età e maturità. A tale scopo in
tutti i procedimenti giuridici e amministrativi che lo coinvolgono deve
essere offerta l’occasione affinché il bambino venga udito direttamente o indirettamente per mezzo di un rappresentante o di una apposita
istituzione, in accordo con le procedure della legislazione nazionale”.
Più recentemente la Convenzione de L’Aja sull’adozione internazionale entrata in vigore nel mese di maggio del corrente anno – Convenzione alla cui stesura ha contribuito anche l’Italia anche se non la
ha ancora firmata, ma da varie parti si preme perchè ciò avvenga nel
minor tempo possibile – stabilisce tra le clausole perchè tale adozione
possa essere realizzata che le autorità competenti dello Stato di origine abbiano confermato che tenuto conto dell’età e del grado di maturità del bambino “siano stati presi in considerazione i desideri e le opinioni espresse dal bambino”, “qualora il suo consenso sia richiesto il
bambino abbia usufruito di una adeguata consulenza e sia stato debitamente informato degli effetti che l’adozione e il consenso dato produrranno” e che “il consenso non sia stato indotto da pagamenti o
compensi di alcun tipo”.
185
Molti Paesi da cui i bambini provengono per essere adottati in Italia hanno d’altra parte già legiferato il loro ascolto prima dell’adozione, a volte senza determinare l’età minima per esso, a volte stabilendo
che esso avvenga a partire da età diverse, anche inferiori a quelle stabilite per l’ascolto del bambino nella legge italiana del 1983 (l’Albania
per esempio stabilisce i 10 anni, lo Sri Lanka i 9 anni).
In Italia si è discusso e si discute ancora sulla possibilità che il minore stesso partecipi consapevolmente ed attivamente alle decisioni
che vengono prese per lui: e senz’altro il tema è di notevole importanza visto che esse non raramente cambiano in modo netto e/o brusco il
suo modo di essere e di rapportarsi agli altri, e possono pertanto accentuare la precarietà della sua situazione personale e relazionale.
Può essere utile pertanto fare riferimento a quanto è stato finora
elaborato in proposito sia nell’àmbito del diritto che della psicologia
Le capacità e le possibilità di un minore di autodeterminarsi sono
state discusse nel primo àmbito sia a livello teorico che giurisprudenziale sopratutto dopo l’entrata in vigore del Nuovo Diritto di Famiglia,
nell’intento di evidenziarne la presenza già prima della maggiore età,
anche se alcuni autori hanno evidenziato l’impossibilità di una definizione esatta dell’età in cui esse si sviluppano, data la unicità della
maturazione dei singoli minori. Questa discussione è stata peraltro
poi quasi lasciata in sospeso mentre veniva messa in dubbio l’opportunità di ascoltare i minori contestando la loro capacità di avere opinioni effettivamente utili per il loro bene (1) o ritenendo che egli possa
essere traumatizzato dall’ascolto medesimo o possa ricavarne solo una
situazione di maggior conflitto con i genitori. Queste argomentazioni
sono state peraltro non raramente ribadite anche da giudici minorili
(in questo senso sono state anche formulate perplessità nei confronti
dell’ascolto di minori in stato di adottabilità o in affido preadottivo) e
probabilmente non a caso, nonostante la già avvenuta ratifica di parte
dell’Italia della Convenzione dell’O.N.U., l’ascolto del minore non è
previsto – al di là di quello attualmente in vigore con la legge 184 –
dalle proposte di riforma del diritto minorile che sono state fatte al termine della passata legislatura.
Certamente l’attuale normativa per quanto concerne l’“ascolto”
del minore in situazioni in cui si ritiene siano compromesse le sue pos-
(1) F. GIARDINA, in “La condizione giuridica del minore”, ed. Jovine, Napoli 1980,
per esempio ritiene che il minore si avvantaggi nell’essere considerato “incapace” perché ciò permette di proteggere meglio la sua immaturità.
186
sibilità di ulteriore sviluppo è senz’altro disomogenea: esso è infatti
previsto in alcune fasi dei procedimenti di adozione e di affidamento
eterofamiliare ma non nel processo di separazione dei genitori, nè nei
procedimenti di decadimento o limitazione della loro potestà, mentre
è lasciato alla discrezionalità del giudice nel divorzio dei genitori. L’ultima legge emanata a proposito di quest’ultima evenienza, sembra
anzi adombrare il “pericolo” già accennato dell’ascolto del minore (essa infatti non recita più come nella prima stesura “quando il giudice
lo ritenga opportuno”, ma “quando sia strettamente necessario”).
Ci si deve comunque chiedere anche fino a che punto oggi l’audizione del minore venga davvero considerata un mezzo per favorire la
sua autodeterminazione, dato che, tranne nei casi in cui è esplicitamente richiesto il suo consenso, la norma prevede solo il suo “ascolto”: termine vago che può essere inteso anche come testimonianza e
quindi solo come apporto di ulteriori elementi di giudizio per una
decisione che rimane del giudice.
Il problema di riconoscere al minore capacità di autodeterminazione oltre che di semplice testimonianza rimane pertanto aperto. Nella dottrina giuridica esso viene affrontato in riferimento a “capacità di
discernimento”, ma l’età che garantisce il raggiungimento di tale capacità non viene definita, anche se viene collocata dai vari autori che si
sono interessati della materia tra i quattordici e i sedici anni (alcuni
giuristi, commentando la giurisprudenza, si sono posti la domanda e
non sia possibile riferirla anche bambini più piccoli) (2).
È peraltro interessante notare come in tale capacità quasi tutti gli
autori comprendono sia la capacità del minore di capire ciò che è utile
per lui, sia di decidere autonomamente, senza essere influenzato dalla
volontà di altri.
Ma in un’ottica psicologica queste due capacità non possono essere sovrapposte. La prima infatti implica una valutazione delle proprie
esigenze ed una capacità di elaborare strategie adeguate per il conseguimento della loro soddisfazione in base alla situazione contingente
– e quindi anche in situazione di dipendenza dall’adulto in cui possono anzi essere agite attraverso comportamenti da lui accettati.
La seconda invece presume una capacità di formulare opinioni e
scelte personali senza essere condizionati da altri. Essa peraltro non
garantisce di per sè la possibilità di realizzare – in tutto o in parte – gli
(2) Un’ampia raccolta di queste posizioni si può trovare in A. DELL’ANTONIO,
“Ascoltare il minore”, ed. Giuffré, 1990.
187
obiettivi che possono essere formulati in base a tali opinioni ed a tali
scelte. È quindi possibile che questa capacità pur acquisita non dia
adito a scelte autonome: del resto lo stesso adulto, sopratutto se si
trova ad avere scarso potere di gestione delle situazioni, tende non
tanto a perseguire mete che ritiene ottimali per soddisfare le sue esigenze, quanto piuttosto obiettivi più contenuti, ma che in esse possono essere realizzati.
Capacità di comprendere ciò che può essere di utilità nella situazione contingente ed autonomia di giudizio presumono peraltro anche
livelli maturativi diversi. Già nei primi anni di vita infatti il bambino
si configura gli spazi in cui può agire ma anche le strategie più opportune da utilizzare nel rapporto con l’adulto per ottenere il massimo di
soddisfazione dei suoi bisogni: l’accettazione, la protezione ma anche
l’appartenenza ad un gruppo ben definito – la famiglia o un contesto
alternativo ad essa – che gli permettono di costruire i suoi primi punti
costanti di riferimento e quindi anche di sviluppare le prime basi della
sua identità.
Si può così dire che il bambino ha fin d’allora una capacità di
discernere cosa gli è vantaggioso nel contesto in cui vive: acquisendo
quella che potremmo definire quasi una competenza specifica per
quanto riguarda la dinamica relazionale che in esso si sviluppa e le sue
possibilità di essere in esso accolto e soddisfatto.
Più complessa è la valutazione delle sue capacità di formulare giudizi personali e di compiere scelte autonome. Certo non prima dei
10-12 anni, età in cui si vengono delineando in lui le caratteristiche di
una intelligenza ipotetico-deduttiva. Ma la maturazione di tali facoltà
inizia anche precedentemente e la loro esplicazione è legata al comportamento degli adulti, ed in particolare dei genitori, che possono
favorire od ostacolare il graduale processo di autonomia del bambino.
Essi possono infatti indurlo ad adeguarsi acriticamente al loro pensiero o possono favorire in lui lo sviluppo e l’espressione di opinioni e
scelte personali, con un atteggiamento di ascolto e di valorizzazione
delle sue idee ma anche dei suoi sentimenti e dei suoi vissuti.
Il grado di autonomia che un minore riesce ad esprimere è legata
peraltro anche alla presenza di problemi nelle dinamiche familiari che
rendono gli adulti meno disponibili ad “ascoltare” un bambino e quindi anche a valorizzare la sua crescita autonoma, anche per un bisogno
di coesione familiare basata su convinzioni ed atteggiamenti comuni.
D’altra parte in situazioni di crisi familiare gli stessi bambini tendono a non elaborare propri punti di vista e proprie scelte sia per l’ansia che la situazione di fragilità familiare procura loro (significativi
188
sono a questo proposito recenti studi che evidenziano “la paura di
pensare” del bambino che si trova in situazioni di profondo disagio
psicologico) sia per il timore di perdere appoggi e punti di riferimento già molto precari.
Si potrebbe presumere pertanto che in tutti i casi in cui un minore cresce in situazioni familiari problematiche il suo atteggiamento sia
condizionato dai genitori ed egli non sia pertanto in grado di esprimere giudizi e scelte funzionali alle reali esigenze della sua crescita:
tuttavia bisogna ammettere che egli tiene ben conto degli elementi
della sua realtà personale e relazionale. Le scelte che in queste condizioni egli fa possono quindi non essere autonome ma sono senz’altro
“sue”, corrispondendo alle sue esigenze nel presente.
Tutto questo va tenuto presente nel valutare se l’opinione espressa
– o non espressa – dal minore corrisponde al suo interesse e se sia opportuno o meno ascoltarlo. Va infatti anche considerata la possibilità,
qualora venisse fatta per lui una scelta difforme da ciò che egli chiede
o si aspetta, che egli non sia in grado di capirla e/o di tollerarla e di
conseguenza la necessità di dover provvedere ad un suo sostegno nella
crisi personale e relazionale cui può andare incontro. Il suo ascolto
può diventare quindi comunque indispensabile per poter formulare
indicazioni che permettano di aiutarlo ad affrontare i cambiamenti di
vita che deriveranno dalle decisioni che verranno prese per lui.
L’ascolto del minore pone peraltro alcuni problemi. Uno di essi è
dato dalla effettiva capacità o volontà del bambino – ma anche del
ragazzo – di esprimersi, anche se richiesto di farlo. A volte un minore
può non essere in grado di utilizzare uno schema di relazione che gli
permette una maggior libertà di espressione e, quasi “spaventato” da
tale libertà che non è abituato a gestire, può temerne effetti sconosciuti o non controllabili. Sopratutto se l’essere “come gli altri vogliono che sia” gli ha assicurato in passato vantaggi personali, egli potrà
cercare non tanto di manifestare le proprie posizioni, quanto piuttosto di risultare gradito anche al nuovo interlocutore utilizzando proprio quegli atteggiamenti di accondiscendenza e di delega che in passato gli sono stati utili per garantirsi consenso, anche se in realtà essi
ostacolano piuttosto che favorire un vero dialogo con lui.
Un ulteriore motivo di difficoltà a comunicare proprie opinioni
può scaturire nel bambino, ma sopratutto nel ragazzo, quando gli
eventi in cui è coinvolto lo hanno costretto a manipolare o negare
alcuni elementi di realtà per fronteggiare vissuti di frustrazione e di
ansia ed egli si rende conto che l’analisi di realtà a cui può essere condotto in un colloquio con un estraneo alla vicenda familiare potrà met-
189
tere in crisi queste sue difese. In questi casi è comprensibile che vi sia
reticenza se non opposizione allo stesso colloquio.
Il bambino infine può essere esitante nell’esprimere scelte ed opinioni perchè teme che ciò possa alterare equilibri personali e relazionali da lui raggiunti – se pur sulla base di ambiguità e di scissioni –
nell’ambito familiare e può rifiutare di esprimere scelte diverse, anche
se proprie di quelle fatte dai genitori, o dal genitore che sente più
sostenente. Non a caso sono state messe in evidenza reazioni depressive e sensazioni di abbandono proprio in seguito a scelte espresse – e
a volte percepite solo in un secondo momento come dovute alla mancanza di scelta dei genitori. In queste reazioni gioca “peraltro forse
anche la constazione della illusione di un potere nei confronti dei
genitori – o del genitore scelto, nei casi di loro separazione – che si
rivela presto inesistente, sopratutto se i genitori o il genitore lo hanno
“utilizzato” per porre in risalto la loro validità come persone.
Si fa anche spesso scarsa attenzione al ruolo giocato dai genitori
– o da altri familiari con funzione allevante – nelle disponibilità del
minore all’interazione con altri adulti, sopratutto se non in linea con
le opinioni dei primi. È stato invece ampiamente dimostrato come il
legame con il genitore o l’adulto allevante ha sempre importanza fondamentale sul comportamento del bambino. Gli studi sull’attaccamento hanno messo in evidenza per esempio come sia primario il bisogno
del bambino di instaurare un rapporto con l’adulto e come pertanto
questo venga ricercato ed instaurato con i genitori – ed in particolare
con la madre o con altri adulti che si prendono specificamente cura di
lui –, anche se essi dimostrano disponibilità limitate nei suoi confronti o non sufficienti capacità di soddisfare le sue esigenze.
Questi legami, se pur non gratificanti, veicolano al bambino la
conoscenza del mondo che lo circonda e l’apprendimento di stili di
comportamento, permettendogli l’acquisizione di modalità di approccio alla realtà e di richiesta di aiuto. Di conseguenza proprio nella
ricerca di approvazione da parte di quell’adulto egli viene strutturando gli schemi di comportamento che sono più consoni, nell’ambiente
in cui vive, per la soddisfazione dei suoi bisogni. Gli studi compiuti
negli ultimi decenni da alcuni psicologi neocognitivisti (3) hanno inol-
(3) Sono gli studi condotti sui comportamenti infantili – sopratutto nei primi mesi
di vita – e sulla loro predittività rispetto alle future competenze sociali. In proposito
interessante può essere la consultazione di: R. SCHAFFER (a cura di) 1989 “L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento”, ed. Angeli, Milano.
190
tre individuato nel bambino molto piccolo capacità adattive e cognitive fino a poco fa insospettate tali da permettergli di interagire fin dai
primi mesi in modo attivo con chi lo alleva e di essere quindi parte
attiva nella determinazione del rapporto reciproco con lui.
E questo ovviamente anche in condizioni di carenza affettiva: ed a
tal proposito Bowlby ha descritto in modo molto particolareggiato alcuni tipi di attaccamento disfunzionali per la crescita del bambino che
si instaurano quando sia la madre che altre figure allevanti presentano problematiche tali da non permettere loro una effettiva o costante
disponibilità verso di lui nei primi anni.
In primo luogo l’attaccamento angoscioso – dovuto all’incongruità
e alla discontinuità della disponibilità della figura di attaccamento –
che converge tutte le energie del bambino, per lungo periodo e non
solo nei primi anni, sulla ricerca di una conferma della sua disponibilità, togliendo in parte più o meno ampia attenzione ed interesse sia
alla scoperta del mondo ed al raggiungimento dell’autonomia, sia alla
relazione con gli altri.
In secondo luogo – e più gravido di conseguenze negative – l’attaccamento evitante, in cui il bambino sviluppa una tendenza a fuggire dalla figura sentita competente ma non disponibile, proprio nel timore di continue frustrazioni, senza peraltro perdere il desiderio di
venire da essa protetto ed andando pertanto incontro ad ulteriori inevitabili frustrazioni.
Ma proprio queste modalità disfunzionali di attaccamento danno
adito a legami che – paradossalmente – sono tanto più intensi ed invischianti quanto meno hanno permesso al bambino l’acquisizione di
una fiducia in sè e di una identità separata, perchè lo costringono ad
una continua verifica della sua appartenenza e della sua accettazione
da parte di coloro da cui dipende.
Diventa importante quindi sopratutto per questi minori come gli
stessi genitori vivono la vicenda giudiziaria e come essi stessi si rapportano al giudice ed ai suoi collaboratori.
L’intervento dell’autorità giudiziaria può far temere ai genitori di
poter essere fraintesi o mal giudicati e di conseguenza di poter perdere il loro ruolo o di essere costretti a riorganizzare i loro rapporti con
il figlio secondo prospettive e modalità da loro non condivise.
Si può creare allora un circolo vizioso in cui si alimentano incomprensioni e diffidenze reciproche tra giudice e genitori, che non aiutano certo il primo a capire meglio nè i loro messaggi nè quelli del figlio.
Non raramente inoltre i genitori sono portati a drammatizzare
l’intervento giudiziario per la tutela del figlio, anche al punto da non
191
riuscire a controllare sufficientemente i propri timori: si può così sviluppare nella famiglia un’ansia diffusa che si riflette in un aumento
delle tensioni già esistenti tra i suoi membri o nella comparsa di nuovi
motivi di difficoltà nelle relazioni parentali ma anche, e non raramente, in atteggiamenti depressivi e rinunciatari dei genitori che determinano nel figlio vissuti di mancato sostegno.
Ed il figlio può a sua volta temere di accentuare la situazione di
disagio familiare parlando dei suoi problemi, anche se ritiene che chi
lo ascolta sia veramente disponibile ad aiutarlo.
Assume importanza anche l’atteggiamento che i genitori sviluppano verso il “giudice” che si interessa del figlio. Essi possono aver fiducia verso di lui, ma possono anche temerne l’intervento – sopratutto se
non da loro richiesto – o essere molto ambivalenti, desiderando il suo
un appoggio alla propria verità ma temendone il giudizio. E a questo
proposito va anche considerata la capacità dei genitori stessi di parlare con il giudice, sia in rapporto allo stereotipo collettivo che lo definisce come persona con potere di “giudicare gli altri” e di emanare
provvedimenti non suscettibili nè di critica nè di modifica, ma anche
in relazione al modo di porsi nei confronti dell’autorità che essi stessi
sono venuti sviluppando nel corso della loro storia.
Ed è comprensibile come anche in tali casi possa aumentare lo
stato di disagio e l’ansia del minore, inevitabilmente invischiato nei
sentimenti dei genitori, sia se ne assimila gli atteggiamenti, sia se non
riesce più a comprendere i loro sentimenti e quindi a controllare la situazione relazionale in cui vive.
Bisogna d’altra parte considerare che anche la “perdita di potere”
del genitore che consegue all’intervento decisionale del giudice ha
ripercussioni negative sui bambini, siano essi ancora piccoli o già adolescenti. I primi infatti – che considerano i genitori competenti in ogni
cosa e detentori della verità e trovano in tale convinzione la garanzia
di un solido appoggio e di un modello di vita cui uniformarsi per sentirsi sicuri – possono entrare in ansia di fronte ad un genitore sentito
o giudicato in torto, o debole, o incompetente.
I secondi invece possono sentirsi a disagio di fronte ad una autorità che sostituisce il potere dei genitori – verso cui essi sono sì critici
nel tentativo di uscire dalla dipendenza infantile, ma da cui si aspettano di essere ancora appoggiati e compresi – ma che non è in grado
di fornire rassicurazione perchè non competente, per la sua stessa
natura, a farlo. Si deve infine tener presente che sul bambino, ma anche sul ragazzo, possono essere fatte pressioni da parte dei genitori
perchè egli si proponga all’esterno come loro alleato. E questo sia nei
192
casi in cui la situazione è presa in esame dall’autorità giudiziaria per
dubbi sulla validità educativa dei genitori, sia in casi di separazione di
questi, dove la richiesta di alleanza può venire da ambedue i genitori,
ponendo il bambino in uno stato di particolare disagio perchè la scelta di un genitore diventa un rifiuto dell’altro.
La presenza di queste problematiche può rendere d’altra parte difficile anche il rapporto dei genitori e dello stesso minore con le persone delegate dal giudice ad approfondire la sua situazione psicosociale
attraverso una consulenza, ma a volte anche quello con gli operatori
dei Servizi Territoriali, sopratutto se la situazione è stata da loro segnalata all’autorità giudiziaria o se essi sono stati incaricati di un
approfondimento di una situazione che prima non conoscevano.
In molti casi quindi bambini e adolescenti possono cercare di non
pronunciarsi anche se in grado di esprimere una opinione personale e
di collaborare attivamente alla definizione di una strategia di intervento, non perchè “traumatizzati” dalla situazione di giudizio, ma perchè indotti a vedere in essa motivo di ansia o di perplessità. Essi possono allora esprimersi con reticenza, ma anche con accondiscendenza
alle richieste del loro interlocutori o ai pareri dei genitori – o di uno di
essi, a seconda di ciò che hanno imparato essere più utile per loro.
Il messaggio che proviene da loro può essere quindi poco comprensibile ed anche ambiguo, non corrispondente ad altre notizie o ai
loro comportamenti in contesti diversi da quelli del procedimento giuriziario. Tuttavia ciò non può escludere a priori il loro ascolto, perchè
attraverso i loro atteggiamenti passa comunque un messaggio, più
oscuro forse, ma autentico: il desiderio di una composizione delle tensioni e dei disagi in cui sono coinvolti per poter avere uno spazio personale e di ascolto più adeguato nello stesso ambito delle loro relazioni familiari.
E questo è, a ben vedere, un valido motivo per ascoltarli, senza misconoscere le loro capacità di comprensione della situazione, quando
si deve decidere sulla loro futura collocazione personale e familiare.
Naturalmente per quanto sopra detto l’ascolto del minore non può
essere inteso come una semplice presa d’atto delle sue opinioni o decisioni, ma comprende anche la corretta lettura dei suoi messaggi e
l’aiuto che gli deve essere dato a comprendere meglio la sua situazione e ad esprimersi superando i suoi timori e le sue resistenze.
Occorre quindi molta attenzione in questo ascolto: attenzione ai
linguaggi ed ai codici che egli usa al di là delle parole ma attenzione
anche al suo contesto di vita, per cogliere i motivi delle sue difficoltà
ad esprimersi. E occorre stabilire con lui un rapporto dialogico, anche
193
con spazi di riservatezza a quanto egli viene dicendo ma sopratutto ai
contenuti psichici che possono affiorare nell’interazione con lui, perchè egli possa acquisire fiducia nell’interlocutore: un rapporto che deve andare quindi al di là di una semplice richiesta di testimonianza.
Esso richiede inoltre che vengono contemporaneamente “ascoltati” ed aiutati ad ascoltarlo – anche attraverso forme di conferma della
loro potenzialità allevante e di sostegno di essa – i suoi genitori e/o altri adulti che ne fanno la funzione, perché egli non si trovi a dover affrontare, proprio nel momento in cui si desidera porgergli aiuto, ulteriori rischi legati ad una accentuazione piuttosto che ad un superamento della disfunzionalità nel sistema familiare in cui è inserito.
È peraltro comprensibile che se l’ascolto del minore implica anche
l’analisi delle concrete risorse che possono essere individuate per migliorare la sua situazione di sviluppo, diventa infine opportuno anche
l’“ascolto” dell’ambiente in cui il minore vive, cioè l’analisi delle reali
capacità e disponibilità nei suoi confronti delle persone che vivono accanto a lui ed intervengono in modo più o meno diretto a determinarne i comportamenti (parenti, vicini, insegnanti). Naturalmente ciò
comporta che ogni intervento sul minore sia fatto non nell’ottica di
una protezione del bambino e dell’adolescente “dal” contesto in cui
vive, ma in quella di una garanzia di un suo adeguato sviluppo, possibilmente “nel” contesto in cui è cresciuto e crescerà: un’intervento
quindi su tutta la rete sociale in cui è inserito, che porta solo in casi
estremi, e riconoscendo la difficoltà dell’operazione, al suo distacco da
essa. Rimane certo aperto il problema di chi deve ascoltare il minore,
le sue esigenze, il suo mondo interiore ed esteriore. Il giudice od altri
da lui delegati? In sede giudiziaria o nell’ambito di una consulenza o
di un affidamento ai Servizi e quindi in sede extragiudiziale? Ne possiamo discutere.
BIBLIOGRAFIA
BELVEDERE A., “L’autonomia del minore nelle decisioni familiari”, in M. DE CRISTOFARO, A. BELVEDERE, (a cura di), “L’autonomia del minore tra famiglia e società”, ed. Giuffré, Milano, 1980.
BOWLBY J., Una base sicura, ed. Cortina, Milano, 1989.
DELL’ANTONIO A., “Ascoltare il minore: l’audizione del minore nei procedimenti civili”,
ed. Giuffré, Milano, 1990.
SCHAFFER H.R., “L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento, ed.
Angeli, Milano, 1984.
STANZIONE P., “Capacità e minore età nella problematica della persona umana”, ed. Jovine, Napoli, 1975.
194
IL RUOLO DEL P.M. NEI PROCEDIMENTI
CIVILI MINORILI
Relatore:
Dott. Franco OCCHIOGROSSO
Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale per i Minorenni di Bari
Premessa.
1. Il P.M. minorile sta vivendo un’interessante e suggestiva stagione di riesame critico del suo operare e ciò ha avuto inizio a partire dall’entrata in vigore delle disposizioni sul processo penale.
La cosa singolare è che questa rivisitazione di ruolo, comprensibilmente partita dalla materia penalprocessuale, a seguito delle modificazioni normative intervenute, sta riguardando la globalità del suo
intervento ed in particolare quello civile.
La linea di tendenza che si va manifestando è duplice: vi è, da un
lato, la presa di coscienza di un ruolo inadeguato svolto finora in relazione all’esigenza di realizzare al massimo livello la tutela dei minorenni e la conseguente necessità di colmare questa lacuna, cosa che
porta il P.M. ad avvicinare in qualche modo il suo impegno nel settore
civile al modello di azione a cui si è ispirato abitualmente il giudice del
tribunale minorile. Vi è, dall’altro, l’esigenza di assolvere – in modo più
efficace che in passato – a quel compito di controllo della legalità, che
costituisce la sua peculiarità tradizionale e che comporta una sensibile differenziazione del suo ruolo da quello del giudice minorile.
Ma per cogliere appieno quanto sta avvenendo nelle procure minorili e la ragione del suo verificarsi non basta parlare del P.M.. Occorre prima parlare della giurisdizione minorile, delle sue caratteristiche
peculiari, del suo articolarsi in modo significativamente diverso da
quello della giurisdizione ordinaria. Solo dopo aver affrontato questa
ampia tematica, sarà possibile proporre il discorso del ruolo del P.M.
minorile, inquadrandolo in tale contesto che lo colora al punto da fargli assumere una connotazione del tutto particolare. Una prospettiva
nuova, che si estende anche agli altri soggetti processuali e, in particolare, a quelli che saranno trattati dalle altre relazioni: il difensore ed
195
il giudice onorario (termine più adeguato rispetto a quello di componente privato, spesso utilizzato). Il mio contributo si articolerà perciò
in due parti: la prima si soffermerà sulle caratteristiche della giurisdizione minorile, la seconda affronterà più direttamente il ruolo del P.M.
e la sua recente evoluzione.
Parte I – La giurisdizione minorile.
2. Il diritto si occupa di minorenni da duemila anni, ma il diritto
minorile come disciplina autonoma sta venendo alla luce solo da pochi decenni.
Questa constatazione è fondamentale, se si vuole tentare di proporre una riflessione nuova e approfondita sulla giurisdizione minorile e sul ruolo dei soggetti processuali che ne sono protagonisti.
Questa constatazione comporta due conseguenze: la prima riguarda il modo di proporsi della giurisdizione minorile al suo interno. Il
suo essere perennemente in bilico tra dubbi e alternative: se il minorenne è titolare di diritti o portatore di meri interessi legittimi; se i diritti sono diritti pieni o diritti deboli (o nuovi); se la giurisdizione minorile si va realizzando in modo del tutto conforme a quella ordinaria
oppure se si va articolando un modo diverso e perchè; se i soggetti processuali coinvolti assumono o tendono ad assumere gli stessi ruoli o
ruoli diversi rispetto agli omologhi ordinari. La seconda riguarda il
rapporto della giurisdizione minorile con l’esterno e cioè con quella
ordinaria; riguarda in particolare il fatto che, mentre nel settore penale il giudice minorile è pacificamente giudice naturale del minorenne
senza limitazione alcuna, invece la situazione si capovolge in materia
civile ed il Tribunale per i Minorenni (e quindi l’intera giurisdizione
minorile) è chiamato ad intervenire solo nei casi specifici indicati dal
primo comma dell’art. 38 disp. att. cod. civ. mentre la competenza generale spetta al Tribunale Ordinario. In concreto accade che, mentre
quella penale minorile ha finalmente raggiunto la piena unità ed autonomia, la giurisdizione civile riguardante i minorenni è frammentata
tra molti giudici: GERMANÒ e SCARCELLA, nel quadro riepilogativo
degli interventi civili pubblicato dal codice della giustizia minorile
(Giuffrè, pagg. 178-187), individuano cinquantatré competenze del
T.M.; due del Presidente o Giudice Delegato del T.M.; ventidue del Tribunale Ordinano, tre del Presidente del T.O.; due del Giudice Istruttore; quarantotto del Giudice Tutelare, due del Pretore, una del Procuratore Generale della Repubblica; sei del Giudice Penale.
196
Questa seconda prospettiva contribuisce a rendere più complessa
la situazione, perchè finisce per trasformare in un problema tecnico di
competenza per materia tra giudici diversi quella che è anzitutto una
questione relativa al modo di essere della giurisdizione, tendendo
quella minorile, a mio avviso, a realizzarsi in modo ontologicamente
diverso da quella ordinaria e venendo indubbiamente ostacolata nel
suo costruirsi e crescere dalla compresenza della cultura giuridica ordinaria.
Quando si parla di adultocentrismo e di puerocentrismo con riferimento alla giurisdizione minorile non s’intende fare riferimento solo
alla difesa pur necessaria del valore costituzionale dell’interesse del
minorenne, ma proporre questo più ampio discorso e quindi il modo
diverso di porsi di questa branca del diritto e di articolarsi di questo
settore della giurisdizione.
3. Condizione preliminare per cogliere l’evoluzione che i soggetti
processuali della giurisdizione minorile ed in particolare il P.M. stanno vivendo e le ragioni di essa è quindi – come già detto – quella di fare
il punto sulle caratteristiche della giurisdizione minorile e sul rapporto con quella ordinaria.
In proposito sono necessarie le seguenti considerazioni:
3.1. la diversità della giurisdizione minorile è stata posta costantemente in evidenza dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale,
che già in numerose risalenti sentenze (25/1964; 16 e 17/1981; ecc.)
proponeva la questione minorile nei termini di “tutela dei minori” e
che ha ribadito questa prospettiva varie volte: da ultimo, nelle recenti
sentenze 168 del 27-28 aprile 1994 (“Dall’art. 31 della Costituzione,
che prevede una speciale protezione per l’infanzia e la gioventù e favorisce gli istituti necessari a tale scopo, deriva l’incompatibilità della
previsione dell’ergastolo per gli infradiciottenni, perchè accomuna …
nel medesimo contesto punitivo tutti i soggetti, senza tener conto della
particolare condizione minorile”) e 125 del 5 aprile 1995 (“… cui la
giustizia minorile, come più volte questa Corte ha affermato – cfr. sentenze nn. 125 del 1992, 206 del 1987 e 222 del 1983 –, deve essere
improntata, in ossequio al principio della tutela del minore di cui
all’art. 31 della Costituzione”).
Questa diversità si estendeva poi anche agli organi della giurisdizione. Infatti, nella sentenza 222/1983 la Corte ha affermato che “il
Tribunale per i Minorenni … considerato nelle sue complessive attribuzioni … ben può essere annoverato tra quegli istituti dei quali la
197
Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento, così adempiendo il precetto costituzionale che la impegna alla protezione della
gioventù”. Nella sentenza 49/1973 la stessa Corte aveva detto che il pubblico ministero minorile “non è soltanto l’organo titolare dell’esercizio
dell’azione penale in funzione dell’eventuale realizzazione della pretesa
punitiva dello Stato, ma anche, ed è questo un aspetto rilevante, l’organo che presiede e coopera al conseguimento del peculiare interessedovere dello Stato al recupero del minore, a questo interesse è addirittura subordinata la realizzazione o meno della pretesa punitiva”.
La Corte, in sostanza, attribuisce a questi soggetti ruoli nuovi e
molto diversi da quelli che essi hanno nella giurisdizione ordinaria.
3.2. Traendo spunto da questi rilievi, si è andato affermando un
orientamento dottrinario, secondo cui in alcuni settori dell’intervento
pubblico quale quello minorile, ma anche in altri (quello riguardante
i detenuti penalmente condannati ed anche quello delle tossicodipendenze almeno fino al D.P.R. 309/1990), i sottostanti interessi costituzionalmente protetti, che sono appunto l’interesse dello Stato alla protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, comma 2, Cost.), l’interesse al recupero sociale del condannato (art. 27 Cost.) e quello della
tutela della salute (art. 32) esigessero una particolare protezione, che
è stata assicurata con l’intervento giurisdizionale.
In sostanza, a fronte di un’intensa pressione socio-culturale, che
esigeva una più ampia tutela di tali situazioni “deboli”, il legislatore
non ha ritenuto di dover attribuire a questi interessi costituzionalmente rilevanti il valore di diritti soggettivi pieni, ma, pur continuando a considerarli solo “interessi” e non “diritti”, ha ritenuto di dover
attribuire loro una tutela giurisdizionale. Si è creata perciò la figura di
un giudice ordinario diverso e nuovo con il compito sostanziale non di
risolvere un conflitto d’interessi (conflitto che peraltro è sempre ravvisabile sul piano formale), ma di assicurare una maggiore protezione
della relativa categoria di soggetti deboli (i minorenni, i tossicodipendenti, i detenuti).
Da questa premessa scaturiscono alcune caratteristiche ricorrenti
di questa giurisdizione che si può definire “sociale”: a) anche se talora la legge fa uso in queste materie della parola “diritti” (così l’art. 1
legge 184/1983 parla del diritto del minore ad essere educato nell’àmbito della sua famiglia), in realtà non si tratta di diritti soggettivi in
senso tecnico, alla cui violazione consegua il diritto al risarcimento del
danno; b) oggetto della tutela giudiziaria non è un diritto, ma il soggetto in relazione ad una sua particolare condizione (minore, tossico-
198
dipendente, ecc.); c) al giudice è attribuito un potere discrezionale, che
talora risulta molto ampio; d) il giudice ordinario è “specializzato” (il
che era esplicitamente detto dalla legge 685/1975 con riferimento alle
sezioni per le tossicodipendenze del tribunale), nel senso che il collegio giudicante è a composizione mista di magistrati professionali e
giudici esperti; nel senso che usufruisce del collegamento con servizi
sociali addetti a fornire le informazioni necessarie per la decisione ed
a provvedere poi alla realizzazione degli interventi predisposti con la
stessa; nel senso che la decisione tende alla realizzazione di un interesse pubblico (tutela della salute, tutela del pieno sviluppo della personalità), non di un diritto privato; e) il procedimento si svolge prevalentemente con il rito camerale; f) il diritto alla difesa non sempre è
formalmente assicurato.
Nell’àmbito della giurisdizione sociale quella minorile ha acquisito un più ampio respiro ed una più complessa articolazione: ciò ha
fatto sì che alle caratteristiche indicate se ne siano andate aggiungendo altre tre: g) presenza di una doppia fase giurisdizione; h) debolezza della giurisdizione stessa; i) globalità.
3.3. In questo paragrafo ci soffermeremo brevemente sugli ultimi
tre requisiti indicati; nei successivi, tratteremo in modo dettagliato
della globalità e della specializzazione, perchè assumono un rilievo
tutto particolare. Le altre caratteristiche di questa giurisdizione non
hanno invece bisogno di chiarimenti.
a) L’avere ad oggetto non dei diritti, ma le persone stesse da tutelare comporta un effetto interessante per il settore minorile, la presenza di una doppia fase della giurisdizione: una di carattere sanzionatorio, in tutto simile a quella ordinaria (ti condanno penalmente;
oppure: dichiaro la decadenza della potestà genitoria), l’altra di carattere propositivo, che segna la differenza da quella ordinaria (ti condanno penalmente, ma ad una pena che ti responsabilizza ed agevola
un adeguato sviluppo della tua personalità; dichiaro la decadenza dalla potestà dei genitori, ma creo le condizioni per un affidamento familiare, che ponga fine alla situazione di pregiudizio dei figli minori).
b) La “debolezza” della giurisdizione si riferisce alla seconda delle due fasi anzidette, al momento propositivo in cui essa si articola:
comporta che tale momento dipenda quasi completamente per la realizzazione del suo fine dai servizi delle pubbliche amministrazioni (sia
statale che degli enti locali), alle quali non può essere imposto un “facere”. Per questa ragione le carenze ed inadeguatezze delle pubbliche
amministrazioni si ripercuotono sull’esercizio della giurisdizione mi-
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norile, rendendola differente da regione a regione, con l’effetto ultimo
di una possibile maggiore o minore tutela giudiziaria per il minorenne a seconda del luogo in cui viva.
c) Per globalità s’intende un modo più intenso di realizzare l’unitarietà della giurisdizione. Partendo dal presupposto che oggetto
dell’attenzione giurisdizionale non è tanto il diritto quanto la persona
stessa del minorenne in vista del pieno sviluppo della sua personalità,
quale che sia la difficoltà di cui egli è portatore, la globalità comporta
che ciascuna delle competenze giurisdizionali minorili non sia intesa
come distinta e separata dalle altre, ma, al contrario, strettamente
connessa con loro, perchè tutte possono essere chiamate – anche insieme – ad intervenire per garantire il diritto all’educazione del minorenne in rapporto ai differenti contesti, nei quali egli può vivere.
3.4. Soffermandoci ora più puntualmente sul requisito della globalità, possiamo rilevare che essa si riscontra un pò dovunque nella
materia minorile a cominciare da quella penale, ma anche altrove. Si
può distinguere una globalità per così dire “oggettiva” (relativa al modo di essere della legislazione) ed una globalità “soggettiva”, riguardante i soggetti processuali. Una globalità quest’ultima, che è disciplinata normativamente nel settore penale minorile, ma che vale per ogni
altro ambito della giurisdizione minorile.
3.4.1. La globalità oggettiva è anzitutto ravvisabile nel collegamento tra l’intervento penale e l’intervento civile e, quindi, tra le relative competenze del T.M.. Essa è prevista dal D.P.R. 448/1988, che
all’art. 4 ha disposto che l’autorità giudiziaria invii informativa dell’inizio e dell’esito del procedimento penale promosso in altra circoscrizione territoriale al procuratore della Repubblica del luogo di residenza del minore e all’art. 32, comma 4, ha previsto che nell’udienza preliminare il giudice in caso di urgente necessità possa, con separato decreto, adottare provvedimenti civili temporanei a protezione del minorenne.
Questo collegamento è stato messo più volte in evidenza, ma, forse, è rimasta un pò in ombra la valenza qualificante per caratterizzare la giurisdizione penale minorile, che tende sempre al pari di quella
civile minorile, alla protezione del minore e che, nello specifico, prevedendo l’intervento civile accanto a quello penale, comporta una prospettiva più ampia rispetto a quella del tradizionale processo penale,
cioè quella di tendere a cogliere le cause della condotta deviante del
minorenne e cercare di eliminarle. La giurisdizione penale minorile
ha, appunto, qualcosa di più rispetto a quella ordinaria: non si propo-
200
ne solo la celebrazione del processo, lasciando che siano le pene a tendere alla rieducazione del condannato, ma proprio perchè soggetto
della sua attenzione è la persona, il soggetto minorenne, punta all’immediata protezione dell’imputato minorenne, cercando di intervenire
sulle cause della sua devianza per eliminarle. Per questa ragione, essa
non può essere che un frammento, una delle diverse facce di quel cubo, nella cui immagine plastica si può identificare la giurisdizione
minorile complessivamente considerata.
Viste in questa ottica, anche le disposizioni minorili di attuazione
(D.L. 272/1989) non fanno che seguire lo stesso percorso ed accentuarlo. Norme che in un’ottica “ordinaria” dovrebbero trovare ingresso altrove e cioè, a seconda dei casi, in tema di ordinamento penitenziario minorile (artt. 7, 8, 9, 10, 11, 12) o in tema di ordinamento giudiziario minorile (artt. 2, 3, 4, 5) sono contenute in questo testo. Si
tratta certo di disciplinare l’organizzazione giudiziaria ed i servizi,
come è stato autorevolmente detto, ma si tratta di fare anche qualcosa di più: si tratta di pensare tutto ciò nell’ottica finalizzata a giungere alle cause della devianza del minorenne; si tratta di creare le condizioni normativa ed operative, perchè egli scelga di “cambiare”.
Un’ottica che esige quell’organizzazione e quei servizi, perchè,
attuandosi il processo, si realizzi la tutela della personalità del minore fino in fondo. È quella stessa ottica, che induce a disciplinare l’istituto della messa alla prova e ad ampliare i tempi delle sanzioni sostitutive: il cambiamento viene cercato, cioè, creando alcuni presupposti
funzionali ad ottenerlo sin dal momento del processo ed anche prima.
Non vi è soluzione di continuità, in sostanza, tra processo ed esecuzione se non sul piano formale, sul piano sostanziale non vi sono interruzioni: il momento dell’esecuzione (o per meglio dire, della ricerca
della realizzazione del fine sostanziale di tutela-recupero del minore)
è anticipato al momento del processo.
Questa “confusione” nella disciplina normativa non è una eccezione, ma si riscontra anche altrove nel minorile. Così, ad esempio,
nella legge 184/1983 sull’adozione è ignorata del tutto la tradizionale
distinzione tra diritto privato e diritto pubblico: accanto a norme relative alla materia civile, ve ne sono altre di carattere amministrativo
(quelle sull’affidamento familiare) e altre ancora di carattere penale
(riguardanti il mercato dei bambini). In questa legge il fine di protezione del minorenne è perseguito sostanzialmente puntando ad eliminare situazioni di pregiudizio e di abbandono, nel processo penale esso è, invece, attuato, programmando strumenti per tendere ad una
scelta di cambiamento della personalità e quindi della condotta.
201
3.4.2. “Quanto si è detto rende comprensibile la ragione del secondo modo di articolarsi del requisito della “globalità” nel processo penale: una globalità “soggettiva”, cioè dei soggetti del processo che si
affianca ad una globalità “oggettiva” (quella “mescolanza” normativa)
già sopra analizzata.
Per parlare della globalità soggettiva io credo che sia opportuno ripartire dal testo normativo già citato il D.L. 272/1989 che contiene le
norme di attuazione del processo penale minorile e porre le relative
disposizioni a confronto con il D.L. 271/1989 relativo alle disposizioni
di attuazione del processo penare ordinario.
A ben vedere il D.L. 271/1989 affronta solo il problema di porre le
disposizioni processuali in condizioni di poter essere concretamente
attuate e, coerentemente, contiene – ove si escluda la disciplina relativa alla polizia giudiziaria, peraltro necessaria proprio per rendere operativo il processo – solo norme strettamente attinenti al processo stesso. Nulla dice a proposito del modo di essere del giudice, né della organizzazione giudiziaria; degli istituti di pena o del modo di realizzare
interventi alternativi al carcere.
Il D.L. 272/1989 contiene, invece, norme che, analizzate nella prospettiva culturale ordinaria, risultano incomprensibili.
Per dare attuazione al processo penale esso ritiene, infatti, necessario disciplinare l’assegnazione degli affari tra i giudici dei tribunali
(art. 2), il tempo pieno dei magistrati minorili di primo grado, l’organizzazione delle sezioni di Corte d’Appello per i minorenni (artt. 3 e 4),
la formazione dei giudici con riferimento non solo al diritto minorile,
ma anche alle problematiche della famiglia e dell’età evolutiva (art. 5),
la formazione degli operatori minorili e della polizia giudiziaria (artt.
14 e 6), di disciplinare i centri di giustizia minorile (art. 7) e quello di
prima accoglienza (art. 9), l’organizzazione delle comunità e quella degli istituti di semilibertà e semidetenzione (artt. 10 e 11).
Questa netta discrasia tra norme del processo ordinario e di quello minorile si spiega agevolmente, invece, quando le stesse disposizioni vengono esaminate nella prospettiva della diversità della giurisdizione minorile rispetto a quella ordinaria.
In particolare esse confermano la rilevata “globalità” di questa
giurisdizione in quanto contengono norme che valgono non solo per
la giurisdizione penale, ma per l’intera giurisdizione minorile. Quando
l’art. 2 parla dell’assegnazione degli affari tra i magistrati fa ovviamente riferimento all’intera attività giurisdizionale; così anche gli artt. 3 e
4 che esigono il tempo pieno e anche quelle relative alla formazione
dei giudici, degli operatori sociali e della polizia (artt. 5, 14 e 6).
202
In sostanza, accanto a norme specifiche del “penale” – quelle per
i centri di giustizia minorile (art. 7) e di prima accoglienza (art. 9),
quelle degli istituti di semilibertà e semidetenzione (artt. 10 e 11), – ve
ne sono altre che si spiegano solo alla luce di un diverso rapporto delle
varie competenze giurisdizionali rispetto a quello tradizionale. Un
rapporto che consente di rappresentarle – come si è detto – come le
varie facce di un cubo o come cerchi parzialmente concentrici.
Va osservato peraltro che, malgrado il testo normativo faccia riferimento ai soli uffici giudicanti, il requisito della globalità soggettiva
non può non essere estesa al P.M. ed alla procura generale, che per
l’art. 2 del D.P.R. 448/1988 è anch’essa organo giudiziario del procedimento a carico di minorenni. Per quanto riguarda i P.M. minorili questa strada ha cominciato ad essere percorsa in modo deciso, sia con la
distribuzione degli affari relativi alle diverse attribuzioni della funzione giudiziaria minorile a tutti magistrati, sia con l’istituzione spontanea presso le procure minorili degli uffici per gli interventi civili.
A questo orientamento non si ispira, invece, l’attività minorile delle procure generali, nelle quali spesso si riscontra piuttosto il persistere di un’ottica “ordinaria”, che induce per lo più a tenere distinti gli affari civili minorili da quelli penali, assegnandoli a magistrati diversi.
Il requisito della globalità si riscontra anche nei soggetti processuali diversi dal giudice e dal P.M.. Per i servizi sociali essa è normativamente sancita dall’art. 6 del D.P.R. 448/1988 che prevede l’intervento dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali nel processo penale, oltre a quelli minorili dell’amministrazione della giustizia. Questi
ultimi, invece, sono abitualmente chiamati ad intervenire nell’ambito
degli interventi civili nei casi d’urgenza previsti dall’art. 32, comma 4,
dello stesso D.P.R.. Si realizza, quindi, per entrambi tali servizi una
prospettiva globale d’intervento e la conseguente esigenza di coordinamento.
La prospettiva di globalità si sta estendendo gradualmente anche
alle sezioni di polizia giudiziaria per i minorenni, che vengono interessate abitualmente all’indagine investigativa relativa ai processi penali, ma sempre più spesso sono chiamati ad intervenire anche nel settore civile. Questa linea di tendenza è confermata anche dalla circostanza che sempre più spesso operatori della P.G. minorile entrano a
far parte degli uffici per gli interventi civili delle procure.
3.5. Un altro dato peculiare della giurisdizione minorile è la specializzazione. Anche di esso si trova un puntuale riscontro nelle disposizioni relative al processo penale minorile, ma il discorso precedente
203
ci induce a ritenere che essa non può non attenere a tutta la giurisdizione.
Per la specializzazione sono previste modalità diverse di realizzazione: A) la promozione di corsi di formazione ed aggiornamento, B)
il tempo pieno, C) l’interdisciplinarietà.
A) La prima modalità interessa tutti i soggetti del processo ed è
espressamente prevista per tutti i magistrati addetti agli uffici minorili: quindi, sia per quelli del tribunale che per quelli della procura, sia
per quelli di primo che di secondo grado (art. 5). Essa riguarda anche
i giudici onorari come la legge dice testualmente, ma la loro partecipazione è stata finora molto ridotta, malgrado molti manifestino interesse a parteciparvi. È prevista anche per i difensori (art. 15), per la
polizia giudiziaria (art. 6) e per i servizi sociali dell’amministrazione
della giustizia e degli enti locali (art. 14). I corsi di formazione devono
attenere, non solo al diritto minorile, ma anche alle problematiche
della famiglia e dell’età evolutiva: ciò è esplicitamente richiesto sia per
i magistrati che per i difensori, ma deve ritenersi essere domandato
anche in relazione ai corsi per la polizia giudiziaria e per i servizi. E
ciò ben si comprende alla luce di quanto ho detto in precedenza: conoscere le problematiche della famiglia e dell’età evolutiva è necessario
per conoscere meglio la personalità del bambino e dell’adolescente e,
quindi, la devianza minorile e le sue cause; è indispensabile per programmare interventi coordinati e funzionali alla protezione ed al recupero del minore.
Tali corsi peraltro sono rari, scarsamente incentivati e in ogni caso
insufficienti a coprire la domanda di formazione tanto che talora essi
sono stati allestiti non dalle amministrazioni che dovrebbero realizzarli, ma grazie ad iniziative spontanee locali. Ed è, questo, un primo
serio ostacolo alla concreta realizzazione della specializzazione dei
soggetti del processo.
B) Un’altra modalità di realizzazione di questo requisito è, come
si è accennato, il tempo pieno. Esso è previsto in modo puntuale per i
magistrati minorili di primo grado (art. 3) e, come si è visto, in modo
meno perentorio (e di fatto inattuato) per quelli delle sezioni minorili
di Corte d’Appello. Non è previsto affatto per i magistrati della procura generale, che si occupano della materia minorile. Non è neppure
previsto per i difensori. Quanto agli altri due soggetti del processo, i
servizi sociali e la polizia giudiziaria, per loro è prevista un’articolazione organizzativa particolare: è stato creato un nucleo centrale specializzato, che opera a tempo pieno (rispettivamente la sezione di
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polizia giudiziaria per minorenni e l’ufficio di servizio sociale del Ministero di Grazia e Giustizia) e che ha sede presso gli uffici giudiziari
minorili. Vi è poi la rete di operatori (sia di polizia giudiziaria che dei
servizi sociali) diffusa su tutto il territorio, che non si occupa di minori a tempo pieno. La rete periferica dovrebbe gestire in modo coordinato con il nucleo centrale i casi che man mano si presentano. Un tale
programma è più organicamente previsto per i servizi, che per legge
sono tutti interessati alla partecipazione a corsi di formazione (art. 14)
ed all’espletamento appunto di attività tra loro coordinate tramite una
commissione per il coordinamento (art. 13), in realtà finora non costituita. Questo coordinamento non è, invece, normativamente previsto
per la polizia giudiziaria, per la quale si verifica anche la singolare
situazione che la partecipazione a corsi di formazione in materia minorile non è prevista per la polizia giudiziaria del territorio, la quale è
a più diretto contatto con i ragazzi (procedendo a fermi, arresti, accompagnamenti, controlli per le misure cautelari, ecc.), mentre è prevista solo per le sezioni di polizia giudiziaria per minorenni, che hanno con il minorenne solo un rapporto eventuale e comunque successivo. Qualche procura sta, peraltro, ovviando a questa difficoltà con la
promozione spontanea di corsi di formazione aperti anche alla polizia
giudiziaria del territorio.
C) L’ultima modalità programmata per favorire la specializzazione dei soggetti del processo è l’interdisciplinarietà. Essa riguarda la
sola magistratura minorile giudicante ed è conseguenza della composizione mista del collegio, costituito da magistrati professionali e magistrati onorari esperti di alcune scienze umane (biologia, psichiatria
criminologica, pedagogia, psicologia). Ciò consente o dovrebbe consentire ai giudici un costante confronto interdisciplinare, oltre la possibilità di giudicare, tenendo presenti i contributi rinvenienti dal diverso modo di “leggere” una certa vicenda secondo angoli visuali differenti e contemperando il profilo da altri saperi. Lo scopo è quello
stesso che impegna i soggetti del processo a formarsi con corsi relativi alle problematiche sull’età evolutiva: quella di conoscere meglio i
problemi dell’infanzia e dell’adolescenza e di porsi in grado di reperire risposte giudiziarie qualificate.
L’interdisciplinarietà è una peculiarità importante del Tribunale
per i Minorenni, che esige qualche ulteriore riflessione.
Essa è espressione del profondo legame, dell’integrazione che il
diritto minorile ha in altri saperi, una peculiarità propria di questo
diritto, che va posta nella giusta evidenza.
205
Se si continua a guardarlo nella prospettiva tradizionale della centralità del momento giuridico e di perifericità delle altre scienze, si
rischia di non intendere appieno questo diritto nella sua valenza innovativa. Qui il momento giuridico è esso stesso frutto della fusione del
diritto e degli altri saperi chiamati non (o non solo), come abitualmente accade, ad un intervento subordinato, quale potrebbe essere l’espletamento di una consulenza, rispetto alla quale il giudice (l’uomo del
diritto) resta perito dei periti; ma ad un intervento paritario teso a
“costruire” insieme il diritto a vari livelli: a livello interpretativo, in
quanto concetti fondamentali del diritto minorile – quelli di maturità
(art. 84 cod. civ.), di capacità d’intendere e di volere (art. 98 cod. pen.),
di “abbandono” e “condotta pregiudizievole” e altri – vengono riempiti di contenuto mutuato da altre scienze; a livello giudiziario, in quanto significativa è la partecipazione di esponenti di altre discipline al
collegio giudicante del Tribunale Minorile nel quale la componente di
giudici esperti è numericamente paritaria o prevalente rispetto a quella dei magistrati professionali; a livello operativo, in quanto il modo
stesso d’intervenire sulla realtà minorile è frutto di un contemperamento dell’azione di operatori di estrazione è formazione diversa,
azione che talora è stata notevolmente incisiva. È noto che a metà
degli anni ’70 la fine delle case di rieducazione in Italia fu segnata non
da una scelta di legge (che anzi prevede tuttora tale intervento rieducativo, anche se nei fatti esso è obsoleto), ma dal rifiuto a realizzarlo,
opposto dagli enti locali e, in primo luogo, dai servizi locali, espressione di culture extragiuridiche.
Questo requisito (l’interdisciplinarietà) spiega quindi perchè il diritto minorile ponga particolare attenzione al modo in cui altre scienze guardano al minorenne: perchè si possa realizzare una conoscenza
globale del medesimo, una conoscenza attuata guardando a lui contemporaneamente dai diversi angoli visuali di professionalità varie.
L’esigenza di una magistratura onoraria è molto sentita anche per
gli uffici del P.M., soprattutto in relazıone alla materia civile e agli uffici per gli interventi civili che si stanno costituendo in molte procure.
In materia civile minorile il modo di porsi del difensore è diverso,
essendo la sua presenza facoltativa nel procedimento camerale. Ma la
tendenza culturale alla specializzazione è confermata dalla costituzione dell’Associazione italiani degli avvocati per la famiglia, che in qualche modo echeggia l’A.I.G.M.F. della magistratura.
4. Riassumendo quanto detto, possiamo concludere su questo
punto che la giurisdizione minorile è una giurisdizione diversa rispet-
206
to a quella ordinaria con caratteristiche sue proprie che si ritrovano in
ogni settore di suo intervento, anche se trovano esplicazione normativa nel settore penale e non in quello civile. Ma, chiarito ciò, occorre
fare un riferimento più puntuale a quanto è accaduto nella materia
civile e cercare di capire il perchè oggi ci si trovi nella singolare situazione per cui il Tribunale per i Minorenni è giudice naturale del minorenne nel penale e non nel civile.
Per comprendere ciò bisogna risalire al 1983 ed alla già citata sentenza 222/1983 della Corte Costituzionale, che dichiarava illegittimo
l’art. 9 del R.D.L. 1404/1983 nella parte in cui sottraeva alla competenza del Tribunale per i Minorenni i procedimenti penali a carico di
minori computati con maggiorenni nello stesso reato.
Già per spiegare questa decisione la Corte aveva chiarito che l’esigenza di assicurare la piena tutela dei minori, non sottraendoli al loro
giudice naturale, era un interesse costituzionale tanto importante da
prevalere sul rischio di conflitto di giudicati.
Peraltro la Corte non si era limitata ad un discorso riguardante la
sola materia penale: era andata ben oltre ed aveva sottolineato che la
soluzione data era l’applicazione a questo settore del suo orientamento generale tratto dall’analisi globale della legislazione. In base a tale
orientamento giudice naturale del minore e giudice più idoneo, quindi, a curare i suoi interessi è il Tribunale per i Minorenni per le sue
caratteristiche di specializzazione. Infatti, come già ricordato, questa
sentenza ha affermato che la tutela dei minori si colloca “… tra gli
interessi costituzionalmente garantiti e il Tribunale per i Minorenni,
considerato nelle sue complessive attribuzioni oltre che penali, civili e
amministrative ben può essere annoverato tra quegli istituti dei quali
la Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento, così
adempiendo al precetto costituzionale che la impegna alla protezione
della gioventù”.
Si tratta, peraltro, di un orientamento manifestato non occasionalmente dalla Corte, ma consolidato. Infatti, già con la precedente
sentenza n. 135 del 30 luglio 1980, essa aveva avvertito la necessità di
un’interpretazione sistematica della tematica minorile nella materia
civile ed aveva auspicato il formarsi di un’orientamento giurisprudenziale che attribuisse al Tribunale per i Minorenni la competenza a
decidere in tema di affidamento di figli, quando la questione fosse
stata limitata alla sola revisione delle disposizioni relative appunto all’affidamento dei figli nell’àmbito di una separazione coniugale già
pronunziata e non avesse più interessato in modo diretto i genitori
(art. 155, comma, cod. civ.).
207
In linea con un tale orientamento in quegli stessi anni si era formata una giurisprudenza della Cassazione che aveva attribuito in tali
casi la competenza al Tribunale per i Minorenni.
Ma di segno opposto fu la decisione della stessa Cassazione a Sezioni Unite (Cass. 2 marzo 1983, n. 1551). Rifiutando le conclusioni
del Procuratore Generale e ribaltando il precedente orientamento giurisprudenziale delle singole sezioni della stessa Cassazione, le Sezioni
Unite ebbero ad affermare che la competenza a conoscere della domanda di revisione delle condizioni di affidamento della prole spetta
al Tribunale Ordinario e non al Tribunale per i Minorenni.
Negli anni successivi questo strappo tra Corte Costituzionale e
Cassazione si è consolidato stabilmente in giurisprudenza e la divaricazione si è definitivamente cristallizzata. La linea della Corte Costituzionale è rimasta limitata nella materia penale ed è stata normativamente sancita, come rilevato, dal codice processuale penale minorile
(art. 3, comma 1, D.P.R. 448/1988). Quella della Cassazione ha orientato la giurisprudenza civile ed ha trovato spazio – a partire dalla fine
degli anni ’80 – in un clima di crescente riflusso culturale, che ha portato l’opinione pubblica in alcuni momenti (come in occasione del c.d.
“caso Serena”) a chiedere l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni.
5. In realtà non è difficile individuare le ragioni per le quali la giurisdizione minorile ha incontrato limitazioni al suo esercizio. Esse
vanno indubbiamente reperite nel modo in cui si è articolato il rapporto minorenne-adulto. L’impostazione iniziale è stata quella per cui
la giurisdizione minorile si ritira per cedere il posto a quella ordinaria
ogni volta che vi è un collegamento processuale minore-adulto. Già in
materia penale l’art. 9 del R.D. 1404/1934 comportava, in caso di coimputazione minore-maggiore, l’attrazione per competenza presso il giudice naturale del maggiorenne anche della competenza a decidere sul
minorenne.
La crescita della cultura minorile registrata negli anni ’70 portò
subito dopo al risultato che conosciamo in materia penale. Molto diversa si presentava e si presenta il problema in materia civile. Qui non
si tratta solo di gestire un anonimo rapporto adulto-minore come nel
penale, qui si tratta di molto di più, perchè nella materia civile il minorenne scompare come tale ed entra nella tematica giudiziaria in veste
di figlio. Qui non si gestisce cioè un anonimo rapporto minorennemaggiorenne, ma un rapporto interpersonale di carattere familiare.
Quello che viene alla ribalta è in sostanza il rapporto minore-famiglia
inteso – come rileva Paolo DUSI – nella duplice prospettiva di “difesa
208
della famiglia”, nel cui interno il minore si sviluppa e di “difesa dalla
famiglia”, che sovente lo penalizza. Le modalità di tutela del minore
sono quindi qui segnate dal rapporto pubblico-privato; la sfera familiare è stata – com’è noto – tradizionalmente sottratta al controllo e all’influenza pubblica per essere gestita dal capo-famiglia. Peraltro la legislazione italiana intervenuta tra la metà degli anni ’60 e ’80, dando
spazio alla tutela dei singoli componenti la famiglia e quindi alla moglie ed ai figli ha ampliato l’area dell’intervento pubblico dello Stato.
Esso in Italia non ha contrapposto un modello precostituito alle relazioni familiari ed al loro libero realizzarsi (tipico di uno Stato laico).
In questo contesto il giudice è chiamato a svolgere compiti diversi rispetto al passato, quando non vi era il divorzio o la dichiarazione
di adottabilità. Oggi egli è chiamato a verificare che vi siano in concreto determinate condizioni (ad es. se la convivenza è intollerabile) o
a tutelare valori privilegiati (l’interesse costituzionalmente rilevante
del minore allo sviluppo della sua personalità), ma anche ad individuare la presenza di quei limiti invalicabili (ad es. situazione di abbandono del figlio oppure l’impossibilità di ricostruire la comunione tra i
coniugi), perchè la famiglia cessi o orizzontalmente (tra coniugi) o
verticalmente (tra genitori e figlio). Ora, se è vero che in materia civile si è individuata una frammentazione di competenze tra vari giudici, è anche vero che il nocciolo duro del problema, quello che ha impedito ed impedisce ancora una riforma che unifichi le competenze è
quello tra Tribunale Ordinario in tema di separazione e divorzio e Tribunale Minorile, il cui dualismo esprime a mio avviso in modo sufficientemente chiaro il problema evidenziato, con tendenziale maggiore prospettiva privatistica del Tribunale Ordinario (connesso al modello non specializzato di Giudice, al diverso tipo di procedimento, ai
maggiori spazi lasciati alla gestione dei genitori-coniugi).
6. Le differenze che si evidenziano tra i due sistemi determinano
tuttora rilevanti diversità culturali. Abbiamo già parlato della specializzazione, che manca nel giudice ordinario e che solo in parte viene
colmata dall’espletamento di consulenze psicologiche. Ma è importante ripensare anche alla diversità del tipo di procedimento: quello contenzioso del Tribunale Ordinario privilegia e istituzionalizza il conflitto tra i coniugi ponendo solo come appendice il problema dei figli (che
non hanno conflitti con i genitori o tra loro); quello camerale della giurisdizione minorile tende al contrario a dare maggior rilievo alla relazione non conflittuale con i figli oltre che a stemperare la conflittualità dei coniugi ed a responsabilizzarli maggiormente come genitori
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con doveri precisi. Il procedimento camerale per il tipo stesso d’indagine, per i collegamenti ormai abituali con il territorio e la sua cultura punta a raggiungere la verità “vera” e ad aggiornarla continuamente; il procedimento contenzioso dà molto rilievo alla verità “rappresentata” dalle parti ed agli argomenti probatori da loro addotti.
Ma la percezione più generale è quella che nel procedimento ordinario vi è in linea di massima una attenzione più modesta per il minorenne, considerato non come un soggetto al pari degli altri, ma come
“spes hominis”.
Pensiamo per un momento al “c.d. diritto di visita”, che è un diritto attribuito al genitore non affidatario ed anche ai nonni. Perchè al
minore deve essere imposto un “dovere” di visita, anche se non vuole
l’incontro? Perchè si pensa che l’eventuale suo rifiuto all’incontro non
possa che essere effetto della sollecitazione della “controparte”, cioè
del genitore affidatario? Che senso ha costringere – come pure accade
– un bambino ad incontrare per poche ore alla settimana un genitore
nella sede di un consultorio? Che senso ha l’esecuzione coatta su un
bambino, promossa dal genitore che non ha soddisfatto il suo diritto
di visita?
Persiste una cultura che propone tuttora una prospettiva adultocentrica di questa delicata tematica. E ciò è confermato dalle difficoltà
finora incontrate a livello legislativo per attuare una riforma. Non a
caso tutti i tentativi in questo campo (ultimo, quello promosso dal ministro Conso con la costituzione della Commissione Fadiga non confermata dal successivo ministro Biondi) sono falliti.
E tuttavia pur con il persistere di questi problemi, di questi “noccioli duri”, la cultura minorile e l’ottica della giurisdizione minorile
dimostrano ampia vitalità e segni di crescita. Uno spazio importante è
aperto, ad esempio, in tema di reati sessuali in danno di minorenni
dall’art. 609-decies c.p., che stabilisce l’obbligo di comunicazione al
Tribunale per i Minorenni del procedimento promosso per i reati previsti dagli art. 609-bis, 609-ter, 609-quinquies, 609-octies e per il delitto previsto dall’art. 609-quater.
Ciò ha determinato l’esigenza di coordinamenti operativi tra procure ordinarie e uffici minorili e ha già dato luogo a delle intese operative: una interessante è quella realizzata a Torino tra procura ordinaria ed uffici giudiziari minorili, il cui testo è allegato alla relazione
(All. 1). La cultura giuridica minorile tende in concreto ad espandersi
anche nella giurisdizione ordinaria e sta cominciando a farlo nel settore dove incontra minore resistenza, che è quello penale. Indice di
tipo analogo, anche se molto diverso nei contenuti è costituito dall’at-
210
tenzione critica che si va ponendo al rito camerale, che è il fulcro dell’intervento giudiziario civile minorile, ma che presenta il limite,
lamentato da varie parti – di essere debole sotto il profilo delle garanzie che assicura ai soggetti coinvolti nel procedimento. In merito un
ruolo significativo va assumendo il P.M. minorile sotto il profilo del
controllo di legalità. Una graduale modificazione di ruolo che nasce
dall’esigenza crescente di fissare maggiori certezze processuali e di
stabilire regole da rispettare. Si vanno quindi ponendo varie questioni
importanti: da quella di un maggior rigore nella promozione dell’azione civile, a quella della realizzazione di un contraddittorio sostanziale
a quella dell’analisi dei ruoli dei soggetti coinvolti. È interessante in
proposito, il tentativo di affrontare e risolvere questi problemi non
solo invocando riforme legislative, ma anche offrendo interpretazioni
nuove delle disposizioni già vigenti (così L. SACCHETTI, L’esecuzione
dei provvedimenti civili riguardanti i minori, e l’intervento di P.C.
PAZÉ, entrambi in “Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse
del minore”, a cura di P. DUSI).
Parte II – Il ruolo del P.M. nei procedimenti civili minorili.
1. L’odierno, lento emergere di un ruolo diverso del P.M. minorile
è frutto dell’evoluzione culturale gradualmente subita dal giudice minorile complessivamente considerato. Di quest’ultima possono cogliersi, a partire dagli anni ’60, due distinte fasi: una prima, che si può
definire ideologica si pone tra la metà degli anni ’60 ed i primi anni ’80
e si incentra soprattutto sulla questione del ruolo del giudice minorile
intendendo per tale soprattutto il giudice del Tribunale per i Minorenni, ma comunque ogni magistrato minorile senza alcuna distinzione sostanziale tra giudice e P.M., né alcuna evidenziazione dell’importante rilevanza della magistratura onoraria. Si registrò allora una netta spaccatura dei magistrati minorili sul problema del ruolo con il formarsi di due schieramenti: da un lato vi erano coloro (ed erano la
grande maggioranza), che attribuivano al giudice minorile il ruolo di
promotore dei diritti del minore, primo tra tutti il diritto all’educazione, (un ruolo sintetizzato da un grande giudice minorile fiorentino,
Gian Paolo MEUCCI, in tal modo: “il giudice dei minori, esercitando
il suo ruolo di autorità, svolge un impegno educativo nelle forme della
giurisdizione”, in A. GERMANÒ, (a cura di) La riforma della giustizia
minorile in Italia, Unicopli, 1986). Dall’altro canto, vi erano coloro che
lo individuavano in compiti di garanzia giurisdizionale e vedevano nel
211
primo orientamento una tendenza alla “amministrativizzazione”, a
creare confusione tra giudice e operatore sociale, trasformando il Tribunale Minorile in un servizio sociale, trascurando quindi il valore
della terzietà del giudice ed emarginando il P.M..
La seconda fase di questa evoluzione culturale si può definire
pragmatica e si ha a partire dagli anni ’80. Essa, pur non rinunciando
a ricercare costantemente una più adeguata tutela dei minori, peraltro
attuata in modo normativamente più efficace che in passato con la
legge sull’adozione del 1983 e con la riforma processualpenale del
1988-89 va ponendo più concretamente la sua attenzione sui singoli
soggetti processuali. Nasce così la nuova attenzione verso il giudice
onorario di cui il C.S.M. si è occupato in due circolari abbastanza
recenti, cosa mai accaduta in precedenza. Per la stessa ragione si pongono il problema del difensore e della sua specializzazione e quello del
ruolo dei servizi sociali e della polizia giudiziaria. Anche il P.M. minorile sta individuando gli spazi del suo intervento. È questa una conferma a mio avviso del fatto che la giurisdizione minorile (al pari del
diritto minorile) è in fase di costruzione e che uno dei profili più significativi di questa costruzione è la ricerca dell’identità e quindi dei ruoli
da parte dei soggetti processuali.
2. Per molto tempo il ruolo del P.M. minorile è stato appiattito su
quello statico del P.M. ordinario, limitato ai sintetici interventi conclusivi dei procedimenti, nei quali deve obbligatoriamente intervenire,
ma rispetto alle cui problematiche restava sostanzialmente estraneo,
un ruolo ben diverso, quasi opposto a quello ideologizzato, dinamico
e tendente ad occupare ogni spazio disponibile (e quindi a svolgere
compiti di supplenza anche per il P.M.), proprio del giudice del Tribunale per i Minorenni. Un ruolo evanescente e praticamente inesistente, quindi, quello del P.M. minorile, la cui attività è stata abitualmente
limitata alla redazione di una richiesta iniziale di promozione del procedimento civile minorile (che in sostanza consisteva nella redazione
di una formale richiesta su un foglietto inviatogli dal tribunale insieme alla segnalazione di una situazione di disagio o di devianza minorile pervenuta direttamente allo stesso tribunale a mezzo di una relazione sociale o di una segnalazione di polizia oppure contenuta in un
verbale delle dichiarazioni rese da un interessato comparso in tribunale ad un magistrato del tribunale stesso), alla formulazione di pareri ed al visto sul provvedimento, che molto raramente viene impugnato anche ora. Prendendo atto di ciò il progetto di legge n. 960 del 3
ottobre 1984 presentato dai senatori Ricci, Tedesco, Tatò e altri aven-
212
te ad oggetto “l’introduzione di nuove norme per la giustizia minorile”,
escludeva il P.M. dalla materia civile, affermando testualmente che
“l’esperienza ha dimostrato, nel corso degli anni, che l’intervento del
Pubblico Ministro non è sufficientemente utile nella materia e nella
funzione che la legge intendeva attribuirgli per giustificare il grande
dispendio di tempo e di risorse umane che determina l’attuale sistema
del parere e del visto del Pubblico Ministero su ogni procedimento
civile”.
Ma negli ultimi quattro-cinque anni il P.M. sta acquistando un
ruolo diverso e più incisivo. Si tratta di un’evoluzione tendenziale e
graduale ma abbastanza evidente che si va realizzando a vari livelli: a)
con interventi di emergenza per casi di necessità sorti nei giorni o
nelle ore del giorno in cui gli uffici giudiziari sono chiusi; b) con un’attività investigativa tendente non ad attendere la segnalazione di situazioni di abuso o pregiudizio sui minori, ma a rendersi parte attiva e a
far sentire la sua presenza sia presso i servizi sociali che nel territorio.
Ciò è avvenuto soprattutto con la costituzione degli uffici per gli interventi civili. In un solo ufficio minorile, quello di Torino, si è realizzato d’intesa tra tribunale e procura un ufficio per la mediazione presso
la procura minorile che si occupa di applicare questa nuova tecnica al
solo settore penale. Si annunciano peraltro altre iniziative dirette a
rendere operativi uffici simili in altre realtà ed anche nella materia civile; c) con l’assunzione di un ruolo di garanzia di legalità che ha riguardato anzitutto la fase iniziale del procedimento civile, la promozione dell’azione, ma che si va estendendo anche ad altri momenti, in
particolare nell’applicazione della legge sull’adozione a proposito del
ruolo svolto dal P.M. al momento dell’abbinamento e in tema di affidamento familiare.
Il P.M. tende in sostanza a riappropriarsi del suo ruolo tradizionale, ma anche sotto altro profilo a porsi come magistrato specializzato con un ruolo autonomo tendente a realizzare quel rapporto diretto di servizio con l’utenza, quella “giustizia di vicinanza” che già si
attua in altri Paesi, a dare un contributo reale alla tutela giurisdizionale dei minori, che per molto tempo ha delegato al Tribunale Minorile in via esclusiva.
Un ampliamento delle sue competenze civili si ha ora per il P.M.
minorile grazie alla legge 15 gennaio 1994, n. 64, la quale all’art. 7 gli
attribuisce il compito di promuovere il procedimento per la restituzione del minore o per il ripristino del diritto di visita in attuazione
della Convenzione Internazionale de L’Aja del 25 ottobre 1980 sugli
aspetti civili della sottrazione internazionale di minorenni. Ciò avvie-
213
ne a seguito di trasmissione degli atti da parte dell’Autorità centrale
italiana con ricorso proposto al tribunale e dà luogo ad un vero e proprio giudizio di delibazione, in quanto per l’art. 13 comma 2 della citata convenzione, il tribunale, pur in presenza di un’illecita sottrazione
di un minore da parte dell’altro genitore, può rifiutare di disporre il
rientro, se il minore vi si oppone e se ha raggiunto una età e una maturità tali che si ritiene opportuno tener conto della sua opinione. Lo
stesso P.M. minorile cura l’esecuzione della decisione del tribunale,
anche avvalendosi dei servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia. Altre competenze analoghe sono attribuite al P.M. dall’art. 6 in
esecuzione della Convenzione di Lussemburgo del 20 maggio 1980 sul
riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento di minori e di ristabilimento dell’affidamento. Competenza a proporre il ricorso spetta al P.M. anche in ordine all’attuazione della Convenzione de L’Aja 5 ottobre 1961 in materia di protezione di minori e
della Convenzione de L’Aja 28 maggio 1970 in materia di rimpatrio di
minori.
3. Per cogliere in modo più efficace le modalità di realizzazione
della recente evoluzione che il P.M. minorile sta subendo, ho svolto
una rapida inchiesta interpellando informalmente colleghi di varie
parti d’Italia, ed acquisendo indicazioni utili sulla situazione dei seguenti uffici minorili; Ancona, Bologna, Firenze, Perugia, Napoli, Potenza, Palermo, Milano, Torino, Venezia, Taranto, Bari. Altre informazioni ho assunto dagli scritti di Gianfranco DOSI (Esperienze di giustizia minorile, 1990, e Minorigiustizia, prima serie, n. 5/1991) nonché dai
lavori di DE SALVATORE (Minori a rischio, Edinova, 1993) e PATRONE (Minorigiustizia, Nuova Serie, 2/1993) rispettivamente per Roma,
Lecce e Genova.
Il campione interpellato, che ha consentito di conoscere sia pure
sommariamente la situazione di quindici sedi giudiziarie (comprese le
più importanti) sulle ventinove di tutta Italia mi è sembrato sufficientemente rappresentativo delle linee generali di tendenza, che si vanno
manifestando in merito. Ho ritenuto perciò utile riferirne in questa
occasione.
I quesiti proposti hanno riguardato i seguenti punti:
A) A quale ufficio giudiziario minorile vengono inviati dai servizi
sociali e dalla polizia le segnalazioni iniziali tese ad ottenere la promozione di procedimento civile a protezione di un minorenne;
B) Se vengono effettuati interventi in situazioni di emergenza dal
214
P.M. minorile in ore notturne o nelle quali comunque gli uffici giudiziari sono chiusi;
C) Se presso la procura minorile è stato costituito un ufficio per gli
interventi civili ed, in caso positivo, come opera, e da chi è composto;
D) Quali altri interventi esplica il P.M. in materia civile;
E) Se vi è un’attività della sezione della polizia giudiziaria per i
minorenni in materia civile;
F) Quale intervento viene svolto dal P.M. minorile in materia di
adozioni e soprattutto con riferimento all’abbinamento minore/i-adottanti;
G) Se viene ritenuta tuttora esistente la competenza amministrativa per la rieducazione anche a seguito del D.P.R. 616/1977 e l’art. 4
del D.P.R 448/1988 e quale ruolo vi svolge il P.M. minorile.
Riassumo qui il senso delle risposte ricevute, integrandole con
qualche osservazione.
4. A) In relazione al primo quesito è emersa chiara la tendenza
delle procure a riappropriarsi del potere di promozione dell’adozione
civile nei procedimenti ex artt. 330-333-336 cod. civ. e, quindi, nelle situazioni di abuso o trascuratezza educativa verso minorenni. Le segnalazioni iniziali vengono infatti inviate alle procure e non più ai tribunali. Si tratta di un orientamento che si è affermato soprattutto negli ultimi due-tre anni; in modo più deciso ad Ancona, Bologna, Torino, Palermo, Firenze e Roma; in modo meno puntuale a Milano e Bari. A Napoli, invece i servizi sociali inviano le segnalazioni al tribunale, la polizia le manda alla procura. A Venezia e Potenza le segnalazioni vengono per lo più inviate ai tribunali, così è avvenuto inizialmente anche a Taranto, dove negli ultimi tempi gli invii tendono a spostarsi verso la procura. Qui per un’intesa tra uffici minorili gli ascolti
iniziali di utenti che prospettano situazioni pregiudizievoli di minori
vengono effettuati dai giudici onorari del tribunale. Dovunque quando
le segnalazioni iniziali siano comunque pervenute al tribunale, vengono subito rimesse alla procura, perchè valuti se promuovere l’azione
civile. Un’eccezione è costituita da Napoli, dove il tribunale crea subito per ogni segnalazione pervenuta un incarto titolato “atti relativi al
minore”, assegnandolo ad un giudice delegato, senza indicazione del
tipo di procedura nè previa trasmissione al P.M.. Ciò eventualmente
viene fatto in un secondo tempo dal giudice delegato, quando gli perviene l’incarto.
215
Diversa è la gestione dei casi d’urgenza, le cui segnalazioni iniziali vengono inviate direttamente al tribunale, che peraltro prima dell’eventuale pronunzia del provvedimento provvisorio richiede in ogni
caso il parere del P.M.; ciò avviene dovunque, salvo qualche eccezione
(ad esempio a Napoli). L’attività giudiziaria civile è ripartita tra i P.M.
talora con criterio territoriale (Bologna, Firenze, Bari), talora per materia, talora in altro modo (a Napoli vi è un sistema meccanizzato di
assegnazione).
B) Nei giorni festivi e durante le ore dei giorni infrasettimanali
nelle quali gli uffici giudiziari sono chiusi, i casi d’urgenza vengono
dovunque gestiti dal P.M. di turno; solo eccezionalmente accade che
sia interpellato un magistrato del tribunale (Potenza). Viene applicata
in questi casi la disposizione dell’art. 403 cod. civ., che si attua senza
redigere un provvedimento formale, ma con disposizioni orali (per lo
più telefoniche) impartite dal P.M. all’autorità intervenuta (per lo più
la polizia, solo raramente un servizio sociale). Si tratta di risposte
provvisorie, efficaci fino a quando il tribunale non pronunzierà un formale provvedimento e riguardano sempre situazioni di emergenza: dal
ritrovamento di ragazzi scappati di casa o di minorenni extra-comunitari “non accompagnati”, a litigi familiari, a contese relative alla
consegna di bambini e tra genitori separati ecc..
In alcune sedi il P.M. ritiene di essere direttamente legittimato ad
applicare tale norma (Lecce, Venezia, Bologna, Firenze, Milano), in altre invece no (Palermo); in questo secondo caso l’intervento risulta
svolto di sua iniziativa dalla polizia o dal servizio sociale intervenuto,
anche quando sia stato interpellato il P.M. e costui abbia fornito le
indicazioni opportune per la soluzione della vicenda. L’intervento più
ricorrente è quello che comporta la temporanea sistemazione di minorenni in comunità o in altro ambiente protetto: a Bologna, quando l’emergenza riguardi zone del territorio distrettuale prive di servizi rispondenti al bisogno, il P.M. suole disporre che il minorenne destinatario dell’intervento venga temporaneamente sistemato in ospedale.
In alcune sedi non vengono attuati interventi d’urgenza ex art. 403
cod. civ. da parte o, comunque, con il coinvolgimento del P.M.. Ciò
accade, ad esempio, a Torino, dove esistono servizi sociali e comunità
adeguati a rispondere all’emergenza senza limitazione di orario; così
avviene anche a Napoli grazie alla presenza in questura di un valido
ufficio-minori in grado di gestire autonomamente ogni emergenza e
quindi, destinatario di ogni richiesta urgente.
C) Presso alcune procure (Roma, Taranto, Lecce, Bari) è stato isti-
216
tuito un ufficio per gli interventi civili, che ha assunto connotazioni diverse da sede a sede sia in relazione alle persone che lo compongono
sia per l’attività espletata. Comune a tutti è la partecipazione all’attività degli operatori della sezione di polizia giudiziaria minorile. Tutte
le procure che hanno istituito tali uffici rilevano inoltre la necessità
che nelle procure venga istituita una nuova figura professionale, il sostituto procuratore onorario, che possa occuparsi in modo continuo
ed intenso soprattutto di questa attività. Esaminiamo brevemente le
modalità organizzative di ciascuno di tali uffici.
C/1) L’ufficio per gli interventi civili di Roma è stato il primo in assoluto a costituirsi in Italia nel 1989 ed ha avuto il merito di aver dato
notevole impulso alla revisione critica del ruolo e dell’attività (fino ad
allora molto modesta) svolta dal P.M. in materia civile. Suo compito è
stato inizialmente quello di favorire l’acquisizione di segnalazioni relative ad abusi (ivi comprese le condotte di trascuratezza) in danno di
minorenni, di effettuare indagini per la delibazione della segnalazione
acquisita anche con colloqui “istruttori”, che, oltre a valutare in modo
sommario l’attendibilità della richiesta, comportavano anche una sua
analisi (che cosa si chiede, che cosa si vuole ottenere, quali persone
sono coinvolte). Oltre ad operatori di polizia, erano coinvolti nell’attività dell’uffıcio numerosi operatori volontari di estrazione diversa ed
anche di provenienza universitaria. L’attività dell’ufficio ha ruotato in
una prima fase intorno ad un solo sostituto procuratore, poi è stata distribuita tra tutti i sostituti; nella prima fase essa ha ricevuto un notevole impulso, giungendo ad essere abbastanza nota nella popolazione
grazie ad una campagna di stampa attuata nel 1990 con affissione per
la durata di un mese di manifesti stradali, di cartoncini su mezzi pubblici e grazie ad uno spot televisivo interpretato dall’attore Gigi Proietti. Tale campagna fu finanziata dalla Centrale del latte di Roma e curata dalla “Pierre-Stampa”.
Ne derivò un notevole incremento delle segnalazioni di abusi (che
nel 1989 erano già state oltre cinquecento) anche per effetto dell’istituzione presso l’ufficio per gli interventi civili di un servizio telefonico
munito di tre linee attivate per le 24 ore con operatori presenti al mattino e per alcune ore del pomeriggio e con una segreteria telefonica
per la notte. Ciò ebbe a determinare talora nell’opinione pubblica
qualche confusione dell’attività dell’ufficio con quella del “telefono
azzurro”.
Questa impostazione è stata profondamente modificata in seguito
prima con la distribuzione dell’attività dell’ufficio tra tutti i sostituti
217
procuratori e poi con la disattivazione del servizio telefonico e con
conseguente rinunzia alla collaborazione degli operatori volontari in
precedenza presenti.
È rimasta ferma la previsione d’interventi di emergenza da parte
del P.M. a norma dell’art. 403 cod. civ..
Di recente è stata sentita la necessità di realizzare un più solido
coordinamento nella materia civile tra procura e tribunale e si è istituita una commissione mista di magistrati con il compito di studiare
il problema e proporre adeguate soluzioni.
C/2) Diversa è stata l’impostazione dell’ufficio per gli interventi civili di Lecce, che peraltro ha anch’esso istituito un servizio telefonico
per ricevere segnalazioni di abusi in danno di minori. L’ufficio ha puntato sulla collaborazione di personale distaccato da enti locali con accordi di programma ex art. 27 della l. 8 giugno 1990, n. 142 ed usufruisce dell’opera della polizia giudiziaria e di personale della segreteria. È interessante l’ampiezza dell’intervento programmato, che non si
limita all’impostazione tradizionale relativa alle segnalazioni di alcuni
familiari ma prospetta un discorso d’investigazione civile, ma estende
il suo intervento ad importanti settori relativi alla violazione dei diritti dei minori: da quello del mercato dei bambini con ricerca di casi di
cessioni di bambini, a quello del lavoro nero minorile, e per la sfera
inerente alla prevenzione della devianza – alla prostituzione minorile,
all’evasione dell’obbligo scolastico, alle frequentazioni a rischio, alla
fuga di minorenni (con conseguente ricerca di minorenni scomparsi).
Vi è infine la verifica relativa alla realizzazione dei progetti finanziati
sulla base della L. 216/1991: tutto ciò si desume puntualmente dallo
schema allegato (All. 2).
C/3) Quello di Bari è molto recente, avendo solo un anno di vita.
La sua attività è stata finora ridotta, perchè volutamente limitata all’ascolto ed alla verbalizzazione delle dichiarazioni di coloro che si presentano in procura per esporre situazioni di disagio o devianza minorile. Le segnalazioni sono raccolte da personale volontario, costituito
da giovani laureati, e vengono passate alla segreteria la quale le registra e prepara un incarto che viene trasmesso al P.M. competente per
il territorio. È quest’ultimo che procede alla delibazione della segnalazione e decide se promuovere l’azione civile o no. In quest’ultimo caso
l’incarto rimane in procura senza trasmissione al tribunale. La delibazione viene effettuata con richieste ai servizi sociali del territorio che
dovranno poi gestire la vicenda per evitare duplicati di interventi di assistenti sociali diversi. Nell’anno di attività sono state acquisite 190 se-
218
gnalazioni relative a 240 minorenni. Si sta ora preparando una mappa
di servizi del territorio ed un’altra di bisogni (traendo quest’ultima dall’esame dei procedimenti penali e civili).
Nell’ampliare l’area degli interventi si procede con molta cautela
per evitare l’insorgere di tensioni con il Tribunale Minorile che in modo più o meno evidente sono emersi sia a Roma che a Lecce, quando
il ruolo del P.M. in materia civile è cambiato.
C/4) In fase di partenza è l’ufficio per gli interventi civili presso la
Procura di Taranto. Esso si muove nell’ottica di non realizzare per ora
un’organizzazione specifica, ma di utilizzare tutta la struttura della
procura e la sezione di P.G. in nell’attività altrove attribuite all’ufficio
per gli interventi civili. Vi è un’attenzione particolare ai problemi dell’evasione scolastica e a quello delle fughe da casa, di cui viene investita la polizia giudiziaria. È prossima l’istituzione di un telefono verde
(con telefonate gratuite a spese del Ministero di Grazia e Giustizia che
lo ha autorizzato). È annunciato un lancio pubblicitario del tipo di
quello realizzato nel 1990 a Roma e che sarà curato dall’Amministrazione Provinciale di Taranto.
D) Peraltro anche nelle sedi in cui non è stato istituito un ufficio
per gli interventi civili, le procure minorili hanno manifestato la tendenza a realizzare in modo più incisivo il loro ruolo di controllo di
legalità. Oltre che alle attività istituzionali riguardanti la redazione di
pareri, i visti, la partecipazione alle udienze nelle quali ciò è prescritto e la proposizione di impugnazioni si tende ad attuare in modo generalizzato la delibazione delle segnalazioni iniziali di situazioni di pregiudizio comunque pervenute, operandone una selezione in vista della
promozione dell’azione civile.
Un altro spazio di controllo di legalità riguarda gli affidamenti familiari consensuali, in relazione ai quali alcune procure tendono talora a realizzare un puntuale controllo sui decreti dei giudici tutelari,
che rendono esecutivi i provvedimenti di affidamento familiare disposti dai servizi locali, a norma dell’art. 4 L. 184/1983. Si vuole in tal modo costituire una remora al fenomeno del mercato di bambini, che trova talora spazio in affidamenti familiari fasulli, dietro i quali si celano
in realtà vere cessioni di bambini. A tanto il giudice tutelare, che non
è specializzato e la cui attività è spesso delegata ad un vicepretore, non
sempre è attento.
Va rilevato che le impugnazioni proposte dalle procure minorili
continuano ad essere scarse. Ciò si spiega alla luce anche di una certa
diffidenza dei magistrati minorili di primo grado nei confronti delle
219
sezioni minorili di Corti d’Appello, che, malgrado le indicazioni normative e quelle contenute in una recente circolare del C.S.M., non
sono entrate in un’ottica minorile.
Un’iniziativa molto interessante, ma finora isolata è quella attuata dalla Procura della Repubblica per i Minorenni di Milano in tema
di esecuzione coatta dei provvedimenti civili del tribunale. La procura
vi ha proceduto, ispirandosi al ruolo specifico che gli compete nell’esecuzione penale e utilizzando per l’esecuzione civile il servizio sociale
dell’Ente locale che ha istituito uno specifico ufficio per le esecuzioni
e la sezione di polizia giudiziaria per i minorenni.
E) Da quanto si è rilevato si emerge che la polizia giudiziaria minorile viene ampiamente utilizzata nel settore civile. Si può dire anzi
che l’inizio di una diversa attenzione del P.M. minorile alle situazioni
pregiudizievoli coincide con l’entrata in vigore del nuovo codice penalprocessuale e con l’istituzione delle sezioni di P.G. minorile.
F) Per quanto riguarda poi il momento dell’abbinamento in tema
di adozione si è posto il problema del controllo che vi debba svolgere
il P.M., essendosi accentuata l’esigenza di trasparenza nella realizzazione della selezione adottiva. In varie sedi (Bologna, Venezia, Palermo, Napoli, Potenza) il P.M. minorile resta del tutto estraneo all’abbinamento; talora si risolve il problema facilmente invitando il P.M. alle
sedute di abbinamento e lamentando poi che quest’ultimo di fatto non
vi partecipa; altrove (Taranto) invece accade il contrario, il P.M. non
viene invitato a partecipare alle sedute di abbinamento. A Firenze è
stato realizzato un meccanismo di abbinamento automatico, che è
ritenuto più soddisfacente di quelli precedenti, ma dal quale il P.M.
resta sostanzialmente estraneo: gli viene chiesto infatti il parere per
l’affidamento preadottivo, inviandogli il fascicolo del bambino da abbinare a quello della coppia già selezionata secondo un criterio precostituito (e peraltro accettato dalla procura). In altri uffici (Bari, Perugia, Ancona, Taranto) un’équipe del tribunale, dopo aver ascoltato un
certo numero di coppie ed operato una selezione motivata in una seduta, di cui viene redatto verbale con valutazione di ciascuna coppia
ed indicazione delle ragioni che inducono alla preferenza per una (o
per qualcuna, ma in numero molto limitato), trasmette al P.M. detto
verbale con tutti i fascicoli. Il P.M. viene messo in tal modo in grado di
ripercorrere l’iter seguito dall’équipe proponente ed esprimere il proprio motivato parere.
G) Per quanto riguarda infine la competenza amministrativa essa
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è scomparsa del tutto in alcune sedi (Bari, Potenza, Taranto, Torino),
mentre altrove (Bologna, Venezia, ecc.) esiste ancora e viene attivata
su iniziativa del P.M., sia pure in casi rari. A Napoli, dove non è mai
caduta in totale disuso, essa è stata ripristinata da qualche tempo con
maggiore incisività ed è utilizzata per intervenire per i minorenni infraquattordicenni denunziati penalmente: si realizza con colloqui, informazioni e provvedimenti sia di affidamento al servizio sociale che
di collocamento in comunità.
È interessante in proposito rilevare che quando la segnalazione riguarda reati commessi da ragazzi fuori del distretto viene aperto quasi
sempre un procedimento civile ex art. 4 c.p. p.m.. Ciò invece avviene
meno frequentemente per i ragazzi denunziati penalmente nell’ambito del distretto di residenza.
5. La linea di tendenza emergente in ordine al ruolo del P.M. minorile, oltre ad affermarsi sul piano operativo, ha cercato una giustificazione culturale che si rinviene negli scritti di DOSI e DE SALVATORE.
Curiosamente, proprio coloro che operativamente hanno interpretato
in termini per così dire “espansionistici” il ruolo del P.M., in una logica quindi simile a quella seguita negli anni ’70 dalla larga parte della
magistratura minorile, (che – come si è detto – intendeva il suo ruolo
come quello di “promotore dei diritti del minore”) ha spiegato il nuovo
ruolo del P.M. solo in termini di maggior rigore nel controllo di legalità e di ampliamento delle garanzie giurisdizionali nel processo civile
minorile, proprio nella prospettiva di contrastare la presunta tendenza all’“amministrativizzazione” del giudice minorile. DE SALVATORE
sottolinea l’esigenza di un recupero di terzietà del giudice e la necessità che sia rivisitato il ruolo del P.M. minorile anche sul piano normativo, con una riforma della procedura minorile che dovrebbe prevedere l’obbligatorietà per il P.M. minorile dell’azione civile nei casi
degli artt. 330 e segg. cod. civ. e 25 R.D.L. 1404/1934 (che attualmente
non è considerata tale) con piena conoscenza delle problematiche del
territorio, con organici adeguati all’espletamento di compiti d’investigazione civile e con l’istituzione di sostituti procuratori onorari, che
egli ritiene debbano essere laureati in giurisprudenza, ma esperti in
problematiche adolescenziali e prescelti dopo un selettivo corso di formazione professionale.
DOSI, dal canto suo, pur riconoscendo la validità delle ragioni storiche che portarono all’istituzione del Tribunale per i Minorenni condivide l’accusa mossa loro di aver svolto un ruolo di supplenza dei servizi sociali, di aver favorito la deresponsabilizzazione delle politiche
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sociali di fronte ai compiti istituzionali per i minori, perpetuando il carattere separato del settore giudiziario minorile, producendo l’eccessiva giurisdizionalizzazione della conflittualità familiare e snaturando lo
schema classico del procedimento giudiziario con il giudice terzo rispetto al conflitto, che è chiamato a risolvere. Attribuisce a queste ragioni l’effetto derivato di emarginazione del P.M. e del difensore.
6. A questo punto si può cercare di raccogliere le fila del discorso
svolto e proporre un contributo interpretativo per il medesimo.
A me sembra di poter confermare quanto detto all’inizio e cioè che
si registrano importanti novità nella giustizia minorile per quanto riguarda il P.M.. Si può aggiungere, entrando più puntualmente in argomento che il codice di procedura penale minorile è stato un vero e proprio scossone, che per la già evidenziata caratteristica di “globalità”
della giurisdizione minorile ha inciso non solo nell’ambito penale, ma
in ogni settore d’intervento minorile.
Tale incidenza è stata forse meno significativa per la magistratura
giudicante minorile – almeno quanto alla questione della sua identità
ed alla definizione del suo ruolo – perchè essa già aveva affrontato
questo problema, come già si è detto. Va tuttavia confermato che anche nell’ambito della magistratura giudicante le recenti norme hanno
avuto il merito di portare all’attenzione la questione del ruolo del giudice onorario, che esige indubbiamente una riflessione approfondita.
Una incidenza importante si è avuta anche sugli altri soggetti ed in
particolare sul difensore.
6.1. Per quanto riguarda il P.M. la panoramica effettuata consente
di affermare che gli sforzi per acquisire una precisa identità risultano
certamente disordinati e diversi da zona a zona, ma che vanno emergendo abbastanza chiaramente due linee di tendenza, come già si è
detto all’inizio:
A) Una e diretta ad accentuare il ruolo di controllo di legalità e trova riscontro, come rilevato, nella corretta rivendicazione del compito di
promotore dell’azione civile, nonchè nel più puntuale intervento sia in
materia di adozione che di affidamento familiare, teso in questi ultimi
due casi a garantire una più ampia trasparenza delle procedure, nel primo anche ad individuare con maggior rigore le situazioni aventi rilevanza giurisdizionale, distinguendole da quelle meramente assistenziali.
B) L’altra è quella diretta a realizzare una più ampia ed efficace
tutela dei minorenni. In tal senso si pone la scelta di ascoltare liberamente coloro che si presentano in procura per segnalare situazioni
222
meritevoli di attenzione, agevolando così l’accesso al servizio giustizia.
In questa direzione va anche la delibazione delle segnalazioni ricevute per la verifica della loro attendibilità, questo è stato in sostanza il
modo di porre anche per la materia civile il P.M. in rapporto con il
“territorio” e cioè con i servizi sociali e con la polizia locale e territoriale in vista anche di un coordinamento dei rispettivi interventi e di
una crescita della cultura della polizia minorile.
La stessa prospettiva di avvicinare i bisogni reali della gente e dei
minorenni è nell’individuazione da parte di qualche procura di nuovi
spazi di intervento sia all’interno della giurisdizione che all’esterno.
Questo si può cogliere – con riferimento, ad esempio, al modo seguito
a Milano per realizzare l’esecuzione civile minorile – e quindi nell’organizzazione di un particolare meccanismo esecutivo che si muove intorno al P.M. minorile, come si è detto, e tende a garantire la valida
professionalità operativa specifica nell’interesse dei minori.
Questo si può cogliere anche nell’attività dell’ufficio per gli interventi civili della Procura di Lecce, che accanto a quelle tradizionali, ha
individuato altre importanti aree d’intervento finora scarsamente approfondite (lavoro nero minorile, evasione scolastica, fughe da casa,
prostituzione minorile, ecc.), nelle quali effettuare investigazione per
l’eventuale promozione dell’azione civile.
In tal modo il P.M. minorile tende ad affiancarsi al Tribunale Minorile nell’intento di realizzare quella “giustizia di vicinanza” a cui si
è fatto cenno in precedenza.
6.2. E nello stesso senso va anche l’idea di utilizzare il telefono come mezzo per dare voce a chi non ha voce, per realizzare una nuova
forma di ascolto e di collegamento tra procure minorili (la cui area
d’intervento è molto vasta, corrispondendo spesso ad un’intera regione) e cittadini.
In rapporto a questa prospettiva, gli atteggiamenti dei magistrati
minorili sono divergenti. Mentre a Roma il servizio telefonico per il
pubblico, istituito presso la procura minorile dopo un periodo di grande impulso anche pubblicitario, è stato poi disattivato con una scelta
non solo operativa, ma anche culturale; altrove (Lecce) esso è stato
utilizzato senza soluzione di continuità. Questo tema è stato peraltro
dal 1990 in poi sostanzialmente messo da parte, tanto più che, in presenza di un servizio quale il “Telefono azzurro” di Bologna, lo spazio
in questa direzione sembrava sostanzialmente già coperto.
Ora l’iniziativa di Taranto e soprattutto la disponibilità dell’Ufficio
centrale per la giustizia minorile del Ministero di Grazia e Giustizia a
223
farsi carico delle spese di un telefono verde costituisce indubbiamente un rilancio di questo mezzo d’intervento.
A) Io credo che questo discorso meriti una riflessione attenta: c’è
da chiedersi perchè ad un certo punto, solo qualche anno fa, al “camminare” degli operatori sociali, al loro conoscere il territorio, percorrendolo personalmente, si sia venuto aggiungendo e qualche volta sostituendo l’informazione telefonica che è più svelta, ma indubbiamente meno personalizzata. C’è da chiedersi se si è trattato solo dell’utilizzazione di una modalità più rapida e snella di conoscenza della realtà
territoriale o anche di colmare in tal modo il vuoto dei servizi sociali
in alcune aree carenti oppure, infine, se si sia trattato di tutto ciò ma
anche di qualcosa d’altro; se cioè il mutamento nella società, nelle istituzioni politiche e nei bisogni sociali, la cui diversa qualità ha comportato la necessità di dare spazio a questa nuova forma di collegamento. Va, in conclusione, verificato se le due forme di “ascolto” dei
bisogni indicati in precedenza, l’ascolto inteso in senso generale e traslato e l’ascolto telefonico siano nell’attuale contesto storico in una
connessione non occasionale e se anzi il loro collegamento non sia
una piccola testimonianza dei cambiamenti intervenuti. Non è inutile
a questo proposito ricordare che il telefono è stato utilizzato negli ultimi anni anche in altri settori e per altri fini oltre che per quello nostro
specifico. Qualche anno fa – in seguito alla determinazione di un calmiere dei prezzi ed all’esigenza di ottenerne il rispetto – il Ministero
degli Interni ebbe a diffondere in tutta Italia l’indicazione di un numero telefonico romano, accompagnata dalla frase rivolta alla popolazione “chiama il governo”. Il fine era quello di ottenere che fossero segnalati i casi di violazione del calmiere dei prezzi. Molto più di recente in
varie prefetture italiane sono state attivate linee telefoniche per la denunzia, anche anonima, di estorsioni in danno di commercianti da
parte della malavita e anche per segnalare fatti di mafia. Nello specifico settore dei nuovi diritti è da segnalare l’attività del “Telefono rosa”
in difesa della donna; mentre per quanto riguarda i minorenni è noto
il grande rilievo assunto in campo nazionale da “Telefono azzurro”,
che ha trovato conferma a livello locale in varie linee telefoniche private attivate allo stesso scopo.
Il tentativo di rispondere ai quesiti proposti comporta perciò la
necessità di una rapida analisi dell’evoluzione socio-culturale intervenuta negli ultimi anni con particolare riferimento ai minori; di quella
delle risposte date dalle istituzioni politiche, degli effetti prodottisi e
delle prospettive future.
224
B) Non c’è dubbio che la società italiana odierna sia notevolmente diversa da quella che essa era solo pochi anni fa. All’idea di società
come “comunità locale” solidale, che è a fondamento del decentramento realizzato con il D.P.R. 616/1977 e che pure ispira anche il nuovo processo penale minorile, si va sostituendo una società in parte diversa. La parola corrente per designare questo contesto più pragmatico, ma un pò più anonimo non è più comunità, ma è “la gente”. Una
società nella quale sono ancora presenti spinte verso la solidarietà, la
lealtà, il rispetto dell’altro, ma nella quale si registrano con sempre
maggiore frequenza manifestazioni di segno opposto anche in contesti ambientali in cui sarebbe stato impensabile fino a poco tempo fa.
All’espandersi minaccioso e drammatico del fenomeno mafioso, si
è aggiunta la scoperta di gravi fatti di corruzione abitualmente indicati con il termine di “tangentopoli”; all’inarrestabile immigrazione
clandestina, che interessa profondamente anche il mondo minorile fa
da contraltare l’emergere del grave problema dell’usura. Insomma, l’evoluzione più recente è nel segno di rilevanti e rapidi cambiamenti che
determinano una notevole complessità sociale, nella quale spinte a
favore della promozione umana si uniscono a situazione di crisi e di
degrado molto gravi. Tutto ciò incide nella realtà minorile, che vive
anch’essa gli effetti di questo disagio complessivo. Ne scaturisce un
minore “ascolto”, una più ridotta attenzione ai problemi sociali determinato non tanto da disimpegno quanto da un accavallarsi dei problemi stessi, da una oggettiva maggiore difficoltà di interpretare da
parte della società, di decifrare i bisogni che anche a livello minorile
tumultuosamente esplodono. A ciò si è aggiunto nello specifico minorile uno spostamento di attenzione dal settore pubblico a quello privato. Gli anni ’70 erano stati caratterizzati dalle ispezioni dei giudici
tutelari agli istituti assistenziali, dalla generale tendenza alla deistituzionalizzazione minorile, dalla spinta verso la realizzazione della riforma dell’assistenza, in sostanza dall’attenzione ai problemi esterni
alla famiglia a rischio; a partire dagli anni ’80 l’attenzione si sposta
agli abusi sui minori, alle violenze personali, in sostanza ai problemi
della famiglia a rischio nel suo interno. L’uso del telefono nasce appunto in relazione a questa seconda ottica d’intervento.
C) Coloro che sono a favore dell’utilizzazione del telefono come
servizio per il pubblico attuato dalla procura minorile sostengono che
vi sono forme di violenza familiare che non sono raggiungibili in altro
modo, perchè l’approccio dei servizi sociali verso le famiglie a rischio,
considerate nel loro complesso, non consente al bambino di parlare li-
225
beramente; muovono critiche all’azione di “Telefono azzurro”, considerandolo evanescente proprio nel settore più delicato, sottolineando
di non aver mai ricevuto segnalazioni da tale servizio; ritengono utile
che un servizio telefonico di questo genere venga istituito in ogni procura (eventualmente presso l’ufficio interventi civili o presso la sezione di P.G. minorile).
Coloro che sono contro questa iniziativa dichiarano di temere che
in questo modo si favorisca un degrado culturale sia nella comunità,
perchè si offre un mezzo di delazione per denunce spesso infondate,
ma la cui verifica di fondatezza viene vissuta dal destinatario con disagio, talora con senso di umiliazione, sempre in modo traumatico; sia
nell’istituzione giudiziaria, perchè si dà spazio alla segnalazione anonima che, se va ignorata in materia penale, allo stesso modo dovrebbe
essere gestita in questa materia, mentre qui viene tenuta presente e
può diventare il modo indiretto per dare rilievo penale agli anonimi,
considerato che il procedimento civile per abuso è spesso l’anticamera dell’intervento penale. Aggiungono poi che chi telefona, quando
prospetta fatti veri tende nella maggior parte dei casi a volere l’aiuto
per la vittima, non l’instaurarsi di un processo penale, che è anzi considerato fonte di altri problemi e di altri drammi per la stessa vittima.
Ritengono infine che in tal modo si incrementi una tendenza “espansionistica” della giurisdizione minorile, che invece dovrebbe conservare un ruolo residuale rispetto all’intervento sociale.
6.3. Tutto il discorso svolto dimostra che la motivazione finora
addotta per giustificare il nuovo corso, per intendere il nuovo ruolo
che il P.M. sta assumendo non è adeguata: essa serve a spiegare solo la
recente tendenza verso un più incisivo controllo di legalità del P.M.
minorile, non certo a giustificare quella linea espansionistica del P.M.
minorile verso una più ampia ed efficace tutela dei minori, tendenza
che per tanti versi si prospetta come assunzione di un ruolo di supplenza dei servizi sociali, molto simile – in ogni caso – a quello svolto
dai Tribunali per i Minorenni e criticato decisamente dai fautori del
nuovo corso del P.M. minorile.
Il vero è che qui viene messo in discussione ancora una volta il
ruolo della giurisdizione e si prospettano le solite, abituali contrapposizioni tra coloro che vi attribuiscono compiti più ampi e coloro che
ritengono che debba avere solo uno spazio residuale.
A) Ma fermandoci più direttamente sull’evoluzione che l’attività
del P.M. sta ricevendo, essa a mio avviso – non si può spiegare, se si
continua a guardare alla giurisdizione minorile nell’ottica tradiziona-
226
le della giurisdizione ordinaria. Ben si spiega invece alla luce delle riflessione sulla diversità della giurisdizione minorile proposte nella prima parte di questo scritto. Qui l’attenzione non è verso un oggetto,
verso un diritto, motivo di conflitto, ma verso un soggetto, verso la
persona del minorenne, considerata in tutta la sua complessità. Qui le
“parti” non confliggono alla ricerca della vittoria nella causa, ma cooperano per offrire i più validi contributi per la tutela del minore, che
anche il giudice ha il dovere di ricercare. Pertanto, non c’è dubbio che
si debba salvaguardare la terzietà del giudice, ma non certo al prezzo
di realizzare un ritorno del giudice al suo ruolo tradizionale di risolutore di conflitti con decisione assunta sulla base della sola prova
addotta dalle parti (iuxta alligata ed probata), perchè compito del giudice è qui quello di compiere ogni sforzo per giungere alla verità
“vera” a tutela del minorenne, non alla verità rappresentata e quindi di
ricercarla, prendendo ogni iniziativa utile al riguardo.
E soprattutto l’unitarietà della giurisdizione minorile nel senso
della “globalità”, già indicato in precedenza, non può non portare che
a seguire la stessa logica sia in materia penale che nel civile: lì occorre
cogliere l’occasione del processo per favorire il cambiamento personale del soggetto, dandogli occasioni di scegliere una strada diversa dalla
devianza, una prospettiva di corretta socializzazione; qui occorre
cogliere l’occasione del processo (civile) per ottenere il superamento di
ogni disagio, di ogni pericolo di pregiudizio per il minorenne: cosa che
va fatta anzitutto in rapporto ai conflitti familiari, passando ogni volta
che sia possibile dall’ottica del conflitto all’ottica del consenso.
C) In questa logica, modello di procedimento a cui continuare a
guardare con interesse non è quello del tradizionale processo civile, di
cui abbiamo sottolineato l’inadeguatezza in rapporto alla materia minorile (ed in genere familiare), ma il procedimento camerale, nel quale
tutti i soggetti coinvolti hanno lo scopo di realizzare nel modo più adeguato la tutela dell’interesse del minore e nel quale ruolo delle parti
non è quello di gestire un conflitto che li vede in posizioni contrapposte, ma di fornire ogni più valido contributo probatorio e conoscitivo
per la migliore tutela del bambino.
Ha ragione ancora una volta la Corte Costituzionale, quando nella
sentenza 14 luglio 1985 n. 185, ritenendo infondata la questione di costituzionalità degli artt. 5 e 6 della l. 1 dicembre 1970, n. 898 relativa
alla cessazione degli effetti civili del matrimonio nella parte in cui non
prevede la nomina di un curatore speciale che rappresenti il figlio minore delle parti in ordine alla pronunzia sull’affidamento, ha afferma-
227
to che la scelta del legislatore di considerare il minorenne come parte
solo nei procedimenti che attengono allo status personale oppure che
abbiano contenuto patrimoniale non contrasta con la Costituzione
perchè, mentre si è istituzionalizzato il conflitto tra coniugi, non si è
voluto istituzionalizzare un conflitto genitori-figli. Si ha in sostanza
un procedimento contenzioso principale, nel quale si inserisce un procedimento di volontaria giurisdizione relativo alle decisioni sull’affidamento dei figli. Anzi, se vi è una cosa da aggiungere a questa considerazione, è l’auspicio de iure condendo che tutto il procedimento di
separazione venga modificato, deistituzionalizzando e superando la
prospettiva tradizionale del conflitto tra i coniugi per estendere anche
ad esso (a quello che anche secondo la Corte rimane il procedimento
principale) la diversa ottica del procedimento camerale, essendo
importante – una volta che si prenda atto della fine del matrimonio –
piuttosto porsi il problema di una corretta gestione dei nuovi assetti
interpersonali che non il confliggere sulle ragioni e sui torti reciproci
che la separazione ha contribuito a determinare. Ricordo ancora con
quanta ironia una nota psicologa parlava della “soccombenza” giudiziale e della formula di rito abitualmente usata del dispositivo delle
sentenze processuali anche di quelle che concludono i processi di
separazione (“le spese seguono la soccombenza”), sottolineando che
una causa di separazione è il segno di un fallimento per tutti i componenti della famiglia e che in un fallimento non vi può essere un vincitore nè un “soccombente”, sia pure solo con riferimento ad una
causa, perchè tutti ne escono sconfitti. Ed allora anche il discorso relativo al diritto di difesa va visto in una diversa prospettiva, perchè la
facoltatività della presenza in giudizio del difensore nel settore civile
non è una peculiarità minorile, che ne evidenzia un’eventuale carenza
processuale ma una precisa scelta propria del procedimento di volontaria giurisdizione, quale che sia la sede nella quale lo si incontri. Allora il problema è quello di fissare piuttosto puntuali regole di questo
procedimento senza sconvolgerne i caratteri più significativi.
D) Questo non vuol dire peraltro che con la decisione della Corte si
possa ritenere accantonata la soluzione del problema relativo all’ascolto del minorenne nei procedimenti di separazione divorzio o in quelli
ex art. 330 c.c. e di altri simili. Ritengo tuttavia che esso possa e debba
essere risolto rapidamente con la ratifica della Convenzione Europea
sull’esercizio dei diritti del minore, sottoposta alla firma a Strasburgo il
26 gennaio 1996 e con l’adeguamento della normativa italiana ai suoi
princìpi, tra i quali è quello che il giudice deve tener conto dell’opinio-
228
ne del minore nella sua decisione se costui ha capacità di discernimento. Il testo della Convenzione è allegato alla relazione (All. 3).
6.4. Concludendo ora il discorso sul ruolo del P.M. minorile, credo
che si possa affermare che non vi è stata affatto in passato una sopraffazione del P.M. da parte del giudice minorile con conseguente effetto
emarginante; credo piuttosto che fino a qualche anno fa vi sia stato un
disimpegno dello stesso P.M., quasi un’abdicazione dai compiti che la
legge e la sua professionalità gli assegnano anche in materia civile con
supplenza inevitabile da parte del tribunale, quando ciò risultava necessario. Una situazione peraltro, quella del P.M. che trova varie giustificazioni, tra cui le seguenti: a) all’assenza nelle procure della figura del sostituto procuratore onorario è stata circostanza che, non permettendo il realizzarsi dell’interdisciplinarietà attuatasi nei Tribunali
Minorili grazie alla presenza dei giudici onorari, ha contribuito a determinare un ritardo culturale del P.M. minorile anche nell’analisi del
suo ruolo; b) tale assenza si è tradotta poi anche in una difficoltà operativa, in quanto è mancato nelle procure quel supporto di personale
qualificato in grado di procedere alla verbalizzazione di segnalazioni
relative a situazioni di pregiudizio e delle attività conseguenti, mentre
i magistrati del P.M. erano forse quantitativamente poco numerosi e
quindi non in grado di farvi fronte da soli. Essi inoltre non avevano acquisito quell’atteggiamento mentale più elastico che è tipico della cultura giudiziaria minorile e che consente di superare posizioni rigide,
giungendo anche ad utilizzare personale qualificato volontario o comunque esterno all’organico dell’ufficio; c) il mancato ascolto diretto
di soggetti portatori di bisogni ha contribuito infine ad escludere i magistrati del P.M. dal coinvolgimento personale ed umano nelle vicende
che costituisce una spinta da non ignorare. Tutto ciò ha fatto sì che il
P.M. si sia sentito estraneo a questa materia.
Ritengo anche che oggi con la graduale presa di coscienza di uno
specifico ruolo minorile da parte del P.M. e con la possibilità di usufruire di un nuovo strumento operativo costituito dalla presenza della
polizia giudiziaria minorile, si sta realizzando – anche nel civile – il
modello di P.M. minorile delineato dalla Corte Costituzionale nella
sentenza n. 49/1973: ben si può intendere la sua azione complessiva
come quella di un organo che presiede e coopera con il tribunale nella
realizzazione più adeguata dell’interesse e dei diritti dei minori.
7. Che quella indicata sia la strada giusta sia in relazione al tipo di
procedimento, che non istituzionalizza conflitti ed è quindi più adegua-
229
to alla materia da gestire, sia riguardo alla qualità del rapporto che si instaura tra soggetti processuali della giurisdizione minorile, è confermato di alcune iniziative che tribunale e procura minorile vanno assumendo in sintonia, iniziative che realizzano nei fatti il modello di rapporto
che la Corte Costituzionale ha indicato con il termine “cooperazione”.
7.1. Oltre a quella già citata e realizzata dagli uffici giudiziari minorili di Milano in tema di esecuzione coatta di provvedimenti civili,
molto interessante è certamente quella assunta a Torino sin dal 1994
con la costituzione di un ufficio per la mediazione presso procura della Repubblica e Tribunale per i Minorenni, ufficio composto da giudici onorari in funzione di esperti e dall’ufficio distrettuale di servizio
sociale per i minorenni. (All. 4) L’iniziativa attiene alla sola area penale e tende a realizzare una risposta penale riparatoria, spostando l’attenzione dall’idea del reato come evento statico a quella del reato come evento relazionale (tra imputato e persona offesa); passando quindi dalla pena come retribuzione per la sofferenza alla riparazione della
sofferenza. Il colpevole viene coinvolto nel processo riparativo attraverso una progressiva comprensione dell’evento è una progressiva responsabilizzazione mediante il compimento di atti di segno contrario.
Ne consegue l’apertura di ampi spazi di approfondimento e di intervento per il minorenne imputato, come risulta dalla documentazione
allegata. Il discorso della mediazione peraltro non tocca solo la materia penale, ma ha certamente una prospettiva totale, inerendo ad ogni
campo in cui emerga una conflittualità ed è in sintonia con quella caratteristica di globalità, che è propria della giurisdizione minorile ed
occupa uno spazio significativo anche nel settore civile. Anzi direi che
storicamente in Italia la mediazione familiare ha avuto accesso culturale più largo e prioritario rispetto a quello che comincia a ricevere
nell’area penale.
7.2. In questa sede non mi interessa entrare nell’ampio e tuttora
molto aperto discorso della mediazione, di cui tanto è ancora in discussione (se la mediazione sia una sola in ogni settore oppure se abbia caratteristiche diverse a seconda dei settori di intervento; e poi di
“chi” sia la mediazione e quindi se debba essere posta in essere da persone senza potere o anche da tecnici portatori di una o di altra professionalità o comunque specializzati nella mediazione e se in Italia debba attuarsi senz’altro come in altri Paesi). Mi interessa invece sottolineare l’importante contributo che la cultura della mediazione familiare può dare al settore civile per il superamento della logica del conflitto (tradizionalmente propria del giudiziario contenzioso) e per con-
230
sentire al giudice ed al difensore di rivedere criticamente il proprio
atteggiamento mentale e l’ottica abituale secondo cui essi guardano ai
procedimenti giudiziali in tema di scissione di coppia. Lo spazio in cui
ciò risulta evidente è quello posto in luce dalla psicologia giuridica
(vedi GULLOTTA-SANTI, Dal conflitto al consenso: necessità di strategie di mediazione nell’affidamento dei minori) e riguarda la diversità di
cultura tra il giurista e lo psicologo, i soggetti che l’utilizzazione della
mediazione familiare pone di fronte più di altri in presenza di un giudizio in materia familiare o minorile. Questa diversità culturale esige
un’analisi puntuale, se si vuole davvero ricercare un momento di collegamento, un linguaggio comune difficile a reperirsi; se si vuole tentare di superare il disagio che talvolta si riscontra nel rapporto tra giuristi e psicologi e costruire una prospettiva culturale unica. Una delle
situazioni nella quali più plasticamente questa diversità si coglie è il
momento dell’espletamento della consulenza tecnica psicologica. La si
propone perciò qui di seguito con riferimento specifico a tale contesto,
facendo presente peraltro che l’analisi relativa riguarda ogni situazione analoga ed anche il rapporto mediazione familiare-giudiziario.
7.3. Autorevoli studiosi di psicologia giuridica hanno colto le ragioni fondamentali della diversa cultura nella loro diversa formazione.
Hanno notato che il giurista nel corso della sua formazione professionale è stato abituato ad utilizzare schemi logici di tipo ermeneutico
(l’interpretazione estensiva, il principio a fortiori, ecc.) e cioè paradigmi concettuali che servono a spiegare la ratio legis dall’angolo visuale
della sua professionalità, ad interpretare la legge e ad applicarla, ma
che mal si adattano a comprendere e valutare situazioni umane, relazioni interpersonali. Di qui il ricorso del giudice in questi processi –
nei quali rilevante è il momento della relazione interpersonale e la sua
valutazione – allo psicologo e la richiesta di aiuto a lui rivolta. Richiesta fatta, però, non per mettere in discussione o per riflettere sulle rispettive culture o sull’adeguatezza della procedura o della prassi relativa al tema della separazione o divorzio, ma in rapporto al singolo
caso, in genere al più complesso, e nella prospettiva di trovare a quel
caso la soluzione dal punto di vista del giurista. In sostanza il giurista
chiede aiuto allo psicologo per risolvere il “suo” problema.
La forma con la quale si chiede tale “aiuto” è la consulenza tecnica o l’intervento dei servizi sociali degli enti locali, utilizzati soprattutto dai Tribunali Minorili.
Gli psicologi, a loro volta (ed in genere gli operatori sociali) non
sono attrezzati a fornire la risposta che da loro ci si attende, perchè,
231
mentre i giuristi ragionano in termini giuridici, gli psicologi sono abituati a ragionare e lavorare in termini diversi, in termini clinici. Per i
giuristi vi è un atteggiamento di tipo contenzioso, per lo psicologo vi è
un atteggiamento in senso ampio terapeutico-assistenziale. Lo psicologo è abituato, cioè a prescindere dal torto o dalla ragione, dalla causa
da vincere, e quindi ha un rapporto sincero e confidenziale con l’utente che gli chiede aiuto e gli parla liberamente. Nel corso della separazione, nel corso di una consulenza, lo psicologo si trova ad operare su
un terreno che non è per lui abituale, che è quello terapeutico, perchè
i genitori da lui esaminati sanno che nel corso e per effetto di quei colloqui verranno valutati (non aiutati) e tendono perciò a non essere sinceri ed a porre in luce i loro profili migliori, facendo l’operazione opposta a danno del coniuge dal quale si stanno separando e nascondendo
in ogni caso i problemi. Il discorso della mediazione familiare nasce
dall’esigenza di tentare il contemperamento tra due mondi, dall’idea di
guardare al conflitto tra i genitori non in termini contenziosi, ma in
termini costruttivi: quelli di fare una buona separazione o un buon
divorzio con l’aiuto di un operatore esterno e neutrale, un tecnico che
medi, senza giudicare, nella prospettiva di realizzare una separazione
consensuale o un divorzio consensuale accettato sia sotto il profilo giuridico che sotto quello umano. In sostanza è il tentativo di passare dal
conflitto al consenso. È stato detto (GULOTTA) che fare una buona
separazione o un buon divorzio è tanto difficile quanto fare un buon
matrimonio. È stato anche detto che se è indispensabile volersi bene
per sposarsi bene, bisogna ancora volersi un pò di bene anche per
separarsi bene, perchè per sapersi lasciare ci vuole ancora una disponibilità verso l’altro che normalmente non si ha. E che si deve recuperare questa dimensione tra i genitori nella logica di un voler bene diretto verso i figli e che non sia possessivo. Tutto ciò comporta non solo
per i coniugi in conflitto, ma anche per i tecnici del diritto una grande
capacità di porre in discussione la dimensione “contenziosa” della
separazione, per dare spazio adeguato al consenso, per prospettare un
discorso che non guardi al passato, ma al futuro e che realizzi in modo
più efficace la tutela dell’interesse dei figli.
7.4. La mediazione familiare è quindi importante anche sotto il
profilo culturale perchè può dare appunto al giudiziario un modo diverso di guardare alla problematica, in modo che – in attesa delle riforme legislative proposte, ma mai realizzate – ciascuno dei soggetti
coinvolti nel procedimento civile possa ridiscutere il suo ruolo e pervenire ad un modo diverso di operare.
232
In questa prospettiva, ad esempio, al consulente psicologico (ma
anche agli operatori di servizio) dovrebbe spettare non il compito di
dire qual è il genitore migliore, quanto quello di illustrare ai genitori
stessi le esigenze dei figli individuate con la sua analisi – e di ricercare il consenso dei genitori stessi, perchè esaltino reciprocamente il loro ruolo di genitori che rimane per tutta la vita, piuttosto che quello di
coniugi in crisi, che sta venendo meno: il passaggio insomma, dal conflitto al consenso sulla base di un progetto sul quale i genitori possano alla fine convenire in modo convinto.
È un compito nuovo e difficilissimo, perchè tende a ribaltare non
solo la naturale tendenza dei coniugi separandi a litigare, ma anche la
logica di fondo del processo, che è costruito sulla contesa, sul battersi
per la propria vittoria, per la “soccombenza” della parte “avversa”.
Una logica che può produrre rilevanti danni, ai figli: i loro disadattamenti scolastici, la loro depressione, le loro devianze, che puntualmente non vengono attribuiti alla tensione del conflitto, ma al
comportamento dell’altro coniuge (accusato di plagiare il figlio oppure, al contrario, di disinteressarsene).
In questo quadro il giudice dovrebbe porre una particolare attenzione ai quesiti da proporre al consulente psicologo, formulandoli in
modo che la relazione di consulenza sottolinei i bisogni dei figli e le
modalità concrete secondo le quali i genitori possano soddisfarle. Dovrà tendere inoltre a sottolineare i doveri dei genitori, che troppo spesso vengono intesi come diritti. Così, tanto per fare un esempio, nel disciplinare i rapporti dei figli con il genitore non affidatario molto spesso il giudice usa il termine “facoltà” per attribuire al genitore la possibilità di visitare il figlio. Si tratta di una prassi da rivedere, perchè l’incontro genitore non affidatario-figlio non è una facoltà del genitore, è
un diritto-dovere sia per lui che per i figli (nei quali troppo spesso si
crea l’aspettativa dell’incontro e la frustrazione derivante dall’eventuale inadempienza del genitore). Occorre, quindi, che il giudice nei provvedimenti che regolano gli incontri con i figli non usi il termine “facoltà”, ma parli di “dovere” del genitore non affidatario. Ciò in linea
con la Convenzione Europea di Strasburgo del 26 gennaio 1996, in tema di esercizio dei diritti dei bambini, che non parla di “potestà”, ma
di “responsabilità” di genitori. Importante è infine il ruolo dei difensori. E questo è probabilmente uno dei punti più delicati del problema:
fino a che punto il difensore sarà in grado di rinunciare ad utilizzare
qualunque mezzo pur di “vincere” la causa e di sollecitare la parte che
rappresenta ad avere un atteggiamento conciliativo piuttosto che non
perpetuare il clima conflittuale già esistente?
233
7.5. Facendo ora il punto su questo tema, sono significative queste considerazioni:
A) Cultura puerocentrica e mediazione sono pienamente compatibili tra loro.
Non a caso l’art. 13 della citata Convenzione di Strasburgo (26
gennaio 1996) dice che “per prevenire o risolvere i conflitti ed evitare
procedimenti giudiziari riguardanti bambini, gli Stati-Parte incoraggiano l’attuazione della mediazione o di ogni altro mezzo di risoluzione dei conflitti e la loro utilizzazione per raggiungere l’accordo nei casi
appropriati determinati dalle Parti.
B) È auspicabile che l’iniziativa torinese relativa alla costituzione
di un ufficio per la mediazione si estenda anche ad altre sedi e riguardi non solo la materia penale, ma anche quella civile. A Bari, dove vi
sono operatori in grado di attuarne una gestione adeguata, ci stiamo
pensando.
C) Il P.M. minorile potrà trovare in questo campo un’altra rilevante area d’intervento pre-giudiziario, svolgendo un’importante azione
preventiva ed indirizzando all’ufficio per la mediazione i casi che riterrà gestibili in tal modo prima di promuovere l’azione civile, nei casi
indicati dall’art. 317-bis cod. civ. ed in altri analoghi.
Una tale attività, che troverebbe un autorevole impulso nella necessità di dare attuazione al citato art. 13 della Convenzione comporterà evidentemente un approfondimento ed una programmazione coordinata da parte del P.M. della sua iniziativa sia con il tribunale che
con gli operatori del costituendo ufficio per la mediazione familiare;
potrà peraltro produrre l’effetto positivo di una riduzione quantitativa
e/o qualitativa dei livelli di conflittualità familiare.
8. In conclusione, l’analisi svolta sul P.M. minorile ha posto in luce
la profonda evoluzione che esso sta vivendo e che lo sta portando a
modificare l’ottica culturale del suo intervento, passando dalla precedente interpretazione del suo ruolo inteso in modo molto simile a
quello del P.M. ordinario, con la sola differenza derivante dal dover gestire minorenni (il P.M. paternalisticamente “buono” verso il piccolo
uomo sottoposto al piccolo processo) ad una nuova, moderna, ma ancora in fase di costruzione, la quale si ispira al modello disegnato per
lui dalla Corte Costituzionale.
234
ALLEGATO N. 1
Documento relativo all’intesa intervenuta a Torino tra Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e Capi degli Uffici giudiziari
minorili in ordine al coordinamento degli interventi nei casi di abuso
sessuale a danno di minori.
UN’INTESA FRA UFFICI GIUDIZIARI PER I CASI
DI ABUSO SESSUALE AI DANNI DI MINORI
Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino il Presidente del
Tribunale per i Minorenni di Torino e il Procuratore della Repubblica per i Minorenni di Torino hanno stipulato un’intesa sulle modalità di coordinamento tra i
rispettivi uffici nei casi di presunto abuso sessuale ai danni di minori.
Ne presentiamo il testo che ci pare costituire un modello di collaborazione,
in attuazione anche del nuovo art. 609-decies cod. pen..
1. È auspicabile la formazione di un nucleo di polizia giudiziaria presso
la polizia di Stato e l’arma dei carabinieri specializzato nello svolgimento delle attività di indagine delegata dal pubblico ministero riguardante i reati in
esame (composto preferibilmente di personale femminile).
2. Appare opportuno che, nei casi di possibile conflitto di interessi tra il
minore vittima di abuso e il genitore esercente la potestà (ad esempio la madre, nei casi di condotta ascrivibile al nuovo marito o convivente) siano individuati da parte del giudice per le indagini preliminari su ricorso del Pubblico Ministero, ai sensi degli artt. 198 cod. pen. e 338 comma 2° cod. proc. pen.
per l’eventuale proposizione della querela, avvocati che abbiano esperienza
nella materia del diritto di famiglia e minorile e che siano quindi più qualificati per la valutazione dell’interesse della presunta vittima.
3. Si ritiene necessario che i Pubblici Ministeri presso il Tribunale penale trasmettano alla Procura della Repubblica per i minorenni, per l’eventuale
esercizio dell’iniziativa civile avanti al Tribunale per i Minorenni, copia delle
comunicazioni di notizia di reato riguardanti presunti abusi ai danni di minori che non risultino essere già state portate a conoscenza del Tribunale per i
Minorenni da parte degli organi di polizia giudiziaria o dei denuncianti.
Una normativa in questo senso è prevista nell’art. 11 legge 16 febbraio
1996, n. 66, che introduce l’art. 609-decies cod. pen..
Inoltre tale prassi si giustifica sulla base degli artt. 9 e 70 della legge 4
maggio 1983, n. 184, sull’adozione e sull’affidamento, relativi all’obbligo, per
i pubblici ufficiali, di riferire al Tribunale per i Minorenni su ogni minore in
stato di abbandono. Va infatti precisato che lo stato di abbandono materiale
235
o morale (art. 8) può essere ravvisato anche nei casi più gravi di maltrattamento o di abuso a sfondo sessuale; il che rende indispensabile un vaglio delle
condizioni ambientali e familiari di crescita del minore da parte del Tribunale per i Minorenni.
4. Tenuto conto della complessità legata alle esigenze di coordinamento
tra le diverse autorità giudiziarie, si ritiene necessario che le istruttorie avante al Tribunale per i Minorenni in questa materia non siano delegate in via
esclusiva al giudice onorario, bensì a un giudice togato o, congiuntamente, al
giudice togato e all’onorario.
5. Appare indispensabile l’avvio di una prassi di rapida consultazione tra
i magistrati dei diversi uffici interessati soprattutto nelle fasi iniziali dell’istruttoria che segue alla presentazione della denuncia.
Proprio in questo momento si concentra il maggior rischio di decisioni
contrastanti o disarmoniche tra le varie autorità giudiziarie.
Il confronto dovrà riguardare, in particolare: 1) la decisione se procedere all’eventuale allontanamento del minore dalla propria famiglia; 2) l’eventuale richiesta di emissione di misure cautelari nei confronti dell’indagato
(entrambe misure che, pur su piani diversi, possono incidere grandemente
sulla situazione familiare della vittima del reato e sulle sue esigenze di tutela).
Il potere di allontanamento è riservato al Tribunale per i Minorenni.
Solo in casi eccezionali e di estrema urgenza, quando – e solo sino a
quando – l’autorità giudiziaria minorile non sia in grado di provvedere tempestivamente, si ritiene residui il potere di collocare il minore “in luogo sicuro” ai sensi dell’art. 403 cod. civ. (tutt’ora vigente).
È discusso se nella nozione di “pubblica autorità” possa farsi rientrare lo
stesso organo del Pubblico Ministero.
Rimane il fatto che, secondo il tenore letterale della norma, il potere va
esercitato per mezzo degli organi di protezione dell’infanzia; la norma si riferisce, dunque, anche secondo la giurisprudenza, alla autorità di pubblica sicurezza o autorità amministrativa socioassistenziale (cfr. Trib. Min. Trieste,
decreto 13 giugno 1988, in Dir. fam. pers., 1988, p. 1718).
Va tenuto presente che il Tribunale per i Minorenni, debitamente informato, può emettere un provvedimento urgente in via immediata.
Pare pertanto necessario evitare il più possibile che sia lo stesso Pubblico Ministero ad applicare direttamente tale norma, tanto più se l’allontanamento viene pensato da tale organo come misura volta ad assicurare la genuinità della prova.
Ove disposto l’allontanamento (da parte del giudice minorile), appare indispensabile una consultazione a proposito dell’eventuale persistenza e delle
modalità di rapporto (visite in comunità, ecc.) tra il minore ed i propri genitori o parenti, al fine di individuare le opportune cautele tese ad evitare che,
attraverso tali contatti, abbiano luogo pressioni sui minori e attività di inquinamento probatorio.
236
Nel contempo si riconosce la primaria competenza del Tribunale per i
Minorenni a disciplinare le relazioni di tipo familiare, trattandosi di un aspetto essenziale della tutela del minore demandata a tale organo.
Il Tribunale per i Minorenni dovrà essere inoltre informato sulle vicende
delle eventuali misure cautelari applicate in sede penale (modifica, estinzione) onde poter valutare via via l’evoluzione della situazione e verificare l’idoneità delle condizioni di crescita materiali e psicologiche del minore.
6. Ricordato l’obbligo di immediata comunicazione di reato (art. 331 cod.
proc. pen.) da parte dei giudici del Tribunale per i Minorenni in presenza di
vicende che portino ad ipotizzare la sussistenza di eventuali abusi a sfondo
sessuale ai danni di minori procedibili d’ufficio o per i quali si prospetti l’opportunità della nomina di un curatore speciale per conflitto di interessi (vedi
par. 2), essendo riservata all’autorità giudiziaria penale ogni attività di approfondimento e delibazione della notizia di reato, si ritiene opportuna, qualora
rilevante per i riflessi sull’indagine penale in corso (decisioni sulla libertà personale, valutazione delle condizioni psicologiche della vittima, ecc.) la trasmissione in sede penale degli atti istruttori della procedura di volontaria giurisdizione o di adottabilità relativi ai casi di abuso.
Al riguardo è importantissimo che, anche in sede penale, venga mantenuto il segreto nei casi di collocazione del minore presso una nuova famiglia
idonea ad adottarlo (art. 73, legge n. 184/1983) evitando che, attraverso la visione degli atti al termine delle indagini preliminari, l’imputato o la sua difesa vengano a conoscenza dell’identità e residenza dell’eventuale famiglia affidataria o adottiva.
Ogni informazione sul punto andrà richiesta al Tribunale per i Minorenni che potrà concedere un’autorizzazione a norma dell’articolo citato, operando con le cautele indispensabili a salvaguardare l’obbligo di segretezza,
anche per quanto attiene alle eventuali deposizioni testimoniali che si rendessero necessarie nel prosieguo del processo.
7. Di riflesso è necessaria una prassi di informazione al Tribunale per i
Minorenni in ordine agli sviluppi delle indagini preliminari e del procedimento penale in genere, che non possono non condizionare le decisioni da
assumere a tutela della vittima.
Anche in questo caso la fonte normativa è costituita dai citati artt. 9 e 70,
legge n. 184/1983 (vedi par. 3).
Di regola l’informativa potrà opportunamente avvenire con la trasmissione degli atti più significativi (interrogatori, deposizioni testimoniali, consulenze tecniche o perizie).
Qualora ricorrano improrogabili esigenze di cautela probatoria e per un
tempo strettamente necessario, si può pensare a trasmissione di atti con eventuali omissis, oppure – più opportunamente – all’invio di relazioni riassuntive
(evidenzianti eventuali aspetti di pregiudizio per il minore) a cura della polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica o dello stesso magistrato
inquirente.
237
8. In caso di ricezione di atti sottoposti a segreto istruttorio, il Tribunale
per i Minorenni non consentirà la visione o l’estrazione di copia di tali atti sino
a quando il segreto non sarà venuto meno (conclusione delle indagini preliminari) o, in caso di emissione di un provvedimento in sede civile, la difesa
sia posta in condizione di proporre un reclamo contro il provvedimento (il
che rende problematica l’ulteriore opposizione del segreto in relazione all’esercizio del diritto di difesa sotto il profilo del controllo sulla motivazione del
decreto.
Verranno adottate cautele nella conservazione del fascicolo al fine di rendere chiari i limiti di cui sopra al personale di cancelleria.
9. È opportuno che, nel corso delle indagini preliminari, il Pubblico
Ministero trovi un’occasione di incontro con il personale dei servizi sociali o
psicologici (neuropsichiatria infantile, psicologo, insegnante) dell’ente locale,
dell’unità sanitaria locale o della scuola che seguono/sostengono il minore. Al
di là degli apporti di carattere strettamente probatorio, si tratta di persone
che si stanno impegnando rispetto allo stesso bambino/bambina, per cui appare quanto mai opportuno un momento di conoscenza e confronto atto a
stabilire rapporti di fiducia e migliore conoscenza dei rispettivi ruoli.
10. Si riconosce l’esigenza che l’audizione delle presunte vittime avvenga in
ogni caso – e soprattutto per minori molto piccoli – con l’ausilio di personale
dotato delle necessarie competenze di tipo psicologico, sia attraverso la nomina di consulente tecnico del Pubblico Ministero l’assunzione di sommarie
informazioni testimoniali dalla vittima, sia attraverso la nomina di un ausiliario da parte del giudice per le indagini preliminari (art. 498 comma 4° cod.
proc. pen.) nell’incidente probatorio o, infine, nella sede dibattimentale, possibilmente con le forme della cosiddetta audizione protetta (artt. 502 cod. proc.
pen.), anche in luogo diverso dal Tribunale (in questo senso si esprime l’art.
398, comma 5-bis cod. proc. pen. novellato), finalizzata a contenere ulteriori
traumi alla parte offesa ove chiamata a deporre al cospetto dell’imputato.
11. Rispetto agli approfondimenti di tipo peritale si riconosce l’esigenza
di limitare il più possibile il sovrapporsi di indagini psicodiagnostiche sullo
stesso minore per incarico delle diverse autorità.
In generale può valere il criterio di riservare all’àmbito penale gli accertamenti di natura ginecologica e quelli sull’idoneità a testimoniare a norma
dell’art 196, comma 2° cod. proc. pen. (rispetto ai quali il minore andrà comunque adeguatamente sostenuto a livello psicologico), mentre la cosiddetta
psicodiagnosi, la valutazione delle relazioni familiari e della possibilità di recupero delle funzioni genitoriali va riservata all’ambito minorile.
In questo senso non paiono esservi ostacoli, ove non sussistano controindicazioni nella specifica vicenda, all’eventuale nomina come consulente tecnico del Pubblico Ministero del professionista che abbia operato come consulente tecnico di ufficio in ambito minorile (gli artt. 222 e 197 cod. proc. pen.
non sembrano stabilire, al riguardo, alcuna incompatibilità).
238
12. Tutte le autorità giudiziarie riconoscono come vada compiuto ogni
sforzo per evitare che la storia della vittima divenga oggetto di notizie a mezzo stampa che ne consentano l’identificazione.
Ciò non vale – ovviamente – solo per i dati di più immediata riconoscibilità (generalità, fotografie, indirizzi), ma anche per notizie che, indirettamente, la rendano possibile (residenza dei genitori, scuola frequentata, ecc.).
La tutela della riservatezza delle vittime è sancita a livello processuale e
penale (artt. 114 comma 6° cod. proc. pen. e 684 cod. pen.) e recepita nella
cosiddetta Carta di Treviso che prevede precisi limiti di deontologia per i giornalisti (la cui violazione può e deve essere oggetto di denuncia al rispettivo
Ordine Professionale).
Massima attenzione andrà posta anche ai comportamenti degli organi di
polizia giudiziaria coinvolti nell’indagine.
239
ALLEGATO N. 2
Schema organizzativo dell’Ufficio per gli interventi civili, istituito
presso la Procura per i minorenni di Lecce.
PROPOSTE DI STRUTTURA E FUNZIONI INVESTIGATIVE
NELL’AMBITO CIVILE DI UNA PROCURA PER I MINORENNI
Procura per i minorenni
⬎
Competenze civili
⬎
⬎
Competenze penali
PMM
PGM
Ufficio per gli interventi civili
PMM – PGM
Assistenti sociali distaccati dagli enti territoriali.
Funzionari del Provveditorato agli Studi.
Personale di segreteria.
⬎
⬎
Enti locali (Province),
Usl, Provveditorato
agli Studi,
Ispettorato al lavoro
Distacco personale presso
l’ufficio interventi civili;
Accordi di programma ex art. 27
comma 1 l. 8 giugno 1990, n. 142
⬎
Attività di prevenzione
devianza minorile
⬎
⬎
⬎
⬎
⬎
Cessione di neonato
Lavoro nero minorile
Prostituzione minorile
⬎
PMM
PGM
⬎
Verifica sulla realizzazione
dei progetti finanziari
ex l. 21 giugno 1991, n. 216
240
Ricerca minori
scomparsi
⬎
⬎
Violenze fisiche
Abusi sessuali
Incuria
⬎ PGM
⬎
Indagini specifiche
PMM
PGM
Assistenti sociali
Ispettore del lavoro
⬎
Indagini civili
PMM
PGM
Assistenti sociali
PMM
PGM
Funzionari
del Provveditorato agli
Studi Assistenti sociali
Accertamenti conseguenti
all’evasione dell’obbligo scolastico.
Acceramenti su frequentazioni
a rischio
ALLEGATO N. 3
Testo della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei bambini (Strasburgo, 26 gennaio 1996).
CONVENZIONE EUROPEA SULL’ESERCIZIO DEI DIRITTI DEI BAMBINI (*)
Preambolo
Gli Stati membri del Consiglio d’Europa e gli altri Stati firmatari della
presente Convenzione;
Considerando che lo scopo del Consiglio d’Europa è quello di ottenere
una unione più stretta fra i suoi membri;
Tenendo conto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino ed in particolare dell’articolo 4 che esige che gli Stati Parte adottino tutte
le misure legislative, amministrative e d’ogni altro genere necessarie per realizzare i diritti riconosciuti nella Convenzione suddetta;
Prendendo atto del contenuto della Raccomandazione 1121 (1990) dell’Assemblea Parlamentare sui diritti dei bambini;
Convinti che i diritti e gli interessi superiori dei bambini debbano essere
promossi e che a tal fine i bambini debbano avere la possibilità di esercitare
questi diritti, in particolare nei procedimenti familiari che li riguardano;
Riconoscendo che i bambini debbano ricevere le informazioni pertinenti perché i loro diritti ed i loro superiori interessi possano essere attuati e che
la loro opinione deve essere tenuta nella debita considerazione;
Riconoscendo l’importanza del ruolo dei genitori nella protezione e promozione dei diritti e dei superiori interessi dei figli e considerando che, se
necessario, gli Stati debbano partecipare a tali funzioni;
Considerando, tuttavia, che in caso di conflitto è opportuno che le famiglie tentino di trovare un accordo prima di portare la questione davanti ad
un’autorità giudiziaria.
Hanno convenuto quanto segue:
CAPITOLO 1
Campo d’applicazione, oggetto della Convenzione e definizioni
Articolo 1. – Campo d’applicazione ed oggetto della Convenzione.
1. La presente Convenzione si applica ai bambini che non hanno raggiunto l’età di 18 anni.
(*) La traduzione è stata curata da Ileana DEVANNA. Si è preferito il termine
“bambino” a “fanciullo” o “minore” sia per coerenza con analoga scelta fatta da questa
rivista nella traduzione della Convenzione O.N.U. del 20 novembre 1989, contenuta nel
n. 1, 1990, prima serie, sia per le valide ragioni indicate da Carlo Alfredo MORO, in Il
bambino è un cittadino, Mursia, Milano, 1991, pag. 24.
241
2. Oggetto della presente Convenzione è promuovere, nell’interesse superiore dei bambini, i loro diritti, garantire loro i diritti processuali ed agevolarne l’esercizio, assicurando che i bambini siano, direttamente, o tramite
altre persone od organismi, informati ed autorizzati a partecipare ai procedimenti giudiziari che li riguardano.
3. Ai fini della presente Convenzione i procedimenti giudiziari che riguardano i bambini sono i procedimenti familiari, segnatamente quelli che riguardano l’esercizio delle responsabilità dei genitori ed in particolare, la residenza ed il diritto di visita ai bambini.
4. Ogni Stato deve indicare, al momento della firma o al momento del deposito dello strumento di ratifica, l’accettazione, l’approvazione o l’adesione,
con dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa,
almeno tre tipi di procedimenti familiari davanti ad un’autorità giudiziaria ai
quali questa Convenzione sarà applicata.
5. Ogni Parte può, con dichiarazione aggiuntiva, completare l’elenco dei
procedimenti familiari ai quali questa Convenzione sarà applicata o fornire
informazioni concernenti l’applicazione degli articoli 5, 9, comma 2, 10 comma 2, 11.
6. La presente Convenzione non impedisce alle Parti di applicare norme
più favorevoli alla promozione ed all’esercizio dei diritti dei bambini.
Articolo 2. – Definizioni.
Ai fini della presente Convenzione:
a. si intende per “autorità giudiziaria” un tribunale od una autorità amministrativa con competenze equivalenti,
b. si intende per “detentori della responsabilità di genitori” i genitori o altre persone od organismi abilitati ad esercitare alcune o tutte le responsabilità di genitori,
c. si intende per “rappresentanti” le persone, quali gli avvocati, e gli organismi incaricati di agire davanti ad un’autorità giudiziaria in nome del bambino,
d. si intende per “informazioni pertinenti” le informazioni appropriate
con riferimento all’età ed al discernimento del bambino e che saranno date
per permettergli di esercitare pienamente i suoi diritti, a meno che tali informazioni non nuociano al suo benessere.
CAPITOLO 2
Misure processuali per promuovere l’esercizio dei diritti dei bambini.
A. Diritti processuali del bambino.
Articolo 3. – Il diritto di essere informato e di esprimere la propria opinione nei
procedimenti.
Ad un bambino considerato dalla legge nazionale come avente un sufficiente discernimento, in caso di procedimenti che lo riguardino davanti ad
un’autorità giudiziaria, sono garantiti i seguenti diritti, di cui egli stesso può
chiedere di beneficiare:
242
a. ricevere tutte le informazioni pertinenti,
b. essere consultato ed esprimere la propria opinione,
c. essere informato sulle possibili conseguenze delle aspirazioni da lui
manifestate e delle possibili conseguenze di ogni decisione.
Articolo 4. – Il diritto di chiedere la designazione di un rappresentante speciale.
1. Ferma restando l’applicazione dell’articolo 9, il bambino ha il diritto di
chiedere, personalmente o tramite altre persone od organismi, la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti giudiziari che lo riguardano, quando la legge Nazionale priva i detentori delle responsabilità di genitori della facoltà di rappresentarlo a causa di un conflitto di interessi.
2. Gli Stati sono liberi di disporre che il diritto previsto al comma 1 si applichi solo ai bambini considerati dalla legge nazionale come dotati di sufficente discernimento.
Articolo 5. – Altri possibili diritti processuali.
Le Parti esaminano l’opportunità di riconoscere ai bambini dei diritti
processuali supplementari nei procedimenti giudiziari che li riguardano, e in
particolare:
a. il diritto di chiedere di essere assistiti da una persona idonea di loro
scelta, per aiutarli ad esprimere la loro opinione;
b. il diritto di chiedere, personalmente o tramite altre persone od organismi, la nomina di un diverso rappresentante e, nei casi che lo richiedano, di
un avvocato;
c. il diritto di nominare il proprio rappresentante;
d. il diritto di esercitare in tutto o in parte le prerogative di una parte in
questi procedimenti.
B. Il ruolo dell’autorità giudiziaria.
Articolo 6. – La formazione della decisione.
Nei procedimenti che riguardano i bambini, l’Autorità Giudiziaria, prima
di prendere una decisione, deve:
a. verificare se dispone di informazioni sufficienti per prendere una decisione nell’interesse superiore del bambino e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare dai detentori delle responsabilità di genitori.
b. dopo aver accertato che il bambino, considerato dalla legge nazionale
come avente sufficiente discernimento, abbia ricevuto tutte le informazioni
pertinenti, consultare nei casi che lo richiedano il bambino di persona, se
necessario in privato, oppure tramite altre persone od organismi, in forma
adeguata al suo discernimento, a meno che ciò non sia manifestamente contrario all’interesse superiore del bambino, e permettergli di esprimere la sua
opinione,
c. tenere nel debito conto l’opinione da lui espressa.
243
Articolo 7. – Obbligo di procedere con rapidità.
Nei procedimenti che riguardano i bambini, l’Autorità Giudiziaria deve
agire rapidamente per evitare ogni inutile ritardo. Le procedure devono assicurare una rapida esecuzione delle decisioni. Nei casi urgenti l’autorità giudiziaria ha, se necessario, il potere di prendere decisioni che siano immediatamente esecutive.
Articolo 8. – Possibilità di procedere d’ufficio.
Nei procedimenti che riguardano un bambino l’autorità giudiziaria ha il
potere, nei casi gravi determinati dalla legge nazionale, nei quali il benessere
del bambino sia minacciato, di procedere d’ufficio.
Articolo 9. – Designazione di un rappresentante.
1. Nei procedimenti che riguardano un bambino, quando, secondo la
legge nazionale, i detentori delle responsabilità di genitori siano mancati della
facoltà di rappresentare il bambino per un conflitto di interessi tra loro e il
bambino, l’autorità giudiziaria ha il diritto di nominargli uno speciale rappresentante.
2. Le Parti possono prevedere che, nei procedimenti riguardanti un bambino, l’autorità giudiziaria abbia il potere di designare un rappresentante speciale per il bambino e, se necessario, un avvocato.
C. Il ruolo dei rappresentanti.
Articolo 10.
1. Nei procedimenti giudiziari riguardanti un bambino, il rappresentante deve, salvo che ciò non sia manifestamente contrario al superiore interesse del bambino:
a. fornire ogni informazione pertinente al bambino considerato dalla
legge nazionale come dotato di sufficiente discernimento;
b. fornire spiegazioni al bambino, considerato dalla legge nazionale come
dotato di sufficiente discernimento, riguardo alle possibili conseguenze delle
aspirazioni da lui manifestate e alle possibili conseguenze di ogni azione del
rappresentante;
c. recepire la sua opinione e portarla a conoscenza dell’autorità giudiziaria.
2. Le Parti possono estendere le disposizioni del comma 1 ai titolari delle
responsabilità di genitori.
D. Estensione di alcune disposizioni.
Articolo 11.
Le parti esaminano la possibilità di estendere le disposizioni degli articoli
3, 4, 9 ai procedimenti riguardanti i bambini davanti ad altri organi ed a questioni riguardanti i bambini indipendentemente da qualunque procedimento.
244
E. Organismi Nazionali.
Articolo 12.
1. Le Parti incoraggiano la promozione e l’esercizio dei diritti dei bambini a mezzo di organismi che in reciproca collaborazione hanno, tra le altre, le
funzioni espresse nel comma 2.
2. Le funzioni sono le seguenti:
a. fare proposte per rafforzare le disposizioni di legge relative all’esercizio dei diritti dei bambini;
b. dare pareri sui progetti di legge relativi all’esercizio dei diritti dei bambini;
c. fornire informazioni generali riguardo all’esercizio dei diritti dei bambini ai mass-media, al pubblico, alle persone e agli organismi che si occupano di questioni relative ai bambini;
d. recepire l’opinione dei bambini e fornire loro ogni informazione appropriata.
F. Altre misure.
Articolo 13. – Mediazione e altri metodi di risoluzione dei conflitti.
Per prevenire o risolvere i conflitti ed evitare procedimenti giudiziari
riguardanti bambini, le Parti incoraggiano l’attuazione della mediazione o di
ogni altro metodo di risoluzione dei conflitti e la loro utilizzazione per raggiungere l’accordo nei casi appropriati determinati dalle Parti.
Articolo 14. – Aiuto giudiziario e consulenza legale.
Quando la legge nazionale prevede l’aiuto giudiziario e la consulenza
legale per la rappresentanza dei bambini nei procedimenti giudiziari queste
disposizioni si applicano agli articoli 4 e 9.
Articolo 15. – Relazioni con altri strumenti internazionali.
Questa Convenzione non impedisce l’applicazione di altri strumenti internazionali che trattino di questioni relative alla protezione del bambino e della
famiglia e di cui una Parte della presente Convenzione è – o diviene – Parte.
CAPITOLO 3
Il Comitato permanente.
Articolo 16. – Organizzazione e funzioni del Comitato permanente.
1. Per i fini di questa Convenzione è costituito un Comitato permanente.
2. Il Comitato permanente segue i problemi relativi a questa Convenzione. In particolare può:
a. esaminare ogni questione sull’interpretazione ed attuazione della Convenzione. Le conclusioni del Comitato permanente sull’attuazione della Con-
245
venzione possono rivestire la forma di una raccomandazione; le raccomandazioni sono adottate con la maggioranza dei tre quarti dei voti espressi;
b. proporre emendamenti alla Convenzione ed esaminare quelli proposti
secondo il disposto dell’articolo 20.
c. fornire consulenza ed assistenza agli organi nazionali che perseguono
le funzioni indicate al comma 2 dell’articolo 12 e promuovere la cooperazione internazionale tra loro.
Articolo 17. – Composizione.
1. Ogni Parte può farsi rappresentare nel Comitato permanente da uno o
più delegati. Ogni Parte dispone di un voto.
2. Ogni Stato cui si riferisce l’articolo 21, che non sia Parte di questa Convenzione può essere rappresentato nel Comitato permanente da un osservatore. La stessa disposizione si applica ad ogni altro Stato ed alla Comunità
Europea, secondo quanto disposto dall’articolo 22.
3. A meno che, almeno un mese prima della riunione, una Parte abbia informato il Segretario Generale della propria opposizione, il Comitato permanente può invitare ad assistere come osservatori a tutte le riunioni, o ad una
intera o a parte di una riunione:
– ogni Stato non menzionato nel suindicato comma 2;
– il Comitato sui diritti dei bambini delle Nazioni Unite;
– la Comunità Europea;
– qualunque organismo governativo internazionale;
– qualunque organismo internazionale non governativo che svolga una o
più funzioni indicate nel comma 2 dell’articolo 11;
– qualunque organismo nazionale governativo e non governativo che
svolga una o più funzioni indicate nel comma 2 dell’articolo 11.
Il Comitato permanente può scambiare informazioni con idonee organizzazioni che operano per favorire l’esercizio dei diritti dei bambini.
Articolo 18. – Riunioni.
1. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa inviterà il Comitato permanente a riunirsi al termine del terzo anno successivo alla data di entrata in
vigore della presente Convenzione e, per sua iniziativa, in qualsiasi altro momento dopo questa data.
2. Il Comitato permanente può assumere decisioni solo se almeno la metà delle Parti è presente.
3. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 16 e 20, le decisioni del
Comitato permanente devono essere prese a maggioranza dei membri presenti.
4. Ferme restando le disposizioni della presente Convenzione, il Comitato permanente stabilisce il proprio regolamento interno e quello di tutti i
gruppi di lavoro che lo costituiscono per assolvere in modo appropriato a tutti
i compiti nell’ambito della Convenzione.
246
Articolo 19. – Relazioni del Comitato permanente.
Dopo ogni riunione il Comitato permanente trasmette alle Parti ed al
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa una relazione sulle sue discussioni e sulle decisioni prese.
CAPITOLO 4
Emendamenti alla Convenzione.
Articolo 20.
1. Ogni emendamento agli articoli di questa Convenzione proposto da
una Parte o dal Comitato permanente è comunicato al Segretario Generale
del Consiglio d’Europa ed inoltrato a sua cura, almeno due mesi prima della
successiva riunione del Comitato permanente, agli Stati membri del Consiglio
d’Europa, ai Firmatari, alle Parti, agli Stati invitati a firmare questa Convenzione secondo quanto disposto dall’articolo 21 ed agli Stati o alla Comunità
Europea invitati ad aderirvi a norma dell’articolo 22.
2. L’emendamento proposto in conformità con quanto disposto nel precedente comma E esaminato dal Comitato permanente, che sottopone il testo
adottato con la maggioranza dei tre quarti dei voti espressi al Comitato dei
Ministri per l’approvazione. Dopo l’approvazione, il testo è comunicato alle
Parti per l’accettazione.
3. L’emendamento entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo
al periodo di un mese decorrente dalla data in cui tutte le Parti avranno informato il Segretario Generale di averlo accettato.
CAPITOLO 5
Clausole finali.
Articolo 21. – Firma, ratifica ed entrata in vigore.
1. La presente Convenzione è aperta alla firma degli Stati membri del
Consiglio d’Europa e degli Stati non membri che hanno preso parte alla sua
elaborazione.
2. La presente Convenzione sarà sottoposta a ratifica, accettazione o approvazione. Gli strumenti di ratifica, accettazione o approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
3. La presente Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese
successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi decorrente dal giorno in cui
tre Stati, di cui almeno due Stati membri del Consiglio d’Europa, avranno
espresso il loro consenso ad essere vincolati dalla Convenzione, secondo le
disposizioni del comma precedente.
4. Per ogni Stato che esprimerà successivamente il proprio consenso ad
esserne vincolato, la Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese
successivo allo scadere di un periodo di tre mesi decorrente dalla data di deposito dello strumento di ratifica, accettazione o approvazione.
247
Articolo 22. – Stati non membri.
1. Dopo l’entrata in vigore della presente Convenzione, il Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa potrà, di sua iniziativa o su proposta del
Comitato permanente e previa consultazione delle Parti, invitare ogni Stato
non membro del Consiglio d’Europa che non ha partecipato all’elaborazione
della Convenzione e la Comunità Europea ad aderire alla presente Convenzione con una decisione presa dalla maggioranza prevista dall’articolo 20,
comma d. dello Statuto del Consiglio d’Europa, e con il voto unanime dei rappresentanti degli Stati contraenti, facenti parte del Comitato dei Ministri.
2. Per tutti gli Stati aderenti e per la Comunità Europea la Convenzione
entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo ad un periodo di tre mesi
dalla data di deposito dell’atto di adesione presso il Segretario Generale del
Consiglio d’Europa.
Articolo 23. – Applicazione territoriale.
1. Ogni Stato può, al momento della firma, o del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, indicare il territorio, o i territori, ai quali la presente Convenzione si applicherà.
2. Ogni Parte può in ogni momento successivo, con una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione di questa. Convenzione ad ogni altro territorio indicato nella dichiarazione e delle cui retazioni internazionali è responsabile o per il quale è autorizzata a stipulare. Riguardo a questo territorio, la Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi
decorrente dalla data di ricezione della dichiarazione da parte del Segretario
Generale.
3. Le dichiarazioni fatte ai sensi dei due commi precedenti potranno essere ritirate, per quanto concerne il territorio o i territori indicati, con notifica indirizzata al Segretario Generale. Il ritiro avrà effetto dal primo giorno del
mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi decorrente dalla data
di ricezione della notificazione da parte del Segretario Generale.
Articolo 24. – Riserve.
Non può essere formulata alcuna riserva alla presente Convenzione.
Articolo 25. – Denunce.
1. Ogni Parte può, in ogni momento, denunciare la presente Convenzione
con notificazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
2. La denuncia diverrà effettiva il primo giorno del mese successivo allo
scadere di un periodo di tre mesi decorrente dalla data di ricezione della notificazione da parte del Segretario Generale.
Articolo 25. – Notificazioni.
Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà agli Stati mem-
248
bri del Consiglio, ai Firmatari, alle Parti e ed ogni altro Stato invitato ad aderire alla Convenzione:
a. le firme;
b. il deposito degli strumenti di ratifica, di accettazione, di approvazione
o di adesione;
c. le date di entrata in vigore di questa Convenzione conformemente gli
articoli 21 e 22;
d. ogni emendamento adottato in conformità all’articolo 20 e la data in
cui esso entrerà in vigore dell’emendamento;
e. ogni dichiarazione formulata in virtù delle disposizioni degli articoli 1
e 23;
f. ogni denuncia fatta secondo l’articolo 25;
g. ogni altro atto, notificazione o comunicazione relativa alla presente
Convenzione.
A testimonianza di ciò i sottoscritti, debitamente autorizzati a questo
scopo, hanno firmato questa Convenzione.
Fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, in francese ed in inglese, in due
testi facenti ugualmente fede, in un solo esemplare che sarà depositato negli
archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa
ne comunicherà copia certificata conforme a ciascuno degli Stati membri del
Consiglio d’Europa, agli Stati non membri che hanno preso parte all’elaborazione della presente Convenzione, alla Comunità Europea ed a tutti gli Stati
invitati ad aderire alla presente Convenzione.
249
UNA NUOVA CONVENZIONE EUROPEA IN MATERIA DI MINORI
Il 25 gennaio 1996, a Strasburgo, è stata aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa la Convenzione sull’esercizio dei diritti di minori e
nello stesso giorno essa è sfata firmata dall’Italia.
Si tratta di un importante documento che è stato elaborato in oltre quattro
anni di lavoro a seguito della Raccomandazione nr. 1121/1990 dell’Assemblea
Parlamentare e sulla spinta della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del
Fanciullo, di cui ambisce essere considerata un completamento.
Essa infatti, conformemente alle autorevoli indicazioni della Raccomandazione 1121/90, vuole porsi come strumento giuridico complementare e specifico
dell’area europea in materia di diritti dei minori, nel presupposto che in Europa
i principi della Convenzione delle Nazioni Unite siano già patrimonio comune.
Pertanto – come si legge nel progetto di rapporto esplicativo – essa non tende
a creare nuovi diritti rispetto a quelli previsti dalla Convenzione O.N.U., ma
vuole piuttosto facilitarne l’esercizio allargando la capacità dei minori di agire in
giudizio. L’accento viene quindi messo più sull’idea di promozione dei diritti dei
minori che sul concetto di protezione.
La Convenzione prevede come campo di applicazione elettivo i procedimenti in materia di famiglia, ivi comprese le questioni in materia di potestà dei
genitori e quelle sul diritto di visita e sulla residenza in diritto di essere adeguatamente informato e di essere ascoltato è previsto nell’art. 3 per ogni minore che
abbia “sufficiente discernimento” secondo la legge nazionale, come pure (l’art. 4)
il diritto di chiedere – personalmente o con l’aiuto di altre persone od organismi
– la nomina di un curatore speciale.
L’art. 5 sollecita gli Stati Parti della Convenzione ad ampliare ulteriormente la sfera della capacità processuale dei minori, riconoscendo loro “diritti processuali supplementari” come il diritto di designare un proprio rappresentante.
Largo spazio viene dato alla mediazione (art. 13) e a quella forma moderna
di gratuito patrocinio indicata come “aiuto giudiziario” (art. 14).
È previsto un meccanismo di controllo (art. 16), e non sono ammesse riserve (art. 24).
Nel momento in cui l’Italia esce bocciata dal primo appuntamento di verifica, sull’applicazione della Convenzione O.N.U., la firma della nuova Convenzione Europea dovrebbe costituire per Governo e Parlamento una sfida ed un
impegno a risalire la china.
Diversamente, una seconda e più amara bocciatura è facilmente prevedibile.
(Luigi FADIGA)
250
ALLEGATO N. 4
Documentazione relativa all’istituzione di un Ufficio per la mediazione presso l’ufficio della Procura per i minorenni di Torino.
PROPOSTE PER UNA RISPOSTA PENALE “RIPARATORIA”
I princìpi.
Siamo cresciuti secondo una concezione ed una pratica della sanzione
penale fondata su princìpi retributivi e preventivi, in parte temperati da esigenze di riabilitazione del colpevole. Nonostante i molti dubbi che ci assillano continuiamo a riprodurre questa concezione che, da più parti, comincia ad
essere fortemente contestata.
Si è osservato come nell’idea retributiva predomini un principio sostanzialmente utilitaristico: la pena viene irrogata semplicemente perché il colpevole se l’è meritata. Manca un qualsiasi intento riabilitativo. Lo scopo è quello di dissuadere. Quello che è fondamentale nel principio retributivo è il rispetto della proporzionalità incentrata sulla gravità del pericolo/danno e sull’intensità del dolo/colpa.
Nella pena viene, però, tradizionalmente individuata anche una funzione
preventiva, di protezione e preservazione del corpo della società. La pena sarebbe, innanzitutto, rivolta a dissuadere la generalità delle persone dal ricorrere ad attività illecite mediante il rischio concreto di denuncia, ovvero, di sottoposizione a procedimento penale.
Dal punto di vista della persona intenzionata a commettere il reato la
pena dovrebbe indurla, in aggiunta, ad un calcolo tra i vantaggi e gli svantaggi in gioco fidando nella capacità di scelta dell’individuo. Dal punto di vista
del condannato, infine, la pena svolgerebbe una funzione di neutralizzazione
identificando le persone che, si ritiene, possano commettere in futuro nuovi
reati. I giudici credono molto poco all’effetto neutralizzante ma, di fatto, lo
perseguono a piene mani soprattutto al momento dell’applicazione delle misure cautelari.
Questa impostazione tradizionale e stata criticata, soprattutto nella giustizia minorile, perché:
– la semplice retribuzione non ha alcun riguardo della personalità in evoluzione del minore e delle sue capacità di trasformazione;
– l’effetto dissuasivo della pena in astratto non ha mai avuto alcuna dimostrazione scientifico-statistica;
– l’effetto dissuasivo delle decisioni giudiziarie è praticamente nullo sia in
ragione della frequenza di pronunce indulgenziali sia in ragione dell’assenza
di pubblicità delle condanne;
251
– è impossibile stabilire – tranne casi marginali – chi rischia di recidivare e chi no;
– è impossibile stabilire – in termini di durata – la funzione neutralizzante della pena.
Tenendo conto di tutti questi elementi critici si è ricercata nella pena una
funzione riabilitante, assimilando il reato a sintomo di patologia, mediante
un approccio trattamentale, per venire a capo della patologia. Anche nei casi
in cui il minore non ha rivelato patologie di sorta si è fatto, e si fa, leva su una
indeterminata esigenza/bisogno di educazione. La sanzione viene impiegata
come strumento educativo forte ritmata al processo evolutivo della persona.
Sennonché, dal punto di vista statistico, lo strumento riabilitativo non ha
affatto dimostrato un effetto capace di contenere la recidiva. Ma ciò che occorrerebbe, soprattutto, dimostrare, per affermare la bontà di questo sistema,
è che siano solo i minori che delinquono quelli che hanno bisogno di un processo “riabilitativo”.
Su questi fallimenti e sui limiti insuperabili della funzione tradizionale
della pena si è cercato di spostare l’attenzione dal reato come evento statico
al reato come evento relazionale, dalla retribuzione della sofferenza alla riparazione della sofferenza, dal trattamento/sostegno del colpevole alla sua responsabilizzazione in un processo riparatorio.
In questa prospettiva la vittima o, comunque, la parte offesa abbandona
la classica posizione secondaria, estraniata dal regolamento dei conti tra stato
e colpevole: diviene il termine di relazione fondamentale del processo sanzionatorio inteso, innanzitutto, come riparazione del danno, dell’offesa e delle
sofferenze.
La pena, in altri termini, assume una funzione principale di soddisfacimento morale e materiale per la parte colpita dal reato. Il colpevole viene
coinvolto nel processo riparativo attraverso una progressiva comprensione
dell’evento e dell’altro ed una progressiva responsabilizzazione mediante il
compimento di atti e attività di segno contrario. In ultima analisi la pena perde la sua caratteristica sanzionatoria del conflitto generato dal reato per assumere la qualità di strumento, essa stessa, di risoluzione del conflitto. In
questo senso la pena o meglio le attività riparatorie si specificano, di volta in
volta, in riparazioni meramente materiali, in forme di indennizzo (monetario,
attività socialmente utili) e vere e proprie mediazioni tra vittima e colpevole
con la partecipazione di un terzo in funzione di guida.
L’aspetto psicologico.
Un adolescente colpevole di un reato ha una duplice identità che non è,
ovviamente, propria del ragazzo bensì di chi lo osserva (giudice od operatore
che sia). Innanzitutto è un’adolescente colpevole di un reato più o meno
grave. La seconda identità è quella costituita dall’essere per l’istituzione un
“caso”, un “esemplare” dei problemi e delle contraddizioni in cui viviamo. Il
soggetto che compie il reato è studiato, conosciuto, in qualche caso forse capi-
252
to e la pena viene eventualmente comminata a partire dal reo e non dal reato.
Purtroppo il giudice minorile tende ad avere a che fare non con “quel particolare minorenne ma con un ragazzo che costituisce un “exemplum” specifico di generali contraddizioni e problemi della società a cui entrambe appartengono.
L’atto compiuto dal minore non è contestualizzato ad una situazione circoscritta e ad un momento della vita ma, quasi, storicizzato. Non a caso gli
elementi costitutivi del comportamento a delinquere non sono mai assunti nel
loro significato simbolico ma utilizzati come puri elementi di indagine.
Il paradosso è rappresentato dal fatto che, in quel modo, nel tentativo di
evitare un iter processuale centrato sulla commisurazione reato/pena, il “reo”
viene comunque trascurato. Dall’altra parte del banco, infatti, nessun adolescente concepisce sé stesso come vittima della società e della storia. Egli è una
persona che, a un certo punto della sua vita, ha commesso un reato; proprio
perciò è in tribunale e proprio perciò non pensa ad altro rapporto col giudice
se non in termini di mitezza della pena o comunque ad un rapporto che ha
come motivo e oggetto centrale la pena per il reato.
Ci si deve, quindi, chiedere se sia possibile, all’interno dell’iter penale
ritagliare uno spazio in cui avvenga l’incontro con un ragazzo che, tra le altre
cose che vive e fa, ha anche commesso un reato o se dobbiamo continuare ad
accontentarci di incontrare un “reo” e raramente un reo che è anche un adolescente. Gli ostacoli ad un incontro ottimale non derivano solo dall’organizzazione del lavoro istituzionale ma dai ragazzi stessi che non si rapportano
all’autorità giudiziaria con modalità diverse da quelle che adottano a scuola o
in altre istituzioni in cui si imbattono: con lontananza, diffidenza, ostilità;
istituzioni da cui trarre il massimo vantaggio con il minimo sforzo/rischio e
dalle quali uscire tendenzialmente indenni.
È possibile che “la mediazione” aiuti a superare questi ostacoli, a rendere meno astratto (di ruolo) il rapporto tra il tribunale e l’adolescente e permetta di restituire all’adolescente una sua identità, appunto, non di ruolo.
1. La mediazione, incentrandosi su un atto specifico e puntando sull’incontro dell’adolescente con la vita, contestualizza il rapporto tribunale/ragazzo ad una situazione, sì specifica e circoscritta ma, non generica e generale.
E questo riduce la confusione tra problematiche sociali e problemi del singolo adolescente.
2. Gli incontri di mediazione, incentrati almeno all’inizio, sull’atto a delinquere rivalutano l’importanza dell’atto a delinquere non in senso sociale
(violazione del codice) ma all’interno della personalità del ragazzo. Il delitto
commesso ha un significato che non dipende genericamente da condizioni
storico-sociali ma dalla personalità che il ragazzo ha nel momento in cui compie l’atto. Questo aspetto ci sembra di particolare importanza: quando, attraverso risorse varie (perdono, messa alla prova…) si accetta la semplice equazione “data certa storia del minore = atto a delinquere” e l’atto non è che conseguenza di condizioni generali, da un lato l’atto stesso è, per così dire, bana-
253
lizzato (e ciò è vero nell’ottica dell’adulto) ma è anche banalizzato agli occhi
del ragazzo, per il quale, l’atto in se ha importanza solo in funzione della pena
che può produrre (i nostri ragazzi sono profondamente conservatori dal punto di vista politico e la prassi attuale, a nostro avviso, non tiene sufficientemente conto di questo fatto). D’altra parte nessuno, crediamo, vuole accettare una
rivalutazione dell’atto a delinquere attraverso rigidità e incrementi di pena.
Questa è una delle ragioni principali della mediazione:
– rivalutazione dell’atto a delinquere per ciò che esso significa ed esprime della personalità del ragazzo e del suo iter di maturazione senza dover ricorrere ad una valorizzazione che poggia sulla severità della pena.
3. Ed è all’interno di questo discorso che la comparsa della vittima da
concretezza a tutto il discorso, evitando psicologismi o facili “bontà assistenziali”.
Da queste premesse derivano alcune note sull’attuazione. Le domande
fondamentali sono:
a) Con quali ragazzi ?
Oltre al dato di partenza dell’ammissione del fatto da parte del minore
occorrerebbe privilegiare l’attuazione della mediazione con quei ragazzi che
provengano da una situazione di disagio sociale che rappresenti, in qualche
forma, un indice di recidiva. Inoltre andrebbe privilegiata l’esperienza con ragazzi entro i sedici anni in una prospettiva di prevenzione evitando così, almeno in una prima fase, tentativi con ragazzi nei quali una identità “deviante” è stata già assunta. Nei confronti dei minori per i quali l’atto a delinquere
poggia su una devianza culturale sistematica (tossicodipendenti, nomadi ed
extra-comunitari) sarebbe necessaria un’organizzazione specializzata.
b) Quando e dove?
La mediazione dovrebbe essere fatta subito, con l’ammissione della colpa, quale percorso parallelo rispetto all’iter processuale fino a convergere con
quest’ultimo in sede di G.U.P.. Il che comporta che l’inizio avvenga presso la
Procura. Dopo il primo/i primi colloqui è bene che lo svolgimento del programma avvenga in sede diversa da quella giudiziaria.
c) Da parte di quali istituzioni?
Per quanto riguarda il momento specifico della “mediazione” crediamo
che le uniche persone da coinvolgere siano il colpevole e la vittima. Familiari
e soggetti di altre istituzioni sono opportuni nella fase di “riparazione” considerata qui come esito del processo di mediazione. E, almeno adesso, la mediazione dovrebbe essere svolta dagli psicologi e da operatori sociali che abbiano già avuto un’esperienza nella giustizia minorile.
L’aspetto giuridico.
L’inserimento di attività riparatorie nell’ambito del procedimento penale
suscita non poche difficoltà sia in relazione all’assenza di una loro specifica
254
disciplina normativa sia in relazione all’esigenza che le attività di riparazione
possano prendere l’avvio rapidamente, a ragionevole distanza dal fatto. A quest’ultimo proposito è bene ricordare come l’ufficio in grado di intervenire tempestivamente sia proprio quello (il Pubblico Ministero) che non dispone di poteri decisori neppure in materia di libertà personale.
Con questi limiti va dunque considerato lo sforzo di proporre l’articolato-guida che segue.
1) Nei confronti del minore indagato, imputato, la cui responsabilità penale sia accertata con sentenza o condannato con sentenza anche non definitiva possono essere applicate misure di riparazione.
2) Le misure di riparazione consistono in attività del minore per il risarcimento del danno, per la riparazione dell’offesa arrecata, di contatto e eventuale riconciliazione con la vittima e, infine, nell’interesse della collettività.
3) Le m. di r. hanno la finalità di responsabilizzare il minore in ordine
alle conseguenze del reato.
4) Le m. di r. non possono essere applicate senza il consenso del minore
e della vittima.
5) Le m. di r. non possono essere applicate se non a seguito della piena
confessione del minore e sulla base di prove certe del reato.
6) Le m. di r. sono applicate dal P.M. nel corso delle indagini, dal G.I.P. in
sede di convalida di arresto, del fermo o dell’accompagnamento e dal giudice
in sede di giudizio nonchè da parte del magistrato di sorveglianza.
7) Il P.M. e il G.I.P. applicano le m. di r. nell’ambito degli accertamenti di
cui agli artt. 9 D.P.R. 1988 n. 448. Il G.U.P., il Giudice del dibattimento, in sede
di opposizione e in appello anche nell’ambito dell’art. 28 D.P.R. 1988 n. 448.
Il Magistrato di Sorveglianza in sede di determinazione delle misure sostitutive e di quelle alternative alla detenzione.
8) È istituito un UFFICIO PER LA MEDIAZIONE presso l’ufficio della
Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni costituita da giudici onorari in funzione di esperti che collaboreranno con il P.M. competente, e dall’Ufficio distrettuale di servizio sociale per i “minorenni.
9) I giudici onorari, in numero di tre, che fanno parte dell’Ufficio per la
mediazione, non possono svolgere funzioni penali quali giudici del Tribunale
per i Minorenni.
10) Il P.M. al momento dell’arresto, del fermo, dell’accompagnamento o
dell’iscrizione della notizia di reato dispone l’audizione immediata dell’arrestato, fermato o accompagnato – senza ritardo negli altri casi – quando la
natura del reato e tutti gli altri elementi disponibili facciano ritenere applicabile una m. di r..
11) All’audizione – senza formalità – può presenziare l’A.S. o l’esperto
facente parte dell’Ufficio per la Mediazione.
12) Qualora il P.M. ravvisi l’opportunità di una m. di r. ed il minore esprima il suo consenso ne dispone l’invio:
– all’Ufficio per la mediazione per le attività di mediazione con la vittima;
255
– ovvero fissa un termine per il risarcimento patrimoniale del danno;
– ovvero ne fa proposta al G.I.P. in caso di arresto, fermo o accompagnamento;
– non può disporre l’invio all’ente locale per attività di riparazione del
danno o di interesse per la collettività in ragione del loro contenuto afflittivo;
12) I contatti con la vittima nell’ambito delle attività di mediazione-riconciliazione-risarcimento vengono assunti dall’Ufficio per la mediazione.
13) L’esito positivo della m. di r. costituisce elemento di valutazione ai
sensi dell’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448 in altri termini l’inosservanza delle misure
di riparazione disposte dal P.M. non può pregiudicare in alcun modo l’esito
del processo;
14) Qualora non sussistano gli estremi per l’archiviazione il P.M. – con la
richiesta di rinvio a giudizio – propone al giudice l’applicazione di una m. di
r. sulla base di un progetto elaborato dall’Ufficio Distrettuale di Servizio
Sociale per i minorenni ai sensi degli artt. 28 D.P.R. 1988 n. 448 e 27 D.Lgs.
1989 n. 272 (con una corsia privilegiata senza dilazioni di tempo) anche ai fini
dell’art. 32 comma 2 D.P.R. 1988 n. 448 (sanzioni sostitutive disposte dal
G.U.P.). Quest’ultimo riferimento viene dato perché la pena pecuniaria, la
libertà controllata e la semidetenzione breve possono essere o avere contenuto – tutto o in parte – di m. di r..
Le risorse.
Una politica giudiziaria in funzione riparatoria non può che fondarsi su
una parallela politica locale di aiuto verso le vittime dei reati. La giustizia
riparatoria non può essere infatti concepita come una semplice e nuova
forma di sofferenza (e, dunque, di retribuzione) più civile. In questa prospettiva la vittima verrebbe nuovamente sottoposta ad un ruolo strumentale che
non appartiene agli obiettivi della giustizia riparatoria. Non solo: le stesse
sanzioni riparatorie in mancanza di una solida base di sostegno alle vittime,
potrebbero essere attuate come pena aggiuntiva a discapito del colpevole e
della stessa vittima.
È quindi compito dell’ente locale programmare le forme di aiuto e di
ascolto verso le parti offese secondo criteri di protezione precedenti e successivi al reato. La disponibilità della rete giudiziaria minorile all’attuazione di
misure di riparazione dovrebbe pertanto trovare un preciso riscontro nella disponibilità dell’ente locale a svolgere programmi a favore delle vittime di specifici reati commessi da minorenni.
Le caratteristiche delle misure.
In generale le misure di riparazione non devono essere mai confuse con
attività di tipo meramente educativo. Non devono consistere in attività di per
sé normali o naturali nella vita dell’adolescente (come l’andare a scuola o il
lavorare).
Le connotazioni delle misure di riparazione dovrebbero essere:
– limitata afflittività;
256
– idoneità ad aprire conoscenze di settori e possibilità di impegno estranei all’esperienza di vita di chi vi è sottoposto;
– veicolo di contatti personali educativamente significativi.
Va precisato che le attività di interesse per la collettività devono essere
occasionali e limitate nel tempo onde non incorrere nell’istituzione di “lavori
forzati” (una traccia, in questo senso può essere rappresentata dall’art. 105 l.
1981 n. 689 e da ultimo nella l. 25 giugno 1993 n. 205).
Settori di attività ipotizzabili.
Oltre alla risorsa specifica della “mediazione” in senso stretto (sviluppata in sede di approccio psicologico) i settori di attività particolarmente indicati per la definizione di progetti quali quelli in esame sembrano essere:
a) sanità e assistenza (es: Croce Rossa, pronto soccorso, mense, erogazione di servizi nei confronti degli stranieri);
b) ambiente (pulizia città, forestazione, costruzione argini fiumi ecc.);
c) servizi pubblici (vigili, pompieri, polizia, c.c.);
d) sport e tempo libero.
Figure professionali da mettere in campo.
a) mediatori professionali;
b) operatori di appoggio (obiettori ecc.…);
c) operatori di controllo (servizio sociale del ministero).
257
ENTI PUBBLICI DA CONTATTARE
Ministero e comuni
Privati (enti economici, associazionismo).
258
259
PROCURA DELLA REPUBBLICA
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
Richiesta di parere all’Ufficio per la Mediazione
ai sensi dell’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448
Il P.M., dott.
…………………………………………………………………………………………………..
visto l’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448
letto il processo verbale con il quale X Y, sentiti il suo difensore e i suoi
genitori, ha espresso il suo consenso a misure di natura riparatoria a seguito del reato previsto dagli artt. ……… commesso in danno di ………… in
data …………..
CHIEDE
agli operatori dell’Ufficio per la Mediazione, in collaborazione con l’Ufficio distrettuale di servizio sociale per i minorenni, assunti gli opportuni contatti con la persona offesa, con l’autore del reato e i titolari della potestà su
quest’ultimo, di valutare l’opportunità di adottare misure dirette a riparare le
conseguenze del reato e per la conciliazione del minorenne con la stessa persona offesa.
Torino il
260
……………………
UFFICIO PER LA MEDIAZIONE
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
Orario di ricevimento
…………………………………
…………………………………
☎
.……………………………
CONVOCAZIONE
Egregi signori
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di
Torino mi ha incaricato di svolgere un approfondimento relativo al reato contestato a Vostro figlio per verificare la possibilità di prescrivergli misure per
la riparazione delle conseguenze del reato o per la sua riconciliazione con la
vittima del reato stesso.
A questo proposito spero di poterVi incontrare per un colloquio anche
alla presenza di Vostro figlio.
Vi invito pertanto a presentarVi (insieme a Vostro figlio) presso l’Ufficio
per la Mediazione, che ha sede nel Tribunale per i Minorenni di Torino, per la
data del ………………………………
Qualora non Vi fosse possibile presentarVi per la data indicata Vi sarei
grato di prendere contatti presso la segreteria del nostro Ufficio nei giorni e
negli orari indicati sopra per fissare un altro incontro.
Vogliate accettare i miei più distinti saluti.
Allego copia dell’incarico ricevuto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Torino.
Torino il
………………………
261
UFFICIO PER LA MEDIAZIONE
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
Orario di ricevimento
…………………………………
…………………………………
☎
.……………………………
CONVOCAZIONE
Egregio signore/a
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di
Torino mi ha incaricato di svolgere un approfondimento relativo al reato contestato a X Y e commesso in Vostro danno in data …………..
Tale incarico ha lo scopo di verificare la possibilità di prescrivere all’autore del reato misure adeguate per la riparazione dei danni che Voi avete subito e di ricercare una Vostra eventuale riconciliazione con il minoore X Y.
Per fare questo è, ovviamente necessario il Vostro consenso e la Vostra
disponibilità. A questo proposito spero di poterVi incontrare per un colloquio
presso l’Ufficio per la Mediazione, che ha sede nel Tribunale per i Minorenni
di Torino, per la data del ………………… o, se lo preferite, presso il Vostro domicilio.
Qualora non Vi fosse possibile presentarVi per la data indicata o qualora
preferiate ricevermi presso il Vostro domicilio Vi sarei grato di prendere contatti presso la segreteria del nostro Ufficio nei giorni e negli orari indicati
sopra per fissare la data e l’ora dell’incontro.
Vogliate accettare i miei più distinti saluti.
Allego copia dell’incarico ricevuto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Torino.
Torino il
262
………………………
PROCURA DELLA REPUBBLICA
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
PROCESSO VERBALE
DI CONSENSO ALL’ATTIVITÀ RIPARATORIA
Io sottoscritto
con residenza in
…………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………….
do il mio consenso a che vengano svolte ad attività riparatorie in mio favore
in conseguenza del reato commesso in mio danno da
……………………
………………………. in
data
e a partecipare agli eventuali colloqui ed incontri per la ricon-
ciliazione con l’autore del reato.
Sono a conoscenza del fatto che le attività riparatorie saranno seguite
dall’Ufficio per la Mediazione presso il Tribunale per i Minorenni di Torino.
La persona offesa
Il P.M.
Torino il
………………………
263
PROCURA DELLA REPUBBLICA
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
PROCESSO VERBALE
DI CONSENSO ALL’ATTIVITÀ RIPARATORIA
Io sottoscritto …………………………………………………………………………………………
con residenza in …………………………………………………………………………………………….
indagato per il reato commesso in danno di …………………………… in data
………………… (riepilogo del capo d’imputazione) do il mio consenso per l’adempimento delle prescrizioni dirette alla riparazione delle conseguenze del
reato che ho commesso e per la partecipazione agli eventuali colloqui ed
incontri per la riconciliazione con la vittima del reato.
Sono a conoscenza del fatto che le attività riparatorie verranno seguite
dall’Ufficio per la Mediazione presso il Tribunale per i Minorenni di Torino.
Io sottoscritto …………………………………………………………………………………………
nella qualità di genitore/tutore di ……………………………………………………………
indagato per il reato sopradescritto do il mio consenso alle attività riparatorie indicate dal Pubblico Ministero e che verranno seguite dall’Ufficio per la
Mediazione presso il Tribunale per i Minorenni di Torino.
Do atto che mio figlio/mia figlia durante la realizzazione delle indicate
attività rimarrà sotto la mia responsabilità genitoriale.
L’indagato
per il genitore
il difensore
Il P.M.
Torino il
264
…………………
UFFICIO PER LA MEDIAZIONE
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
Orario di ricevimento
…………………………………
…………………………………
☎
.……………………………
RIPARAZIONE
Valutazione di Fattibilità
INDAGATO:
Cognome e nome:
Data di nascita:
Indirizzo:
Telefono:
Responsabile civile:
Situazione:
Incontro:
Proposta:
VITTIMA:
Cognome e nome:
Indirizzo:
Telefono:
Danno secondo l’imputazione:
Danno secondo la vittima:
Incontro:
Proposta:
265
BILANCIO
Danni riconosciuti dalle parti:
Progetto educativo:
Proposte di riparazione
Torino il ……………………
f.to ……………………
266
PROCURA DELLA REPUBBLICA
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
AUTORIZZAZIONE ALLE ATTIVITÀ RIPARATORIE
proposte dall’Ufficio per la Mediazione
nell’àmbito degli approfondimenti di cui all’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448
Il P.M., dott. …………………………………………………………………………………………………...
visto l’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448
letto il processo verbale del ………………………………… (Reg. Mediazione n. ………)
relativo all’indagato
……………………………………………………………………………………….
per il/i reato/i di ……………………………………………………………………………………………..
in danno di …………………………………………………………………………………………………….
AUTORIZZA
gli operatori dell’Ufficio per la Mediazione a seguire le attività riparatorie conformemente al progetto dallo stesso formulato nei confronti di
…………………… e con particolare riferimento a ………………………………………………..
………………………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………………………………………………….
Torino il
………………………
Il Sostituto Procuratore
267
UFFICIO PER LA MEDIAZIONE
PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO
Reg. Mediazione n.
Orario di ricevimento
…………………………………
…………………………………
☎
.……………………………
RAPPORTO SULL’ESITO DELLE ATTIVITÀ RIPARATORIE
INDAGATO:
Sintesi del progetto autorizzato dal P.M.
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
Osservazioni eventuali sullo svolgimento delle misure di riparazione.
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………….
Torino il
268
……………………
Torino, 16 luglio 1994
Al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori
per la Provincia di Torino
Al Presidente della Camera Penale
OGGETTO: Misure penali riparatorie a carico di minori.
Prima della “sospensione feriale” delle attività giudiziarie ordinaria si è
tenuto un primo incontro informale tra alcuni magistrati del Tribunale per i
Minorenni di Torino e della Procura Minorile presso lo stesso Tribunale con i
difensori iscritti allo speciale albo indicato dall’art. 15 del D.Lgs. 28 luglio
1989 n. 272 per la difesa d’ufficio di minori autori di reato.
In tale incontro è stata illustrata l’intenzione da parte dell’autorità giudiziaria minorile torinese di procedere, in via sperimentale, all’adozione di misure “di tipo riparatorio” a carico del minore e a favore delle persone offese,
siano esse persone singole che enti pubblici o privati.
Abbiamo riscontrato nelle osservazioni degli avvocati e dei procuratori
intervenuti una notevole disponibilità ed interessanti osservazioni critiche.
Poiché siamo coscienti che questa applicazione sperimentale interferisce con
alcuni principi, segnatamente quello del diritto alla difesa e della presunzione di innocenza, intendiamo con questa comunicazione coinvolgere formalmente i Vostri organismi istituzionali ed associativi per una riflessione comune ed un corretto “modus procedendi”.
Le misure riparatorie rappresentano una risposta penale di tipo nuovo,
più fondata su un’esigenza di riparazione delle conseguenze del reato a vantaggio della responsabilizzazione del colpevole e della reintegrazione morale
e materiale della vittima che non su una esigenza di classica retribuzione.
Il fondamento “normativo” di queste misure risiede in numerosi documenti internazionali (le Regole minime per l’amministrazione della giustizia
minorile, O.N.U. New York 29 novembre 1985, la Raccomandazione n. 20
sulle risposte sociali alla delinquenza minorile, Consiglio d’Europa Strasburgo 17 settembre 1987, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo 20
novembre 1989 oggi legge dello Stato italiano 27 maggio 1991 n. 176) che rappresentano per gli operatori minorili, giuridici e non, una guida insostituibile.
Il nostro diritto positivo (il processo penale minorile) contempla espressamente misure di tipo riparatorio solo nell’ambito della c.d. sospensione con
messa alla prova (art. 28 D.P.R. 1988 n. 448) limitando così notevolmente un
efficace impiego delle stesse. Si fa, infatti, normalmente ricorso alla c.d. messa alla prova (almeno nella prassi di questo ed altri tribunali minorili) solo
quando non si possa far ricorso ad altre misure indulgenziali (in altri termini
quando per l’imputato si profila un esito sanzionatorio).
269
Diversi ordinamenti stranieri hanno, da tempo, visto nascere una diffusa
applicazione di queste misure riparatorie, prima in via sperimentale e, successivamente, con interventi normativi: i risultati sono dappertutto largamente positivi pur nell’estrema diversità delle soluzioni giuridiche adottate.
Non vi sono difficoltà nell’adottare, anche da noi, misure riparatorie in
sede di giudizio in particolare attraverso il ricorso alle sanzioni sostitutive.
Tuttavia la particolarità, e la difficoltà, della soluzione che si propone sta
nel prevedere misure di tipo riparatorio che anticipino l’azione penale condizionandola sostanzialmente nei suoi sbocchi. A differenza, infatti, degli ordinamenti stranieri che hanno pienamente accolto il principio riparatorio nella
giustizia minorile, il nostro è regolato dall’obbligatorietà dell’azione penale
che impedisce al P.M. di “degiurisdizionalizzare” la risposta penale.
È infatti nella natura dell’attività riparatoria una reazione immediata al
fatto-reato per condurre il colpevole al risarcimento del danno, alla restituzione dei beni, alla riconciliazione con la persona offesa (anche solo alla presentazione di scuse) e, eventualmente, allo svolgimento di attività nell’interesse della collettività o degli enti offesi dal reato. Questa esigenza di immediatezza è soddisfatta solo in quanto la misura riparatoria possa essere adottata già nel corso delle indagini preliminari.
Se facesse difetto questa immediatezza (o, almeno, una certa tempestività) verrebbe vanificato il risultato sia perché la vittima, dopo un certo tempo,
non ha più interesse a “dissotterrare” le paure e le angosce provocate dal reato
sia perché il minore, a differenza dell’adulto, quanto più passa il tempo tanto
più, al momento del giudizio, si presenterà come un individuo totalmente diverso da quello che ha compiuto il reato.
Come conciliare, allora, la ricerca di risposte penali maggiormente congrue agli interessi dei minori (e della stessa collettività) con l’indisponibilità
del rito penale, la presunzione di innocenza e le garanzie della difesa?
Abbiamo ritenuto che il P.M. possa richiedere a degli operatori specializzati (il Servizio sociale minorile e dei giudici onorari in qualità di esperti sollevati da ogni altro incarico penale), identificati nell’Ufficio per la Mediazione
un approfondimento e, soprattutto, una valutazione sull’opportunità che il
minore sottoposto ad indagini si attivi per riparare le conseguenze del danno
e per riconciliarsi con la persona offesa. Questo approfondimento e questa
valutazione sono consentiti, a nostro avviso, dall’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448 secondo cui “il P.M. e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali famigliari sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali procedimenti civili. Agli stessi fini il P.M. e il
giudice possono assumere informazioni da persone che abbiano avuto
rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza formalità”. In altri termini l’attivazione del minore sarebbe idonea a ricondurre il
fatto nell’ambito di una fattispecie eventualmente penalmente irrilevante (art.
27 D.P.R. 1988 n. 448) con conseguente richiesta da parte del P.M. al G.I.P. di
una sentenza di non luogo a procedere anziché del rinvio a giudizio davanti
270
al G.U.P.. Ma l’attivazione sarebbe, in ogni caso, idonea a dar sostanza all’attuale eccessiva benevolenza con cui è elargito il perdono giudiziale (concesso
frequentemente proprio per la distanza temporale tra fatto e giudizio) nonché
a raccordarsi con un’eventuale sospensione del processo con messa alla
prova.
In sostanza l’art. 9 D.P.R. 1988 n. 448 consente al P.M. una attivazione
pre-processuale: mentre oggi assume semplicemente i caratteri di una mera
richiesta di informativa ai servizi sociali, con le misure riparatorie rivestirebbe i caratteri di un invito a “fare” qualcosa con il minore. Questo “fare”, sia
ben chiaro, non può mai assumere i connotati di una limitazione della libertà
del minore.
Si può chiedere al minore di restituire il bene, di risarcire una somma
corrispondente al danno causato, di avere degli incontri con un operatore o
con la vittima, di presentare delle scuse scritte o orali. Tutto questo sempre
con il suo consenso scritto e formalizzato alla presenza dei suoi genitori e del
suo difensore. Proprio per evitare che nell’azione restitutoria (simbolica o
effettiva) prevalgano contenuti sanzionatori abbiamo escluso che nell’ambito
delle indagini preliminari possano avere cittadinanza inviti ad attività lavorative nell’interesse della collettività o di determinate persone: anche se vi fosse
il consenso del minore, dei suoi genitori e il consiglio in tal senso del difensore, l’afflittualità che contraddistingue un impegno lavorativo (sia pur limitato) esige un intervento giurisdizionale sia per mezzo dell’istituto della messa
alla prova sia per mezzo delle sanzioni sostitutive che possono essere piegate
ad una finalità riparatoria. Entro questi limiti vorremmo fosse chiaro che la
misura riparatoria non è l’oggetto di uno scambio o di un patteggiamento
(non a caso escluso nella procedura minorile) tra accusa e difesa: “se fai questo chiederò l’archiviazione” o “se fai questo avanzerò richieste in tuo favore”.
Non sono ammesse né promesse né minacce. La misura riparatoria corrisponde ad un principio educativo elementare per cui “chi rompe, paga”. La
proposta che il P.M. formula al minore è di anticipare la reazione dell’ordinamento appropriandosi della sua responsabilità per il fatto commesso. L’ordinamento non sarà indifferente all’avvenuta ricostituzione della situazione di
diritto secondo le tecniche che saranno illustrate al minore dal difensore,
dagli operatori e dallo stesso P.M..
Secondo questa impostazione non sembrano esserci lesioni del diritto di
difesa, dell’obbligatorietà dell’azione penale e le regole del giudizio. È vero
che la misura riparatoria presuppone un accertamento incidentale di responsabilità non consacrato da una sentenza. Il meccanismo è, tuttavia, identico a
quello che presiede alla sospensione del procedimento con messa alla prova:
in questo caso, infatti, il giudice dispone l’attuazione di un programma di
messa alla prova (dal contenuto inevitabilmente afflittivo) solo quando sia
incidentalmente accertata la responsabilità del minore. La garanzia è data,
secondo l’uniforme orientamento giurisprudenziale, dal consenso dell’imputato alla misura.
Riteniamo, tuttavia, che si possa presentare una possibile situazione con-
271
flittuale tra misure riparatorie precedenti il giudizio e principio di presunzione di innocenza in un caso: qualora, per qualsiasi causa, l’esito delle misure
si riveli fallimentare. C’è, in questo caso, il rischio che le dichiarazioni rese
dall’indagato nel corso dei colloqui con gli operatori, la sua stessa condotta (a
prescindere dalle sue strategie processuali), pregiudichino il suo pieno diritto
alla difesa. Abbiamo pertanto posto la regola in base alla quale gli atti compiuti dall’Ufficio per la Mediazione (audizione del minore, dei suoi genitori,
della vittima ecc. …) facciano parte del fascicolo del P.M. solo in caso di esito
positivo delle misure di riparazione e che delle attività compiute, in caso di
esito negativo, non si possa dar conto neppure mediante le allegazioni dei servizi sociali (ministeriali o dell’ente locale).
Ci rendiamo perfettamente conto della complessità di queste operazioni
e delle perplessità che queste proposte possono suscitare. Non dubitiamo, tuttavia, che si tratta di una sfida che si deve accogliere non solo per il mondo
della giustizia minorile ma per l’ordinamento penale nel suo complesso. Al
mondo della giustizia minorile si offre l’occasione per superare la schizofrenia tra indulgenza generalizzata e l’esemplarità della prigione per i più derelitti (nomadi, tossicodipendenti e stranieri); all’ordinamento in generale si
offre la possibilità di riflettere sulla sua struttura tanto lacerata nella ricerca
di un equilibrio tra le parti processuali quanto disattenta alle esigenze elementari della vittima dei reati, vieppiù relegata nel suo ruolo di terzo incomodo, negletta non solo nella dinamica del processo quanto piuttosto dalle
amministrazioni locali cui competono funzioni precise in questo campo.
Ci scusiamo profondamente per la lunghezza dell’esposizione (ma, in
parte, la novità e la delicatezza del tema lo imponeva). Ci sia consentito, soltanto, di concludere proponendo, proprio su questi temi della “mediazione-riparazione”, di dar luogo entro la fine dell’anno ad un corso di aggiornamento per avvocati e procuratori legali secondo quanto prevede l’art. 15 D.P.R.
1988 n. 448.
Restiamo in attesa di un Vostro graditissimo cenno di risposta
distinti saluti
IL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI TORINO
DOTT. Camillo LOSANA
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IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
presso IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
DI TORINO
DOTT. Graziana CALCAGNO
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G. GULOTTA-G. SANTI, Dal conflitto al consenso: necessità e strategie di mediazione nell’affidamento dei minori, in P. DUSI (a cura di), in Le procedure, cit..
273
IL RUOLO DELL’AVVOCATO NEI PROCEDIMENTI
CIVILI MINORILI
Relatore:
Avv. Paola DE BENEDETTI
Del foro di Torino
L’invito a esaminare e discutere il ruolo dell’avvocato nei procedimenti civili minorili mi ha offerto ancora una volta l’occasione di riflettere sulle ragioni di una certa diffidenza della classe forense verso
la giustizia minorile, e del senso di frustrazione sempre più diffuso tra
gli avvocati che patrocinano avanti ai Tribunali per i Minorenni: desidero che sia chiaro che questo non è un discorso corporativo a tutela
degli interessi della categoria, ma investe la realizzabilità in concreto
del diritto del cittadino alla difesa. Nel sostenere che non è affatto
indifferente la presenza o meno di un difensore, mi limito a rammentare l’esistenza nel nostro codice di rito dell’art. 82: la difesa tecnica
avanti agli organi giurisdizionali, collegiali e non, è finalizzata ad un
corretto esercizio della giurisdizione, e quindi alla tutela del cittadino
che chiede – o nei cui confronti si chiede – giustizia. Ora mentre è
pacifica l’obbligatorietà della difesa tecnica nei procedimenti contenziosi e la non obbligatorietà nei procedimenti propriamente di volontaria giurisdizione che non risolvono conflitti tra interessi contrapposti, non esistono né regole né chiarezza per quanto attiene ai procedimenti camerali. La Corte Costituzionale in materia di procedimento
per la dichiarazione di adottabilità, con la sent. 22 giugno 1989 n. 351
ha stabilito che se la norma non la vieta, l’assistenza del difensore
debba considerarsi implicitamente ammessa, senza peraltro che il giudice sia tenuto ad avvertire la parte che può farsi difendere. Non mi
consta l’esistenza di norme che vietino l’assistenza di un patrocinatore; in un rito che non è né di volontaria giurisdizione, né contenzioso
ma che certamente risolve conflitti, come quello minorile, la difesa
quando non è obbligatoria (per esempio in sede di opposizione allo
stato di adottabilità) più che ammessa, pare appena tollerata.
Ritengo necessaria, per completare il mio ragionamento prima di
esaminare i problemi tipici del procedimento avanti ai Tribunali
275
minorili, una breve digressione su quel terreno vago costituito dai procedimenti in materia di persone e di famiglia, che costituiscono un
ponte tra il contenzioso e il camerale: alla sempre maggiore estensione del rito camerale in ipotesi connotate dal contraddittorio, si collega in parallelo l’estensione al giudice del procedimento contenzioso in
materia di separazione di poteri che si avvicinano a quelli del rito camerale (art. 155 c.c.: istruttoria disposta d’ufficio, assunzione libera di
informazioni, pronunce di merito anche difformi dalle domande proposte dalle parti). L’esperienza professionale mi ha portato a sviluppare una profonda diffidenza verso la giustizia camerale in genere: la
perdita delle regole che garantiscono la pienezza del contraddittorio e
della difesa non trova alcuna compensazione.
Infatti: a) Non è vero che il procedimento camerale abbrevi i tempi del giudizio: lo stiamo sperimentando nei procedimenti di modifica
delle condizioni della separazione che dal 1988 vengono trattati con
rito camerale: l’udienza di comparizione viene fissata in ragione non
dell’urgenza della parte, bensì della disponibilità di tempo del Collegio.
Incide pesantemente sui tempi anche il fatto che i provvedimenti
istruttori o urgenti non possono essere emessi in udienza dal relatore,
ma sono di competenza del Collegio, cui il relatore deve riferire; altro
motivo di ritardo è la necessità di ri-costituire il collegio con gli stessi
componenti (il problema dell’immodificabilità del Giudice).
b) Non è vero che il procedimento camerale appiani i conflitti: essere convocati avanti al Collegio piuttosto che avanti a un giudice
istruttore (come è oggi obbligatorio nei procedimenti contenziosi) non
cambia molto le cose e comunque – se le cambia – è in peggio: ho notato che la parte sovente trova nel Giudice singolo un interlocutore,
una persona che può capirlo; con un organo collegiale invece l’impatto è diverso, è assai difficile – se non impossibile – instaurare un rapporto di comprensione con il Collegio. In alcuni casi ho rilevato che,
al cospetto dei tre giudici, si esalta la tendenza al protagonismo della
parte che si compiace di essere al centro dell’attenzione. Il che non
giova certamente alla composizione della lite.
c) Le ampie zone di dubbio sulle forme dell’atto introduttivo, sui
tempi e sui modi di costituzione del convenuto, sui poteri del relatore-istruttore, sui termini per il reclamo, hanno condotto alla instaurazione di prassi, sovente difformi da Tribunale a Tribunale, tanto che gli
avvocati ogni volta che cambiano tavolo devono informarsi preventivamente sulle regole del gioco.
276
d) Resta aperto il problema della stabilità delle decisioni emesse
sotto forma di decreto, sempre revocabili da parte dell’autorità che le
ha emesse, (art. 742 c.p.c.), e il conseguente dubbio della ricorribilità
per cassazione a norma dell’art. 111 della Costituzione contro tali
decisioni.
Passando ora a esaminare i problemi specifici del procedimento
minorile, per quanto attiene alla difesa, ho dovuto fare una constatazione: nella discussione ricca, approfondita, a volte addirittura appassionata sull’organizzazione e conduzione del processo, sui poteri del
giudice relatore, sul ruolo dei componenti privati, sulla immutabilità
della composizione del Collegio ho colto come prevalenti, per non dire
uniche preoccupazioni, quelle formali, circa l’adesione o meno al modello del rito camerale delineato dal codice, e quelle organizzative, relative alla funzionalità e all’efficenza dell’ufficio: all’esercizio concreto
del diritto della parte privata di far sentire la propria voce non è stata
dedicata molta attenzione.
Nella relazione al primo congresso dell’Associazione Italiana Avvocati per la famiglia e per i Minori, (pubblicata su Famiglia e Diritto
2/95 p. 178) Gianfranco DOSI, forte della sua duplice esperienza di
magistrato e di avvocato, rilevava “è piuttosto diffusa la convinzione
che la presenza dell’avvocato sia sostanzialmente secondaria, e in molti casi addirittura fastidiosa… come se per la tutela dei diritti delle persone fosse sufficiente l’imparzialità della funzione giudiziaria”.
In effetti avanti ai Tribunale per i Minorenni l’interazione tra l’autorità giudiziaria e i Servizi Territoriali, che trova fondamento nella
possibilità di assumere informazioni informali e nel D.P.R. 616/77,
emargina la difesa.
I servizi quando funzionano bene sono fortemente “ideologizzati” (difendendo genitori con problemi psichiatrici ho rilevato fieri
contrasti tra i servizi territoriali minorili e quelli di N.P.A). A volte ho
avuto l’impressione che più che un’attività amministrativa svolta dal
Giudice ci sia un’attività giurisdizionale svolta dai Servizi Territoriali
o che – quanto meno – il confine tra le due competenze sia estremamente labile (per esempio quando si trovano trasposti come motivazioni dei provvedimenti i rilievi dei servizi, senza altre argomentazioni).
La prassi instaurata dai Tribunali minorili ha dato vita a un rito
che viola i principi basilari della difesa: la parte privata viene convocata senza che abbia alcuna preventiva conoscenza dell’apertura e dei
motivi dell’apertura del procedimento, non ha alcuna possibilità di
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concorrere a formare la convinzione del Giudice, non ha strumenti per
contestare, o fornire spiegazioni o correggere le informazioni, che
vengono assunte al di fuori di qualsiasi controllo, anche giurisdizionale. Normalmente la parte non è messa in grado di conoscere gli atti
a “istruttoria” conclusa per poter eventualmente sviluppare le opportune difese (come prevede ad esempio l’art. 274 III comma c.c.).
E ancora: l’ambiguità della posizione del componente privato cui
il giudice togato delega l’audizione delle parti crea ulteriori problemi:
a parte ogni discorso circa la ritualità della delega, il difensore si trova
sovente nell’imbarazzante situazione di assistere a un colloquio di tipo
psico-diagnostico nel quale non vi è spazio per la difesa legale.
Tutto ciò non è casuale: il procedimento è lo strumento per realizzare non la composizione di paritetici interessi in conflitto, bensì
uno scopo: lo esclusivo interesse morale e materiale del minore. Come
osservava il prof. ALPA (I principi generali del diritto nel settore familiare-Atti del convegno “Tutela della famiglia o famiglia sotto tutela” a
cura di Francesco MAZZA GALANTI, Unicopli, dic. ’93), “nel diritto di
famiglia sono trasparenti le ideologie degli interpreti. Sono più trasparenti che in altri settori, perché, al di là dei meccanismi tecnici,
nelle motivazioni si fa appello ai valori, alla coscienza sociale, per l’appunto ai princìpi, tutte formule che consentono di veicolare nella
motivazione e quindi di raggiungere con il dispositivo gli scopi morali, civili, istituzionali, che il giudice sostiene di perseguire o di essere
obbligato a perseguire”.
La posizione del difensore diventa così molto problematica: se
l’avvocato deve collaborare alla realizzazione del fine che si propone la
legge (ricordo che la formula del giuramento impegna l’avvocato ad
“adempiere i doveri professionali… per i fini della giustizia”), entro
quali limiti può svolgere la difesa del cliente che vuole contrastare i
provvedimenti relativi ad un minore?
Tenuto fermo il fatto che le prestazioni professionali sono prestazioni di mezzi, e non di scopo, l’avvocato si trova di fronte a due opzioni estreme: la adesione alle richieste del cliente, che la difesa fa proprie, oppure l’adesione ai princìpi generali, cui l’interesse del cliente
deve essere sacrificato. È difficile trovare il giusto equilibrio che ritengo consista nel guidare il cliente verso il risultato “possibile”, compatibile con i fini della giustizia.
L’esperienza professionale ha rafforzato comunque la mia convinzione che non esiste un interesse esclusivo, cioè escludente, del minore, che vive normalmente inserito in una rete di rapporti familiari; è
278
una mistificazione affermare che i provvedimenti limitativi o ablativi
della potestà parentale sono volti soltanto a realizzare l’interesse del
minore, e non perseguono intenti sanzionatori nei confronti dei genitori; o continuare a definire di “volontaria giurisdizione” i procedimenti in cui due genitori contendono l’affidamento del figlio o litigano sul mantenimento e sulla disciplina dei rapporti del figlio con il
genitore non affidatario. In questi casi non poter far conoscere la propria verità non poter introdurre i propri testimoni, non poter contestare le informazioni fornite dai Servizi Sociali è vissuto in modo persecutorio dalla parte, come un diniego di giustizia.
E certamente se si considera che le vicende di un minore non sono
mai avulse dalle vicende della famiglia, la verità processuale desunta
dalle informazioni fornite dai servizi sociali risulta sovente essere solo
un vago simulacro della verità reale.
Io dubito – e sottopongo il mio dubbio all’attenzione dei magistrati – che i problemi che ho esposto attengano esclusivamente al
rito: mi pare invece che debba essere riesaminata la ideologia che è
stata posta a fondamento del rito; il minore non è – come ho già detto
– portatore di interessi esclusivi e quindi l’intervento del giudice, per
quanto lo riguarda, non può avere i connotati sostanziali della attività
amministrativa, tipica dei procedimenti di volontaria giurisdizione.
Si può subordinare a quello preminente del minore l’interesse degli
adulti di riferimento, non mi pare lecito escluderlo. Se a un concetto
assoluto, che isola il minore dal suo contesto, se ne sostituisce uno di
relatività, in cui si valutano anche le opzioni proposte e sostenute
dagli adulti, la funzione giurisdizionale può esplicarsi pienamente, e
il giudice si riappropria delle caratteristiche di imparzialità e di terzietà tipiche della sua funzione, che oggi invece appaiono appannate.
Occorre – in altre parole – riconoscere l’esistenza di “altri” interessati alla procedura, oltre al minore: le conseguenze in rito diverrebbero
inevitabili.
Come osservava il dott. PALOMBA in “Tutela della famiglia o famiglia sotto tutela” già citato, occorre differenziare all’interno della giurisdizione, tra ciò che è juris dicere, cioè decidere, scegliere tra diverse opzioni, e quello che è, invece, proporre delle opzioni tra loro differenti. In questa direzione il contraddittorio è un elemento non soltanto formalmente necessario, ma anche significativamente arricchente proprio ai fini della riduzione della complessità processuale.
Esso, pur apparentemente accrescendo la complessità del caso, contribuisce invece ad offrire al giudice elementi di valutazione più ampi,
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che possono rendergli più facile la decisione, cioè la scelta tra le diverse possibilità.
È evidente che la presenza della difesa non è una cosa facoltativa,
ma è una necessità assoluta perché il difensore tutela anch’esso posizioni di diritto soggettivo e ha il compito di prospettarle al giudice
nella maniera corretta”.
Se ci fermiamo a considerare che gli esiti del giudizio si proiettano sulla vita futura del minore e degli adulti di riferimento vediamo
quanto sia necessario che il Giudice, nel decidere, disponga della più
ampia conoscenza per poter scegliere tra la più ampia facoltà di
opzioni.
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GIUDICE MINORILE E SERVIZI SOCIALI
Relatore:
Dott. Francesco MAZZA GALANTI
Giudice del Tribunale di Genova
1. – Svolgere funzioni giudiziarie nell’ambito del Tribunale per i
Minorenni comporta per un giudice non solo entrare frequentemente
in contatto con famiglie espressione delle classi marginali (disoccupati, poveri, alcoolisti, tossico-dipendenti, malati di mente, …) ma anche
relazionarsi continuamente con gli operatori dei servizi locali (consultori familiari, servizi per le tossicodipendenze, servizi di salute mentale, centri di alcoologia, unità operative di psicologia e/o di psichiatria
ove esistenti) che di tali nuclei si occupano facendosi carico di uno o
più membri.
L’esperienza in questo settore consente di affermare che, anche
nelle situazioni in cui lo stato di sofferenza sembra riguardare unicamente il minore segnalato all’autorità giudiziaria, una approfondita
verifica della situazione familiare nel suo complesso consente, quasi
sempre, di rilevare come uno o più dei diversi elementi del nucleo presentino un significativo livello di sofferenza o di disturbo se non, talora, una vera e propria patologia.
Ciò comporta per il giudice la necessità, da un lato, di decodificare il linguaggio tecnico con il quale le diverse figure professionali dei
servizi si esprimono in ordine alle situazioni di cui sono a conoscenza
e, dall’altro, di farsi portatore di un approccio al caso che tenga conto
del sistema delle relazioni familiari nel loro complesso e sia foriero di
interventi che siano rivolti nei confronti dell’intero nucleo familiare.
Non appare superfluo ribadire ancora una volta che la complessità dei problemi da affrontare richiederebbe una specifica e adeguata formazione (anche psicologica) dei magistrati minorili al fine di fornire loro quegli strumenti di lavoro necessari per lo svolgimento della
delicata attività ad essi delegata. L’introduzione di una formazione di
questo tipo, certamente urgente per il giudice della famiglia e dei minori, sarebbe auspicabile nei riguardi dell’intera magistratura poiché
potrebbe consentire a tutti i magistrati una maggiore consapevolezza
nello svolgimento delle funzioni ad essi delegate, una migliore colla-
283
borazione con le diverse professionalità che hanno a che fare con il
“sistema giustizia” e una più ampia capacità di attenuare i conflitti e
di risolvere le controversie.
D’altro canto appare altrettanto opportuno che nell’ambito delle
Scuole di Servizio Sociale, le quali hanno ormai dignità universitaria,
venisse specificamente curata la preparazione delle future assistenti
sociali anche per tutto ciò che riguarda le funzioni e le regole procedurali relative al Tribunale per i Minorenni e alla procura minorile,
nonché la materia dell’ordinamento giudiziario, sotto il profilo della
ripartizione delle competenze in materia di diritto di famiglia e minorile. È infatti opinione diffusa quella secondo cui l’ignoranza, da parte
dei servizi locali, di alcune nozioni fondamentali in questi settori del
diritto, determina l’insorgere di equivoci di fondo (spesso destinati a
protrarsi nel tempo) che si ripercuotono in maniera assai negativa sia
sulle modalità di lavoro degli operatori, sia sull’esito degli interventi di
competenza dell’autorità giudiziaria minorile (nel cui ambito, come
noto, va ricompreso non soltanto il giudice dei minori ma anche il giudice della separazione e del divorzio, in caso di presenza di figli minori, e il giudice tutelare).
2. – Quanto all’attività specificamente posta in essere dal Tribunale per i Minorenni precedentemente alla decisione da assumere, non
c’è dubbio che in tale fase dovrebbe essere sempre riscontrabile un
particolare rapporto di collaborazione tra il giudice e il servizio sociale territoriale. Tale rapporto, a seconda dei casi più o meno prolungato nel tempo, si dispiega in maniera profondamente diversa rispetto a
quello che, di regola, si realizza tra magistrato e servizi a livello di tribunale ordinario, vale a dire nell’ambito delle cause di separazione e
di divorzio ove è in gioco l’affidamento di un minore. Al di là della
maggiore frequenza con cui, di solito, il giudice della famiglia (in sede
di giurisdizione ordinaria) è solito conferire incarichi di natura peritale, vi è da dire che in una procedura di natura contenziosa (a differenza di quanto avviene nell’ambito della c.d. volontaria giurisdizione), la costante presenza delle parti e dei legali e la rigida scansione
temporale delle udienze rendono difficoltosa nelle cause di separazione e di divorzio la creazione di rapporti stabili e significativi tra il magistrato e il servizio locale.
La particolare relazione, a forma libera (in quanto non disciplinata dalla legge, né, almeno di regola, da protocolli di intesa) che nasce
dall’incontro tra il giudice minorile e gli operatori dei servizi differisce
a seconda dei diversi tribunali, degli orientamenti dei singoli e delle
284
differenti formazioni e disponibilità, determinando stili di lavoro assai
variegati la cui incidenza nel contesto socio-familiare oggetto degli interventi sarebbe interessante verificare con monitoraggi su scala nazionale (peraltro di difficile realizzazione).
Il fatto che il rapporto di collaborazione in questione si dispieghi
liberamente non ha necessariamente un significato positivo in quanto
si verifica abbastanza frequentemente che, tra tribunale e servizi e tra
singolo magistrato e singoli operatori, vi sia talora una scarsa comunicazione o, comunque, una modalità di lavoro non sufficientemente
strutturata rispetto alle finalità (la tutela del minore e, per quanto possibile, del nucleo familiare originario) senza dubbio coincidenti delle
due istituzioni.
La spiegazione di tale non infrequente negativa situazione risulta
in definitiva assai semplice poiché tutti coloro che hanno un minimo
di esperienza nel settore sanno che non esiste una cultura integrata
nell’ambito del lavoro che coinvolge il tribunale e i servizi. Le modalità di contatto e di confronto tra magistrati e operatori sono sovente
il frutto di una personale interpretazione che gli interessati danno
della propria attività lavorativa e di quella altrui. In altre parole, a
seconda della soggettiva concezione che il giudice ha del ruolo del servizio e che l’assistente sociale ha della funzione del tribunale, si hanno
modalità di lavoro più o meno integrate, ferma restando la variabile
(indipendente) costituita dalla personalità degli individui e dal tasso di
gradimento reciproco o di reciproca intesa.
Non v’è dubbio del resto che i giudici e gli operatori (siano essi assistenti sociali, psicologi, psichiatri o altro) sono soggetti profondamente diversi in quanto espressione di differenti modelli culturali di riferimento, portatori di un linguaggio diverso e di un approccio talora
antitetico alla variegata umanità che ad essi giornalmente si presenta.
Sul piano relazionale va poi detto che, anche ai nostri giorni, nonostante il diminuito rispetto per l’autorità in genere, la magistratura
induce sovente nei confronti di chi si muove fuori dall’apparato giudiziario una forma di sudditanza (se non un vero e proprio timore) che
non facilita certo la creazione di un rapporto paritario e che, talvolta,
induce gli operatori a porre in essere un atteggiamento di (prudente)
distacco. Ciò appare vero anche per il rapporto tra gli operatori dei
servizi sociali e i giudici del Tribunale Minorile, fermo restando che
siamo di fronte a due “sistemi” indipendenti che sono organizzati e si
muovono con modalità del tutto diverse.
D’altro canto è pure vero che anche tra i giudici serpeggia talora
un certo scetticismo (talora non disgiunto da un atteggiamento di so-
285
spetto) nei riguardi dei servizi territoriali, venendo in certi casi messa
in dubbio la competenza degli operatori, vale a dire la capacità degli
assistenti sociali, degli psicologi e/o degli psichiatri di farsi carico dei
problemi loro deputati.
Se vero che, di regola, i giudici dei Tribunali per i Minorenni (i
quali per lunghi periodi svolgono le loro delicate funzioni nello stesso
settore) sono ben lungi da preconcetti del tipo di quelli descritti, è anche vero che, qualche volta, magistrati magari più anziani o anche soltanto meno specializzati nella materia del diritto di famiglia e minorile, sono portatori, in maniera più o meno esplicita, di modi di pensare tutt’altro che positivi e assai vicini a quelli sopra ricordati nei
riguardi dei servizi.
3. – Rispetto a tutti i problemi cui si è fatto cenno e, in particolare, alla difficoltà di comunicazione non resta che cercare di aprire il
dialogo, chiarire le rispettive funzioni e le specifiche modalità di intervento. Ciò richiede, inevitabilmente, una maggiore disponibilità, da
un lato, dei capi degli uffici giudiziari minorili e dei singoli magistrati e, dall’altro, dei responsabili dei servizi locali e dei vari operatori a
ritrovarsi intorno ad uno stesso tavolo per costruire metodi di lavoro
e prassi operative funzionali all’obiettivo di intervenire incisivamente
nel campo dell’aiuto alle famiglie in difficoltà.
Per quanto concerne lo specifico giudiziario, pur essendo vero che
il giudice minorile, così come il servizio sociale, è necessariamente
teso alla ricerca dell’interesse del minore, non c’è dubbio che l’autorità
giudiziaria debba esercitare a tutela delle parti una funzione di garanzia (il che, tra l’altro, implica il rispetto di determinate procedure) tale
da escludere la possibilità di intese preconfezionate tra il singolo magistrato e l’operatore consultoriale potenzialmente in grado di svuotare la collegialità delle decisioni. Ciò non significa che debba venir meno uno stretto rapporto di collaborazione tra il c.d. giudice delegato e
gli operatori ma, esistendo anche per il Tribunale per i Minorenni l’obbligo della terzietà nei riguardi delle parti della procedura (fermo
restando l’obiettivo privilegiato di tutelare i diritti del minore), è necessario che il singolo magistrato eviti di trasformarsi (anche inconsapevolmente) in una longa manus del servizio. È noto, d’altra parte,
non solo che la grande maggioranza delle decisioni del Tribunale per
i Minorenni sono collegiali ma che esse sono espressione di una collegialità particolarmente significativa in quanto qualificata dalla presenza dei giudici onorari, i quali sono presenti in numero pari a quello dei togati nella composizione del Collegio.
286
È altresì opportuno sottolineare il fatto che lo stesso servizio
sociale non può vedere vanificate la sua autonomia e le sue prerogative professionali.
Conseguentemente il giudice non potrà mai interferire nelle valutazioni dei servizi; in particolare è chiaro che uno psicologo o uno psichiatra non potrà vedersi prescritti trattamenti nei riguardi di minori
(o di familiari di questi) da lui non condivisi, né un’assistente sociale
potrà vedersi imposta l’effettuazione di una visita domiciliare o di altre attività ritenute da essa non pertinenti in ordine alla situazione familiare da lei seguita. Ciò non significa ovviamente che gli operatori
dei servizi abbiano la possibilità di sottrarsi alla richiesta di accertamenti provenienti dall’autorità giudiziaria, ma semplicemente che essi
sono tenuti all’espletamento di quanto richiesto tenuto conto delle
proprie competenze professionali e delle risorse strutturali a disposizione.
Alla luce di quanto si è osservato appare corretta l’opinione di coloro i quali hanno sostenuto che le due istituzioni (autorità giudiziaria
minorile e servizi locali) collaborano e cooperano in una totale e paritaria autonomia reciproca. Altrettanto correttamente si è affermato
che i provvedimenti giurisdizionali a tutela dei minori di età, che per
la loro esecuzione richiedono il necessario intervento dei servizi territoriali, determinano nell’ente locale l’obbligo giuridico di attivarsi ma
ciò non tanto sotto il profilo del rispetto del pronunciamento dell’autorità giudiziaria, quanto avuto riguardo alla necessità di promuovere
gli interventi di legge, a fronte del diritto del minorenne in stato di bisogno (riconosciuto dal provvedimento giudiziario) di essere convenientemente assistito.
4. – Da un punto di vista normativo è risaputo che la collaborazione dei servizi sociali con l’autorità giudiziaria minorile trova il suo
fondamento nel D.P.R. 616/1977 il quale, in ossequio alla previsione
della nostra Costituzione, ha trasferito alle Regioni le funzioni amministrative in materia di assistenza e beneficenza pubblica. L’art. 23 lett.
c) dello stesso decreto ha esplicitato che tra le suddette funzioni amministrative rientrano anche gli “interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito
della competenza amministrativa e civile”. L’art. 25 ha poi attribuito ai
Comuni tutte le funzioni riguardanti l’organizzazione e la erogazione
dei servizi di assistenza e di beneficenza.
In argomento è anche importante ricordare la legge 405/1975, istitutiva dei consultori familiari, la quale ha esplicitamente previsto nel-
287
l’ambito del servizio di assistenza alla famiglia “l’assistenza psicologica e sociale (…) anche in ordine alla problematica minorile”, riconoscendo quindi la necessità dell’integrazione di questi due aspetti nel
lavoro sociale.
Poiché, peraltro, come sopra si è sottolineato, il giudice minorile
deve necessariamente rivolgere le sue richieste di informazioni anche
a servizi diversi da quelli materno-infantili ed è già accaduto, sia pure
in modo isolato, che i responsabili di tali strutture sanitarie sollevino
obiezioni, principalmente legate alla pretesa violazione del segreto
d’ufficio, non pare inopportuno affrontare, almeno sommariamente,
in questa sede tale delicata questione.
Va innanzi tutto rilevato che non corrisponde a verità quanto da
taluno affermato circa la mancanza di un aggancio normativo che impedirebbe alla magistratura minorile di rivolgersi a centri e servizi diversi da quelli preposti al sostegno e alla tutela dei minori. Infatti l’art.
344 c.c., con riferimento al giudice tutelare, prevede espressamente
che questo giudice possa chiedere “l’assistenza” non solo degli organi
della pubblica amministrazione ma anche di tutti gli “enti i cui scopi
corrispondono alle sue funzioni”. Non v’è dubbio che tra tali enti debbano, insieme a tanti altri, essere inseriti a pieno titolo anche i Centri
di igiene mentale e i Servizi per le tossico-dipendenze.
Sul punto va osservato che il giudice tutelare, come si è detto in
apertura, rientra a tutti gli effetti nel novero dei giudici che si occupano di minori e che, dunque, non vi è motivo alcuno di differenziare tale figura di magistrato da quelli facenti parte del Tribunale per i Minorenni. Tale interpretazione estensiva trova ulteriore giustificazione nel
fatto che, all’epoca dell’entrata in vigore del codice civile (1942), il giudice tutelare aveva facoltà di assumere nell’interesse del minore, quei
provvedimenti in via di urgenza che attualmente sono consentiti solo
all’autorità giudiziaria minorile (art. 336, ultimo comma, c.c.). In altre
parole all’epoca Tribunale Minorenni e giudice tutelare erano, in un
certo senso, equiparati proprio per il fatto di potere emettere provvedimenti a tutela del minore di pari importanza e nessun senso poteva
avere allora (né avrebbe adesso) una limitazione nella richiesta di informative a servizi ed istituzioni pubbliche per la sola autorità giudiziaria minorile.
Ancora va ricordata in materia la legge 183/84 sull’adozione e l’affidamento. L’art. 9 precisa significativamente che tutti “i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio, gli esercenti un servizio di
pubblica necessità, debbono riferire al più presto al Tribunale per i
Minorenni sulle condizioni di ogni minore in situazione di abbando-
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no di cui vengono a conoscenza in ragione del proprio ufficio”. L’art.
10, in caso di minori di età segnalati come abbandonati, dispone che
il giudice, tramite i “servizi locali” disponga accertamenti sulle condizioni giuridiche e di fatto e sull’ambiente in cui ha vissuto e vive.
In definitiva l’impianto normativo sopra descritto presenta numerose disposizioni che richiedono (e di fatto impongono), non solo ai
consultori e ai servizi materno-infantili, ma a tutti i servizi territoriali forme di collaborazione, se non di vera e propria attivazione, per
una migliore tutela dei minori e, in particolare, di quelli in stato di abbandono. Un cenno ulteriore merita la problematica relativa agli utenti del servizio per le tossico-dipendenze in quanto la legislazione in
materia ha codificato il principio dell’anonimato (si v. sul punto l’art.
120 del D.P.R. 309/1990). In argomento va detto che tale principio richiede l’attivazione del soggetto interessato che ha “facoltà” di avvalersi dell’anonimato formulando un’esplicita richiesta ai sanitari. Da
ciò sembra potersi ricavare che il diritto all’anonimato non sorgerebbe automaticamente con la conseguenza che gli operatori del S.E.R.T.
non potrebbero, in mancanza di richiesta, invocare il segreto professionale disciplinato dall’art. 120, settimo comma, del citato D.P.R.. Comunque, anche prescindendo dalla fondatezza di tale opinione, resterebbe sempre il fatto che la tutela costituzionale del minore (artt. 30 e
31 Cost.), in quanto principio di rango superiore, prevale sul diritto
alla riservatezza del tossico-dipendente. Ne deriva che l’invio da parte
del S.E.R.T. al Tribunale per i Minorenni delle notizie richieste da quest’ultimo non potrebbe in alcun modo integrare violazione di legge.
In argomento può aggiungersi da ultimo che, ove sia condiviso
l’approccio del tribunale finalizzato ad un tentativo di recupero delle
famiglie in difficoltà, (a tutto vantaggio dei genitori che possono, migliorando le proprie condizioni, evitare l’allontanamento del figlio o,
nel caso esso sia già stato disposto, garantirsi il suo rientro a casa),
non si vede perché dovrebbero essere i genitori seguiti da un servizio
territoriale ad invocare il diritto all’anonimato, o i loro curanti il segreto professionale. Ed anzi, in quest’ottica, può ragionevolmente sostenersi che, in mancanza di una ragionevole attivazione da parte dei genitori, dovrebbero essere proprio gli operatori ad esplicitare agli utenti l’importanza di una collaborazione non solo tra essi e il giudice ma
anche tra il servizio e il tribunale con conseguente scambio di informazioni reciproco.
5. – Tenendo presenti le premesse di ordine metodologico e sistematico che si sono sopra evidenziate si può, sia pure in modo neces-
289
sariamente sintetico, entrare nel merito degli interventi del Tribunale
per i Minorenni nei confronti dei bambini o degli adolescenti a rischio.
Come già si è anticipato poiché in tali situazioni ci si trova frequentemente di fronte ad un nucleo familiare in crisi, salvo il minore
versi in uno stato di abbandono materiale e/o morale o in una condizione di gravissimo pregiudizio fisico o psicologico, così da richiedere
il suo allontanamento in via di urgenza, i primi interventi da porre in
essere saranno di tutela a favore del minore interessato ma anche di
sostegno (più o meno diretto) ai suoi familiari.
Tale iniziale strategia si fonda sul presupposto che il bambino, al
di là dei casi più o meno eccezionali sopra segnalati, deve essere mantenuto e aiutato all’interno della sua famiglia di origine e non può essere considerato una monade isolata o venire scorporato dal sistema
delle relazioni familiari. Laddove, nel corso del tempo, nonostante gli
interventi terapeutici e di sostegno effettuati, si ravvisi l’irrisolubilità
dei problemi familiari da cui scaturiva la condizione di pregiudizio,
sarà inevitabile realizzare o mantenere quegli interventi più radicali
tra i quali, inevitabilmente, si colloca anche l’allontanamento talora
definitivo del bambino o dell’adolescente dal suo nucleo familiare.
Uno dei problemi in cui talora si imbatte il giudice minorile nell’esaminare le relazioni del servizio sociale (elaborate e sottoscritte
spesso dalla sola assistente sociale) è la mancanza di un chiaro progetto globale relativo ai minori e ai suoi familiari. Può infatti capitare
di ricevere relazioni, magari assai dettagliate ma meramente descrittive, che nulla dicono circa gli interventi attivabili e neppure riguardo
alle risposte, in termini di provvedimento, che gli operatori si attendono dal Tribunale. In mancanza dei necessari approfondimenti da
parte del Servizio il giudice minorile dovrà porre in essere interventi,
che ben possono qualificarsi di supplenza, anche conferendo incarichi
peritali a quelle stesse figure professionali che non essendo presenti
nelle pubbliche strutture (o essendo presenti ma interpretando con
eccessiva cautela la loro funzione di tutela del minore), vengono reperiti nel mercato dei liberi professionisti con inevitabile aggravio delle
spese erariali. Ma, al di là di tale ultimo aspetto, ciò che rileva è che
raramente la valutazione peritale, strettamente collegata al momento
storico delle indagini effettuate, potrà consentire la realizzazione di
progetti educativi i quali per la loro durata nel tempo e la necessità di
attingere alle pubbliche risorse, non possono di regola che essere attivati dal servizio territoriale. Certo i ripetuti “tagli” che il sistema socio-sanitario ha patito in questi anni, con pesanti ripercussioni su tutti i servizi sociali presenti nel nostro paese, suscitano forti perplessità
290
circa la possibilità di aggredire con successo i fenomeni del disagio
sociale e minorile in particolare. Tuttavia, fermi restando i limiti della
presente situazione, non si può fare a meno di appellarsi alla professionalità di tutti quegli operatori che, pur in mezzo a difficoltà di ogni
tipo, con grande senso di responsabilità e spirito di sacrificio, mantengono vivo il loro impegno lavorativo in un settore così delicato e
complesso. Proprio per l’esiguità del loro numero si deve puntare ad
una globale riorganizzazione dei servizi, ad una loro forte specializzazione e, per quanto possibile, ad una formazione permanente degli
operatori.
Per quanto specificamente riguarda l’operato dell’autorità giudiziaria minorile in collaborazione con i servizi locali va ribadita la possibilità (ed anzi la necessità) per questi ultimi di realizzare interventi
di sostegno congiuntamente a quelli di controllo, così come si ricava
dall’esperienza più avanzata degli studiosi e degli operatori del settore.
In merito agli interventi di natura autoritativa del Tribunale e, in
particolare, all’imposizione di prescrizioni ai familiari dei minori (a
es. di collaborare con gli operatori, di sottoporsi a trattamenti terapeutici, di rispettare determinati divieti o regole comportamentali)
certo essi non saranno facilmente accettati ma la scommessa in gioco
è proprio quella di trasformare interventi di natura coatta in interventi consensuali. Non a caso lo stesso giudice minorile è stato autorevolmente definito un “operatore del cambiamento”, definizione che
pur apparentemente singolare o, quanto meno, atipica per un magistrato, sembra bene esplicitare le finalità e gli obiettivi dell’attività del
Tribunale Minorile.
6. – Da un punto di vista operativo non c’è dubbio che la già segnalata attuale critica situazione di risorse e di organico dei servizi sociali italiani può provocare dubbi consistenti circa la possibilità di esperire efficaci interventi sulle famiglie in crisi. Tuttavia, nella prospettiva di incentivare l’ineliminabile attività dei servizi, è molto importante che i Tribunali (e, in definitiva, i singoli giudici) siano in grado di
stimolare una efficace collaborazione tra gli operatori dei diversi enti
chiamati in causa nell’ambito di una procedura riguardante un minore. Così per quanto riguarda il recupero dei genitori (o di altri parenti) il consultorio potrà, in assenza di proprie figure professionali (ad
es. psicologi e/o psichiatri), coordinarsi con gli operatori dei centri di
salute mentale e/o dei servizi per le tossicodipendenze. È infatti ormai
notorio che, per lavorare costruttivamente sui nuclei familiari in crisi,
sono necessarie équipes (consultoriali o meno) formate da più opera-
291
tori portatori di diverse professionalità, in grado di valutare in modo
adeguato le risorse assistenziali, terapeutiche e di controllo da mettere in campo.
Per quanto invece concerne la verifica dei comportamenti degli
adulti di riferimento laddove le visite domiciliari e gli altri strumenti
propri dei servizi materno-infantili non consentano di raccogliere sufficienti riscontri, gli operatori potranno, tramite l’interessamento del
c.d. giudice delegato, richiedere per talune situazioni l’espletamento di
indagini di polizia. In questi casi, infatti, l’interessamento del tribunale può consentire l’attivazione delle sezioni di polizia giudiziaria, sovente specializzate, attive presso le procure minorili. Ma, al di là di tale possibilità, resta la constatazione di come la carente diffusione di
interventi coerenti e razionali, sotto il profilo tecnico e metodologico,
rischia di vanificare gli investimenti di risorse che i servizi sociali hanno in serbo nei confronti delle famiglie in difficoltà e dei minori a rischio. Pur dovendosi sottolineare le (di regola) elevate capacità professionali messe in campo dalle assistenti sociali pur vero che, in mancanza di supporti specialistici, l’attività da esse posta in essere si rivela insufficiente al fine di produrre risultati positivi nei casi più delicati e complessi. Si pensi, ad esempio, all’impossibilità per una singola
assistente sociale di gestire convenientemente un affidamento familiare non consensuale, senza la consulenza dello psicologo o del neuropsichiatra infantile, dovendo provvedere da sola ai (possibili) seguenti incombenti: formulazione della proposta di affido e del progetto relativo al minore, selezione e scelta della famiglia affidataria, sostegno
alla famiglia affidataria, verifica delle condizioni del minore, rapporti
con la famiglia biologica, proposte relative alla regolamentazione dei
rientri del minore in famiglia, eventuale proposta di revoca dell’affido.
In situazioni di questo genere un singolo operatore si trova ad
assumere inevitabilmente (ma anche impropriamente) funzioni di natura valutativa, terapeutica e riabilitativa più o meno esorbitanti dalla
sua figura professionale.
Inoltre in questi casi può verificarsi che l’assistente sociale si rivolga frequentemente al giudice al fine di sottoporgli interrogativi non di
ordine giuridico ma di taglio prettamente psicologico, così coinvolgendolo in questioni che trascendono la sua competenza e che andrebbero affrontate e risolte in ambito consultoriale anche grazie ad un’attività di supervisione. E proprio la difficoltà di una risposta ai quesiti
dell’assistente sociale o la complessità dei problemi in gioco che può
indurre il giudice alla nomina di un consulente.
Un’alternativa al ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, i cui li-
292
miti sono stati in precedenza brevemente accennati, potrebbe consistere in una diversa e più coinvolgente utilizzazione dei giudici onorari (sovente psicologi, psico-pedagogisti, psichiatri e neuropsichiatri
infantili). Tuttavia il rischio di una scelta di questo tipo è la trasformazione del magistrato onorario in un perito le cui valutazioni verrebbero assunte individualmente, in un contesto del tutto particolare quale
il Tribunale, mentre il ruolo proprio di questa particolare figura quello di offrire ai giudici di carriera un supporto specialistico, ai fini della
migliore comprensione di una certa vicenda, nell’ambito di un’attività
che, almeno tendenzialmente, andrebbe effettuata collegialmente.
7. – Per concludere possono essere ancora ricordati quei casi in
cui il minore rimane all’interno di un nucleo familiare più o meno problematico, non sussistendo i presupposti giuridici o psicologici per un
allontanamento definitivo. Sovente in tali situazioni, in relazione alle
quali il tribunale è solito affidare il minore all’ente locale o al servizio
sociale, si configura un conflitto di interessi tra il minore, bisognoso
di tutela, e i suoi genitori non solo inadeguati ma scarsamente collaborativi con gli interventi di sostegno proposti dagli operatori.
Poiché il minore è di fatto privo di un legale rappresentate (diverso dai genitori la cui potestà, pur affievolita dal provvedimento giudiziario, è tutt’ora esistente) in grado di promuovere efficacemente il suo
benessere, il significato dell’affidamento ai servizi dell’ente locale si
configura come un vero e proprio mandato fiduciario agli operatori,
prolungato nel tempo, finalizzato alla protezione dell’incapace.
In questo caso il servizio, pur non assurgendo al rango di un vero
e proprio rappresentante legale, acquista un ruolo soggettivamente rilevante sul piano processuale tanto che, secondo autorevoli studiosi
della materia, potrebbe chiedere (al giudice tutelare) di essere nominato curatore speciale del minore (ai sensi degli artt. 78 e segg. c.p.c.)
ove sia ravvisabile un conflitto di interessi tra questi e i genitori. Si
pensi, ad esempio, alle ipotesi, tutt’altro che infrequenti, di maltrattamenti o abusi da parte di entrambi i genitori o anche di uno solo di essi, laddove il partner sia succube della violenza del coniuge (o connivente con lui) e non si attivi a tutela del figlio.
In proposito può essere ricordato come l’art. 338 c.p.p. (così come
riformato dal legislatore del nuovo processo penale) preveda espressamente che la nomina del curatore speciale per la proposizione della
querela (al fine di promuovere l’azione penale in relazione a determinati reati eventualmente commessi in danno di minori) possa essere
promossa anche dai “servizi locali la cui finalità è: la cura, l’educazio-
293
ne, la custodia o l’assistenza dei minorenni”. Secondo alcuni da tale
norma potrebbe ricavarsi anche la possibilità per l’ente locale di venire nominato curatore speciale per la presentazione della querela e per
l’eventuale costituzione di parte civile. In effetti il servizio, ben più del
singolo avvocato, appare attrezzato per fornire al minore adeguata assistenza sotto il profilo psico-sociale, mentre per quanto concerne gli
aspetti legali potrà farsi riferimento ad un legale dell’ente o conferire
apposito incarico ad un libero professionista.
Tutto ciò sembra dimostrare che, anche da un punto di vista normativo, il ruolo promozionale del servizio pubblico è stato oggetto di
riconoscimenti non privi di valore anche se la legislazione italiana, a
differenza di quella di altri paesi, non ha ritenuto di conferire in determinate situazioni all’ente locale la rappresentanza legale del minore.
In considerazione di quanto sopra si è osservato appare fondamentale che gli operatori dei servizi e i loro responsabili ai diversi livelli, diventino sempre più consapevoli non solo della loro generica
funzione assistenziale ma della necessità di un impegno convinto per
realizzare un efficace tutela del minore anche avvalendosi del ricorso
all’autorità giudiziaria. Conseguentemente la gestione dei “casi del tribunale” non dovrebbe essere vissuta come un lavoro burocratico da
scansare perché più complesso e più faticoso degli altri, ma come un
impegno costruttivo ed ineliminabile al fine di contribuire efficacemente a quel disegno costituzionale di tutela dell’infanzia al centro
della più avanzata legislazione in materia.
In tale prospettiva la segnalazione al Tribunale per i Minorenni
non dovrebbe costituire l’ultimo anello di una catena di interventi falliti ma dovrebbe essere effettuato con una certa tempestività. Ciò almeno in tutti quei casi in cui le resistenze del nucleo familiare alla collaborazione con il servizio suggeriranno l’opportunità di avvalersi degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria, in considerazione dei frutti (talora insperati) che possono scaturire dal lavoro integrato del giudice e degli operatori. L’esperienza sembra infatti testimoniare che una segnalazione tardiva, relativa a situazioni familiari patogene e ormai incancrenite, vanifica quasi sempre l’utilità del ricorso al
magistrato minorile.
Una volta attivato l’intervento giudiziario la funzione del servizio
non dovrà essere confinata nell’ambito di un ruolo subalterno di mera
attesa del provvedimento del tribunale ma potrà, invece, richiedere, a
seconda dei casi, ulteriori attività di indagine socio-ambientale e psicologica, di vigilanza e di controllo che verosimilmente non potranno
non sfociare in un relazione al giudice delegato comprensiva di preci-
294
se richieste da porre al vaglio del tribunale minorile. E non è escluso
che in determinate situazioni la magistratura dovrà essere incalzata
dagli operatori del sociale non essendo concepibile che le richieste di
intervento a favore di un determinato minore restino disattese a causa
di una eventuale carenza di attenzione o di sensibilità da parte dei
giudici.
In definitiva, pur corrispondendo a verità il fatto che l’attenzione
ai bisogni dei bambini è compito di tutti e che la funzione del Tribunale per i Minorenni è quello di attuare, attraverso la giurisdizione, i
diritti del minore, appare fondamentale che gli operatori non dimentichino come siano i servizi sociali e, quindi, essi stessi in prima persona, i preposti alla cura e, in un certo senso, alla rappresentanza degli
interessi minorili, nell’ambito di quello che stato giustamente definito
un mandato istituzionale permanente di protezione dell’infanzia.
295
I RAPPORTI CON I SERVIZI
AMMINISTRATIVI TERRITORIALI
Relatore:
Dott. Antonio SCARPULLA
Giudice del Tribunale
di Palermo
Premessa.
Al fine di realizzare compiutamente i diritti del minore consacrati nella Costituzione (artt. 30, 31) nelle norme del codice civile e nelle
leggi statali e regionali il nostro ordinamento prevede una tutela amministrativa ed una giudiziaria.
Per quanto attiene la giurisdizione va ricordato che a tutt’oggi nonostante diverse proposte avanzate da politici, magistrati ed associazioni di volontariato, vi è una frantumazione di competenze tra diversi organi giudiziari che si occupano, sotto vari aspetti, delle problematiche dei minori e delle famiglie.
Nel quadro riepilogativo degli interventi civili pubblicato dal codice della giustizia minorile vengono individuate cinquantatrè competenze del Tribunale per i Minorenni; due del Presidente o Giudice Delegato del T.M.; ventidue del Tribunale Ordinario; tre del Presidente
del T.O.; due del Giudice Istruttore; quarantotto del Giudice Tutelare;
due del Pretore; uno del Procuratore Generale della Repubblica; sei
del Giudice Penale.
La frantumazione delle competenze rende indubbiamente più difficile la tutela di soggetti “deboli”, ragione per cui, in attesa di una
organica riforma, sarebbe opportuno un coordinamento tra i vari Uffici giudiziari nelle ipotesi in cui sia iniziato un procedimento che possa
direttamente o indirettamente influire sul minore.
Va ancora osservato che la realizzazione delle decisioni adottate
dai giudici a favore del minore dipende dalla volontà di altri soggetti
o dalla collaborazione di enti pubblici o privati.
Si pensi ad esempio alle cause di separazione o divorzio laddove
la norma contenuta nell’art. 155 cod. civ. dispone che il giudice dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedi-
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mento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa.
In questo caso l’azione dei provvedimenti giudiziari a favore del
minore dipende dai genitori che hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30, 1° comma Cost.).
La via giudiziaria non potrà comunque realizzare l’obiettivo sancito dalla Costituzione (tutela del pieno sviluppo della personalità del
minore) se non con un apporto determinante dei servizi sociali in sede
civile e penale.
È stato più volte affermato che l’efficienza del sistema giudiziario
minorile è strettamente correlato con l’evoluzione del sistema assistenziale.
Va però evidenziato che gli interventi amministrativi e giudiziari
debbano tenere conto delle differenti realtà socio-ambientali del nostro paese nonché delle tipologie dei servizi predisposti dagli enti
locali.
Al fine di fornire una risposta ai bisogni del minore è poi necessario un coordinamento tra i giudici minorili ed i servizi, coordinamento che in mancanza di norme precise, spesso è frutto di protocolli d’intesa ed affidato alla sensibilità dei capi degli uffici giudiziari ed alla
professionalità degli operatori.
Servizi Sociali:
a) Riferimenti normativi statali.
La materia relativa alla beneficenza ed assistenza pubblica è collegata con il sistema politico e con i movimenti culturali che hanno
profondamente inciso nella “politica dei servizi sociali”.
Da un sistema di competenze regolamentate dalle leggi statali
(legge Crispi 17 luglio 1890 n. 6972 sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (I.P.A.B.); legge 10 dicembre 1925 n. 2277 istitutiva dall’Opera Nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia (O.N.M I.); legge 27 giugno 1941 n. 987, istitutiva dell’ente nazionale di assistenza agli orfani dei lavoratori italiani (E.N.A.O.L.I.), si
è passati al decentramento attuato dalla costituzione che nel 1948 ha
consacrato l’assistenza come diritto: ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale (art. 38). L’azione assistenziale dovrà così ispirarsi a concetti più ampi di quello della beneficenza, che ancora governa
gli interventi diretti ad alleviare certe specifiche situazioni di povertà,
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per assumere l’aspetto di una e propria organizzazione di servizi sociali. L’entrata in vigore della Costituzione muta pertanto radicalmente
l’impianto della pubblica assistenza: così l’art. 117 assegna alle regioni potestà legislativa “in materia di beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera’’, mentre l’art. 118 conferisce alle regioni
anche le annesse funzioni amministrative da esercitare normalmente,
delegandole alle provincie, ai comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici.
A seguito dell’emanazione del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 in attuazione della legge delega 22 luglio 1975 n. 382 le politiche sociali rilevanti per l’infanzia e l’adolescenza sono affidate alle regioni e, con riguardo alla gestione, agli enti locali, singoli o associati in adeguati
àmbiti territoriali.
Con le normative contenute nel citato D.P.R. 616/77 è stata ribaltata la vecchia interpretazione della materia “beneficenza pubblica”,
alla quale è subentrata la nuova interpretazione, esplicitata nell’art.
22, che sancisce che le funzioni amministrative relative a detta materia concernano “tutte le attività che attengano nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di servizi, graduiti o
a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in natura, a favore di singoli o di gruppi qualunque sia il titolo in base al
quale sono individuati i destinatari, anche quando si tratti di forme di
assistenza a categorie determinate, escluse soltanto le fuzioni relative
alle prestazioni economiche di natura previdenziale”.
Questa visione richiede, però, un’azione coordinata tra le politiche
assistenziali e quelle previdenziali.
Ma mentre il legislatore statale ha provveduto a disciplinare i settori previdenziale e sanitario, a tutt’oggi non ha approvato una legge
quadro che riordinasse in modo adeguato il settore socio-assistenziale, con una chiara attribuzione di competenze ai vari livelli istituzionali, e di conseguenza i servizi svolgono un’azione scoordinata, talora
con sovrapposizione di interventi e più spesso con vuoti operativi.
Per quanto attiene il settore della sanità la legge 23 dicembre 1978
n. 833 institutiva del servizio sanitario nazionale, creando le Unità
sanitarie locali (U.S.L.), come strutture operative dei comuni espressamente prevede nell’art. 15: “La legge regionale stabilisce altresì le
norme per la gestione coordinata e integrata dei servizi dell’unità sanitaria locale con i servizi sociali esistenti nel territorio”.
La norma non contempla in nessuna altra parte i servizi sociali sul
presupposto che gli stessi dovessero divenire oggetto di un riordinamento generale.
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Non essendo stata emanata, come già detto, la legge quadro relativa all’assistenza, la richiamata norma fissa un principio di estrema
importanza: ossia quello della integrazione, nelle strutture di base dei
servizi sanitari ed assistenziali.
La legge 833 ha così definito al processo di decentramento amministrativo con la distribuzione sul territorio di presidi unitari e polifunzionali che si riallacciano sia alle esperienze realizzate attraverso consorzi socio-sanitari, sia alla previsione del richiamato D.P.R. 616/77; di
una cooperazione tra i diversi enti locali in ambiti territoriali, da determinare con leggi regionali. Nell’ambito della normativa statale, in
tema di servizi socio-sanitari la legge 29 luglio 1975 n. 405 ha istituito
il consultorio familiare: struttura deputata sul territorio ad esperire gli
interventi a favore della famiglia, della maternità e dell’età evolutiva.
Dal momento che in tale legge l’accento cade sull’educazione sessuale, sulla procreazione responsabile e sulla diffusione di mezzi contraccettivi e considerato che, i consultori sono organismi operativi delle Unità Sanitarie locali, si ritiene che, i consultori siano servizi esclusivamente sanitari.
A tal proposito va evidenziato che il legislatore ha introdotto il
consultorio con il duplice obiettivo di fornire un aiuto socio-familiare
alla donna, nonché di dare un sostegno alla famiglia ed ai suoi componenti in rapporto ai bisogni nonché alle situazioni di disagio emergenti dalla società. Il consultorio è pertanto un servizio polivalente cui
vengono destinati non solo medici, ma anche operatori muniti di titoli specifici in psicologia, pedagogia ed assistenza sociale.
Quale unità operativa il consultorio è stato istituito in tutte le regioni cui lo Stato ha demandato di organizzare gli interventi consultoriali nell’ambito di quelli socio-sanitari.
b) Riferimenti normativi regionali.
La necessità di trovare spazi d’integrazione e collaborazione tra i
servizi consultoriali e comunali nasce dall’obbligo di dare attuazione
alle norme del D.P.R. 616/1977 ed alla legge 833/78 e, seguendo tale
logica, le Regioni hanno emanato normative di riordino degli interventi e dei servizi socio-assistenziali.
In alcune regioni sono previste deleghe in materia socio-assistenziale dei Comuni alle Unità Sanitarie locali proprio per realizzare l’integrazione tra i vari servizi e così le Unità Sanitarie Locali hanno assunto la denominazione di Unità Socio-Sanitarie Locali. In altre regioni sono rimaste distinte le competenze e gli ambiti d’intervento dei servizi del Comune e dei Consultori, con spreco di risorse e confusione di
300
interventi. Per quanto riguarda le Regioni ove i magistrati partecipanti all’incontro sono destinati, saranno di seguito elencate le leggi regionali relative all’organizzazione dei servizi ed agli interventi in materia
socio-assistenziale.
REGIONE PIEMONTE:
Legge 13 aprile 1995 n. 62.
Con tale legge che ha abrogato la precedente normativa emanata
il 23 agosto 1982 n. 20 sono istituite le Unità Socio-Sanitarie locali che
integrano i servizi socio-assistenziali assegnati ai Comuni con quelli
sanitari di competenza della U.S.L..
L’integrazione avviene anche con tutti gli altri servizi del territorio
(educativi scolastici) al fine di concorrere a fornire una risposta globale alle esigenze della popolazione. L’art. 29 della legge prevede, in
modo specifico, che l’assistenza ai minori nell’ambito dei rapporti con
l’Autorità giudiziaria, si attua mediante interventi di sostegno alla
famiglia di origine o affidataria o adottiva ovvero attraverso attività di
collaborazione con l’Autorità giudiziaria.
REGIONE FRIULI-VENEZIA:
Legge 3 giugno 1981 n. 35.
Sono previste unità locali socio-sanitarie per l’erogazione dei servizi e delle prestazioni di competenza dei Comuni e delle U.S.L..
L’art. 16 prevede interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza amministrativa e civile, in collaborazione con le autorità giudiziarie operanti nella Regione.
REGIONE BASILICATA:
Legge 4 gennaio 1980 n. 50 modificata ed integrata con legge 26
aprile 1985 n. 26.
Le funzioni relative ai servizi socio-assistenziali attribuite ai Comuni vengono esercitate in forma associata dalle UU.SS.LL..
301
La gestione integrata dei servizi socio-assistenziali con quelli sanitari viene attuata secondo forme atte a tenere distinte sul piano amministrativo le attività dei due predetti settori.
Nella tipologia degli interventi sono previste attività sociali connesse alle competenze dell’autorità giudiziaria con particolare riferimento a quelle del giudice tutelare, del Tribunale per i Minorenni e
delle strutture giudiziarie operanti nel settore del diritto di famiglia.
REGIONE CALABRIA:
Legge 26 gennaio 1987 n. 5.
Gli interventi socio-assistenziali e sanitari sono esercitati dai Comuni e dalle U.S.S.L.L. che assumono il distretto come struttura funzionale di riferimento per l’organizzazione e gestione degli interventi.
Il servizio sociale nel distretto attua le funzioni di raccolta, elaborazione ed interpretazione delle informazioni disaggregate riguardanti l’utenza nonché le informazioni a carattere informale sui problemi
socio-sanitari e sui bisogni emergenti.
Il servizio sociale distrettuale organizza poi gli interventi connessi alle competenze dell’autorità giudiziaria (art. 26).
REGIONE SICILIA:
Legge 9 maggio 1986 n. 22.
In Sicilia la competenza relativa agli interventi e servizi di carattere socio-assistenziale è stata attribuita ai Comuni, mentre le unità
sanitarie locali assicurano i servizi di carattere sanitario.
La legge prevede, in particolare, che il servizio sociale è tenuto a
segnalare all’autorità giudiziaria minorile i casi di abbandono di minori o di cattivo esercizio della potestà; a vigilare sull’osservanza, da
parte degli enti di assistenza che ricoverano i minori in regime di convitto, di trasmettere al giudice tutelare l’elenco dei minori ricoverati; a
svolgere indagini ed accertamenti, richiesti dall’autorità giudiziaria ed
a collaborare con la stessa per quanto riguarda il procedimento di
adozione. L’art. 17 della legge stabilisce che gli interventi socio-assistenziali dei comuni debbano essere coordinati con i servizi delle unità
sanitarie locali. Anche se le leggi regionali regolamentano nei particolari le attribuzioni delle competenze e la collaborazione con l’autorità
302
giudiziaria, nella prassi molto dipende dalla organizzazione dei comuni che, almeno in Sicilia, non hanno sempre attivato il servizio sociale.
In particolare essendo separate le competenze tra Comune ed
U.S.L., nonostante l’integrazione auspicata dal legislatore, è avvenuto
che i provvedimenti emessi dal Tribunale per i Minorenni non siano
eseguiti dal servizio dell’U.S.L.. A tal proposito va richiamata la decisione emessa dalla Corte di Appello di Palermo che, avverso il decreto
del T.M. di affidamento di un minore al Consultorio Familiare della
U.S.L. 58 di Palermo, impugnato dall’ufficio legale della stessa U.S.L.
così espressamente ha stabilito: in base alla legislazione vigente né le
UU.SS.LL. né i Consultori familiari possono essere destinatari di affidamento o di tutela dei minori, le prime perché non possono espletare a favore dei medesimi altre assistenze che quella concernente la
loro salute fisica e mentale, e gli altri perché tra i loro compiti istituzionali, rientra esclusivamente l’attività di consulenza prestata a favore di coloro che volontariamente la richiedono.
Interventi dei servizi in via autonoma.
a) Affidamento familiare consensuale.
I servizi locali possono esercitare i loro interventi in via autonoma
e su delega dell’autorità giudiziaria minorile, nei casi espressamente
previsti dalle leggi che saranno esaminate.
Per quanto riguarda la prima ipotesi i servizi, secondo le direttive
e gli indirizzi di politica sociale stabiliti dall’autorità amministrativa
da cui dipendono, debbono fare fronte alle richieste di bisogno e di
aiuto delle persone. I servizi in modo autonomo, con le figure professionali di cui dispongono (assistenti sociali, psicologi) dovranno in
questa fase, che possiamo definire preventiva, cercare di risolvere i
problemi delle famiglie e dei minori.
I servizi tenteranno di trovare, con il consenso dei soggetti interessati (genitori, figli) soluzioni che possano risolvere le situazioni di
disagio. Tra gli interventi principali espressamente disciplinati dalla
legge è di competenza esclusiva dei servizi locali l’affidamento familiare del minore (art. 4 legge 4 maggio 1983 n. 184) (1).
(1) La legge 184/1983 ha introdotto il termine servizio locale mentre in altre normative statali e regionali viene indifferentemente usato il termine servizio sociale, servizio assistenziale, servizio territoriale. Dal punto di vista del diretto amministrativo il
303
È utile accennare che l’istituto dell’affidamento familiare nasce
dal principio sancito nell’articolo 1 della legge 184/83, secondo cui il
minore ha diritto ad essere educato nell’ambito della propria famiglia.
Qualora per una serie di motivi la famiglia di origine si trovi in difficoltà, il legislatore ha privilegiato, tra i vari interventi, l’andamento
del minore presso un’altra famiglia.
L’affidamento familiare è disposto dal servizio locale nelle ipotesi
in cui vi sia il consenso della famiglia d’origine perché, come già detto,
il servizio può agire in via amministrativa soltanto quando vi sia il
consenso degli interessati e laddove manchi dovrà intervenire l’autorità giudiziaria minorile.
Nel caso specifico dell’affidamento familiare consensuale gli operatori dovranno curare l’inserimento del minore nella nuova famiglia,
vigilare sul rapporto tra il minore e la famiglia affidataria e tenere costantemente informato il giudice tutelare che con proprio decreto rende esecutivo l’atto predisposto dall’ente locale.
Secondo la disposizione dell’art. 4 i servizi dovranno poi curare il
rientro del minore nella famiglia d’origıne quando sia cessata la causa
che aveva provocato il momentaneo allontanamento.
Potere di ricovero amministrativo ex art. 403 Cod. Civ..
Anche dopo l’entrata in vigore della legge 183/84 è rimasto in vigore, secondo l’opinione prevalente la norma di cui all’art. 403 c.c.,
secondo cui la pubblica autorità può intervenire, in via provvisoria,
per il collocamento in luogo sicuro di minori abbandonati o in pericolo.
Trattasi di un intervento che possono svolgere anche i servizi degli
enti locali, i cui operatori sono in grado di conoscere in modo immediato e diretto le situazioni di precarietà di cui alla norma citata.
Il collocamento è efficace fino a quando si possa provvedere in
modo definitivo e pertanto i servizi debbono informare il T.M. perché
verifichi la sussistenza dell’eventuale stato d’abbandono ed iniziare
così il procedimento di adozione.
servizio locale può essere definito l’ufficio della pubblica amministrazione dipendente
dal comune, dalla U.S.L. o da altra articolazione degli enti locali che esercita le competenze trasferite dallo Stato in tema di assistenza sociale e sanitaria.
304
Interventi dei servizi e rapporti con il Tribunale per i Minorenni.
Diverse sono le ipotesi nelle quali i servizi hanno un rapporto con
l’autorità giudiziaria minorile nel settore civile.
Possiamo distinguere i casi in cui i servizi con potere discrezionale trasmettono le segnalazioni quando ritengono che sia opportuno che
venga adottato un provvedimento giudiziario nell’interesse del minore.
A tal proposito va puntualizzato che la legge 184/83 pone al centro dell’attenzione il minore in stato di abbandono.
Va pertanto privilegiato il diritto dello stesso ad avere una stabile
famiglia sostitutiva quando la sua famiglia non sia in grado di assicurargli quel minimo indispensabile di cure e di apporto educativo necessario per crescere.
È questo il caso in cui più drammatico diviene il conflitto tra i diritti del minore ed i diritti dei genitori ed in cui di conseguenza più
incerta diviene l’azione degli operatori sociali.
Non va infatti dimenticato che l’aspetto più delicato del lavoro dell’operatore sociale è costituito dal fatto che, mentre per orientamento
professionale è portato ad offrirsi come servizio in situazioni di bisogno, nell’ipotesi di conflitto familiare l’operatore è coinvolto in un intervento di controllo.
Inoltre va ricordato che l’art. 30 della Costituzione sancisce il diritto-dovere di educare i figli: educare non in termini precettistici, ma
per essere quotidianamente attenti alle esigenze sempre nuove di un
soggetto in evoluzione.
Se pertanto nella famiglia il minore è sostanzialmente abbandonato il giudice deve intervenire a tutela del fondamentale diritto del
minore ad un regolare processo educativo.
Gli interventi giudiziari saranno di intensità diversa a seconda delle varie situazioni: alcune volte saranno sufficienti delle prescrizioni ai
genitori, altre volte sarà indispensabile intervenire più incisivamente
sulla potestà, anche prevedendo l’eventuale allontanamento da casa,
altre volte l’intervento potrà essere più drastico con la dichiarazione di
adottabilità.
Alla luce di tali principi i servizi hanno pertanto il preciso compito di fare le segnalazioni al T.M. affinché venga valutata l’opportunità
di iniziare un procedimento.
In particolare il citato art. 4 legge 184/83 prescrive che i servizi
locali debbano fare la segnalazione al T.M. nell’ipotesi in cui non sia
possibile attuare l’affidamento familiare del minore per il mancato
consenso della famiglia d’origine.
305
Inoltre gli operatori dei servizi che indubbiamente rivestono la
qualifica di incaricati di un pubblico servizio se non quella di pubblici ufficiali, hanno l’obbligo di riferire al T.M. sulle condizioni di ogni
minore in situazione di abbandono di cui vengano a conoscenza in ragione del proprio ufficio (art. 9 legge 184/83).
L’art. 70 della stessa legge considera reato punibile ai sensi dell’art.
328 codice penale l’omessa segnalazione delle situazioni di abbandono da parte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio.
Va però detto che gli operatori dei servizi locali non sempre ritengono opportuno di fare la segnalazione dei casi di abbandono, ritenendo che l’intervento giudiziario possa nuocere all’interesse del minore.
Pur non essendo facile dare una definizione esauriente dello stato
di abbandono, anche per l’orientamento non sempre pacifico della
Corte di Cassazione, non v’è però dubbio che i servizi locali hanno
l’obbligo, sancito dalla legge, di fare le segnalazioni affinché il T.M.,
fatti gli opportuni accertamenti, stabilisca se nel caso concreto esista
una situazione di abbandono del minore.
Considerata la diversa realtà dei servizi, presso alcuni Tribunali
per i Minorenni si tengono incontri tra i giudici e gli operatori per uno
scambio di informazioni senz’altro utili e necessarie per stabilire le
linee di intervento coordinate tra i vari servizi.
Per quanto attiene le attività delegate, compito dei servizi è quello
di attuare le indagini socio-ambientali commissionate dal T.M. per verificare la esistenza di situazioni di abbandono o di condotte genitoriali pregiudizievoli per il minore.
La richiesta di intervento rivolta ai Servizi è di solito generica, volta all’accertamento dell’intera situazione personale e familiare del minore, ma vi sono dei casi in cui il giudice rivolge specifiche direttive di
indagini ai servizi, così come indicato dalla legge.
Ciò avviene per l’accertamento dei requisiti in possesso dei coniugi che hanno fatto domanda di adozione nazionale o internazionale,
ed in particolare dell’attitudine ad educare il minore (art. 6, 22 e 30,
legge 184/83); per l’accertamento della sussistenza dei requisiti descritti nell’art. 57 legge 184/83, per l’adozione in casi particolari; per
l’accertamento della maturità psicofisica del minore che ha chiesto di
essere ammesso al matrimonio (art. 84 cod. civ.).
Considerato il profilo prettamente psicologico di tale ultimo accertamento questo viene preferibilmente delegato al consultorio familiare.
306
Ruolo dei servizi nei procedimenti civili.
Le segnalazioni inviate al T.M. in via autonoma o su delega del
giudice debbono fornire tutte le notizie relative alle condizioni economiche del nucleo familiare, alle dinamiche in atto tra i componenti
della famiglia (rapporti tra genitori e figli; dei genitori e dei figli tra
loro).
Il servizio nella relazione può fare proposte e presentare progetti
che possono servire al giudice prima di adottare il provvedimento.
Nella prassi gli operatori dei servizi non si limitano ad esporre i
fatti, ma riportano valutazioni ed apprezzamenti soggettivi degli stessi, che possono servire per la decisione.
Invero presso alcuni Tribunali per i Minorenni vi è la prassi di vietare l’esame delle relazioni alle parti sul presupposto che particolari
notizie e giudizi possono danneggiare il minore e creare, alle volte,
ritorsioni o minacce nei confronti dei servizi.
Tale prassi può costituire una violazione delle garanzie della difesa di cui all’art. 24 Cost., considerato che il processo minorile, pur
svolgendosi con il rito della volontaria giurisdizione, deve tuttavia
rispettare il principio del contraddittorio.
I servizi locali, sono i promotori dei procedimenti davanti al T.M.,
ma non hanno legittimazione processuale.
La norma di cui all’art. 336 cod. civ. non lascia alcuna possibilità
alla legittimazione attiva dei servizi, dato che è testualmente previsto
che i provvedimenti indicati negli artt. 330-335 cod. civ. sono adottati
su ricorso del genitore, dei parenti o del P.M..
In caso di urgente necessità il T.M. può adottare, anche d’ufficio, i
provvedimenti nell’interesse del minore.
Dal momento che i servizi non sono parte del processo non hanno
di conseguenza la facoltà di impugnare il provvedimento del T.M..
Va ancora segnalato che spesso gli operatori dei servizi si rivolgono al giudice anche prima che sia iniziato il procedimento al fine di
consultarlo, soprattutto in presenza di situazioni difficili e complesse
e tale componente può generare confusione ed influenzare la decisione del giudice minorile.
È pertanto utile che, per una corretta scelta, il giudice abbia contatto con tutti gli operatori sociali che si occupano del caso, discutendo con loro la misura più opportuna da tradurre in provvedimento
ma, come più volte sostenuto, il rapporto giudice-servizi non può
comunque fare del giudice la “longa manus” dei servizi.
A tal proposito va evidenziato che il coordinamento tra servizi e
307
giudice non deve creare confusione tra la diversità dei ruoli e delle
competenze, come alle volte accade per mancanza di professionalità.
Esecuzione dei provvedimenti del Tribunale per i Minorenni.
Una delle questioni più dibattute in dottrina ed in giurisprudenza
è quella relativa all’esecuzione dei provvedimenti emessi dal Tribunale per i Minorenni per quanto attiene il rapporto con il servizio locale.
Va premesso che il nostro ordinamento si è caratterizzato tradizionalmente per il principio della separazione tra funzione giurisdizionale e funzione amministrativa, delineato dall’art. 4 della legge 20
marzo 1865 n. 2248 all. E, in forza del quale è vietata l’imposizione all’autorità amministrativa di una attività di fare.
Pertanto il servizio dell’ente locale che, a differenza della polizia
giudiziaria non dipende funzionalmente dal giudice non può essere
obbligato ad eseguire il provvedimento.
Secondo alcuni autori (2) la norma contenuta nell’art. 4 legge n.
2248/1865 va vista “in un diverso (rispetto all’attuale) contesto normativo e socio-politico: cioè quando l’ordinamento costituzionale non
riconosceva il carattere fondamentale dei diritti della persona e lo
Stato non era ancora lo Stato dei servizi sociali”.
Ma per quanto attiene la tutela dei diritti dei minori la P.A. ha un
obbligo di agire non solo ope judicis, bensì anche ope legis.
Come è stato più volte detto l’assistenza rientra tra le attività amministrative dovute e basta la comunicazione alla P.A. di un atto giudiziario dichiarativo di uno stato di abbandono per produrre, ex lege,
l’obbligo della stessa di intervenire a protezione del minore.
Tale principio è stato più specificamente introdotto dall’art. 23
lett. c.) del D.P.R. n. 616/1977 il quale attribuisce all’ente locale “le
funzioni amministrative” comprendenti “le attività relative agli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità
giudiziarie minorili nell’ambito delle competenze amministrative e
civile”. Tale norma non parla di esecuzione dei provvedimenti giudiziari minorili e rappresenta comunque l’introduzione di un principio
fondamentale che delinea una sorta d’impegno generale della P.A. a
(2) Paolo DUSI, Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore in
Dir. fam. pers., 1990; Lamberto SACCHETTI, Il diritto minorile e dei servizi sociali, gli
interventi civili. Maggioli Ed..
308
dare concreta attuazione ai provvedimenti che il giudice prende in
queste materie.
Infatti la lettera c) dell’art. 23 parla di attività in favore di soggetti minori la cui situazione venga all’esame del giudice, ivi comprese le
fasi relative agli accertamenti ed alle prescrizioni, precisando, altresì,
che queste attività mantengono la dignità di una “funzione amministrativa” qualificata dalla competenza professionale e dalla autonomia
tecnico-funzionale degli operatori sociali.
Pertanto va puntualizzato che, per quanto attiene i procedimenti
riguardanti i minori, più che di esecuzione debba parlarsi di attuazione che deve essere compiuta attraverso il concorso dei giudici con i
servizi. A sostegno di quanto esposto va ricordato che la legge 6 marzo
1987 n. 74 sulla nuova disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio prevede che “all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito” anche d’ufficio nei casi di
temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori.
In tema di provvedimenti presi dal T.M. in cui viene disposto il collocamento in istituto del minore con retta a carico dell’ente locale si
discute circa la eseguibilità del provvedimento.
Infatti dal momento che l’autorità giudiziaria non ha alcuna facoltà per incidere sul potere discrezionale dell’amministrazione in ordine
al capitolo di spesa relativo all’assistenza, potrebbe non avere alcuno
effetto il provvedimento del T.M. qualora l’ente locale, per ragioni attinenti al proprio bilancio, non stanzi le somme sufficienti per coprire
le spese di ricovero dei minori in istituto.
P.M. e servizi.
Per quanto riguarda il rapporto tra P.M. e servizi locali occorre
distinguere il ruolo del P.M. nei procedimenti civili e le funzioni svolte secondo le norme contenute nel nuovo codice di procedura penale.
In ordine agli interventi civili va detto che il P.M. può richiedere
relazioni ed indagini ai servizi locali prima di formulare le richieste al
T.M.. Considerato che il P.M. deve essere sentito nel procedimento di
adozione; può promuovere, ai sensi dell’art. 336 cod. civ., i procedimenti relativi alla potestà nei casi previsti dalle norme contenute negli
artt. 330-335 cod. civ., non vi è dubbio che i servizi, possono collaborare con il P.M. qualora lo stesso ritenga opportuno di approfondire le
indagini su una determinata situazione, ad integrazione anche del lavoro dei servizi svolto su delega del T.M..
309
Come osservato dall’allegata relazione del collega Franco OCCHIOGROSSO Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
Minorenni di Bari, soltanto negli ultimi anni il P.M. minorile ha iniziato a svolgere un ruolo più incisivo in ordine agli interventi civili con
l’istituzione di un apposito ufficio nella maggior parte delle sedi giudiziarie.
In particolare è risultato che le segnalazioni dei servizi vengono in
molti Uffici inviate direttamente alle Procure e non più ai Tribunali.
Per quanto riguarda qualche aspetto particolare va segnalata l’iniziativa attuata dalla Procura della Repubblica di Milano in tema di
esecuzione dei provvedimenti civili del Tribunale.
La Procura utilizza il servizio sociale dell’ente locale che ha istituito uno specifico ufficio per le esecuzioni e la sezione di polizia giudiziaria per i minorenni.
Per quanto riguarda la competenza amministrativa prevista dall’art. 25 R.D.L. 20 luglio 1934 n. 1404 in alcune sedi viene ancora attivata su richiesta del P.M. e si realizza (Napoli) con colloqui, informazioni e provvedimenti sia di affidamento al servizio sociale che di collocamento in comunità. Si ritiene comunque che la nuova normativa
del processo penale abbia definitivamente decretato la scomparsa
della competenza amministrativa di intervento sui minori.
In ordine al nuovo processo penale minorile va innanzi tutto osservato che ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448 in
ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si avvale dei
servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, nonchè dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali.
Occorre fare presente che gli uffici di servizio sociale ministeriali
furono istituiti con legge 16 luglio 1962 n. 1085 e nell’ambito delle tre
competenze (civile, penale, amministrativa) dell’autorità giudiziaria
svolgevano inchieste, trattamenti psicologico-sociali ed ogni altra attività diagnostica e rieducativa.
Questo servizio del Ministero di Grazia e Giustizia che costituisce
il primo rapporto istituzionale tra giudice e servizio statale, dopo il
trasferimento delle competenze attuato con il citato D.P.R. 616/77, si
occupa soltanto della materia penale.
Fondamentale è la funzione dei servizi sociali nel nuovo processo
penale minorile che ha per scopo l’educazione del minore, diritto primario sancito dall’art. 30 Cost..
Il nuovo processo tende alla risocializzazione del minore, mediante interventi collaterali di sostegno e di indirizzo, affidati all’efficienza
dei servizi territoriali che possono conoscere meglio le realtà locali.
310
Le norme relative l’assistenza all’imputato minore (art. 12), le misure cautelari (art. 19), le prescrizioni (art. 20), la permanenza in casa
(art. 21), il collocamento in comunità (art. 22), la messa alla prova
(art. 28) e l’applicazione della misura di sicurezza (art. 38) prevedono
varie forme di collaborazione tra i servizi di assistenza, di cui al citato art. 6, con gli uffici giudiziari minorili e con i servizi dipendenti dal
Ministero di Grazia e Giustizia.
Il legislatore ha infatti voluto salvaguardare, nel processo penale
le esigenze educative del minore (vedi art. 1 D.P.R. 448/88) e per raggiungere tale scopo, i servizi sono tenuti a fornire al giudice i dati sulla
personalità e sulla situazione socio-familiare dell’imputato per potere
disporre le adeguate misure penali e per gli eventuali interventi civili.
Mentre nel passato i servizi prendevano in carico il minore solo a
seguito dell’esito del processo, oggi sono chiamati a svolgere in prima
persona una funzione nel processo non solo per fare comprendere al
giudice, attraverso una puntuale analisi della situazione di vita del
minore, le ragioni che hanno portato alla commissione del reato ed il
grado di devianza a cui è pervenuto il minore, ma anche per predisporre la più opportuna strategia processuale, nell’interesse del minore e per impostare il progetto educativo più adeguato alla sua personalità. Nell’ambito delle competenze penali dei servizi va infine ricordata la norma contenuta nella nuova legge sulla violenza sessuale
(legge 15 febbraio 1996 n. 66) secondo cui, quando i delitti sono commessi in danno di minorenni, i servizi locali nonché quelli minorili
dell’amministrazione debbono prestare assistenza al minore e comunque collaborare con l’autorità giudiziaria (art. 609-decies cod. pen.).
Coordinamento fra i servizi e l’autorità giudiziaria.
Da quanto esposto emerge la necessità di avere norme che definiscano in modo chiaro le competenze dei servizi ed il rapporto tra gli
stessi ed i giudici minorili, al fine di evitare prassi che alle volte si basano soltanto sulla buona volontà ed efficienza del singolo magistrato
ed un determinato servizio.
In attesa delle riforme legislative è possibile attuare una bancadati presso il Tribunale per i Minorenni ove raccogliere tutte le notizie
proveniente dai vari uffici giudiziari nonché dei servizi che riguardano provvedimenti amministrativi e giudiziari, che direttamente o indirettamente possano incidere sullo stato del minore.
311
I RAPPORTI DEL TRIBUNALE ORDINARIO,
DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI
E DEL GIUDICE TUTELARE CON IL MONDO
DEI SERVIZI SOCIALI
Relatore:
Dott. Paolo VERCELLONE
Presidente della Corte d’Appello di Venezia
A) Preliminare.
Il compito è arduo. Si rischia una relazione troppo lunga e complessa. Tenuto conto del fatto che il corso è dedicato a giudici per i minorenni, a giudice tutelari e a giudici del tribunale ordinario che svolgono funzioni di diritto di famiglia, ho ritenuto necessario limitare la
mia relazione all’ambito dei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione.
B) I servizi sociali ed i giudici (un po’ di storia per chiarire o non chiarire a quali servizi sociali può rivolgersi il giudice).
La figura dell’assistente sociale nasce, almeno in Piemonte, la regione in cui ho quasi sempre lavorato, in un ambito strettamente privatistico. Sono assunte, perché diplomate presso alcune scuole private, delle assistenti sociali che debbono appunto assistere i dipendenti
nella soluzione dei loro problemi individuali e più spesso familiari diversi da quelli di lavoro e di salute fisica. L’assistente sociale dell’impresa non si preoccupa direttamente dei problemi sanitari del dipendente o di quelli relativi a suoi conflitti col datore di lavoro. Ricordiamoci comunque che l’A.S. è dipendente del datore di lavoro così come
i suoi assistiti.
Le prime assistenti sociali dipendenti di enti pubblici diversi dallo
Stato furono quelle assunte dall’O.N.M.I. e della Provincia, la quale
ultima aveva in allora, come adesso ha di nuovo, competenza in materia di minorenni purché illegittimi, cioè bambini esposti o abbandonati o riconosciuti dalla sola madre. (Mi risulta che già prima del 1959
313
assistenti sociali assunte in ruolo dalla Provincia di Torino lavoravano
distaccate presso la Federazione Provinciale O.N.M.I. di Torino).
Il loro compito era anche quello di riferire al loro ente circa situazioni che richiedevano l’intervento di un giudice, di regola quello dei
minorenni ma anche il giudice tutelare. Si ricordi che ex art. 171 reg.
O.N.M.I., R.D. 15 aprile 1926 n. 718, il comitato di patronato poteva
svolge una inchiesta, anche procedendo ad interrogatori e contestazioni
e, qualora ne sussistessero gli estremi, poteva informare il Procuratore
del Re per i provvedimenti di cui all’art. 233 del codice civile (l’attuale
330 cod. civ.) che appunto prevedeva l’iniziativa del P.M. per ottenere dal
Tribunale provvedimenti contro il genitore che abusa della potestà.
Le prime assistenti sociali dipendenti dello Stato (in particolare
dal Ministero di Giustizia) furono quelle che lavoravano nei centri di
rieducazione, previsti dalla legge del 1934 e successive modificazioni,
inquadrate a sensi della legge 15 luglio 1962 n. 1085. Erano competenti, nell’ambito delle tre competenze dei Tribunali per i Minorenni,
civile, amministrativo e penale, a svolgere inchieste e trattamenti psicologico-sociali ed ogni altra attività diagnostica e rieducativa.
Questo servizio del Ministero di Giustizia costituisce il primo rapporto istituzionale tra servizio sociale e giudici.
Fin qui dei rapporti tra servizi sociali e Tribunale per i Minorenni.
Ma l’obbligo dei servizi sociali (O.N.M.I. e Provincia) a collaborare era pure previsto per il giudice tutelare, già dall’entrata in vigore del
codice civile, il cui art. 344 dispone che il G.T. può chiedere l’assistenza degli organi della P.A. e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle
sue funzioni. Il rapporto col G.T. venne poi rafforzato e ribadito con
l’entrata in vigore della legge sui consultori 29 luglio 1975 n. 405 e successivamente di quella sulla interruzione volontaria della gravidanza
del 22 maggio 1978 n. 194 ex art. 12. Il G.T. può contare sull’intervento di servizi socio sanitari perché espletino tutte le procedure e soprattutto presentino la relazione, decisiva, per rendere possibile al giudice
di autorizzare o no l’aborto senza o contro la volontà dei genitori della
minorenne in gravidanza. Si ricordi, infine che ex art. 4 legge sull’adozione (4 maggio 1983, n 184), e il servizio locale che dispone l’affidamento familiare il quale deve però essere reso esecutivo dal G.T..
Nulla era e neanche adesso è espressamente previsto per i giudici
ordinari.
Grandi cambiamenti si verificarono con l’entrata in vigore del
D.P.R. 616 del 77, in attuazione della legge 22 luglio 1975 n. 382.
a) I Tribunali per i Minorenni che potevano contare istituzional-
314
mente sul servizio sociale di stato possono ora contare, per i procedimenti che rientrano nella loro competenza civile, sui servizi sociali dei
comuni, consorzi di comuni, comunità montane.
b) Quella legislazione riguardava, però, il decentramento, cioè regolava solo il passaggio di competenze dallo Stato agli enti locali, non
poteva dunque mutare le rispettive competenze degli enti locali stessi.
(l’art. 2 del D.P.R. 616 diceva espressamente che ai comuni, alle provincie, alle comunità montane sono attribuite le funzioni amministrative indicate nel presente decreto, ferme restando quelle già loro spettanti secondo le vigenti disposizioni di legge).
Sicché pareva allora logico affermare che:
1) le competenze che spettavano al servizio sociale di Stato in
materia civile ed amministrativa si sono trasferite ai Comuni cui vennero attribuite anche le funzioni consultoriali (legge 29 luglio 1975 n.
405, assistenza psicologica e sociale per i problemi della coppia e della
famiglia anche in ordine alla problematica minorile) e quelle dell’ex
E.N.A.O.L.I., Ente Nazionale Assistenza Orfani Lavoratori Italiani;
2) Le competenze che erano dell’O.N.M.I. si sono trasferite alle
Province che le sommano a quelle che già avevano relativamente agli
illegittimi (ex legge 23 dicembre 1975 n. 698), dunque quasi tutte le
competenze in materia di assistenza minorile.
Si veniva così a creare una singolare divaricazione tra intervento
assistenziale e tipico intervento di servizio sociale in senso stretto e
tecnico, inchiesta e trattamento del soggetto e del suo ambiente familiare, diagnosi e prospettazione di intervento giudiziario. L’ente locale
cui ex art. 23 spettava il compito di collaborare col Tribunale per i
Minorenni sostituendosi in pieno al servizio sociale del Ministero di
Giustizia, doveva svolgere inchieste, fare diagnosi, formulare proposte
di intervento, spesso non era quello che doveva fornire l’assistenza resa necessaria dal provvedimento giudiziario (es. allontanamento dalla
famiglia ex art. 333 cod.civ.), con molte complicazioni.
Tale divaricazione fu eliminata con la legge 8 giugno 1990 n. 142
che all’art. 9 disponeva che spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazione …comunale.
In quel momento non c’erano dubbi sul fatto che i Comuni erano
l’unico punto di riferimento dei giudici, sia dal punto di vista della collaborazione nel segnalare e fare indagini, che della disponibilità ad effettuare i necessari interventi assistenziali. Ma molti comuni decisero
di delegare l’esercizio delle proprie funzioni alla U.S.S.L. che meglio
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potevano operare in un sistema di integrazione dei servizi socio assistenziali con i servizi sanitari (cfr. ad es. la legge Regione Piemonte n.
20 del 23 agosto 1982), sicchè si crearono altre complicazioni.
Infine la legge 18 marzo 1993 n. 67 stabilisce che le funzioni assistenziali già di competenza delle provincie alla data di entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, sono restituite alla competenza delle provincie che le esercitano direttamente o in regime di convenzione coi
comuni, secondo quanto previsto dalle leggi regionali di settore, che le
regioni approveranno entro il 31 dicembre 1993 (non approvate).
Questa approssimativa storia, dunque, finisce, almeno formalmente con consolidare la distinzione di competenze: assistenziale alla
Provincia, di inchiesta ai Comuni o U.S.S.L..
Se ne può dunque malinconicamente concludere essere assai difficile affermare oggi, come affermazione valida per ogni parte d’Italia,
per ogni organo giudiziario, quale sia lo specifico servizio sociale al
quale può chiedere assistenza. Per evitare problemi anche solo semantici, d’ora innanzi parleremo di servizi sociali riferendoci al termine
generico usato dal c.p.p. minorile ex art. 6 D.P.R. 22 settembre 1988 n.
448 “servizi di assistenza istituiti dagli enti locali”.
C) La segnalazione del caso (legittimazione ad agire).
I servizi degli enti locali possono indubbiamente segnalare al Trib.
Min. o al G.T. situazioni a loro conoscenza che possono richiedere un
provvedimento giudiziario, magari previa ulteriore istruttoria da svolgere proprio dal servizio segnalante. Dipende dalla prassi del singolo
Trib. Min. se codeste segnalazioni vengono inviate al P.M. che, previa
una propria delibazione con o senza inchiesta preliminare, chiede al
Trib. Min. ex art. 336 cod. civ. che inizi un procedimento, oppure direttamente al Trib. Min. che, previa eventuale richiesta preliminare,
decide di intervenire d’urgenza d’ufficio ex art. 336 u.c. o di trasmettere al P.M. per la sua iniziativa.
Una segnalazione i servizi sono obbligati a fare: quella prevista
dall’art. 9 comma 2 legge ad., essendo certo che gli assistenti sociali
sono almeno incaricati di pubblico servizio.
Si domanda se l’ente locale sia legittimato attivo a chiedere un
provvedimento relativo alla potestà, se cioè abbia la pretesa a che un
provvedimento, anche se negativo, venga preso a seguito della sua richiesta e ad impugnare un provvedimento che non accolga quella richiesta. A norma dell’art. 336 cod. civ. la risposta è certamente negati-
316
va: l’ente locale non è indicato tra i legittimati come invece il P.M. ed
i parenti del minorenne.
Ma qualche indicazione in senso opposto, anche se tenue, si trova
nella legislazione. Va ricordato che a norma dell’art. 182 regolamento
legge O.N.M.I. era previsto che il Comitato O.N.M.I. promovesse “dal
Presidente del Tribunale” la dichiarazione di perdita dei diritti di patria potestà o di tutela, senza in questo caso far riferimento ad un tramite necessario nel P.M.: e che i poteri e doveri O.N.M.I. sono ora passati agli enti locali. Va inoltre messo in evidenza che, nella procedura
per l’affidamento familiare, il provvedimento amministrativo sfocia
nell’omologazione da parte del giudice tutelare, ovviamente su precisa
richiesta dell’ente locale. Se questo è legittimato a chiedere un provvedimento, mi pare logico ammettere che possa impugnare l’eventuale provvedimento del G.T. che rifiuti l’omologazione, cioè reclamare
dinanzi al Tribunale per i Minorenni, organo di secondo grado.
Ma mancano indicazioni più generali e persuasive; anche l’art. 4
l’adozione che prevede che “ove manchi l’assenso dei genitori o del tutore, provvede il Tribunale per i Minorenni”, precisa che se applicano
gli artt. 330 seguenti cod. civ., tra cui dunque anche l’art. 336 (legittimato ad agire solo il P.M. cui il servizio locale deve segnalare il caso
perché lui prenda l’iniziativa.
Segnalazioni, dunque di regola al P.M.: il che vale anche per le
procedure di interdizione. Vale qui la pena di mettere in evidenza come sia ormai frequente che le segnalazioni al P.M. per interdizioni
provengano spesso dai servizi locali (di regola ma non sempre psichiatrici) che vengono a conoscenza di atti di sfruttamento dell’ammalato da parenti poco scrupolosi; e che si è aperta di recente una polemica tra i singoli operatori e la dirigenza dei servizi circa la opportunità o no che la decisione di segnalare provenisse dalla dirigenza
anche contro il preciso e manifestato parere del medico che aveva in
carico l’ammalato.
D) La collaborazione nel corso dei procedimenti. – L’inchiesta.
Per quanto riguarda il Tribunale per i Minorenni l’art. 23 D.P.R.
616 è così chiaro da non lasciare dubbi in proposito. Come prima il
servizio sociale del Ministero di giustizia, così ora quello degli enti
locali (di regola il Comune), è per legge tenuto a svolgere quelle indagini, inchieste, accertamenti sulla personalità del minorenne e dei sui
familiari che il giudice ritiene necessari per potere prendere una ade-
317
guata decisione: sia questa ex art. 330 segg. cod. civ., sia ex artt. 10, 11,
12, 14, 22, 23, 25, legge sull’adozione. Il giudice tutelare, a sua volta,
si riferisce al servizio consultoriale (di nuovo il Comune) per le indagini in caso di autorizzazione alla interruzione volontaria di gravidanza relativa ad una minorenne, e, a norma dell’art. 344 può rivolgersi ai
servizi sociali sia del Comune che della Provincia (enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni). Lasciando per ora da parte lo specifico
problema relativo ai Tribunali ordinari, che merita una trattazione a
parte, esaminiamo ora i quesiti che si possono porre per ogni tipo di
inchiesta, richiesta o disposta da qualunque organo giudiziario.
a) Quale ruolo giuridicamente rilevante assume l’assistente sociale (o il servizio nel suo complesso) incaricato di svolgere l’inchiesta.
Il servizio sociale non è assimilabile al C.T.U., pur se alcune delle
norme dettate per la C.T.U. possono, come si vedrà, in via di stretta
analogia ritenersi applicabili anche in questo ambito.
Il servizio sociale entra invece nella categoria degli ausiliari del
giudice, prevista dall’art. 68 c.p.c..
Questo art. 68 c.p.c. dispone che, nei casi previsti dalla legge o
quando ne sorga la necessità, il giudice si può fare assistere da esperti e, in generale, da persona idonea al compimento di atti che egli non
è in grado di compiere da solo.
In applicazione analogica dei principi e della prassi seguita in materia di C.T.U. si può ritenere che:
1) il giudice può ricorrere a quest’ausiliario o quando non sia o
non si ritenga idoneo a compiere l’inchiesta o quando non è in grado
anche soltanto perchè non avrebbe il tempo di compierla per conto
proprio;
2) l’ausiliario può compiere da se solo le indagini commesse (art.
194 c.p.c.), essendo autorizzato a domandare chiarimenti alle parti e
può redigere una relazione (art. 195 c.p.c).
b) Qual’è l’ambito ed i limiti della attività che il servizio sociale deve svolgere nel corso dell’inchiesta che gli è stata affidata.
Va premesso che compito essenziale del servizio sociale è quello di
svolgere l’indagine e di riferirne i risultati: fotografia o film della situazione socio-familiare. Ma l’indagine deve sempre riferirsi solo in quegli aspetti della situazione che anche indirettamente possono riguardare il minorenne del quale si tratta. La riservatezza delle persone
coinvolte nell’inchiesta va protetta: della loro personalità, del loro passato, del loro comportamento attuale, il rapporto conclusivo potrà in-
318
dicare solo quegli aspetti sui quali il giudice potrà fondare il suo provvedimento, con una corretta motivazione che appunto non potrà tener
conto di elementi di fatto estranei alla condotta del genitore o di altre
persone in quanto coinvolti nella storia del minorenne.
Sotto altro aspetto si domanda se ed entro che limiti il servizio sociale possa, a conclusione della propria indagine, esprimere pareri e
formulare proposte.
Si è già detto che lo scopo dell’indagine è quella di accertare fatti.
Non pare dunque che la relazione debba terminare con un parere
circa l’opportunità per il giudice di assumere o no provvedimenti: il
giudice ha chiesto elementi di fatto e non pareri. Ma è evidente che
l’indagine non è fine a se stessa, si svolge, deve svolgersi, per un fine
ben preciso che è quello di far sapere al giudice quali siano gli elementi di fatto che potrebbero giustificare un suo intervento ablatorio
o compressivo della potestà parentale. Sotto quest’aspetto il compito
del servizio sociale è differente da quello del consulente geometra il
cui incarico sia di riferire su di una situazione di fatto che concerna
cose. Certo, sia il geometra che il servizio sociale guardano e riferiscono. La differenza, però c’è ed è ovvia. Il servizio sociale (come d’altronde il C.T.U. in un procedimento di diritto di famiglia) non osserva
cose, osserva persone: la relazione dunque inevitabilmente dà un ritratto a colori non in bianco nero e, soprattutto dà un ritratto di gruppo, dell’intera famiglia, mettendo in evidenza i rapporti tra i singoli
componenti descrivendo anche qualitativamente questi rapporti
(buoni, cattivi, superficiali, intensi). Inoltre la relazione lascia spazio
a quel tanto di soggettività che inerisce ad ogni osservazione fatta da
un soggetto su di un altro soggetto. Né si può negare che nella pratica
la prospettazione o l’enfatizzazione di certi fatti piuttosto che di altri
rischia di portare il giudice a prendere uno od altro provvedimento.
Qui, ovviamente, è solo questione di professionalità del singolo operatore e del giudice il quale, dopo un poco di esperienza, comincerà a conoscere gli operatori. Credo sia inutile, in questa sede, insistere sulla
necessità di mantenere costanti rapporti personali coi singoli operatori. Gli assistenti sociali non sono dipendenti del giudice, non devono
prendere ordini da lui. Sono ausiliari del giudice ma sono professionalmente e gerarchicamente autonomi da lui. Una collaborazione salda e proficua si può avere solo se si instaura un clima di reciproca stima e soprattutto di reciproca conoscenza ed apprezzamento dei due
ruoli.
Penso, invece, che il servizio sociale possa fare proposte, elaborare progetti.
319
Le une e gli altri hanno la funzione di offrire dati di fatto sui quali
il giudice possa basarsi per la decisione. In sostanza si tratta di mostrare al giudice come concretamente potrebbe offrirsi, da parte del
servizio, o meglio dell’ente assistenziale, un aiuto, preciso, sicuro, determinato nella modalità. Libero ad esempio il giudice di prendere o
no un provvedimento che allontani il minorenne dalla sua famiglia,
sembra corretto che il servizio faccia conoscere in anticipo al giudice
le conseguenze reali di una sua eventuale decisione di allontanamento: ad es. non sono disponibili parenti idonei o famiglie affidatarie,
non resterebbe che il collocamento in istituto, veda il giudice se ne
vale la pena.
c) Se ed entro che limiti il nucleo familiare interessato alle indagini debba tollerarle (ad es. accogliere l’assistente sociale che vuole fare la visita domiciliare, accettare che il figlio minorenne sia sottoposto
a visite mediche od a interviste con lo psicologo).
Pur dovendosi riconoscere all’assistente sociale che svolge una indagine la qualità di incaricato di pubblico servizio, pare da ritenere
che egli non disponga di alcun diretto potere coercitivo: di fronte al rifiuto del cittadino interessato, l’assistente sociale non ha che da ritirarsi e riferire al giudice.
Nella prassi il giudice potrà disporre che l’assistente sociale sia accompagnata ed aiutata dalla forza pubblica, ma anche gli agenti di polizia non potrebbero costringere il cittadino interessato, ad esempio, a
lasciare entrare l’assistente sociale nella sua abitazione.
Se tra i compiti rientra anche quello di svolgere indagini direttamente sul corpo del minorenne interessato (si ipotizzi una necessaria
visita medica), dinanzi al rifiuto del genitore il Giudice potrà disporre
ex art. 336 cod. civ. o 10 legge adozione l’allontanamento provvisorio
del minorenne dalla casa dei genitori proprio al fine di consentire tale
indagine.
Altrimenti il giudice può soltanto ricorrere al disposto degli artt.
116 e 118 c.p.c. che lo autorizzano a desumere argomenti di prova dal
rifiuto ingiustificato delle parti a consentire le ispezioni ordinate; preventivamente ordinando, se prevede possibili ostacoli, appunto una
specifica ispezione da compiersi dal servizio sociale, a norma dell’art.
118 c.p.c.. Si ricordi comunque che ex art. 118 c.p.c. egli può applicare altresì una pena pecuniaria (irrisoria peraltro) se chi si rifiuta non
è il genitore ma una terza persona.
d) Segretezza o no della relazione del servizio sociale.
È ormai antica questione del se la relazione del servizio sociale sia
320
o no una specie di rapporto confidenziale al giudice, il quale soltanto
ne deve restare a conoscenza, od invece sia atto ufficiale del procedimento, come tale a disposizione delle parti.
Credo che ormai dappertutto, presso i Tribunali per i Minorenni e
presso i Tribunali ordinari in sede di separazione o divorzio, sia prevalsa la seconda alternativa. Nessun dubbio ove la procedura sia di
fatto contenziosa nel senso che vede vere e proprie parti in conflitto,
come nelle separazioni e nei divorzi, nei procedimenti per l’affidamento dei figli nati fuori del matrimonio, nelle cause di opposizione a
decreti di adottabilità, nei procedimenti ex art. 250 cod. civ. per riconoscimento di figli naturali (per accertare se il riconoscimento è nell’interesse del minorenne). La prima seria garanzia di un buon giudizio è il contradditorio, che cioè le parti possano esporre i loro punti di
vista al giudice; regola funzionale ad attuare questa garanzia è che il
giudice decida solo se ed in quanto le parti siano conoscenza delle
notizie sulle quali il giudice potrà decidere, le possano valutare, discutere e contestarne la verità.
Ma mi pare che ad identica soluzione si debba giungere anche per
le ipotesi di procedimenti di vera e propria volontaria giurisdizione,
tenuto conto che quasi sempre codesti procedimenti (tipici quelli ex
art. 330 segg.) possono terminare con decisioni che ledono gravemente i diritti dei genitori.
Nessuna eccezione deve essere fatta in nome di un supposto od
anche reale pericolo per gli operatori, esposti alle rappresaglie delle
persone, spesso davvero pericolose, che nella relazione appaiono descritte in modo negativo. Semmai, come è successo in qualche caso, si
può ricorrere all’espediente di fare firmare la relazione non al singolo
assistente sociale o ai componenti l’équipe, ma ad esempio all’assessore all’assistenza che di regola è anche il “superiore gerarchico” dell’assistente sociale.
Mi risulta che a Torino si ricorre ad una sorta di “segretazione” di
parte della relazione, su decisione del giudice. Ma ciò soltanto per
quelle notizie che possono creare problemi al minorenne nel cui interesse si agisce: ad esempio, che riferiscano di un rigetto durissimo del
bambino o del ragazzo nei confronti di uno dei genitori (dunque a tutela del minorenne e non del servizio sociale). La “segretazione” comunque cade alla fine dell’istruttoria quando le parti, prima della riunione in camera di consiglio, hanno a loro disposizione il fascicolo
onde consentire loro di assumere le loro ultime precisazioni ed osservazioni.
321
Altra questione non nuova è se gli operatori di (regola assistenti
sociali) possano essere indicati come testimoni dalle parti (separazione e divorzio) e sentiti come tali, dunque sotto giuramento, nel corso
di un vero e proprio procedimento contenzioso.
La risposta preferibile è negativa, almeno per quanto riguarda i
fatti relativamente ai quali è stata fatta l’inchiesta affidata a quell’operatore. Se è accolta la tesi per cui l’operatore che svolge l’inchiesta è
un ausiliario del giudice a norma dell’art. 68 c.p.c., il corollario è evidente. Egli può essere chiamato dal giudice ad assistere alla discussione ed ad esprimere il suo parere, in presenza delle parti le quali possono chiarire e svolgere le loro ragioni per mezzo del difensore. Così
si esprime l’art. 194 c.p.c. a proposito del C.T.U., con disposizione che
esclude la sovrapposizione della due figure (teste ed ausiliario del giudice).
E) La decisione del giudice. I provvedimenti del giudice che interferiscono con la P.A..
Questo è un discorso che può parere estraneo all’argomento della
relazione; ma penso non sia inutile ricordare sia pure sommariamente che esiste una sfera di intervento del giudice, specialmente ma non
soltanto del Trib. Min., che interferisce sulla pubblica amministrazione come tale, di regola gli enti locali, al di là dell’attività dei servizi sociali che ad essi fanno capo. Può essere utile perché non si deve dimenticare che i servizi sociali non sono enti autonomi, ma servizi dell’ente (locale) da cui dipendono, il quale, come si vedrà in seguito, a
volte ritiene legittimo non dar seguito a pareri-proposte del servizio od
addirittura a decisioni giudiziarie quando queste possono portare ad
una assunzione di carichi che l’ente ritiene a torto o a ragione non da
esso assumibili, per quantità o qualità, in ragione delle proprie scelte
di bilancio o di criteri di modalità di assistenza.
Va premesso che in materia di protezione dei diritti degli incapaci inevitabilmente l’attività giudiziaria ha necessità della cooperazione
degli enti pubblici amministrativi ed in specie di quelli che per legge
debbono fornire assistenza: questa infatti è soprattutto fornita agli incapaci (minorenni, interdetti etc.).
Come non hanno capacità di agire in senso tecnico-giuridico così
non hanno capacità di far fronte da soli ai loro problemi anche proprio di sopravvivenza.
Il paradigma di situazioni in cui si viene a creare un rapporto di-
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retto tra amministrazione e giurisdizione è quello dell’intervento del
Tribunale per i Minorenni a norma della legge sull’adozione e soprattutto degli artt. 330 segg. cod. civ..
È appena ovvio che se il cittadino giuridicamente capace di agire
chiede assistenza all’ente locale il rapporto si pone sempre soltanto come rapporto di diritto amministrativo tra lui e l’ente. Uno chiede l’altro offre: ed anche se l’offerta anticipa la richiesta, sempre si tratta di
messa a disposizione di un servizio e di una accettazione da parte del
cittadino. Il giudice non c’entra.
Ugualmente si deve dire se il rapporto di assistenza costituisce tra
genitore di un minorenne e ente di assistenza. Se si forma l’accordo
l’assistenza è garantita e non c’è bisogno del giudice. Solo se si tratta
di una forma di assistenza che richiede l’allontanamento del minorenne dalla casa dei genitori e la sua sistemazione presso un’altra famiglia,
la legge richiede un controllo da parte del giudice, in sostanza per evitare fughe dell’adozione (si ricordi l’omologazione del provvedimento
amministrativo che dispone l’affidamento familiare: ed è a ritenersi
che nella formula “affidamento” ci stia anche l’inserimento in una comunità di tipo familiare). Per i ricoveri in istituto invece non c’e bisogno del giudice, se c’è il consenso del genitore: anche se così si crea
una situazione che esige controllo da parte del giudice, essenzialmente dal G.T. che deve poi comunicare al Trib. Min. se si profila una
situazione di abbandono.
Ma ex art. 330 e segg cod. civ. e 10 segg. legge adozione, è il giudice che dispone allontanamento e sistemazione extrafamiliare del
minorenne, quando, per definizione, manca il consenso del genitore.
Qui il discorso è più complesso: il giudice supera col suo ordine la
volontà contraria del genitore (ed è il solo che può farlo) ma crea la
situazione che richiede assistenza, anzi secondo una tesi sulla quale
tornerà costituisce in diritto soggettivo la pretesa all’assistenza del
minorenne in questione. Dunque l’ordine del giudice è necessario
sotto due aspetti:
a) travolgere la volontà contraria del genitore: è sufficente se l’ente locale ha già offerto l’assistenza.
b) obbligare l’ente locale ad assistere, se prima non v’era stata offerta di assistenza.
Sul punto b) è qui da ricordare la delicata e risalente questione
circa l’àmbito di discrezionalità che rimane all’ente locale di fronte ad
un’ordine del giudice che lo riguardi direttamente come ente erogatore di assistenza. Si tratta di conciliare l’aspetto autoritativo della
323
decisione giudiziaria con la discrezionalità propria degli enti amministrativi.
Il primo postulato è che il Tribunale per i Minorenni non è una
sorta di superassessore all’assistenza, non può imporre agli enti locali
una politica assistenziale diversa da quella che liberamente hanno
scelto.
Il secondo postulato è che ex art. 23 D.P.R. 616 del 1977 è l’ente locale, tramite i suoi servizi, che è tenuto svolgere le attività relative agli
interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili: dunque, in buona sostanza, ad eseguire i
provvedimenti del giudice nei confronti dei minorenni.
Quando un provvedimento giudiziario è preso, se questo, come
spesso avviene, dispone l’allontanamento dalla casa familiare, è quel
provvedimento che concreta, rende attuale ed indiscutibile il bisogno
assistenziale di quel bambino. Il generico dovere di assistenza, da
adempiersi in piena discrezionalità, che l’ente locale ha verso chiunque sia in stato di bisogno si trasforma in un dovere preciso nei confronti di quel singolo bambino, che deve essere adempiuto al di fuori
di ogni discrezionalità amministrativa. Si costituisce in quel momento e per effetto di quel provvedimento un vero e proprio diritto soggettivo di quel bambino ad ottenere dall’ente locale quello specifico
tipo di assistenza che consiste nel dargli un luogo dove stare, del cibo
da mangiare, una assistenza educativa e sanitaria.
Dunque obbligo dell’ente locale di fornire assistenza, ma entro
certi limiti discrezionalità dell’ente di scegliere il tipo di assistenza (affidamento familiare, comunità, istituto).
A norma dell’art. 2 legge 184/183, tuttavia la discrezionalità amministrativa anche sotto quest’aspetto mi pare assai ridotta.
Ivi è elencata una assai precisa graduatoria di interventi. Affidamento familiare o comunità sono posti sullo stesso piano, l’ente può
liberamente scegliere. Il ricovero in istituto è invece qualificato come
intervento di grado inferiore, non auspicato ma consentito ove non sia
possibile un affidamento familiare (termine ampio che comprende
tutti e tre gli interventi di cui al primo comma di quell’art. 2).
Decisioni del giudice che interferiscono sull’attività della P.A. (in
genere amministrazioni locali) si possono avere anche per quanto riguarda la nomina di tutori. Ex art. 354 cod. civ. il giudice tutelare può
deferire la tutela ad un ente di assistenza (di regola ora l’ente locale
competente per l’assistenza) il quale delega una persona fisica, (l’assessore all’assistenza, un assistente sociale etc.) per l’esercizio della
funzione di tutela; norma che è applicabile e mi risulta applicata an-
324
che in relazione a tutele, provvisorie o definitive, in funzione di sentenze di interdizione. Il giudice attribuisce poteri e pone doveri che
senza quella decisione non spetterebbero o incomberebbero alla pubblica amministrazione.
Quanto al giudice della separazione o del divorzio, è solo una
eventualità che in applicazione dell’art. 155 n. 6 cod. civ. egli ordini
che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, in un istituto di educazione.
Se si verifica questa eventualità, la decisione giudiziaria assume lo
stesso contenuto (e la stessa natura) di un provvedimento del T.M. ex
art. 333 cod. civ.: il figlio minorenne è allontanato dalla casa di ambedue i genitori per essere collocato altrove.
Si domanda qui se possa il giudice direttamente ordinare il collocamento in un determinato istituto o l’affidamento presso una determinata persona. È da ritenere che l’ordine diretto sia ammissibile
quando la persona affidataria rientri nella famiglia allargata, altrimenti sarebbe se non necessario almeno assai opportuno che il giudice prendesse un provvedimento col quale all’ente locale viene affidata
la cura del o dei bambini della coppia separata o divorziata affinché
provvedano ad un affidamento familiare, in quanto, come si è detto, la
decisione del giudice ex art. 155 cod. civ. ha la stessa natura ed efficacia di quella del Trib. Min. ex art. 336 cod. civ..
F) Il servizio sociale ed il Tribunale ordinario.
a) Il servizio sociale ed il giudice della separazione e del divorzio, nell’ipotesi di decisioni sull’affidamento dei figli minorenni.
1) Anche qui un breve escursus storico.
L’utilità di saperne di più di quanto potessero provare le parti (i
genitori) era ben poco sentita dai giudici prima della riforma del diritto di famiglia (ormai ha vent’anni di vita!).
Né il codice civile del 1865 né quello successivo prima della riforma davano alcuna indicazione al giudice sui criteri da adottare nella
decisione sull’affidamento dei figli minorenni.
I giuristi non ne facevano un gran problema. A.C. JEMOLO che
nel 1952 scrisse sul matrimonio un volume di 458 pagine, ne dedicava
50 alla separazione; e in queste si trovano soltanto 50 righe dedicate a
questo specifico punto.
I giudici utilizzavano regole non scritte che, ricavate dalla comu-
325
ne esperienza e dalla necessità di individuare la “colpa”, sembravano
più che sufficienti per assicurare una buona decisione:
a) affidare alla madre i figli in tenera età.
b) non affidare alla madre nessun figlio, nemmeno se in tenera
età, se era lei in colpa, che di regola era individuata nella condotta sessuale (corretta applicazione dell’art. 147 cod. civ. che nella prima versione disponeva che l’educazione dei figli doveva essere conforme ai
principi della morale).
c) nel dubbio e quando le colpe erano di entrambi e comunque
non gravi, affidare i figli a chi dei genitori aveva maggiori possibilità
economiche, in quanto aveva maggiori mezzi per garantire una
“buona” vita ai figli ed anche per assicurarsi l’opera di validi ausiliari
(balie, c.d. vicemadri per padri separati).
Ma mutarono nei decenni successivi le concezioni circa i rapporti tra i due sessi e la libertà sessuale, si era anche avviato il processo di
riconoscimento della soggettività giuridica del minorenne. Non fu
dunque una sorpresa la formulazione del nuovo art. 155 cod. civ. per
cui il giudice deve pronunciarsi con esclusivo riferimento all’interesse
morale e materiale della prole: essa però ha costretto tutti ad interrogarsi su che cosa sia in concreto il best interest of the child, non di un
bambino in genere, ma proprio di quel bambino lì, figlio di quei due
genitori che litigano. E dove il giudice si pone quesiti cui né la legge
né i criteri diffusi, cioè le massime di comune esperienza, sanno dare
una risposta, quasi inevitabilmente egli ricorre alla consulenza dell’esperto: naturalmente solo nei casi conflittuali e spesso solo quando il
figlio non è piccolissimo (per quest’ultimo caso continua a ricorrere al
concetto della tenera età).
Talvolta nomina un C.T.U.: ed è decisione relativamente frequente
quando il contrasto tra genitori è durissimo, non è facile comprendere chi siano costoro e quali autentici rapporti hanno coi bambini. Comunque è decisione presa singolarmente dal singolo giudice e per il
singolo caso.
Altra concorrente soluzione è quella di ricorrere ad inchieste da
parte dei servizi sociali territoriali.
2) Se e perché questa soluzione è giuridicamente corretta.
La risposta pare dovere essere affermativa.
Uno degli elementi a favore sta nel ritenere che anche il Tribunale ordinario, quando è investito di decisioni che incidono sull’interesse del figlio minorenne, rientra nella categoria delle autorità giudiziarie minorili cui fa riferimento l’art 23 D.P.R. 616/77.
326
In effetti, dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 è l’esplicita attribuzione al Trib. Min. della competenza a decidere sull’affidamento dei figli di una coppia non sposata; ritenuta la regola per cui il
Trib. Min. può ricorrere ai servizi sociali per decidere su quegli affidamenti; sembra corollario logico dire che in materia di affidamento
di figli minorenni ad uno od altro genitore, sempre si è autorità giudiziarie minorili e sempre si può ricorrere alle inchieste dei servizi sociali. (cfr. Trib. Genova, 8 febbraio 1985 in dir. fam., 1987, 668).
Altro argomento si ricava dall’art. 155 cod. civ. (cfr. VERCELLONE-PAZÉ, in dir. fam., 1984, 140 e PAZÉ, I figli contesi, p. 93 segg.) per
la separazione e dall’art. 6 legge sul divorzio. Non solo il giudice decide con esclusivo riferimento all’interesse di soggetti che non coincidono con le parti in causa (i figli minorenni non sono rappresentati né
dai genitori né da altri, nel corso del procedimento di separazione o
divorzio, e la Corte Costituzionale ha affermato che va bene così perché c’è già il giudice che pensa a loro); non solo il suo provvedimento
può essere diverso rispetto alle domande delle parti; ma anche egli può
assumere mezzi di prova disposti d’ufficio. Mi pare davvero possa dirsi
che nel sistema contenzioso del procedimento di separazione o divorzio sta un sottosistema di volontaria giurisdizione che è quello della
istruzione e decisione circa l’affidamento dei figli minorenni.
Come in molte ipotesi di procedimenti di volontaria giurisdizione,
infatti, il giudice non deve dare ragione o torto alle parti ma decidere
in funzione di un interesse diverso; ne discende che può andare ultra
petitum (il petitum in realtà è una offerta di disposizione a tenersi il
figlio) e cercarsi le prove come e dove vuole, appunto perché deve solo
dar ragione al figlio che non c’è in giudizio.
Terzo argomento è quello che fa riferimento alla figura del servizio sociale incaricato di una inchiesta: se è un ausiliario del giudice,
nella stessa categoria cui pure appartiene il C.T.U., non si vede perché
non possa essere nominato anche in questo tipo di cause.
3) Se è possibile ed opportuno disporre una inchiesta prima dell’udienza presidenziale.
Sulla possibilità ed opportunità di fatto mi pare sia utile descrivere l’esperienza ormai quadriennale in atto al Tribunale di Torino. I ricorsi per separazione giudiziale (soprattutto quelli, per i divorzi si è
ritenuto essere meno necessario) in presenza di figli minorenni vengono segnalati al Presidente di turno per l’udienza ex art. 707 c.p.c. il
quale se dal contenuto del ricorso o in base al suo “fiuto” personale, ritenga possano sorgere problemi rilevanti, dispone l’inchiesta dandone
327
notizia alla piccola squadra di essistenti sociali che collabora stabilmente col Tribunale (due A.S. inviate rispettivamente dalla Provincia
e dal Comune di Torino). Queste si mettono immediatamente a contatto coi servizi locali (circoscrizioni, città minori) e chiedono loro se
già conoscono la situazione e se hanno già dei dati da fornire o, altrimenti, di provvedere in tempi brevissimi ad una inchiesta anche
sommaria; ma anche di avviare con la coppia un intervento finalizzato al superamento del conflitto o perlomeno all’individuazione di modalità organizzative e di vita che salvaguardino i bisogni dei figli coinvolti. Chiedono anche al Trib. Min. di trasmettere quanto ad esso risulta, se cioè se già lì risultano provvedimenti o procedimenti in corso.
Il servizio del Tribunale procede direttamente all’inchiesta se quello territoriale non conosce il caso e non è in grado di garantire nei
tempi richiesti lo svolgimento dell’inchiesta: ma non sono casi frequenti.
La relazione giunge sul tavolo del Presidente prima dell’udienza e
di questa il Presidente si giova nel corso dell’udienza, eventualmente
contestando i fatti di rilievo e menzionando le fonti.
L’opportunità è evidente. Il Presidente non decide a caso, emotivamente recependo le invocazioni delle parti, ma assume informazioni come è possibile in ogni procedimento di volontaria giurisdizione e
come è doveroso per ogni giudice. Si ricordi che quella decisione rischia di restare com’è per molto tempo e che una eventuale modificazione radicale dopo qualche mese porta certamente turbamento al minorenne che deve nuovamente cambiare “tana”.
Le A.S. del Tribunale vengono talvolta all’udienza e sono presentate alle parti che, di regola, gradiscono che vi sia questa “specialista”,
segno che il Tribunale s’interessa davvero ai loro figli. Talvolta il Presidente, quando il conflitto verbale appare rilevante, lo spezza sospendengo l’udienza ed inviando le parti, con l’accordo degli avvocati, ad
avere un colloquio con le A.S.: assai spesso questo colloquio appare
determinante e le parti chiedono di poterne avere un altro.
Questo intervento immediato del servizio sociale si è verificato
con buon successo, anche nell’ambito delle separazioni consensuali:
sempre, quando le condizioni proposte sembravano anomale, un colloquio con le A.S. chiarificava molto e spesso si è giunti ad una modificazione in pieno accordo con le parti ed i loro avvocati.
4) Sugli interventi del servizio sociale nel corso del procedimento
dinanzi al G.I..
Se i problemi non si risolvono, nel senso che almeno sui figli non
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si raggiunge un accordo (o confermativo o parzialmente modificativo
dei provvedimenti presidenziali) il G.I. può richiedere e spesso richiede o una inchiesta o un aggiornamento dell’inchiesta fatta per l’udienza presidenziale.
Valgano le considerazioni precedenti.
5) Sull’atteggiamento degli avvocati.
Di regola i difensori delle parti non hanno nulla da obbiettare e
che mi risulti non hanno mai formalmente eccepito alcunché. Si segnala che una buona parte delle cause di diritto di famiglia sono seguite da avvocati specialisti che hanno formato un gruppo di studio e di
lavoro seminariale che fa frequenti riunioni cui sono presenti anche
giudici, psicologi, A.S.. Si forma così un comune modo di sentire che
davvero mette avanti a tutto l’interesse del bambino o del ragazzino:
come principio di legge per il giudice, per il C.T.U. e per le A.S.; come
regola deontologica professionale per gli avvocati e per i consulenti di
parte.
6) Dei rapporti tra inchiesta di servizio sociale e consulenza tecnica d’ufficio.
Dal punto di vista teorico la distinzione è evidente. L’inchiesta
porta dati che dovrebbero essere e quasi sempre sono solo dati obbiettivi; di regola riguarda la famiglia, nucleare od allargata, anche con riferimento alla abitazione, al modo in cui i figli sembrano “curati”. Non
deve concludersi con pareri.
Anzi, di recente, nell’àmbito del servizio che opera nel Tribunale,
si è sviluppata una nuova tecnica sotto la supervisione di una psicologa di grandi qualità. Al giudice non viene fatta una relazione in senso
tradizionale, ma viene riferito da ciascuna A.S. (che ha “scelto” uno
dei genitori come suo interlocutore) il punto di vista, chiarito e tradotto di ciascun genitore. Si evita così ogni valutazione personale, che
più o meno esplicitamente finirebbe col concretarsi in un giudizio
comparativo. Al giudice si offre un quadro dove i personaggi (genitori
e figli) sono dipinti uno accanto all’altro, ben più vicini alla realtà di
quanto possano apparire al giudice che si confronta con loro in una
udienza. A lui decidere che cosa è bene per i figli di quei due genitori.
Alla C.T.U. il G.I. ricorre solo se vi è una precisa richiesta delle parti dei ricordi che costa denaro) e se la situazione è davvero irta di complicazione e tensioni. Il C.T.U., ovviamente, fa delle valutazioni, descrive anche lui i personaggi (genitori e figli), ma li descrive in funzione
di una valutazione che sa dovere essere, alla fine, da parte del giudice,
una valutazione comparativa. Finora i rapporti tra C.T.U. e servizi so-
329
ciali, dove si è avuto un succedersi di interventi, sembrano ottimi:
spesso si ha collaborazione e reciproche consultazioni.
7) Sulla funzione di informazione, di composizione, di mediazione familiare che hanno o possono avere i servizi sociali.
Ogni anno ad oltre un centinaio di persone prevalentemente donne di tutte le età, cultura e ceto sociale, presentatesi in Tribunale sono
state fornite informazioni, chiarimenti ed “ascolto”. Se necessario è
predisposto un successivo invio al servizio territoriale che può attivare interventi specifici di natura economica e di sostegno per i figli.
Vengono forniti anche suggerimenti per come concordare condizioni
soddisfacenti per i figli in caso di separazione consensuale, fornendo
anche indicazioni, su richiesta, per procedere concretamente alla consensuale senza ricorrere all’ausilio di un avvocato.
Importante è stata anche la parte svolta in questo senso dai servizi sociali territoriali. Va messo in evidenza che, da un lato i servizi
pubblici per ora non sono stati “arruolati” per fare anche da consulenti e mediatori nei conflitti della coppia (con figli minori), d’altro
lato che nella gente ancora non c’è la percezione di questa via. Ma l’occasione della inchiesta e della conoscenza con una famiglia sta facendo passare la voce tra le altre coppie, ovviamente, per ora, tra quelle
meno abbienti che non possono subito rivolgersi ad avvocati e tanto
meno psicologi liberi professionisti.
Naturalmente l’obbiettivo finale è quello di costituire un servizio
pubblico di mediazione familiare. Si parla ormai correntemente, soprattutto fuori Italia, di mediazione tra colpevole e vittima di reato, di
mediazione interetnica o più in generale di mediazione nei conflitti tra
gruppi sociali. Si parla, anche, di mediazione familiare.
La mediazione presuppone un conflitto e certamente la famiglia
in crisi è coinvolta in un conflitto.
Il procedimento civile di separazione o divorzio non è una mediazione. Pur se il giudice deve sempre cercare di conciliare, le parti si attendono da lui essenzialmente una decisione ed è lui che decide, tra
l’altro potendo decidere diversamente dalle loro richieste quando
oggetto è l’affidamento dei figli.
La mediazione familiare, dunque, deve avere un altro scopo, altri
soggetti, diversa metodologia.
Lo scopo è quello di trovare soluzioni che pongano termine al conflitto, mentre la conciliazione dinanzi al giudice è solo una eventualità
alla quale, come si è visto, le parti non sono di regola pronte: sicché
spesso questi accordi durano poco.
330
I soggetti, i mediatori, non devono essere portatori di forza decisionale: essi non sono giudici e i componenti la famiglia non devono
sentirli come tali. Che poi debbano essere, professionisti della mediazione o gente comune che abbia magari a suo tempo superato situazioni analoghe, è problema nei confronti del quale non saprei proprio
che suggerire: ciò che conta è che non siano nemmeno indirettamente sentiti come giudici (Il che tra l’altro significa che tutto ciò che avviene nel corso del tentativo di mediazione familiare non deve essere MAI
portato a conoscenza del giudice ove poi si arrivi al processo: e i protagonisti del conflitto lo devono sapere).
La metodologia a sua volta è concettualmente diversa da quello
del C.T.U. e dell’assistente sociale nel corso di una indagine su richiesta del giudice. C.T.U. ed A.S. debbono conoscere per riferire, trasmettere elementi di fatto o valutazioni a chi più deve decidere: a loro
quindi interessa conoscere e basta.
Il mediatore invece non ha come compito il conoscere: conoscere
i soggetti del conflitto è utile, ma come strumento per adempiere ad
un altro compito, quello di fornire ai soggetti la bussola per orientarsi e trovare il cammino che porta alla soluzione del conflitto.
In realtà, almeno così la penso io, il mediatore familiare non deve
comporre lui il conflitto, come può fare un arbitro designato appunto
come amichevole compositore. Un conflitto tra persone che si sono
amate e che ha per punto di riferimento un’altra persona amata da
tutti e due i confliggenti difficilmente viene composto in modo definitivo da un terzo; anche se una composizione (come d’altronde una
transazione giudiziale ed anche una sentenza) può aiutare e spesso
aiuta a dare inizio, ma solo inizio, al processo che porta alla vera pace.
Il compito del mediatore è di far conoscere ai confliggenti se stessi e l’altro, di far chiarire bene che cosa c’è alla base del proprio e dell’altrui desiderio di guerra; nel caso di litigio sui figli, rendere i protagonisti capaci di comprendersi reciprocamente e soprattutto di comprendere che l’unico vero problema non è di aver ragione o torto ma
di creare un futuro accettabile per i loro figli.
Il mediatore si mette in mezzo e fa da specchio ed interprete. Agli
altri, ai contendenti, conoscersi, conoscere e risolvere il conflitto.
Questo, come ho accennato, è un obbiettivo, che non deve essere
l’obbiettivo di un giudice, ma di una comunità, quindi della città. Ci
vorrà molto tempo, ma forse no: comunque non si tratta di una utopia. E rientra nel grande disegno di ridurre i conflitti, non solo giudiziari, in questa nostra società così conflittuale.
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b) Le procedure di interdizione ed inabilità.
Da qualche tempo sto meditando sul punto se sia o no corretta la
regola secondo la quale si debba sempre dichiarare l’interdizione
quando si riscontra che l’interdicendo “si trovi in condizioni di abituale infermità di mente che lo rende incapace di provvedere ai propri
interessi”; o se invece sia opportuno caso per caso controllare quali
siano concretamente quegli interessi e se per ipotesi non sussista un
interesse superiore, d’ordine non patrimoniale, a che quel cittadino
non sia dichiarato interdetto.
La meditazione mi è stata suggerita da gruppi di operatori del settore socio-sanitario i quali più di una volta mi hanno segnalato casi
nei quali l’interdizione può determinare effetti negativi, anche seriamente negativi, nei confronti del cittadino malato di mente: questi, se,
come più spesso di quanto si creda, è in grado di comprendere quello
che gli succede, intende bene che quella procedura è volta a togliergli
la capacità di agire, anche se non userà questa formula di giuristi ma
l’altra, “essere persona”. Lo intende, ritiene che quella misura sia
eccessiva, non gli serve, gli toglie quel poco o tanto in cui consisteva
ancora il suo amor proprio, la sua autostima: e chi conosce questi casi
sà e narra quali negative conseguenze anche gravi tutto ciò può portare sui faticosi tentativi di mantenere in equilibrio quella persona.
Questo equilibrio è un bene, a conservarlo il cittadino ha interesse grande.
Se dunque questo interesse esiste e se tenui sono gli interessi patrimoniali in gioco e soprattutto se quegli interessi non sono tanto del
soggetto quanto di parenti od amici che attendono l’eredità, mi pare
che il giudice debba riflettere sulla opportunità di pronunciare l’interdizione. Come strumento per avere notizie non solo sulla sua salute
mentale ma anche sul suo ambiente di vita, sul suo reddito, sul come
lo spende, sui rischi veri e seri che corre se lasciato libero di agire giuridicamente, il giudice può ricorrere al servizio socio-sanitario che ha
tutti i requisiti per dare una risposta soddisfacente alla curiosità del
giudice. Consulente tecnico d’ufficio, se proprio è necessario, per essere aiutati a capire se c’è e di che gravità è la malattia mentale e se in
astratto può impedire al soggetto di gestire i propri affari; ma indagine del servizio sociale per capire tutto il resto, se questo resto non è
evidentissimo.
Ma come vi ho detto, sono ancora alla fase della meditazione, cui
sono costretto a dedicare poco tempo. Meditate anche voi, per favore,
e poi fatemi sapere.
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CAPITOLO III
LA TUTELA INTERNAZIONALE
DEI DIRITTI DEL MINORE
IL MINORE NELLE NORME
DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO
Relatore:
Dott. Giuseppe SALMÈ
Consigliere della Corte di Cassazione
SOMMARIO: 1. La legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema di diritto internazionale privato: ambito temporale di applicazione. – 2. La competenza giurisdizionale per i provvedimenti relativi ai minori. – 3. L’efficacia dei provvedimenti stranieri concernenti i minori: la Convenzione di Lussemburgo
del 20 maggio 1980 e la Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980 – 4. La legge straniera applicabile al minore straniero in tema di: a) capacità. – 5. b)
tutela. – 6. c) filiazione. – 7. d) rapporti tra genitori e figli. – 8. e) adozione.
1. – La legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema di diritto internazionale privato: àmbito temporale di applicazione.
Con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, ma nell’àmbito e in esito a un movimento riformatore che fin dagli anni sessanta ci aveva visti protagonisti, almeno sul piano culturale, la legge 31 maggio 1995,
n. 218 ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova disciplina di
diritto internazionale privato (d.i.p.), della quale, già nel titolo della
legge, viene evidenziata la sistematicità. Mentre infatti in precedenza
la disciplina generale di d.i.p. era sparsa tra le disposizioni preliminari del c.c., il Libro Primo e il Libro Quarto del c.p.c., ora uno stesso testo normativo tratta della giurisdizione, del diritto applicabile e dell’efficacia delle sentenze e dei provvedimenti stranieri. Non sarebbe necessario sottolinearlo, ma purtroppo la circostanza richiama l’attenzione degli interpreti abituati a livelli qualitativi di gran lunga inferiori, la nuova legge, nel complesso, oltre per il carattere organico e sistematico, si segnala anche per la circostanza che appare scritta in buona
ortografia e sintassi giuridica.
L’art. 72 dispone: 1. – La presente legge si applica in tutti i giudizi
iniziali dopo la data della sua entrata in vigore, fatta salva l’applicabilità
alle situazioni esaurite prima di tale data delle previgenti norme di diritto internazionale privato. 2. – I giudizi pendenti sono decisi dal giudice
335
italiano se i fatti e le norme che determinano la giurisdizione sopravvengano nel corso del processo.
Nessun problema si pone rispetto alla prima parte del primo comma, essendo sufficiente ricordare che mentre gli articoli da 1 a 63 sono
entrati in vigore il 1° settembre 1995, gli articoli da 64 a 71, relativi alla
efficacia delle sentenze e dei provvedimenti stranieri, sono entrati in
vigore il 31 dicembre 1996. Più problematica è invece l’individuazione
dei giudizi iniziati dopo l’entrata in vigore della riforma nei quali continuano ad applicarsi le vecchie norme di d.i.p. perché occorre fare
ricorso alla nozione di situazione esaurita, sulla quale non c’è assoluta uniformità di vedute. Tale nozione, infatti, elaborata per determinare gli effetti nel tempo delle sentenze della Corte Costituzionale
postula la distinzione tra rapporti pendenti, tuttora suscettibili di essere rimessi in discussione davanti a una qualche autorità giurisdizionale, e rapporti esauriti, che non sono, più modificabili. Ma parte della
dottrina internazionalprivatistica ritiene il concetto così delineato
troppo restrittivo, perché inidoneo a risolvere alcuni problemi riguardanti situazioni giuridiche particolari, come gli status. Si è fatto il caso
del riconoscimento di figlio naturale effettuato prima della riforma,
conforme alle previsioni della legge nazionale del figlio, ma non anche
a quelle della legge nazionale del padre, come invece si riteneva fosse
imposto dalla vecchia disciplina. Anche se il riconoscimento ha esaurito tutti gli effetti al momento in cui si è perfezionato, secondo alcuni, nel giudizio avente ad oggetto l’accertamento della validità dell’atto di riconoscimento instaurato dopo l’entrata in vigore della riforma,
dovrebbe applicarsi l’art. 35 della nuova legge, perché l’effetto dell’atto è la nascita dello status che è insuscettibile di esaurimento.
Il secondo comma dell’art. 72, infine, si limita ad estendere ai giudizi pendenti la nuova regola stabilita nell’art. 8, secondo periodo, e
cioè che la giurisdizione sussiste anche se i fatti e le norme che la
determinano sopravvengono nel corso del processo.
2. – La competenza giurisdizionale per i provvedimenti relativi ai minori.
Nella materia di cui siamo chiamati ad occuparci la giurisdizione
è regolata, in via generale dagli artt. 3 e 9, nonché per le controversie
in materia di nullità, scioglimento del matrimonio, di separazione personale dall’art. 32, per le controversie in materia di filiazione e di rapporti personali tra genitori e figli dall’art. 37 e per le controversie in
materia di adozione dell’art 40.
336
La regola generale dettata dall’art. 3 è che la giurisdizione italiana
sussiste quando il convenuto, non importa se cittadino o straniero,
deve ritenersi domiciliato o residente in Italia, secondo la nostra legge,
ovvero ha in Italia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
Sono fatti salvi i criteri di giurisdizione previsti dalle altre leggi. Il terzo comma dell’art. 3 dispone poi che anche che nelle materie estranee
alla Convenzione di Bruxelles del 1968, l’individuazione del giudice
fornito di competenza giurisdizionale può essere effettuta anche in
base ai criteri stabiliti per determinare la competenza per territorio.
Ad evitare che il richiamo ai criteri di competenza territoriale comporti, per effetto del rinvio anche al secondo comma dell’art. 18 del
c.p.c., l’irrilevanza di tutti gli altri criteri di giurisdizione, la dottrina
ha proposto un’interpretazione sistematica sulla base della quale
avendo il n. 1 dell’art. 3 disciplinato il foro generale delle persone fisiche, l’intero art. 18, resterebbe fuori dal richiamo operato dal terzo
comma dello stesso art. 3.
L’art. 9 detta una disciplina espressa dei procedimenti di giurisdizione volontaria, ai quali anteriormente con grandi difficoltà era estesa la disciplina prevista dall’art. 4 del c.p.c. che, stando alla lettera, si
riferiva ai soli procedimenti contenziosi. La norma fa salvi i criteri
previsti per singole materie, dei quali tra poco tratteremo, e quello
generale della competenza per territorio e prende in considerazione,
come criterio speciale per i procedimenti di volontaria giurisdizione,
quello della cittadinanza del soggetto interessato al provvedimento.
Criterio del tutto nuovo nel nostro ordinamento, anche se di normale
applicazione nei paesi anglosassoni e proposto dalla dottrina nel silenzio della disciplina precedente, è quello secondo cui la giurisdizione
sussiste il provvedimento richiesto riguarda una situazione o un rapporto ai quali è applicabile la legge italiana (c.d. coincidenza del forum
con lo jus).
La cittadinanza italiana di una delle parti del rapporto ritenuta
rilevante come criterio di giurisdizione dall’art. 9, in via generale, è
presa in considerazione anche per quanto riguarda le cause di separazione, divorzio, nullità e annullamento del matrimonio, la materia
della filiazione e dei rapporti tra genitori e figli e l’adozione. Inoltre
l’art. 32, per le controversie matrimoniali, prevede anche che sussista
la giurisdizione del giudice italiano se il matrimonio è stato celebrato
in Italia e l’art. 37, per la materia della filiazione e dei rapporti personali tra genitori e figli, se il figlio o il genitore risiede in Italia.
Specifici criteri di giurisdizione sono previsti per l’adozione, oltre
a quello della cittadinanza o della residenza in Italia di adottanti o
337
adottandi, di cui si è detto, dall’art. 40 che considera rilevante la presenza in Italia dell’adottando minore in stato di abbandono (criterio
peraltro già presente nella legge 184/83). Per i rapporti personali o
patrimoniali tra adottanti e i parenti di questi, da una parte e l’adottando, dall’altra, l’art. 40, secondo comma combina i criteri di cui
all’art. 3 con quello della costituzione del rapporto adottivo secondo la
legge italiana.
Di fondamentale importanza per la ricostruzione della disciplina
della competenza giurisdizionale è, infine, l’introduzione della rilevanza della litispendenza estera, di cui all’art. 7.
3. – L’efficacia dei provvedimenti stranieri concernenti i minori: la Convenzione di Lussemburgo del 20 maggio 1980 e la Convenzione de
L’Aja.
A) Con la riforma il nostro legislatore ha abbandonato le teorie
“nazionalistiche” accolte dal c.p.c. del 1942, ed è ritornato all’impostazione del codice di rito del 1865, ispirato alle teorie liberali di P.S.
Mancini, sostenitore, anche per esigenze pratiche di certezza delle situazioni giuridiche, del sistema del riconoscimento automatico dei
giudicati stranieri.
Si tratta di un’innovazione, almeno nelle intenzioni del legislatore, radicale, che ha per tale motivo suscitato perplessità e resistenze,
tanto che l’entrata in vigore di questa parte della riforma è stata più
volte prorogata e pendono proposte e disegni di legge che mirano a
ridimensionarla, estendendo la necessità di ricorrere al procedimento
giurisdizionale di attuazione di cui all’art. 67 in tutti i casi in cui sia
necessario procedere a trascrizione, iscrizione o annotazione in pubblici registri della sentenza o del provvedimento di volontaria giurisdizione stranieri.
In realtà solo se si pensi al gran numero di convenzioni, riguardanti le più diverse materie, attualmente vigenti, e ispirate al principio
del riconoscimento automatico dell’efficacia dei giudicati stranieri
(Convenzione di Bruxelles del 1968 per la materia civile e commerciale, da ultimo modificata dalla Convenzione di Lugano del 1988; Convenzione di New York del 1958 sulle sentenze arbitrali) si può essere
d’accordo con quanti negano che in realtà la nuova disciplina abbia
una portata così rivoluzionaria.
Anzi non è mancato chi ha rilevato che già prima della riforma un
consistente orientamento giurisprudenziale, confortato dalla dottrina
338
larghissimamente prevalente, era giunto a ritenere che non fosse necessario il procedimento di delibazione di provvedimenti giurisdizionali o degli atti amministrativi, del foro richiamato dalla norma di
d.i.p., per riconoscere automaticamente effetto in Italia alle situazioni
giuridiche nascenti da tali atti (status di figlio, divorzio), perché il rinvio ad altri ordinamenti giuridici si riferisce non solo ai valori rappresentati dalla disciplina normativa della situazione di fatto, ma anche a
quelli costituiti dalla regolamentazione concreta risultante dagli atti
giurisdizionali o ammistrativi stranieri. E pertanto costituirebbero un
passo indietro, rispetto a tale impostazione, nelle quali l’effetto giuridico è prodotto direttamente dalle norme di d.i.p., il sistema che subordina la produzione sia pure automatica, di effetti in Italia a determinati presupposti.
In estrema sintesi il sistema della riforma è basato sulla previsione di una norma generale di riconoscimento automatico delle sentenze straniere subordinato alla sussistenza di un numero non irrilevante di determinati presupposti indicati dall’art. 64. In materia di capacità delle persone, esistenza di rapporti di famiglia e di diritti di personalità è previsto un riconoscimento automatico semplificato, subordinato alla ricorrenza di due soli presupposti: rispetto dei diritti essenziali di difesa e non contrarietà all’ordine pubblico.
Per i provvedimenti di v.g., oltre a questi due presupposti debbono anche ricorrere: a) la pronuncia del provvedimento da parte di giudici dello Stato la cui legge è applicabile secondo le norme di d.i.p.,
ovvero la produzione di effetti in tale Stato; b) la pronuncia da parte
di autorità che è competente in base a criteri corrispondenti a quelli
dell’ordinamento italiano.
Non basta il riconoscimento automatico degli effetti di giudicato
ed è necessario il ricorso a uno speciale procedimento giurisdizionale
di attuazione in tre casi e cioè quando: a) le parti che vi sono tenute
non adempiano spontaneamente alle disposizioni del provvedimento
straniero; b) se è necessario procedere ad esecuzione forzata; c) se
sorge controversia sulla sussistenza dei presupposti del riconoscimento automatico. L’azione diretta a ottenere il riconoscimento della sussistenza dei presupposti del riconoscimento è di mero accertamento e
quindi imprescrittibile.
B) In materia di affidamento di minori hanno grande importanza,
anche pratica, la convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento aperta alla forma a Lussemburgo il 20 mag-
339
gio 1980 (entrata in vigore il 27 febbraio 1995) e la Convenzione sugli
aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori, aperta alla
firma a L’Aja il 25 ottobre 1980 (entrata in vigore il 23 aprile 1995),
rese esecutive in Italia con legge 15 gennaio 1994, n. 64.
Pur avendo la medesima generica finalità di tutela dell’interesse
del minore dal pregiudizio derivante dai trasferimenti indebiti i due
atti internazionali sono profondamente diversi, non tanto e non solo
per la diversità dei destinatari in quanto l’uno (la Convenzione di Lussemburgo) è stato adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa e l’altro nel quadro della quattordicesima sessione della Conferenza di diritto internazionale de L’Aja, quanto e soprattutto perché hanno funzioni specifiche e quindi presupposti e condizioni di applicazione differenti.
La Convenzione di Lussemburgo appartiene alla categoria delle
convenzioni per la cooperazione giudiziaria e mira a facilitare il riconoscimento e l’esecuzione di provvedimenti riguardanti l’affidamento
dei minori di anni sedici (primo “considerando” e artt. 7-11). Presupposto per l’applicazione della convenzione, pertanto, è che (anteriormente al trasferimento di un minore attraverso una frontiera internazionale) in uno Stato contraente sia stata adottata una decisione esecutiva sull’affidamento (o sul diritto di visita) ovvero (successivamente al trasferimento predetto) sia stato pronunciato un provvedimento
sull’affidamento che riconosca l’illiceità del precedente trasferimento
(art. 1, lett. d) e ii), art. 12). Le condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione dei provvedimenti (anteriori o successivi all’indebito spostamento del minore) sull’affidamento sono quelle che normalmente
sono previste nelle convenzioni di questo tipo: a) competenza del giudice che ha pronunciato il provvedimento del cui riconoscimento ed
esecuzione si tratta; b) prova della regolarità del contraddittorio; c)
non contrarietà ad altro provvedimento già divenuto esecutivo nello
Stato richiesto o ai principi fondamentali del diritto di famiglia e dei
minori dello Stato stesso (artt. 8, 9 e 10).
La Convenzione de L’Aja, invece, prescinde del tutto dall’esistenza
di un titolo giuridico di affidamento e a maggior ragione dalla eventuale pronuncia di un provvedimento giurisdizionale straniero, avendo lo scopo di tutelare l’affidamento in quanto situazione di fatto, da
reintegrare con l’immediato rientro del minore nel proprio Stato di
residenza abituale (art. 1). Conseguentemente il trasferimento di un
minore è considerato illecito quando avviene in violazione del diritto
di custodia, essendo irrilevante che tale diritto derivi direttamente
dalla legge, ovvero da una decisione giudiziaria o da un provvedimen-
340
to amministrativo o, infine, da un accordo. È indispensabile, invece,
che il diritto di custodia sia effettivamente esercitato (art. 3). Anche
quando esiste un provvedimento giurisdizionale di affidamento l’interessato è legittimato a chiedere (non il riconoscimento e l’esecuzione,
ma) l’ordine di immediato ritorno (l’intero capo terzo della convenzione è intitolato, appunto, “ritorno del minore”). L’eventuale provvedimento sull’affidamento ha pertanto una mera funzione documentale di una situazione di fatto, sullo stesso piano degli accordi, dell’attestato concernente la legislazione dello Stato di residenza, e di ogni
altro documento pertinente (art. 8, 2° comma), tanto che la convenzione espressamente prevede che l’autorità dello Stato richiesto può
tenere conto delle decisioni giudiziarie sull’affidamento indipendentemente dal riconoscimento delle stesse (come del pari può, tenere conto direttamente della legislazione di decisioni amministrative) (art.
14). Come il solo fatto che sia stata presa una decisione sull’affidamento suscettibile di essere riconosciuta nello Stato richiesto, non
giustifica il rifiuto di pronunciare l’ordine di ritorno (art. 17) così viceversa l’ordine di ritorno non pregiudica il merito del diritto di custodia (art. 19). L’art. 16 ribadisce la finalità meramente reintegratoria
della situazione di fatto disponendo che, dopo aver ricevuto notizia di
un trasferimento illecito, l’autorità giudiziaria o amministrativa dello
Stato in cui il minore è stato trasferito non può deliberare sul merito
dei diritti di affidamento, fino a quando non siano state soddisfatte
tutte le condizioni previste dalla convenzione per il ritorno.
Se la richiesta è presentata entro l’anno dal trasferimento illecito,
l’autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto ordina
l’immediato ritorno a meno che sussistano una o più delle seguenti
circostanze: 1) il diritto di affidamento non sia stato in precedenza
esercitato effettivamente dal titolare o l’affidatario abbia espresso il
consenso al trasferimento; 2) per effetto del ritorno, il minore sia esposto a fondato rischio di pericoli fisici e psichici o possa trovarsi in una
situazione intollerabile; 3) il minore, che abbia un’età e un grado di
maturità tali che sia opportuno tenere conto del suo parere, si rifiuti
di ritornare (art. 13); 4) il ritorno, sia contrario ai principi fondamentali, relativi alla protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 20). Nel caso in cui la richiesta di ordine di ritorno sia
presentata dopo l’anno dal trasferimento illecito, oltre che per le ragioni indicate l’ordine può essere rifiutato se è dimostrato che il minore
si è integrato nel suo nuovo ambiente (art. 12, 2° comma). La validità
e l’efficacia dell’eventuale provvedimento giurisdizionale di affidamento non hanno invece alcun rilievo.
341
4. – La legge straniera applicabile al minore in tema di capacità.
La capacità del soggetto rientra nel suo statuto personale, espressione che, ereditata dal diritto comune, oggi indica l’insieme delle
questioni che vengono disciplinate mediante rinvio alla legge personale del soggetto.
Sul piano astratto i criteri di collegamento utilizzabili per determinare la legge che disciplina lo statuto personale sono quello della
cittadinanza o quello del domicilio. Attualmente, il criterio della nazionalità, a livello internazionale appare recessivo.
L’art. 20 dispone che la capacità giuridica generale (idoneità a
divenire titolare di situazioni giuridiche soggettive) è regolata dalla
legge nazionale e che le capacità giuridiche speciali sono regolate dalla
legge del rapporto al quale si riferiscono. Alla stregua di tale norma si
determina innanzi tutto la legge in base alla quale si può stabilire l’inizio e la fine della soggettività giuridica. Per quanto riguarda l’inizio,
esistono ordinamenti nei quali la capacità giuridica non si acquista
con la nascita, ad esempio secondo l’art. 30 del c.c. spagnolo la capacità si acquista solo dopo 24 ore dalla nascita. La prova della nascita
o in genere dell’identità personale e della morte deve essere data mediante atti del paese di cui il soggetto ha la nazionalità. Tuttavia la
prova della morte dello straniero in Italia è data anche dai nostri atti
di stato civile. Anche il transessualismo (autorizzazione all’intervento
ed effetti sullo stato civile) è regolato dalla legge nazionale.
Le stesse regole valgono per la determinazione della capacità d’agire generale o speciale, disciplinata dall’art. 23 (il quale prevede anche una articolazione maggiore di regole per la capacità negoziale) e,
secondo l’orientamento giurisprudenziale più seguito per la capacità
naturale.
Sempre alla legge nazionale occorre fare riferimento per la disciplina della attribuzione e del cambiamento del nome.
5. – La legge straniera applicabile al minore in tema di tutela.
L’art. 42 regola la giurisdizione e la legge applicabile agli istituti di
protezione dei minori, tali considerando anche quelli che sono considerati minori soltanto dalla loro legge nazionale, rinviando alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961, resa esecutiva con la legge 24
ottobre 1980, n. 742, ma in vigore in Italia solo dal 23 aprile 1995: Il
grandissimo ritardo nel deposito dello strumento di ratifica (22 feb-
342
braio 1995) è stato giustificato dalla necessità di attendere le norme di
attuazione che sono state dettate solo con la legge n. 64 del 1994 già
citata.
Tra le misure protettive di solito si comprendono oltre alla nomina del tutore o del curatore, l’affidamento familiare o ad istituto, i
provvedimenti di affidamento in caso di seperazione e divorzio. La
competenza giurisdizionale è del paese in cui il minore ha la dimora
abituale e il giudice di quel paese deve applicare la lex fori. Ai sensi dell’art. 42, 2° comma questa regola si applica anche se il minore ha la residenza abituale in uno Stato che non ha ratifcato la convenzione. La
regola generale subisce tre eccezioni. La prima, prevista dall’art. 3
della convenzione, conserva l’applicazione della legge nazionale del
minore (invece che quella dello Stato di residenza abituale) quando si
tratta di accertare la costituzione ex lege della potestà parentale o della
tutela. La seconda, prevista dall’art. 4, prevede che, se l’interesse del
minore lo richiede, lo stato di cui il minore è cittadino può adottare
misure protettive, destinate a prevalere anche sulle analoghe misure
previamente adottate dallo Stato di residenza abituale, con il solo onere di avvertire tale Stato. La terza consiste nella possibilità che le
misure protettive siano adottate dallo Stato in cui il minore si trova in
caso di urgente necessità.
I provvedimenti stranieri che adottando misure protettive sono riconosciuti e resi esecutivi in Italia con provvedimento del T.M. del
luogo in cui i provvedimenti debbono avere attuazione (art. 4 della
legge n. 64/94).
Misura protettiva dovrebbe considerarsi anche l’obbligazione alimentare. La disciplina è in questo caso farraginosa, perché, per quanto riguarda la determinazione della legge applicabile e le condizioni
per il riconoscimento ed esecuzione si applicano le Convenzioni de
L’Aja del 1973, entrate in vigore il 1° gennaio 1982 mentre la competenza giurisdizionale è regolata dalla Convenzione di Bruxelles del
1968.
6. – La legge straniera applicabile al minore in tema di filiazione.
La disciplina sostanziale della filiazione è contenuta negli artt. da
33 a 35. Viene mantenuta ferma la distinzione tradizionale tra la genesi del rapporto di filiazione e lo svolgimento del rapporto stesso; a differenza di altri ordinamenti non è prevista una sostanziale diversità tra
filiazione legittima e naturale; il criterio di collegamento generale è
343
quello della cittadinanza del figlio (a seconda dei casi, al momento della nascita o al momento in cui viene acquisito lo status di cui si tratta).
L’art. 19 per il caso di pluralità di cittadinanze prevede la prevalenza di quella dello Stato con il quale il soggetto ha il rapporto più
stretto di quella italiana.
Il primo comma dell’art. 33 dispone che il momento generico dello
stato di figlio, legittimo o naturale, è disciplinato dalla sua legge nazionale al momento della nascita. In virtù del favor legitimitatis è legittimo il figlio che sia tale non per la legge dello stato di cui è cittadino al
momento della nascita, ma solo per quella nazionale di uno dei genitori. Se l’attribuzione dello stato di figlio legittimo avviene in applicazione della legge nazionale del genitore anche la contestazione dello
stato di legittimità deve avvenire sulla base della stessa legge.
I casi in cui la filiazione naturale può essere dichiarata o riconosciuta, le condizioni di ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità maternità naturale e quelle per l’accoglimento della domanda, i termini e la legittimazione attiva e passiva e le prove utilizzabili sono determinate dalla legge nazionale del figlio al momento
della nascita.
Questa esclusività del criterio della cittadinanza del figlio è stata
criticata, sia in sé, perché non del tutto conforme al principio del prevalente interesse del minore e sia, perché introduce una ingiustificata
disparità con il carattere concorrente (con il criterio della legge nazionale del genitore) di tale criterio, nei casi di accertamento della filiazione legittima e di riconoscimento del figlio naturale.
La legge straniera che escluda l’accertamento della paternità naturale, che ponga termini all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale o che affermi il carattere personalissimo dell’azione, è stata considerata contrastante con l’ordine pubblico.
Per quanto riguarda il riconoscimento del figlio, in ossequi al
favor filiationis il criterio della legge nazionale del figlio è alternativo
rispetto a quello della legge nazionale del genitore che intende riconoscere (se più favorevole). La capacità di riconoscere è disciplinata
dalla legge di chi intende riconoscere e la forma è disciplinata dalla
legge dello stato in cui il riconoscimento viene effettuato o da quello
che ne disciplina la sostanza. La legge straniera applicabile che non
prevede la possibilità di superare il dissenso del genitore che ha già
proceduto al riconoscimento sarebbe contraria all’ordine pubblico.
Per la legittimazione occorre distinguere quella per susseguente
matrimonio, alla quale si applica la legge nazionale del figlio o quella
del genitore se più favorevole, al momento (non della nascita, ma) del
344
matrimonio dalla legittimazione per altro motivo, per la quale si applica la legge nazionale del genitore nei cui confronti il figlio diviene
legittimo, al momento della domanda.
7. – La legge straniera applicabile al minore in tema di rapporti tra genitori e figli.
La regola dettata dall’art. 36 per i rapporti tra genitori e figli è
quella della applicazione della legge nazionale del figlio. Poiché la
norma non indica a quale momento si debba fare riferimento la dottrina ha proposto che tale momento debba essere quello in cui il problema dell’applicazione della legge straniera si pone. Tale criterio è
conforme a quello previsto dalla Convenzione de L’Aja del 1961.
La giurisprudenza ritiene che gli art. 330-333 c.c. siano di applicazione necessaria e che sia contraria all’ordine pubblico la legge straniera che non preveda la decadenza dalla potestà nei casi di gravi violazioni dei doveri genitoriali.
8. – La legge straniera applicabile al minore in tema di adozione.
Gravi e delicati sono i problemi che sorgono in ordine ai rapporti
tra la legge di riforma e la disciplina di cui alla legge 184/1983.
In via generale il problema dovrebbe essere risolto dall’art. 38, 2°
comma il quale dispone che si applica la legge italiana, e cioè la legge
184/83, quando è richiesta al giudice italiano l’adozione di un minore
idonea ad attribuirgli lo stato di figlio legittimo. Ma è dubbio se la disposizione si riferisce alle ipotesi in cui secondo la legge italiana dovrebbe farsi luogo all’adozione legittimante ovvero al caso in cui, indipendentemente da quello che prevede la legge italiana, gli adottanti
chiedono farsi luogo all’adozione legittimante. Il caso pratico che si
potrà porre riguarda l’adozione del figlio del coniuge che, secondo la
legge italiana rientra nella fattispecie dell’adozione non legittimante,
mentre nel diritto tedesco, può dar luogo ad adozione legittimante.
Poiché, dalla relazione alla legge di riforma risulta che il legislatore
non ha accolto la tesi secondo cui la legge 184 è di applicazione necessaria, se l’adottante tedesco chiede l’adozione non legittimante, secondo alcuni, il giudice italiano dovrebbe applicare la sua legge nazionale e non quella italiana e pertanto dovrebbe pronunciare adozione legittimante.
345
La dichiarazione di adottabilità è certo un presupposto dell’adozione, ma poiché al momento in cui è pronunciata non sono ancora
noti agli adottanti, la sua disciplina è incompatibile con la struttura
dell’art. 38 e quidi in tal caso la legge italiana è di applicazione necessaria, come conferma l’art. 40, lettera b). Ne deriva che il minore straniero o italiano in situazione di abbandono può essere dichiarato
adottabile dal giudice italiano.
Anche in tema di riconoscimento dei provvedimenti stranieri di
adozione l’art. 41, 2° comma fa salva l’applicazione della legge 184 e
quindi gli artt. 32 e 33 di tale legge prevalgono sugli artt. 64 e seguenti della legge di riforma del d.i.p., la quale invece si applica alle ipotesi non previste della legge 184 e cioè all’adozione del maggiorenne e
all’adozione all’estero di minore straniero da parte di adottanti stranieri.
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PROVVEDIMENTI CONCERNENTI MINORI
E DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO.
IL PROBLEMA DELLA LEGGE
APPLICABILE AL MINORE STRANIERO
Relatore:
Prof. Andrea BONOMI (*)
Collaboratore scientifico
dell’Istituto Svizzero di diritto comparato - Losanna
1. – Filiazione.
1.1. - Aspetti generali della legge di riforma.
Quattro disposizioni distinte. Mi limiterò ad esaminare gli articoli 33, 35 e 36, lasciando da parte l’art. 34 relativo ad un’ipotesi marginale, qual è quella della legittimazione.
In materia di filiazione, i tratti caratteristici della legge di riforma
possono essere riassunti nel modo seguente:
a) Si è mantenuta la distinzione, già radicata nella dottrina e
nella giurisprudenza precedenti, tra la genesi del rapporto di filiazione da un lato (artt. 33-35) ed i rapporti tra genitori e figli dall’altro
(art. 36).
b) Per quanto attiene alla genesi del rapporto, il nuovo sistema si
caratterizza per un’impostazione molto più dettagliata di quella che
poteva desumersi dal vecchio art. 17 disp. prel.. La legge distingue infatti tra filiazione (art. 33), legittimazione (art. 34) e riconoscimento di
figlio naturale (art. 35).
A differenza di quanto è avvenuto in altre codificazioni recenti,
tuttavia, il legislatore italiano non si è spinto sino a dettare due regole di conflitto distinte per la filiazione legittima e per quella naturale.
La disposizione dell’art. 33, infatti, ha una portata generale, come
(*) Professore incaricato di diritto internazionale privato, Università di Trieste
(sede di Gorizia); collaboratore scientifico dell’Istituto Svizzero di diritto comparatoLosanna.
347
risulta tanto dalla rubrica (Filiazione), quanto dal tenore generale ed
indifferenziato del primo comma: “Lo stato di figlio è determinato
dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita”. Tuttavia,
secondo la lettera della legge, la regola del secondo comma – ispirata
al favor legitimitatis – si applica soltanto per valutare l’esistenza di un
rapporto di filiazione legittima.
c) La disciplina del momento genetico del rapporto è ispirata al
favor filiationis, principio che ha orientato anche la disciplina sostanziale della filiazione a partire dalla riforma del diritto di famiglia del
1975. Tale orientamento si concretizza nella previsione di criteri di
collegamento alternativi e nell’applicazione della legge più favorevole
alla costituzione del rapporto.
d) Il criterio di collegamento della cittadinanza conserva un ruolo
centrale, ma la nuova legge privilegia decisamente la cittadinanza del
figlio rispetto a quella dei genitori sia nella disciplina della genesi della
filiazione, sia in quella dei rapporti tra genitori e figli. La legge nazionale dei genitori (o di uno dei essi) è applicabile in via principale solo
nei casi dell’art. 34 2° comma (legittimazione per cause diverse dal susseguente matrimonio).
Nelle altre ipotesi, si vede riconosciuta tutt’al più una competenza
concorrente se è nella misura in cui ciò è consigliato dal favor filiationis (art. 33 2° comma, art. 34 1° comma, art. 35 1° comma). Assolutamente irrilevante è invece il luogo del domicilio o della residenza abituale del figlio, criterio adottato da alcune legislazioni straniere per la
disciplina dei rapporti di famiglia (art. 82 1° comma della legge svizzera).
Tale soluzione offre il vantaggio di ridurre la possibilità di conflitti tra le leggi regolatrici della genesi e degli effetti della filiazione perché è adattabile ad entrambi gli aspetti, ma nello stesso tempo crea i
presupposti per un più frequente ricorso all’ordine pubblico, in tutti i
casi in cui la famiglia è residente in Italia e la legge nazionale del figlio
regola il rapporto in modo incompatibile con i principi fondamentali
del nostro ordinamento.
e) In termini generali, occorre ancora sottolineare che in tutta la
materia della filiazione si tiene conto del rinvio, ma soltanto se esso
conduce all’applicazione di una legge che consente lo stabilimento
della filiazione (rinvio c.d. “in favorem”): art. 13, 3° e comma, legge di
riforma. In altre parole, il rinvio “indietro” e il rinvio “oltre” (sempreché quest’ultimo sia accettato dall’ordinamento terzo) dovranno essere seguiti soltanto se permettono di applicare una legge che, a diffe-
348
renza di quella designata dagli articoli 33 ss., permette di stabilire la
filiazione (1).
1.2. - Genesi e accertamento della filiazione legittima.
Dispone l’art. 33:
1. Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio
al momento della nascita.
2. È legittimo il figlio considerato tale dalla legge dello Stato di
cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita.
3. La legge nazionale del figlio al momento della nascita regola
i presupposti e gli effetti dell’accertamento e della contestazione
dello stato di figlio. Lo stato di figlio legittimo acquisito in base alla
legge nazionale di uno dei genitori non può essere contestato che
alla stregua di tale legge.
a) Legge nazionale del figlio.
Per la genesi del rapporto di filiazione, l’art. 33 rende applicabile,
in via principale, la legge nazionale del figlio al momento della nascita.
Il pregio maggiore di questo criterio di collegamento risiede nella
sua corrispondenza ai princìpi ispiratori della disciplina sostanziale
italiana della filiazione, che si caratterizza – dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 – per l’attribuzione all’interesse del figlio di un
ruolo centrale e prevalente rispetto agli interessi degli altri membri
della famiglia (v. CAMPIGLIO, p. 123 ss.). Esso consente inoltre di sottoporre la costituzione del rapporto di filiazione ad un’unica legge, evitando le difficoltà cui dava adito l’art. 17 disp. prel., imponendo l’applicazione – vuoi cumulativa vuoi disgiuntiva – delle leggi nazionali
dei vari soggetti interessati al rapporto (il figlio, ma anche i genitori,
che potevano avere diversa cittadinanza). Per altro verso, il criterio di
collegamento adottato apre la via ad un circolo vizioso nei casi, assai
frequenti, in cui, essendo il figlio minore, la sua legge nazionale dipende da quella del genitore, e dunque proprio da quel rapporto di filiazione che si deve accertare. L’alternativa è tra l’applicazione della legge
della cittadinanza “attuale” (cioè di quella esistente al momento della
domanda giudiziale diretta a reclamare lo status di figlio), e la legge
della cittadinanza “futura” che discenderà dall’eventuale accoglimento della domanda (cioè la cittadinanza del genitore presunto).
(1) MUNARI, NLCC, 1996, p. 1033.
349
Si prenda il caso di un minore abbandonato in Francia e di nazionalità francese che reclama lo status di figlio legittimo di una coppia
di italiani. Al momento della domanda, la sola cittadinanza è quella
francese; in caso di accoglimento della domanda, tuttavia, il figlio si
vedrà riconosciuta automaticamente la cittadinanza italiana.
Il problema sorge, all’inverso, nel caso di contestazione dello status dal momento che l’accoglimento della domanda potrebbe far venir
meno la cittadinanza che il figlio aveva al momento in cui è stato iniziato il processo.
In Francia, la giurisprudenza e la dottrina sono favorevoli all’applicazione della legge nazionale che risulta al momento della domanda, e tale situazione è certamente la più semplice (v. FOYER, p. 229
ss.). Si deve rilevare, tuttavia, che l’acquisto della cittadinanza iure
sanguinis avviene, normalmente, di pieno diritto e prende effetto dal
momento della nascita: pertanto, quella che abbiamo definito come
cittadinanza “futura” è in realtà anch’essa attuale, ancorché latente.
L’interesse del minore all’accertamento della filiazione consiglierebbe
di tener conto anche di questa legge, quando essa è più favorevole alla
costituzione dello status.
Nel caso della filiazione legittima il problema si pone con minore
gravità, dato il modo di disporre del secondo comma dell’art. 33, che
richiama comunque la legge nazionale del genitore (cioè quella che si
trasmetterebbe al figlio), se è più favorevole. La questione assume tutta la sua importanza in materia di accertamento della filiazione naturale, qualora si ritenga che la cittadinanza del figlio è l’unico criterio
operante.
b) Legge nazionale di uno dei genitori.
Il secondo comma dell’art. 33 stabilisce che è legittimo anche il figlio considerato tale dalla legge nazionale di uno dei genitori al momento della nascita del figlio.
Questa disposizione speciale non intende escludere l’applicazione
della legge nazionale del figlio, secondo la regola generale del primo
comma, ma soltanto aggiungersi ad essa, consentendo al figlio, al quale la propria legge nazionale non riconosce lo status di figlio legittimo,
d’invocare a proprio favore le norme più favorevoli della legge nazionale di uno dei genitori al momento della nascita (in questo senso la
Relazione). Si tratta cioè di una disposizione che prevede un criterio
di collegamento suppletivo, ispirato al principio del favor legitimitatis.
Si possono ipotizzare diverse situazioni. Non vi è evidentemente
nessuna difficoltà quando il figlio ha la stessa cittadinanza di quello
350
dei due genitori, la cui legge nazionale riconosce lo stato di figlio legittimo, oppure quando entrambi gli ordinamenti richiamati dall’art. 33
riconoscono tale status, anche se per ragioni diverse.
Invece, se la legge nazionale del figlio nega l’esistenza dello status
di figlio legittimo, mentre quella di uno dei genitori lo riconosce, la
legge favorevole al riconoscimento di status prevale. La medesima
conclusione s’impone quando lo status di figlio legittimo è riconosciuto dalla legge nazionale del figlio, anche se esso è negato dalla legge
nazionale di entrambi i genitori.
Qual è l’ambito di applicazione della regola di conflitto speciale dell’art. 33 2° comma? In altre parole: quali sono le questioni di
diritto materiale per le quali la disciplina più favorevole dettata
dalla legge nazionale di uno dei genitori può prevalere?
Tale legge stabilisce innanzitutto quali sono gli elementi costitutivi dello stato di figlio legittimo.
Può essere utile ricordare che, nel diritto materiale italiano, tali
elementi sono quattro, di cui due si considerano “certi” (l’esistenza
di un matrimonio valido tra i genitori e la nascita del figlio dalla
donna sposata) e due “incerti” (il concepimento del figlio durante il
matrimonio e la paternità del marito della madre).
Inoltre, nel campo di applicazione dell’art. 33 2° comma rientra
senza dubbio l’accertamento degli elementi “incerti”. Pertanto, la
legge nazionale di uno dei genitori è applicabile, ogni qualvolta essa
disciplini la prova del concepimento in costanza di matrimonio e
della paternità del marito della madre in termini più favorevoli
rispetto alla legge nazionale del figlio (per esempio, prevedendo a
tal fine delle presunzioni ovvero delle presunzioni più favorevoli). In
concreto, nel diritto interno dei singoli Stati, le differenze più significative riguardano l’operatività delle presunzioni nel caso di concepimento durante il periodo di separazione dei coniugi.
Più dubbia è l’applicazione della legge nazionale dei genitori
agli elementi della filiazione legittima che si è soliti qualificare
come “certi”.
In primo luogo, l’accertamento della maternità. Quale ordinamento deve stabilire se sia necessario un riconoscimento da parte
della madre oppure no; se e a quali condizioni la maternità possa
essere contestata (ad esempio nelle ipotesi di simulazione di parto e
di sostituzione di neonato, cfr. art. 239 c.c.); quale sia la madre del
bambino nelle ipotesi di “utero in affitto”? A ben vedere, non si tratta di questioni attinenti alla “legittimità” del figlio, ma dell’accertamento della maternità tout court. Riteniamo dunque che sia applicabile soltanto la legge nazionale del figlio ex art. 33 1° comma (comunque tale criterio venga interpretato).
351
Infine, l’altro elemento “certo“ della filiazione legittima, cioè
l’esistenza di un valido matrimonio, dev’essere verificato alla stregua della legge regolatrice della validità formale e materiale del matrimonio.
Occorre considerare, tuttavia, la questione del matrimonio
putativo. Per stabilire se un matrimonio invalido possa ugualmente produrre alcuni dei suoi effetti, in particolare in favore dei figli, è
preferibile applicare la legge regolatrice degli effetti di cui si tratta:
anche tale questione rientra dunque nello statuto della filiazione
legittima.
Non si deve trascurare che il maggior favore della legge nazionale di uno dei genitori può manifestarsi anche nella disciplina dell’azione di reclamo della legittimità (legittimazione, termini, trasmissibilità).
Va da sè che l’applicazione della regola speciale dell’art. 33, 2°
comma presuppone che la legge nazionale di uno dei coniugi distingua tra filiazione naturale e legittima, ricollegando a tale distinzione alcune (sia pur limitate) differenze di regime. Se così non è, si
resta nella sfera di applicazione della legge nazionale del figlio (ciò
vale ad esempio quando la legge richiamata è un diritto islamico).
c) Come si evince dall’art. 33 3° comma, la legge in base alla quale
è costituito lo status di figlio legittimo è l’unica competente a regolare
le condizioni per la contestazione della legittimità. Se la filiazione
legittima è affermata sulla base della legge nazionale del figlio, è questa legge che regola la contestazione della legittimità; se invece lo status legitimitatis risulta dall’applicazione della legge nazionale di uno
dei genitori, esso può essere contestato soltanto alla stregua di tale ordinamento.
Tra i presupposti per la contestazione rientrano la legittimazione
attiva e passiva, la trasmissibilità dell’azione di contestazione, i termini entro cui essa può essere proposta.
Un dubbio può sorgere quando lo status di figlio legittimo sia riconosciuto tanto dalla legge nazionale del figlio, quanto da quella di uno
o di entrambi i genitori: quale legge regolerà i presupposti per la contestazione della legittimità? Il favor legitimitatis suggerisce di cumulare le due leggi in modo da far prevalere la legge che sottopone la contestazione della legittimità ai requisiti più severi (per es. prevedendo i
termini più rigorosi).
1.3. - Accertamento giudiziale della filiazione naturale.
Se lo stato di figlio legittimo è negato sia dalla legge nazionale del
352
figlio, sia dalle leggi nazionali di entrambi i genitori, si deve verificare
l’esistenza di un rapporto di filiazione naturale.
a) Legge nazionale del figlio.
In conformità alla regola generale dell’art. 33, 1° comma si dovrà
applicare la legge nazionale del figlio.
Questa legge stabilisce, in primo luogo, i casi in cui la filiazione
naturale non può essere accertata nè riconosciuta, per es. in caso di
adulterio o di incesto (v. l’art. 251 c.c.). Con riguardo a tali ipotesi, la
stessa legge regola anche la possibilità e le condizioni per un’eccezionale autorizzazione ad effettuare il riconoscimento, nonché i diritti e
doveri di assistenza, educazione ed istruzione che sussistono nonostante l’impossibilità del riconoscimento.
Per gli obblighi alimentari del genitore verso i figli adulterini ed
incestuosi è invece applicabile la Convenzione de L’Aja del 1973 sulla
legge regolatrice delle obbligazioni alimentari.
La legge nazionale del figlio regola anche le condizioni per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale, in
particolare: le condizioni di ammissibilità di tale azione (cfr. l’art. 274
c.c., che subordina l’ammissione dell’azione ad un esame preliminare
e sommario da parte del tribunale); i termini entro i quali l’azione può
essere esercitata; la legittimazione attiva e passiva e la possibilità di
agire nell’interesse del minore.
Per quanto riguarda la prova della paternità, che in questa materia ha spesso un’importanza decisiva, occorre distinguere. L’ammissibilità di una certa prova (in particolare, le prove ematologiche e genetiche), nonché le conseguenze che il giudice può o deve trarne, sono
questioni che rientrano a pieno titolo nella disciplina della filiazione.
Si tratta, in altri termini, di norme probatorie sostanziali e non meramente processuali. Occorre però assicurarsi preliminarmente che
quel tipo di prova sia ammesso, in termini generali, dall’ordinamento
del foro, perché altrimenti i giudici non sarebbero in grado di amministrarla.
b) Legge nazionale del presunto genitore?
Secondo il tenore letterale dell’art. 33, 2° comma, la competenza
alternativa della legge nazionale dei genitori vale soltanto per la filiazione legittima, e non per la filiazione naturale. Se si segue un’interpretazione letterale, dunque, l’accertamento giudiziale della paternità
o della maternità naturale è possibile soltanto alle condizioni previste
dalla legge nazionale del figlio. Se tali condizioni non sono soddisfat-
353
te, lo status di figlio deve essere negato, anche se la legge di uno dei
genitori sarebbe più favorevole.
Secondo l’opinione più diffusa tra i commentatori, tuttavia, il
mancato riferimento alla filiazione naturale costituisce una lacuna
della legge. Questa opinione si basa sul rilievo che il favor filiationis è
stato accolto non soltanto per la costituzione dello status di figlio legittimo, ma anche per il riconoscimento di figlio naturale che, a norma
dell’art. 35 legge di riforma, è regolato dalla legge nazionale del figlio
al momento della nascita o, se più favorevole, dalla legge nazionale del
soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene.
Sarebbe quindi illogico (e costituzionalmente illegittimo) escludere
l’applicazione della legge nazionale del presunto genitore nel caso di
ricerca giudiziale della paternità o della maternità.
Una soluzione intermedia potrebbe essere trovata, sul piano dell’interpretazione, attribuendo un significato ampio al criterio di collegamento della “legge nazionale del figlio“ e facendovi rientrare anche
la legge dello Stato di cui questi acquisterebbe la cittadinanza in caso
di accertamento della paternità o della maternità.
Se la legge nazionale del genitore è applicabile alla filiazione
naturale, essa regola, un concorso alternativo con la legge nazionale del figlio, tutte le questioni che abbiamo menzionato sopra.
c) Rinvio.
È possibile che la legge nazionale del figlio non “voglia” essere applicata, ma renda applicabile la legge italiana o la legge di uno Stato
terzo. Si ha allora un caso di rinvio che il giudice italiano deve seguire nei casi indicati dall’art. 13 legge di riforma.
Tra le condizioni previste da questa disposizione occorre tener conto delle condizioni generali, cui l’ordinamento subordina in ogni caso
l’operatività del rinvio (art. 13, 1° comma), e delle condizioni speciali,
previste specificamente in materia di filiazione (art. 13, 3° comma).
Secondo l’art. 13, 1° comma, si tiene conto del rinvio in due casi:
a) se si tratta di rinvio “indietro”, cioè quando la norma di conflitto
del diritto straniero rende applicabile il diritto italiano; b) se si tratta
di rinvio “oltre”, cioè quando la norma di conflitto del diritto straniero rende applicabile la legge di uno Stato terzo, ma soltanto alla
condizione che la legge dello Stato terzo “accetti” tale rinvio, cioè si
consideri essa stessa applicabile.
Secondo l’art. 13, 3° comma, in materia di filiazione, si deve tener
conto del rinvio (indietro o oltre) soltanto se esso conduce all’applicazione di una legge che consente lo stabilimento della filiazione.
354
Notiamo che il problema di rinvio non si pone neppure in una
serie di casi: a) quando la norma italiana sui conflitti di leggi rende
applicabile la legge italiana; b) quando la norma italiana sui conflitti di leggi rende applicabile un ordinamento straniero, le cui norme
sui conflitti di leggi adottano lo stesso criterio di collegamento di
quelle italiane (per es., la cittadinanza del minore); c) anche quando il diritto internazionale privato straniero segue un criterio di collegamento diverso da quello adottato in Italia, non vi è rinvio se i
risultati concreti sono gli stessi.
Può essere utile ricordare quali sono i criteri di collegamento
adottati in materia di filiazione in alcuni Stati europei.
In Francia, con la riforma del 3 gennaio 1972 si è abbandonata la
distinzione giurisprudenziale tra filiazione legittima e naturale. Per
entrambe è ora competente, in via principale, la legge nazionale della
madre; quella del figlio diviene applicabile soltanto se la madre è ignota (art. 311-14 del Code civil).
La legge nazionale della madre è applicabile anche a norma dell’art. 20 dell’EGBGB tedesco, ma soltanto per la filiazione naturale.
Alla filiazione legittima è invece applicabile, a norma dell’art. 19 1°
comma EGBGB, la legge regolatrice degli effetti generali del matrimonio, dunque la legge nazionale comune dei coniugi o quella della
loro comune residenza.
Nella legge svizzera di d.i. pr. (art. 68), si è privilegiato, in via principale, il collegamento con il paese della residenza abituale del figlio.
Tuttavia, se nessuno dei genitori è domiciliato in tale Stato, e se i genitori e il minore hanno la stessa cittadinanza, si applica la legge nazionale comune.
d) Ordine pubblico.
In passato, vi sono stati dei casi in cui il diritto straniero applicabile
in materia di filiazione è stato rifiutato per ragioni di ordine pubblico.
In particolare, la Corte di cassazione, nel noto caso “Maradona”
(2), ha avuto occasione di affermare che contrasta con l’ordine pubblico italiano una legge straniera la quale stabilisca il carattere personale dell’azione di accertamento del rapporto di filiazione naturale
senza prevedere alcuna possibilità di sostituzione neanche per i minori “poiché pone il minore straniero nell’impossibilità di esercitare detta azione fin quando non abbia raggiunto la maggiore età”.
(2) Cass. 21 marzo 1990 n. 2350, Giust. civ., I, p. 1739.
355
A fortiori, si deve reputare contraria all’o.p. italiano una legge straniera che escluda la possibilità di accertamento giudiziario della paternità naturale o che la sottoponga a termini (in Italia, l’azione è imprescrittibile riguardo al figlio: art. 270 c.c.).
Secondo una parte della dottrina (3), invece, l’ordine pubblico non
può più intervenire per scartare una legge straniera che consente l’accertamento della filiazione a condizioni più ampie o più restrittive di
quelle previste dalla legge italiana. Ciò perché il principio di ordine
pubblico del favor filiationis è già stato tenuto in considerazione per la
determinazione della legge applicabile e non potrebbe nuovamente intervenire nel momento dell’applicazione del diritto straniero.
1.4. - Il riconoscimento della filiazione naturale.
Un breve cenno al riconoscimento della filiazione naturale, visto
che i Tribunali per Minorenni sono competenti a norma dell’art. 250 c.c..
A norma dell’art. 35, 1° comma, legge di riforma:
Le condizioni per il riconoscimento del figlio naturale sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o, se
più favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene.
a) In materia di filiazione naturale, il principio del favor filiationis
ha trovato espressione in una regola speciale relativa al riconoscimento di figlio naturale. Oltre alla legge nazionale del figlio al momento
della nascita, l’art. 35 rende applicabile la legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, se tale legge consente il riconoscimento a
condizioni più favorevoli.
In virtù di questa disposizione, un figlio adulterino od incestuoso
può essere riconosciuto alla stregua della legge nazionale del genitore,
anche se il riconoscimento è inammissibile secondo la legge nazionale del figlio. Altra questione regolata dall’art. 35 1° comma è quella dell’ammissibilità del riconoscimento contrastante con lo stato di figlio
legittimo o legittimato di cui gode il figlio. Per contro, gli effetti del riconoscimento riguardo al genitore che lo ha compiuto o ai suoi familiari, nonché le condizioni per l’impugnazione (condizioni, legittimazione, termini, effetti) sono soggette esclusivamente alla legge nazionale del figlio.
(3) CARELLA, in NLCC, 1996, p. 449.
356
Più complessa è la questione relativa alla necessità del consenso
del figlio. Non è dubbio che si tratti di una “condizione del riconoscimento”, ma sarebbe contraddittorio ammettere che si possa prescindere da tale consenso, prescritto dalla legge nazionale del figlio,
soltanto perché la legge nazionale del genitore non lo richiede. In tal
modo, si finirebbe per ignorare proprio l’interesse del figlio, alla cui
tutela il favor filiationis dell’art. 35 è preordinato. Riteniamo pertanto
che il consenso del figlio sia necessario se richiesto dalla sua legge
nazionale.
Questo limite al principio del favor filiationis è espressamente
regolato, in Germania, dall’art. 23 EGBGB, che impone di applicare la legge nazionale del figlio alla necessità ed alle modalità di
manifestazione del consenso. Nel nuovo sistema italiano, una
norma analoga è prevista dall’art. 38 2° comma che, in materia di
adozione, fa salva la legge del nazionale dell’adottando (ma soltanto maggiorenne), per la disciplina dei consensi che essa eventualmente preveda.
La stessa soluzione vale anche quando per il riconoscimento di figli minori di una certa età la legge nazionale del minore richieda il
consenso del genitore che ha già effettuato il riconoscimento o di altri
familiari. Per evitare che ciò impedisca un riconoscimento che sarebbe nell’interesse del minore, dev’essere prevista la possibilità di supplire al diniego di consenso con un’autorizzazione giudiziaria (cfr.
l’art. 250 4° comma c.c.). Se la legge straniera non prevede tale meccanismo di garanzia, si potrebbe ipotizzare un contrasto con l’ordine
pubblico: in tal caso, sarà possibile far ricorso alla legge italiana.
In effetti, dopo l’entrata in vigore della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo non si può più dubitare che l’interesse del minore sia un principio di ordine pubblico internazionale. Il diritto tedesco fornisce ancora una volta una conferma della legittimità di questa costruzione: l’art. 23 EGBGB, nella sua parte finale, stabilisce infatti che la legge tedesca dev’essere applicata, in
sostituzione di quella nazionale del minore, quando il bene del figlio
lo richieda.
1.5. - Rapporti tra genitori e figli.
A norma dell’art. 36:
I rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli, compresa la potestà dei genitori, sono regolati dalla legge nazionale
del figlio.
357
a) Il criterio di collegamento adottato presenta diversi vantaggi. In
primo luogo, permette di evitare i problemi di coordinamento cui da
adito l’applicazione della legge dei genitori, nel caso che questi abbiano diversa cittadinanza.
Ricordiamo che l’art. 20 disp. prel. risolveva tale problema rendendo applicabile la legge nazionale del padre. Tale disposizione
venne dichiarata incostituzionale con sentenza n. 477 del 1987 per
violazione con il principio di eguaglianza (sopra, p. …) (4). In seguito a tale sentenza, i rapporti tra genitori e figli restavano soggetti
alle leggi nazionali di entrambi i genitori, applicate cumulativamente. Solo una parte della dottrina si era dichiarata favorevole
all’applicazione della legge nazionale del figlio.
In secondo luogo, esso tiene conto della centralità dell’interesse
del figlio, al quale è ispirata la normativa di diritto interno e che è ora
sancita anche nel diritto internazionale dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo.
Infine, l’applicazione della legge nazionale corrisponde alla soluzione accolta dall’art. 3 della Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961,
recentemente ratificata dall’Italia, per la disciplina dei rapporti di autorità costituiti di pieno diritto (rapporti ex lege), il più importante dei
quali è appunto la potestà dei genitori.
A differenza dell’art. 33, che si riferisce al momento della nascita,
l’art. 36 non precisa quale legge nazionale debba essere presa in considerazione nel caso di mutamento di cittadinanza da parte del figlio.
Ci sembra che decisiva debba essere la cittadinanza attuale, cioè quella posseduta dal figlio nel momento in cui si pone un problema di
disciplina giuridica del rapporto. Sarebbe assurdo, infatti, applicare la
legge di un paese con cui il soggetto principalmente interessato non
presenta più un legame significativo. Ne consegue che eventuali
mutamenti di cittadinanza conducono ad un mutamento della legge
applicabile al rapporto.
Qualora il figlio abbia più cittadinanze, la soluzione è fornita dalla
regola generale dell’art. 19 2° comma, a norma del quale la cittadinanza italiana prevale, mentre – nel concorso tra più cittadinanze straniere – si deve applicare la legge dello Stato con cui la persona ha il
collegamento più stretto. Per effetto di queste regole, anche l’acquisto
di una seconda cittadinanza può comportare un mutamento della leg-
(4) Corte Cost. 10 dicembre 1987 n. 477, Foro it., 1988, I, 1455, nota PAGANO.
358
ge regolatrice dei rapporti tra il figlio ed i genitori (o uno di essi), con
risultati non sempre soddisfacenti.
Può capitare, ad esempio, che i rapporti tra un figlio e la madre
straniera – sottoposti inizialmente alla legge della loro cittadinanza
comune – vengano ad essere regolati dalla legge italiana in conseguenza del riconoscimento da parte del padre, cittadino italiano, e
del conseguente acquisto automatico della cittadinanza italiana iure
sanguinis.
Ciò non appare ragionevole, soprattutto quando i due soggetti
del rapporto (madre e figlio) sono residenti all’estero. Sarebbe stato
preferibile prevedere dei criteri di collegamento differenziati, tenendo conto della cittadinanza comune delle parti e del luogo di residenza.
b) La legge determinata dall’art. 36 regola, in primo luogo, i diritti e doveri reciproci di genitori e figli: vi rientrano gli obblighi di assistenza, morale e materiale, e gli obblighi di educazione e di istruzione. Per quanto riguarda gli obblighi alimentari, tuttavia, la legge applicabile è quella determinata dalle Convenzioni de L’Aja del 1956 e
del 1973.
Anche per la disciplina della potestà dei genitori bisogna tener
conto di una Convenzione internazionale, quella de L’Aja del 1961 sulla protezione dei minori sulla quale ci soffermeremo in seguito. L’art.
3 della Convenzione adotta comunque, per i c.d. rapporti ex lege (tra
cui appunto la potestà parentale), lo stesso criterio di collegamento
dell’art. 36. La legge nazionale del figlio, dunque, stabilisce chi è titolare della potestà sui figli minori, le modalità di esercizio di tale potestà, i poteri di amministrazione e rappresentanza spettanti al genitore
sui beni del figlio.
La disposizione dell’art. 3 è una delle più controverse della Convenzione, nata dal compromesso che si è voluto realizzare, nell’ambito della nona sessione della Conferenza de L’Aja, tra la competenza delle autorità e della legge della residenza abituale, da un lato, e
il principio di nazionalità, dall’altro. A norma dell’art. 3, i rapporti
di autorità costituiti “di pieno diritto” secondo la legge nazionale del
minore sono riconosciuti negli altri Stati contraenti.
A giudizio della maggioranza dei commentatori italiani, questa
disposizione contiene una vera e propria regola sulla legge applicabile. Resta da determinare che cosa si debba intendere per rapporti
di autorità costituiti “di pieno diritto” (ex lege).
Si tratta di rapporti giuridici che trovano il loro fondamento
immediato in una norma di legge e la cui costituzione non presuppone l’intervento di alcuna autorità amministrativa o giurisdiziona-
359
le. L’ipotesi più importante sembra essere quella della potestà dei
genitori.
Nel caso di minore italiano, pertanto, la legge italiana si applica pertanto sia alla potestà di entrambi i genitori ex art. 316-317-bis
c.c., sia a quella attribuita ex lege al genitore superstite, sia a quella
spettante al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale ex art.
317-bis, primo comma, c.c.. Per contro, l’affidamento del figlio minore ad uno dei genitori non conviventi, separati o divorziati presuppone una decisione da parte del giudice: si tratta – come vedremo – di una misura protettiva.
Lo stesso vale per la tutela che, nel nostro ordinamento, ha
sempre carattere dativo (art. 346 c.c.). In alcuni ordinamenti stranieri la tutela o la curatela sono attribuite ex lege ad un parente del
minore oppure ad un ente pubblico e rientrano pertanto nell’art. 3
della Convenzione (5).
I provvedimenti ablativi della potestà dei genitori e le altre misure che possono incidere sul suo esercizio, sono delle misure protettive,
regolate dalla Convenzione de L’Aja del 1961 (v. oltre). È in quel quadro che deve essere risolto il problema della sfera di applicazione degli
artt. 330, 333 e 336 c.c., norme che erano state considerate di applicazione necessaria dalla giurisprudenza (6), nonché la questione della
contrarietà all’ordine pubblico di una legge straniera che non preveda
la decadenza dalla potestà neppure nei casi più gravi (7).
1.6. - Giurisdizione in materia di filiazione.
A norma dell’art. 37:
In materia di filiazione e di rapporti personali fra genitori e figli la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi previsti rispettivamente dagli articoli 3 e 9, anche quando uno dei genitori o
il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia.
Anche in materia di filiazione si assiste ad un notevole ampiamento della giurisdizione italiana: la cittadinanza italiana di una delle parti è sufficiente a rendere competenti i tribunali italiani, anche se tutte
(5) Di tal genere è l’istituto tedesco della Amtspflegschaft: a norma del par. 1709
BGB, lo Jugendamt assume ex lege dal momento della nascita di un figlio naturale le
funzioni di curatore (Pfleger), ai fini indicati dal par. 1706 (per l’accertamento della paternità, l’esercizio di diritti alimentari e successori).
(6) Trib. Minorenni Milano, 21 gennaio 1972 (decr.), Foro pad., 1972, I, 626.
(7) Trib. Minorenni Bari, 4 giugno 1987, RDI, 1988, p. 227.
360
le persone interessate sono residenti all’estero. Il criterio ci sembra eccessivo: di fronte a una tale estensione della competenza, vi è il rischio
che le decisioni italiane non possano essere riconosciute all’estero. In
materia di protezione dei minori, occorre tener conto dei fori imperativi previsti dalla Convenzione de L’Aja del 1961.
2. – Protezione dei minori.
2.1. - Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961: ambito di applicazione
personale e spaziale.
A norma dell’art. 42, primo comma, legge di riforma:
La protezione dei minori è in ogni caso regolata dalla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e
sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva con la legge 24 ottobre 1980, n. 742.
La ratifica di questa Convenzione, già autorizzata con la L.
742/1980, era stata rinviata a più riprese in attesa dell’emanazione di
norme di attuazione, che sono state finalmente adottate con l. 15 gennaio 1994 n. 64. Il deposito dello strumento di ratifica è avvenuto il 22
febbraio 1995 e la Convenzione è entrata in vigore per l’Italia il 23 aprile 1995. Gli altri Stati contraenti sono: Austria, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Spagna, Svizzera e Turchia.
Mette conto segnalare che alcuni giudici di merito avevano già
applicato la Convenzione, ritendola entrata in vigore anche per il nostro paese per effetto dell’ordine di esecuzione contenuto nella legge
del 1980 (8).
In ordine all’ambito di applicazione personale e spaziale, occorre
distinguere tra la sfera di efficacia rivendicata dalle disposizioni convenzionali e quella, notevolmente più ampia, che ad esse viene attribuita in Italia dall’art. 42 della legge di riforma.
(8) Trib. Minorenni Caltanissetta, 9 febbraio 1981 (ord.), in Dir. fam. pers., 1981,
pp. 556 ss., con nota adesiva di F. TORTORICI; Trib. Minorenni Palermo, 3 marzo 1987
(decr.), ivi, 1988, pp. 276 ss., nella cui motivazione l’atto di ratifica ed il suo deposito
vengono, un po’ superficialmente, “dati per avvenuti” (sic!); da ultimo Trib. Minorenni
Venezia, 19 maggio 1992 (decr.), ivi, 1993, pp. 1127 ss., che si fonda sugli artt. 8 e 9
della Convenzione per giustificare l’apertura di una tutela a favore di un profugo albanese minorenne, immigrato in Italia senza i genitori.
361
A norma del suo art. 12, la Convenzione si applica soltanto a chi è
considerato minore sia dalla sua legge nazionale, sia da quella dello
Stato in cui ha la sua residenza abituale.
Un’ulteriore limitazione del campo di applicazione della Convenzione discende dall’art. 13, primo comma, ai sensi del quale essa si applica unicamente ai minori che hanno la propria residenza abituale in
uno Stato contraente. Inoltre, il secondo comma precisa che tutte le
competenze attribuite dalla Convenzione alle autorità dello Stato di
cui il minore è cittadino, sono riservate ai soli Stati contraenti. La Convenzione non rivendica dunque un campo di applicazione universale.
I limiti al campo di applicazione della Convenzione che risultano
dagli art. 12 e 13 non valgono per l’Italia in seguito all’entrata in vigore della legge di riforma, il cui art. 42, secondo comma, stabilisce
espressamente che
Le disposizioni della Convenzione si applicano anche alle persone considerate minori soltanto dalla loro legge nazionale, nonché
alle persone la cui residenza abituale non si trova in uno degli Stati
contraenti.
L’allargamento dell’ambito di applicazione delle norme di origine
convenzionale a tutte le persone considerate minori dalla loro legge
nazionale consentirà di coordinare la disciplina della protezione dei
minori con la norma generale sulla capacità di agire, la quale resta
fondata, come si è detto, sul criterio della cittadinanza (art. 23).
L’estensione ai minori la cui residenza abituale non si trova in uno
degli Stati contraenti conferisce al regime convenzionale, dal punto di
vista italiano, una vera e propria efficacia erga omnes: esso sostituisce
completamente le norme di conflitto interne, beninteso nell’ambito
materiale coperto dalla Convenzione. Il campo di applicazione ratione
materiae della Convenzione non è definito in termini generali, ma deve
essere ricavato indirettamente dal contenuto delle singole norme convenzionali. Vi ritorneremo nel seguito.
Preliminarmente, è utile ribadire che la capacità di agire non
rientra nell’oggetto convenzionale: essa è regolata dalla legge nazionale della persona, come previsto dall’art. 23 legge di riforma. Si
deve rilevare peraltro che gli istituti protettivi regolati dalla Convenzione (misure protettive del minore e rapporti di autorità ex lege)
hanno frequentemente la funzione di integrare la capacità del minore (si pensi a certe autorizzazioni) o di assicurargli un rappresentante legale (genitore, tutore, curatore) per il compimento di determinati atti. In questi casi, la Convenzione è certamente applicabile.
362
Ulteriori esclusioni si desumono dalla necessità di coordinare
la Convenzione del 1961 con altri strumenti predisposti dalla Conferenza de L’Aja. L’istituto dell’adozione, ad esempio, per quanto
assolva certamente una funzione protettiva, è escluso dall’ambito di
applicazione convenzionale, poiché esso forma oggetto di due convenzioni ad hoc: la Convenzione de L’Aja sulla competenza, la legge
applicabile ed il riconoscimento delle adozioni del 15 novembre
1965 (elaborata anch’essa nel corso della nona sessione della Conferenza) e quella sulla protezione dei fanciulli e la cooperazione in
materia di adozione internazionale del 12 aprile 1994.
Altra materia per la quale esistono convenzioni specifiche è
quella degli alimenti. È vero che sia le Convenzioni de L’Aja del
1956 e del 1958, sia quelle del 1973 dettano una disciplina della legge applicabile e del riconoscimento di sentenze, ma non si occupano della questione della competenza internazionale (ben inteso, diretta) in materia alimentare: si potrebbe essere tentati di far ricorso, a tale effetto, alla Convenzione del 1961. Tale scelta solleverebbe gravi problemi di coordinamento tra i diversi strumenti convenzionali ed è respinta dalla grande maggioranza degli interpreti. Si
deve rilevare inoltre che la competenza internazionale in materia di
alimenti è disciplinata anche dalle Convenzioni di Bruxelles e di Lugano (art. 5, n. 2).
La Convenzione regola, in particolare, la competenza internazionale per l’emanazione di misure protettive del minore, nonché la legge
applicabile a tali misure. Ci limiteremo ad analizzare qui i casi in cui
i giudici italiani hanno competenza per adottare delle misure protettive in favore di un minore straniero. Si tratta delle ipotesi seguenti:
A) il minore straniero è residente in Italia
B) sussiste un grave pericolo per la persona o i beni del minore
C) vi è una situazione di urgenza.
2.2. - Minore straniero residente in Italia.
La regola fondamentale della Convenzione (art. 1) riconosce alle
autorità amministrative e giudiziarie dello Stato in cui il minore ha la
sua residenza abituale la competenza ad adottare tutte le misure dirette alla protezione della persona del minore e dei suoi beni.
Le ragioni di questa attribuzione di competenza sono ben note e
largamente condivise. Le autorità del luogo della residenza, in considerazione della loro prossimità, sono in grado di conoscere ed apprezzare nel modo migliore la situazione e l’interesse del minore e di intervenire con rapidità ed efficacia ogni qualvolta si manifesta un’esigenza di protezione. Inoltre, le misure protettive così adottate possono es-
363
sere eseguite in loco, senza problemi di riconoscimento e di esecuzione in altro paese.
Ad esigenze di semplicità e di efficacia è ispirata anche la norma
dell’art. 2, secondo il quale le misure adottate dall’autorità del paese
della residenza sono quelle previste dalla sua legge interna. La coincidenza tra forum e ius risparmia alle autorità competenti tutte le difficoltà che sono normalmente connesse con l’accertamento e l’applicazione del diritto straniero.
Le misure adottate sulla base degli artt. 1 e 2 restano in vigore anche in caso di trasferimento della residenza abituale del minore in un
altro Stato contraente, fintantoché le nuove autorità competenti non
le abbiano revocate o modificate, previo avviso alle autorità del paese
di provenienza (art. 5, primo e secondo comma). Inoltre, le misure in
questione sono riconosciute automaticamente in tutti gli altri Stati
contraenti ex art. 7.
Dal punto di vista italiano, queste norme introducono delle novità certamente significative, ma non rivoluzionano completamente
il sistema previgente. In seguito all’entrata in vigore della Convenzione, le autorità italiane possono prendere a favore dei minori stranieri abitualmente residenti in Italia tutte le misure protettive previste dal diritto interno, e non soltanto quelle giustificate da una situazione di urgenza, come consentito in precedenza dall’art. 37 l. adoz..
a) Misure protettive
Veniamo ora all’esame di alcuni problemi interpretativi sollevati
dagli artt. 1 e 2. In primo luogo, si tratta di definire le misure protettive di cui all’art. 1.
In termini generali si può dire, innanzitutto, che la Convenzione
si applica alle misure volte alla protezione sia della persona sia dei
beni del minore. Ciò che conta è che si tratti di provvedimenti della
pubblica autorità, sia amministrativa sia giurisdizionale, aventi lo scopo di proteggere il minore.
Dal punto di vista italiano, l’esempio più immediato di misura
protettiva è fornito dalla tutela (art. 343 ss. c.c.). Giova rilevare che, nel
quadro di tale istituto, costituiscono misure protettive non soltanto la
nomina del tutore e del protutore ex art. 346, ma anche i provvedimenti urgenti che il giudice può disporre prima della nomina del tutore (art. 361 c.c.), i provvedimenti del giudice tutelare circa l’educazione del minore e l’amministrazione dei suoi beni (art. 371 c.c.), nonché
la rimozione e la sospensione del tutore (art. 384 c.c.).
Tipiche misure di protezione sono gli interventi previsti dall’art.
364
403 c.c. per il caso che il minore si trovi in uno stato di abbandono e
per altri casi di estrema gravità, nonché l’affidamento a una famiglia o
a un istituto, regolato dagli artt. 2-5 della legge sull’adozione.
A nostro parere, tra le misure di protezione rientrano anche i vari
provvedimenti che possono essere presi per la protezione del minore
emancipato (in Italia, a norma degli artt. 392-397 c.c.: nomina e rimozione del curatore, autorizzazione per atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nomina di un curatore speciale, autorizzazione all’esercizio
di un’impresa commerciale), fermo restando che i presupposti ed eventualmente la pronuncia dell’emancipazione esorbitano dall’oggetto
della Convenzione, in quanto questioni attinenti alla capacità d’agire.
Costituiscono misure protettive anche gli interventi diretti a porre
termine o a modificare un rapporto di autorità ex lege: così, in Italia,
la decadenza dalla potestà dei genitori ex art. 330, nonché gli altri provvedimenti che possono essere presi contro uno dei genitori che tenga
una condotta pregiudizievole al figlio a norma degli artt. 333 e 334 c.c.
o, in caso d’urgenza, dell’art. 336 c.c..
Molto controversa è invece la qualificazione di quelle misure che si
limitano ad integrare o ad attuare un rapporto ex lege o un altro regime
protettivo già costituito in base alla legge nazionale o di una residenza
precedente, senza modificarlo nei suoi tratti essenziali (misure a carattere meramente attuativo, Durchführungsmaßnahmen). Intendiamo
riferirci, ad esempio, ai provvedimenti volti a risolvere un eventuale
contrasto tra i genitori (es. art. 316, terzo e quinto comma, c.c.), alla
nomina di un curatore speciale nel caso di conflitto di interessi (art.
320, ultimo comma, c.c.) o nel caso di impedimento o rifiuto di uno o
di entrambi i genitori (art. 321 c.c.) e, in particolare, alle autorizzazioni al compimento di determinati atti eccedenti l’ordinaria amministrazione da parte dei genitori o del tutore (ex art. 320 o 364-376 c.c.).
Sorgono in questi casi due problemi distinti. Il primo è di sapere
quale legge statuisce sulla necessità e sui presupposti di queste misure. Per quanto la Convenzione non lo precisi in termini chiari, ci sembra che tali misure – dato il loro carattere non autonomo – debbano
essere disciplinate dalla stessa legge che regola il regime di protezione
al quale esse ineriscono (9): se si tratta di un rapporto ex lege, si appli-
(9) L’unico appiglio si può trovare negli artt. 2, secondo comma, e 4, secondo
comma, laddove si precisa che la legge applicabile alle misure protettive (rispettivamente, quella della residenza abituale e quella nazionale del minore), ne determina anche “le condizioni di istituzione, di modificazione e di cessazione” (il corsivo è nostro).
365
cherà dunque la legge nazionale ex art. 3, se si tratta di un istituto disposto da un’autorità, la legge (nazionale o della residenza precedente) di cui tale autorità ha fatto applicazione.
L’altro problema è quello della competenza a prendere le suddette
misure di attuazione. Secondo l’opinione prevalente, questi interventi,
dato il loro carattere non autonomo, non costituiscono misure protettive ai sensi dell’art. 1 della Convenzione e non appartengono dunque
alla competenza delle autorità della residenza. Ciò obbliga l’interprete
a costruire delle regole alternative di competenza, basandosi sull’art. 4
(autorità nazionali), sull’art. 6 (delegazione di competenze dalle autorità nazionali a quelle della residenza) o, infine, sull’analogia. Ne deriva un sistema estremamente complesso. Ci sembra preferibile l’altra
tesi – forse meno rigorosa sul piano sistematico, ma nettamente più
semplice – secondo la quale anche queste misure rientrano nella definizione dell’art. 1, sicché le autorità della residenza abituale possono
sempre intervenire.
Del resto, nessuno dubita che tra le misure protettive dell’art. 1
rientrino le decisioni relative all’affidamento del minore e gli altri provvedimenti che vengono presi dal giudice a seguito di riconoscimento
del figlio naturale (es. art. 252 c.c.), nonché in caso di separazione o di
divorzio dei genitori (es. art. 155 c.c. e art. 6 della legge sul divorzio),
sebbene anche tali interventi si limitino talvolta a regolare l’esercizio
della potestà dei genitori, senza farla venire meno (cfr. art. 317 c.c.).
Alcune incertezze si sono manifestate in ordine alla qualificazione
dei provvedimenti relativi al c.d. diritto di visita del genitore non convivente, probabilmente perché si è dubitato della funzione protettiva
di tali misure (10). Questi dubbi devono considerarsi del tutto superati a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione sui diritti del fanciullo, il cui art. 10, secondo comma, sancisce il diritto del minore ad
avere relazioni e contatti regolari con entrambi i genitori, anche se
essi vivono separati ed in due Stati differenti (11).
(10) L’estraneità di tali provvedimenti all’oggetto della Convenzione è stata affermata dal Tribunale de L’Aja in una decisione del 20 novembre 1980, riassunta e criticata da H. DUINTJER TEBBENS, Abänderung einer deutschen Umgangsregelung in den
Niederlanden, in IPRax, 1981, pp. 223-225. In senso opposto, i giudici tedeschi e francesi: Landgericht Heilbronn, 10 ottobre 1972, in Die Justiz, 1972, p. 389; Cour de cassation, 16 dicembre 1986, in Revue critique, 1987, p. 401.
(11) L’importanza pratica della questione è confermata dall’esistenza di disposizioni specifiche relative ai provvedimenti sul diritto di visita tanto nella Convenzione europea del 20 maggio 1980 (art. 11) quanto in quella de L’Aja del 25 ottobre 1980 (art. 21).
366
Infine, è una misura protettiva anche la nomina di un curatore speciale per l’esercizio di determinate azioni giudiziarie nell’interesse del
minore (per l’azione di disconoscimento della paternità, per l’impugnazione del riconoscimento e per l’azione di responsabilità per il mantenimento e l’educazione ai sensi degli artt. 244, 264, 273 e 279 c.c.),
sebbene le azioni in questione esulino dall’oggetto convenzionale.
Certamente estranee all’oggetto della Convenzione sono, invece, le
sanzioni di carattere penale e le misure di prevenzione e di sicurezza,
che non hanno la funzione prevalente di proteggere il minore, nonchè
le disposizioni della legislazione sociale, che non contemplano misure
di carattere individuale.
b) Residenza abituale
Resta da precisare il significato del criterio di collegamento della
“residenza abituale”, che non è definito in alcuna norma convenzionale.
Ci sembra che il criterio della residenza abituale nella Convenzione del 1961 debba essere interpretato in modo autonomo, non soltanto dal diritto interno (com’è opinione generale), ma anche dalle altre
convenzioni internazionali in cui quello stesso criterio è utilizzato.
Nella materia regolata dalla Convenzione de quo, il criterio decisivo
per la risoluzione di eventuali dubbi interpretativi è costituito dall’interesse del minore, com’è imposto oggi dall’art. 3 della Convenzione
sui diritti del fanciullo.
La determinazione della residenza abituale costituisce un problema nel caso di spostamento della residenza del minore: in quale momento si può dire che il luogo della nuova dimora assurge a vera e propria residenza abituale? Come deve essere interpretato il requisito dell’abitualità?
Si ammette generalmente che sia necessario attendere il decorso
di un certo periodo di tempo, affinché possa realizzarsi una certa integrazione sociale del minore nel nuovo paese (12). In alcuni Stati contraenti, la giurisprudenza, per concretizzare tali indicazioni, ha adottato un criterio empirico, giudicando necessario un periodo di residenza nel paese di almeno sei mesi.
(12) I fattori rilevanti per giudicare tale integrazione (nella dottrina tedesca, soziale Eingliederung) si desumono dalla normale vita di un bambino: contatti con genitori
e parenti, asilo e scuola, associazioni giovanili con scopi sportivi, educativi, religiosi.
Importante può essere anche la conoscenza della lingua.
367
Tale soluzione appare tuttavia arbitraria, perché non tiene conto
del fatto che il carattere abituale della residenza può risultare, oltre
che dalla durata, anche dall’intenzione del minore, dei suoi genitori o
delle persone con egli cui convive, di stabilirsi in un certo paese per un
periodo di tempo indeterminato e comunque non breve. In tutti i casi
di vero e proprio trasferimento della famiglia in un altro paese con l’intenzione di trattenervisi per un lungo periodo (per esempio, per ragioni di lavoro), si deve ritenere che l’acquisto della nuova residenza abituale sia immediato. Questa interpretazione presenta il vantaggio di
consentire alle autorità della nuova residenza di intervenire immediatamente per la protezione del minore nel nuovo ambiente sociale in cui
viene inserito. Ciò sembra opportuno, sia perché nel nuovo Stato il
minore può andare incontro a problemi sinora sconosciuti, che le
autorità locali possono meglio valutare, sia perché è probabile che le
autorità del paese di provenienza abbiano maggiori difficoltà e siano
meno motivate ad intervenire. Contro questi argomenti, si deve peraltro considerare che l’autorità del paese della residenza precedente ha,
di norma, una migliore conoscenza delle condizioni personali e familiari del minore, circostanza assai preziosa soprattutto quando l’esigenza di protezione nasce da una situazione già consolidata nel tempo.
Per evitare che tale patrimonio di conoscenza e di esperienza vada
perduto è certamente auspicabile che il sistema di informazione e di
cooperazione tra le autorità degli Stati contraenti venga reso più efficiente. Abbiamo affermato che, in certi casi, il carattere abituale della
nuova residenza, può risultare dall’intenzione delle persone con cui il
minore convive. Per evitare ogni equivoco, si deve peraltro sottolineare che decisiva è la residenza del minore, non quella dei suoi genitori o
parenti. L’interesse del minore, assolutamente prioritario in subiecta
materia, impone di non tener conto di eventuali situazioni di “domicilio dipendente”, previste da una delle leggi potenzialmente applicabili.
Particolarmente difficile da determinare è la residenza abituale di
un minore che trascorra diversi periodi dell’anno in paesi differenti,
ad esempio perché vive alternativamente con l’uno o con l’altro dei genitori separati o perché frequenta un collegio in un paese diverso da
quello in cui lavorano e risiedono i genitori (13).
(13) In un caso di questo tipo, la Corte federale tedesca, 5 febbraio 1975, in Neue
Juristische Wochenschrift, 1975, p. 1068, ha deciso che un bambino spagnolo che frequenta un collegio in Spagna, conserva la residenza abituale presso l’abitazione dei
genitori, in Germania, anche se vi trascorre soltanto le ferie.
368
Ci si può chiedere se, in queste situazioni, non si debba ammettere l’esistenza contemporanea di due residenze, entrambe “abituali”, in
differenti paesi. Tale soluzione, peraltro, rischierebbe di moltiplicare
eccessivamente il numero degli Stati competenti, pregiudicando gli
obiettivi di uniformità perseguiti dalla Convenzione.
Non del tutto chiara è la rilevanza delle formalità e delle autorizzazioni amministrative che sono di regola richieste nel caso di spostamento della residenza in un altro paese. Si può dire che una famiglia
in attesa del rilascio di un permesso di soggiorno abbia già acquistato
una nuova residenza abituale? La rilevanza della questione è evidente,
se si tiene conto che spesso l’espletamento delle pratiche burocratiche
richiede un lungo periodo di tempo. Riteniamo che la risposta debba
essere negativa: l’assenza del permesso di soggiorno non esclude che il
minore sia residente nel paese con l’intenzione di permanervi. Diversa
appare l’ipotesi di immigrazione illegale (14): la precarietà della situazione e la possibilità di un’espulsione consigliano di limitare l’intervento dell’autorità locale ai casi di urgenza previsti dall’art. 9 della
Convenzione (sul quale v. infra).
In certe situazioni, il criterio della residenza abituale appare insufficiente a garantire un’adeguata protezione del minore. Così è
nelle ipotesi di minori che hanno chiesto asilo per ragioni politiche
oppure che cercano rifugio in un paese per sfuggire a situazioni di
guerra (per riassumere queste situazioni si suole parlare di enfants
internationalement déplacés).
Nel primo caso, nonostante sia provata l’intenzione di stabilirsi nel paese per un periodo relativamente lungo, il carattere precario della nuova dimora induce la prassi a negare l’esistenza di una
nuova residenza abituale fino al momento del riconoscimento dello
status di rifugiato. Nel caso dei profughi di guerra, lo spostamento
del minore (accompagnato o meno dai genitori o da altri parenti) è
per definizione temporaneo e come tale inidoneo a creare una nuova residenza abituale.
In questi casi, il minore non ha più una residenza abituale, oppure conserva la residenza che aveva nel paese di provenienza, le cui
autorità, peraltro, non possono o non hanno interesse ad intervenire. Ciò non esclude, tuttavia, che una forte esigenza di protezione
(14) Secondo il Landgericht di Berlino, 7 luglio 1978, in Der Amtsvormund, 1978,
p. 679, un minore turco, immigrato illegalmente, non acquista la residenza abituale,
nonostante la presentazione di una richiesta di asilo che il tribunale considera “manifestamente infondata”.
369
possa sorgere nello Stato dell’attuale dimora. È vero che la Convenzione, al già menzionato art. 9, attribuisce allo Stato locale il potere di adottare delle misure urgenti, ma tale competenza eccezionale
appare insufficiente nei casi in esame, sia perché spesso mancano i
presupposti dell’urgenza, sia perché la situazione può richiedere l’adozione di misure destinate a durare nel tempo.
Un regime speciale analogo dovrebbe essere previsto per far
fronte alle ipotesi di minori, in particolare adolescenti, che hanno
abbandonato la residenza familiare e si sono spostati oltre i confini
nazionali, seguendo il mercato della droga o della prostituzione o in
balia di organizzazioni criminali oppure alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Con riferimento a tutte queste situazioni drammatiche – ed in
attesa dei risultati cui si spera possano pervenire i lavori di revisione – è sin d’ora auspicabile il prevalere di un’interpretazione sufficientemente elastica ed ampia del concetto di residenza abituale,
così da consentire all’autorità del luogo in cui il minore si trova per
un periodo di tempo prolungato di provvedere alla sua protezione.
Bisogna evitare che interpretazioni eccessivamente formalistiche del
criterio della residenza abituale paralizzino l’intervento protettivo.
2.3. - Limiti alla competenza delle autorità della residenza in favore della
legge e delle autorità dello Stato nazionale.
a) Rapporti di autorità costituiti ex lege.
La competenza delle autorità e della legge della residenza abituale trova due limiti negli artt. 3 e 4 della Convenzione, allo scopo di realizzare un compromesso con il principio di nazionalità.
L’art. 3 stabilisce che i rapporti di autorità costituiti “di pieno diritto” secondo la legge nazionale del minore sono riconosciuti negli altri
Stati contraenti. Come abbiamo detto, l’art. 3 è una vera e propria norma sulla legge applicabile ai rapporti di autorità costituiti ex lege, cioè
a quei rapporti la cui costituzione non richiede l’emanazione di un
provvedimento da parte di un’autorità: tali rapporti sono soggetti alla
legge nazionale del minore.
Per quanto riguarda la potestà parentale, tale regola convenzionale coincide pienamente con quanto previsto dall’art. 36 della legge di
riforma, che rende applicabile la legge nazionale del figlio ai rapporti
tra genitori e figli.
La portata della riserva fatta dall’art. 1 all’art. 3 è controversa. Nella dottrina e nella giurisprudenza degli Stati contraenti si sono date tre
risposte distinte.
370
Secondo l’opinione più rigida, che si è definita in Germania come Schrankentheorie, l’esistenza di un rapporto ex lege nel senso dell’art. 3 esclude la competenza delle autorità del paese della residenza abituale (15). Queste conserverebbero la possibilità di intervenire, ma soltanto per adottare misure di contenuto attuativo o integrativo del rapporto ex lege (c.d. Durchführungsmaßnahmen, v. supra),
senza tuttavia poter incidere sull’esistenza e la titolarità del rapporto ex lege. Tale “barriera” verrebbe meno soltanto nei casi previsti
dagli artt. 8 e 9 della Convenzione, cioè in presenza di un grave pericolo per il minore e, rispettivamente, in caso d’urgenza.
È chiaro che, accogliendo questa interpretazione, l’intero impianto della Convenzione risulta profondamente alterato. La portata degli artt. 1 e 2 viene ridimensionata, mentre cresce, in misura eccessiva, l’importanza della legge nazionale e dei rapporti ex lege da
essa costituiti. A questa tesi, se ne è contrapposta un’altra che si
fonda – al contrario – su una lettura restrittiva dell’obbligo di riconoscimento di cui all’art. 3. Secondo questa “teoria del riconoscimento” (Anerkennungstheorie), maggioritaria in dottrina e accolta
dalla giurisprudenza di alcuni Stati contraenti (16), la riserva fatta
dall’art. 1 all’art. 3 ha il solo scopo di garantire la continuità dei rapporti ex lege anche in caso di trasferimento della residenza del minore, ma non comporta alcun limite alla competenza delle autorità del
paese della residenza prevista dall’art. 1. Tali autorità possono prendere le misure protettive previste dalla propria legge anche se esse
hanno l’effetto di modificare o estinguere il rapporto di autorità
preesistente, e lo possono fare indipendentemente dall’esistenza di
uno stato di pericolo o di urgenza.
In una posizione intermedia si situa la c.d. “teoria della legge
nazionale” (Heimatrechtstheorie), accolta soprattutto dalla dottrina
e dalla giurisprudenza tedesche (17) e austriache (18). Secondo que-
(15) In questo senso si era espressa la Corte federale tedesca nella sua prima pronuncia sulla Convenzione: 20 dicembre 1972, in Neue Juristische Wochenschrift, 1973,
pp. 417 ss..
(16) Hoge Raad olandese, 1° luglio 1982, in Nederlandse Jurisprudentie, 1983, n.
201, pp. 587-594; Tribunale federale svizzero, 24 novembre 1988, in ATF (Recueil officiel des arrêts), 114 II (1988), pp. 416 ss..
(17) Bundesgerichtshof tedesco, 11 aprile 1984, in IPRax, 1985, p. 40, con commento adesivo di E. JAYME, Gesetzliches Sorgerecht und Haager Minderjährigenschutzabkommen, ibidem, pp. 23 ss.. Nello stesso senso, vari Oberlandesgerichte: ad esempio,
quello di Celle, 5 dicembre 1989, in IPRax, 1991, p. 258, con nota di M. COESTER, ibidem, pp. 236 ss..
(18) Oberster Gerichtshof austriaco, 26 settembre 1990, in IPRax, 1993, p. 415, con
nota di I. MOTTL, Zulässigkeit und Umfang einer Besuchsrechtserweiterung nach dem
Haager Minderjährigenschutzabkommen, ibidem, pp. 417 ss..
371
sta tesi, l’esistenza di un rapporto ex lege non impedisce ai tribunali
del paese di residenza di adottare tutte le misure, anche non meramente integrative o attuative, previste dal diritto interno, purché tale intervento sia consentito anche dal diritto nazionale del minore: è
possibile ad esempio pronunciare la decadenza dalla potestà di uno
o di entrambi i genitori, nominare un tutore et similia, in conformità
a quanto previsto dalla legge della residenza, sempreché i presupposti per tali misure sussistano anche secondo la legge nazionale.
A nostro sommesso avviso, questa teoria della legge nazionale
non ha alcun fondamento positivo. Mette conto sottolineare che la
riserva dell’art. 3 è contenuta nell’art. 1 (cioè in una norma sulla
competenza), mentre, per quanto attiene la legge applicabile, l’art. 2
sancisce in modo netto ed inequivocabile il principio dell’unità di forum e ius. Pertanto, i casi sono due: o l’esistenza del rapporto ex lege
esclude la competenza delle autorità della legge abituale, oppure
impone loro soltanto l’obbligo di tener conto del rapporto preesistente nel momento in cui decidono se adottare una misura protettiva prevista dalla propria legge interna. Tertium non datur.
Di fronte a questa alternativa, ci sembra che ragioni sistematiche e teleologiche impongano di accogliere la soluzione più liberale, cioè quella che si è definita come teoria del riconoscimento. Non
si può ammettere, infatti, che la Convenzione imponga alle autorità
della residenza abituale del minore – cioè proprio a quelle autorità
che, all’art. 1, sono considerate come le più qualificate ad intervenire – di disinteressarsi della protezione dei minori residenti sul proprio territorio, in tutti i casi e per il solo fatto che la legge nazionale di quei minori prevede la costituzione di un rapporto ex lege. Né
si può dire che le competenze previste per il caso di pericolo grave
o di urgenza costituiscano un surrogato sufficiente. Tale interpretazione sembra oggi confortata dall’obbligo, imposto agli Stati contraenti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, di farsi carico della protezione dei minori, indipendentemente
dalla loro nazionalità.
Anche in presenza di un rapporto ex lege, dunque, le autorità della
residenza abituale possono prendere tutte le misure che il diritto interno prevede per assicurare la tutela degli interessi del minore. Nel valutare l’opportunità dell’intervento dovranno comunque tener conto del
rapporto di autorità previsto dalla legge nazionale, la cui esistenza – in
certi casi – può rendere superflua l’adozione di misure protettive (19).
(19) In altre parole, la funzione della riserva che l’art. 1 fa all’art. 3 è di evitare che
l’autorità della residenza motivi l’adozione di una misura protettiva con l’assenza di un
rapporto di autorità ex lege, quando questo è invece previsto dalla legge nazionale.
372
L’unico limite all’applicazione del diritto interno deriva da quanto
abbiamo detto in precedenza a proposito degli interventi meramente
integrativi o attuativi del rapporto ex lege: i presupposti di tali misure
devono essere valutati alla stregua del diritto nazionale del minore.
Riguardo all’art. 3, giova ancora rilevare che la Convenzione nulla
stabilisce per il caso che la legge nazionale del minore non preveda la
costituzione di un rapporto ex lege, mentre un tale rapporto sussisterebbe in base alla legge della residenza abituale. A rigore, tale rapporto non può essere applicato al minore straniero, perché l’applicazione
della legge della residenza è prevista soltanto per le misure protettive,
non per i rapporti ex lege: le autorità della residenza dovranno pertanto intervenire in base agli artt. 1 e 2.
b) Competenza delle autorità dello Stato nazionale.
Un limite più incisivo alla competenza delle autorità del paese
della residenza deriva dall’art. 4 della convenzione, a norma del quale
le autorità dello Stato di cui il minore è cittadino possono a loro volta
adottare delle misure protettive, quando l’interesse del minore lo richiede. Queste misure si basano sulla legge nazionale del minore: anche in questo caso la convenzione si preoccupa di garantire la coincidenza di forum e ius. L’unico limite posto a tale diritto delle autorità nazionali di avocare a sè la protezione del minore cittadino, anche se residente all’estero, ha carattere procedurale: le autorità nazionali, prima di intervenire, devono avvertire le autorità della residenza abituale.
Lo scopo di questa precauzione è chiaro: si vuole evitare l’insorgere di conflitti positivi di competenza e garantire l’efficacia della misure adottate dallo Stato nazionale. La Convenzione non precisa quale
sia la conseguenza del mancato preavviso: alcuni paesi si sono rifiutati di riconoscere le misure prese dalle autorità nazionali senza preavviso, ritenendo che esse abbiano agito ultra vires. Secondo un’altra tesi, tuttavia, il mancato preavviso non fa venir meno la competenza
delle autorità nazionali, ma integra soltanto un vizio di procedura
(20). Nella prassi, il preavviso è spesso mancato.
Mette conto rilevare che la competenza prevista dall’attuale art. 4
della Convenzione non ha carattere sussidiario: le autorità nazionali
(20) Oberster Gerichtshof austriaco, 19 dicembre 1989, in IPRax, 1992, p. 176, con
nota di I. MOTTL, Kindesverbringung und Heimatstaatzuständigkeit nach dem Minderjährigenschutzabkommen, ibidem, pp. 178-183.
373
possono prevenire quelle della residenza abituale, ma possono anche
intervenire in un secondo momento, sostituendo i propri provvedimenti a quelli presi ex artt. 1 e 2. Varie ragioni consigliano, tuttavia, di
fare un uso estremamente moderato di questa competenza. Già nel sistema attuale della Convenzione, infatti, le autorità del paese della
residenza sono considerate, di norma, come le più adatte ad assicurare la protezione del minore.
Le misure adottate dall’autorità nazionale sono automaticamente riconosciute negli altri Stati contraenti ex art. 7 della Convenzione. Nel sistema attualmente vigente, esse prevalgono – in forza dell’art. 4, quarto
comma – su quelle precedentemente adottate dalle autorità del paese
della residenza, e restano in vigore anche nel caso di successivo spostamento della residenza abituale in un altro Stato (art. 5, terzo comma).
Tali misure non possono essere modificate dalle autorità dello Stato della residenza abituale (neppure in caso di spostamento della residenza), se non in presenza di un grave pericolo per la persona o i beni
del minore (art. 8). Esse beneficiano dunque di una maggiore stabilità
rispetto a quelle adottate sulla base degli artt. 1 e 2, che possono sempre essere modificate sia dalle autorità nazionali (appunto ex art. 4),
sia dalle autorità del nuovo paese di residenza del minore (ex art. 5,
primo comma), indipendentemente dall’esistenza di un pericolo. Tale
disparità di trattamento non appare del tutto giustificata.
Per l’attuazione delle misure disposte dall’autorità nazionale in
favore di un minore residente all’estero, l’art. 6 della Convenzione
prevede la possibilità di una delega dalle autorità nazionali a quelle
della residenza o del luogo di situazione dei beni del minore, sempreché queste ultime siano d’accordo. Tale disposizione, come in generale tutti gli strumenti di cooperazione regolati dalla Convenzione,
non ha purtroppo avuto nella pratica molto successo. Lo strumento
alternativo, dal punto di vista italiano, è quello di organizzare una
tutela o una curatela “a distanza”, nella quale le funzioni normalmente spettanti al giudice tutelare sono affidate al console nella cui
circoscrizione risiede il minore (art. 34 della legge consolare) (21).
Per l’attuazione dei provvedimenti delegati dalle autorità straniere conformemente all’art. 6, l’art. 4, quarto comma, della l. n. 64
del 1994 ha sancito la competenza del giudice tutelare del luogo ove
il minore risiede ovvero del luogo ove sono situati i beni in ordine ai
quali sono stati adottati i provvedimenti.
(21) D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200, in G.U., 19 aprile 1967 n. 98, suppl. ord..
374
c) Doppia cittadinanza.
L’ampio spazio riconosciuto dalla convenzione del 1961 alla legge
nazionale solleva alcuni gravi problemi nei casi, sempre più frequenti, di minori con doppia cittadinanza. La convenzione non indica infatti se gli Stati contraenti debbano affrontare tali situazioni dando
prevalenza alla propria cittadinanza ovvero a quella con cui sussiste il
collegamento più stretto. In Italia, sembra che la prima soluzione debba prevalere, a norma dell’art. 19 secondo comma della legge di riforma, anche se gli obiettivi di uniformità perseguiti dalla convenzione
indurrebbero a preferire la seconda soluzione. Occorre tener conto anche dell’interesse del minore.
2.4. - Pericolo per il minore e situazione di urgenza.
Nonostante le disposizioni degli art. 3, 4 e 5, terzo capoverso, le
autorità dello Stato della residenza abituale di un minore, a norma
dell’art. 8, possono adottare misure di protezione quando il minore è
minacciato da un pericolo serio alla sua persona o ai suoi beni. Tale
disposizione è una conseguenza dall’ampio spazio attribuito alla legge
ed alle autorità dello Stato nazionale.
Dopo aver stabilito che un rapporto ex lege previsto dalla legge nazionale deve essere riconosciuto anche negli altri Stati contraenti (art.
3) ed aver riconosciuto alle autorità nazionali il potere di prendere a
favore del proprio cittadino delle misure protettive le quali, per di più,
non possono esser modificate dalle autorità della residenza, si è reso
necessario riconoscere a queste ultime la competenza ad intervenire
nel caso estremo in cui il minore sia minacciato da un grave pericolo
nella sua persona o nei suoi beni.
La previsione di questo autonomo titolo di competenza crea dei
problemi interpretativi non facili, perché non è chiaro quando si possa
ravvisare l’esistenza di un “pericolo serio” per la persona o i beni del
minore. La difficoltà è resa più acuta dal confronto con l’art. 9 della
Convenzione, a norma del quale ogni Stato contraente nel cui territorio si trova (anche temporaneamente) il minore o in cui sono situati i
suoi beni, può prendere “in tutti i casi d’urgenza” le misure di protezione necessarie.
Non è facile distinguere i “casi d’urgenza”, su cui si basa tale competenza eccezionale, dal grave pericolo evocato nell’art. 8. Secondo il
Rapporto esplicativo, la distinzione deve fondarsi piuttosto che sui
presupposti, sul tipo di provvedimenti che si tratta di adottare: nel caso dell’art. 9 si tratterebbe di misure per loro natura provvisorie, men-
375
tre quelle contemplate dall’art. 8 possono anche essere destinate a durare nel tempo. Accogliendo tale criterio distintivo, il giudice italiano
potrebbe adottare ex art. 9 (dunque a favore di un minore straniero
che non abbia la residenza abituale in Italia) i provvedimenti previsti
dagli artt. 333 o 361 c.c., ma non disporre la decadenza di uno dei genitori dalla patria potestà, né l’affidamento del minore ad una famiglia
o ad un istituto, né istituire una tutela, dato il carattere tendenzialmente durevole di tali provvedimenti. Queste misure potrebbero, invece, essere adottate sulla base dell’art. 8 a favore del minore residente
nello Stato.
Ancora più restrittiva sembra essere l’interpretazione che il legislatore italiano ha posto a base delle norme di attuazione adottate con
L. 64/1994. A norma dell’art. 3 della legge, “il Tribunale per i Minorenni del luogo ove il minore risiede è competente ad adottare i provvedimenti provvisori ed urgenti previsti dagli articoli 8 e 9 della Convenzione (…)” (il corsivo è nostro) (22). Da una lettura testuale di tale
disposizione risulterebbe che non soltanto le misure dell’art. 9, ma anche quelle dell’art. 8 devono avere carattere provvisorio ed urgente.
Entrambe queste interpretazione ci lasciano perplessi. È vero che,
ai sensi del secondo comma dell’art. 9 della Convenzione, le misure
prese nei casi d’urgenza cessano non appena le autorità competenti
hanno adottato a loro volta le misure richieste dalla situazione. Tuttavia, questa stessa disposizione – facendo salvi gli “effetti definitivi”
eventualmente prodotti – dimostra che anche le misure urgenti possono produrre conseguenze durature o addirittura definitive. La portata
dell’art. 9 è dunque più ampia, e ciò appare pienamente giustificato
dalla ratio della norma: in presenza di una situazione di urgenza, le
autorità dello Stato in cui il minore si trova devono poter intervenire
nel modo che ritengono più efficace per proteggere il minore, senza
essere condizionate dal carattere provvisorio o durevole delle misure
previste dal diritto interno.
Se questo è vero, la distinzione tra gli artt. 8 e 9 della Convenzione deve essere rinvenuta proprio nelle condizioni poste a base dell’intervento protettivo. L’art. 9 presuppone che il minore si trovi in un paese diverso da quello in cui ha la propria residenza abituale e che, durante tale periodo, sorga la necessità di un intervento immediato. In altre parole, occorre che i fatti siano tali da non consentire di attendere
(22) La legge stabilisce altresì che “del provvedimento è dato avviso all’autorità
centrale”.
376
(o da rendere impossibile o non opportuno) il ritorno del minore nel
paese della sua residenza abituale, né la presa di contatto con le autorità di quel paese o con le autorità nazionali.
Ci sembra che, in presenza di simili condizioni, le autorità del
luogo in cui il minore si trova debbano poter adottare anche una
misura tendenzialmente duratura, ad esempio la nomina di un tutore o di un curatore. Dal punto di vista italiano, ciò appare particolarmente importante, perché – come la pratica dimostra – l’istituzione di
una tutela rappresenta frequentemente un presupposto imprescindibile per soddisfare le esigenze di vita più elementari di un minore
straniero non accompagnato dai genitori (23). Per contro, ci sembra
che la decadenza dalla patria potestà o l’affidamento ad un famiglia
o ad un istituto non possano essere giustificate da una situazione
d’urgenza.
L’art. 8 presuppone, invece, un legame stabile e duraturo tra il minore e lo Stato: qui non esistono prospettive di ritorno immediato del
minore in un altro paese. Ciò dovrebbe consentire alle autorità della
residenza di prendere tutte le misure necessarie per proteggere il
minore da una situazione di pericolo, anche se non sussiste una reale
situazione d’urgenza e senza preoccuparsi degli istituti protettivi costituiti in base alla legge nazionale. In questo potere, rientrano senz’altro
anche la pronuncia della decadenza di uno dei genitori dalla patria
potestà (o del tutore dal suo ufficio), nonché l’affidamento ad una famiglia o ad un istituto.
L’ampia interpretazione della competenza speciale dell’art. 9 ci
sembra confortata – oltre che da argomenti testuali e teleologici – anche dalla Convenzione per i diritti del fanciullo, che impone agli Stati
contraenti un vero e proprio obbligo di garantire al bambino “la protezione e le cure necessarie per il suo benessere” (art. 3, 2° comma),
indipendentemente dalla sua nazionalità e dal luogo in cui risiede.
Ci auguriamo che questa interpretazione, più aderente alla lettera
ed allo spirito della Convenzione ed all’interesse dei minori, possa prevalere sul tenore testuale dell’art. 4, 3° comma, della L. 64/1994.
Del resto, la formulazione di quell’articolo è infelice anche nella
parte in cui fa riferimento al luogo “ove il minore risiede”. Come ab-
(23) M. BRIENZA, La tutela, cit., p. 64; Trib. Minorenni Venezia, 19 maggio 1992
(decr.) cit.. Sull’opportunità di applicare le norme sulla tutela nell’interesse del minore
straniero e della collettività, v. A. BEGHÈ LORETI, Minori stranieri rifugiati, cit., p.
262.
377
biamo visto, la competenza speciale dell’art. 9 si caratterizza proprio
per il fatto di prescindere dalla residenza del minore nello Stato: competente dovrà essere pertanto il Tribunale per i Minorenni del luogo in
cui il minore si trova o ha la sua dimora. Occorreva veramente attendere tanti anni per partorire una disposizione così imprecisa?
2.5. - Processo di separazione o divorzio in Italia.
L’art. 15 della Convenzione consente agli Stati contraenti di far
salva, mediante apposita riserva, la competenza delle proprie autorità interne ad adottare delle misure protettive della persona o dei
beni del minore, quando tali autorità siano chiamate a decidere su
una domanda di separazione tra i genitori del minore o di annullamento o scioglimento del loro rapporto coniugale.
L’Italia non si è avvalsa di tale facoltà, di cui hanno fatto uso
soltanto tre Stati contraenti (24). A seguito dell’entrata in vigore
della Convenzione, dunque, il giudice italiano competente a pronunciare la separazione o lo scioglimento del matrimonio, non è di
per sè competente ad adottare i provvedimenti riguardo ai figli minori previsti rispettivamente dall’art. 155 c.c. e dall’art. 6 della legge
sul divorzio. Le decisioni sull’affidamento dei figli minori, sul diritto di visita dell’altro genitore, nonché gli altri provvedimenti relativi alla prole possono essere adottati soltanto se il minore interessato ha la cittadinanza italiana o è residente in Italia, salvi i casi d’urgenza.
Nel caso di separazione consensuale, peraltro, l’accordo dei coniugi circa l’affidamento ed il mantenimento dei figli costituisce una
condizione per l’omologazione della separazione. In questa ipotesi,
il giudice italiano, anche qualora non sia competente per prendere
dei provvedimenti di protezione dei figli, continuerà a giudicare indirettamente sulla conformità dell’accordo dei genitori all’interesse
dei minori.
Allo stesso tempo, l’Italia sarà obbligata a riconoscere le misure adottate dalle autorità di quei paesi che hanno sollevato la riserva. Tali misure, tuttavia, possono essere revocate o modificate in
ogni momento dalle autorità italiane, se il minore è cittadino italiano o ha la sua residenza abituale in Italia, ai sensi degli artt. 4 e 1
della Convenzione.
Le ragioni che vengono addotte a favore di questo “foro del divorzio” sono note. È normale che al momento della cessazione del
(24) Lussemburgo, Polonia e Turchia. Per contro, Francia e Svizzera hanno ritirato la riserva originariamente sollevata.
378
vincolo coniugale o della separazione debbano essere prese della
misure relativamente al mantenimento, all’affidamento o alla residenza dei figli minori. Frequentemente, le legislazioni nazionali impongono al giudice di stabilire, sulla base dell’accordo delle parti o
d’ufficio, una regolamentazione di tali questioni. Tuttavia, se il giudice adito non è quello dello Stato nazionale o della residenza abituale del minore, non ha competenza per prendere tali misure. I
provvedimenti adottati non potranno essere riconosciuti all’estero.
Da tale situazione derivano due problemi. Da un lato, è possibile che sorgano dei conflitti positivi tra le differenti misure protettive, con conseguenti problemi in sede di riconoscimento. D’altro lato, si obbligano le parti ad adire, oltre al giudice competente per la
separazione o il divorzio, anche le autorità competenti per le misure di protezione dei figli minori.
2.6. - Riconoscimento di provvedimenti stranieri.
Il sistema della Convenzione è completato dall’art. 7, già menzionato più volte, a norma del quale le misure prese dall’autorità competente sono riconosciute in tutti gli Stati contraenti. Tuttavia, la Convenzione non detta una norma sull’esecuzione delle misure negli altri
Stati contraenti: al contrario, l’art. 7, seconda parte, precisa che – quando una misura protettiva comporta degli atti di esecuzione in uno Stato
distinto da quello in cui è stata adottata – non soltanto l’esecuzione, ma
anche il riconoscimento sono regolati dal diritto interno dallo Stato
richiesto o, eventualmente, da altre convenzioni internazionali.
Anche allo scopo di colmare questa grave lacuna, il Consiglio
d’Europa ha elaborato la Convenzione di Lussemburgo del 20 maggio 1980, che ora l’Italia ha ratificato. L’esperienza fatta con tale
strumento non appare tuttavia del tutto soddisfacente.
Dal punto di vista italiano, questa lacuna del sistema convenzionale è parzialmente superata in virtù delle norme attuative dettate
con L. 64/1194, almeno per quel che riguarda i provvedimenti stranieri da eseguirsi nel nostro paese. L’art. 4, 1° comma, stabilisce infatti che “il riconoscimento e l’esecuzione nel territorio dello Stato dei
provvedimenti adottati dalle autorità straniere per la protezione dei
minori, ai sensi dell’art. 7 della convenzione (…), sono disposti dal
Tribunale dei Minorenni del luogo in cui i provvedimenti stessi devono avere attuazione” (il corsivo è nostro). La soluzione adottata dal
nostro legislatore è apprezzabile, ma non va esente da alcune critiche.
Certamente positivo è che l’Italia si sia spinta al di là degli obblighi
convenzionali, istituendo una procedura applicabile anche per
379
l’esecuzione delle misure protettive straniere. Lascia invece perplessi
il fatto che non soltanto l’esecuzione, ma anche il riconoscimento dei
provvedimenti stranieri sia subordinato ad una pronuncia costitutiva
del Tribunale dei Minorenni. Giova subito rilevare che tale modalità di
attuazione non è in contraddizione con gli obblighi derivanti dalla
Convenzione: gli interpreti riconoscono, infatti, che dall’art. 7 non discende alcun obbligo di riconoscimento automatico delle misure protettive straniere (25). Ciò che conta, dal punto di vista convenzionale,
è che la dichiarazione di efficacia non venga subordinata a condizioni
più restrittive di quelle risultanti dall’art. 7. Le perplessità cui accennavamo derivano piuttosto dalla mancanza di coordinamento tra la legge n. 64 e la legge di riforma, la quale prevede al suo art. 64 che le sentenze straniere sono riconosciute in Italia, in presenza di determinate
condizioni, “senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”, salva la possibilità di chiedere una sentenza di accertamento
quando sia necessario procedere ad esecuzione forzata (art. 67). Lo
stesso principio vale, ai sensi dell’art. 66, per i provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione. Sarebbe paradossale che questo riconoscimento automatico dei provvedimenti stranieri risultasse inoperante proprio per le misure contemplate dalla Convenzione, per le quali
sussiste un vero e proprio obbligo di riconoscimento sul piano internazionale. A nostro giudizio, questa incongruenza sistematica può essere evitata soltanto attraverso un’interpretazione restrittiva del citato
art. 4, secondo la quale il riconoscimento è subordinato alla pronuncia del Tribunale dei Minorenni unicamente quando il provvedimento
straniero deve avere esecuzione in Italia.
La legge n. 64 non stabilisce delle condizioni particolari per l’esecuzione della misura straniera: l’equiparazione operata tra riconoscimento ed esecuzione induce anzi a ritenere che anche quest’ultima
possa essere rifiutata soltanto per una delle cause che, secondo la Convenzione, ostano al riconoscimento. Ciò significa che il Tribunale per
i Minorenni potrà rifiutare il riconoscimento soltanto quando l’autorità straniera non era competente ai sensi della Convenzione (26) op-
(25) Non si può tuttavia non rilevare una certa contraddizione tra tale scelta del
legislatore e la generalizzazione del principio del riconoscimento automatico delle
decisioni straniere, prevista dall’art. 64 della legge di riforma.
(26) Oppure non abbia rispettato le condizioni e i limiti che gli artt. 1 e 4 stabiliscono per la competenza delle autorità (riserva degli artt. 3, 4 e 5 3° comma e, rispettivamente, obbligo di preavviso).
380
pure essa ha agito sulla base dell’art. 8 (27) o ancora quando il provvedimento straniero è manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico italiano (art. 16). È escluso in ogni caso il riesame del merito.
Ne risulta, paradossalmente, un regime di riconoscimento ed esecuzione più favorevole rispetto a quello previsto dalla Convenzione europea del 1980: le misure adottate in uno Stato contraente della Convenzione de L’Aja del 1961 potranno essere riconosciute ed eseguite in
Italia a condizioni più favorevoli di quelle che promanano da uno Stato che sia parte della sola Convenzione di Lussemburgo.
La norma di attuazione stabilisce altresì (secondo comma) che il
Tribunale per Minorenni decide con decreto in camera di consiglio,
sentito il pubblico ministero e, ove del caso, il minore e le persone presso cui questi si trova, su ricorso degli interessati. Il ricorso può essere
presentato anche dal pubblico ministero, d’ufficio ovvero su richiesta
dell’autorità centrale. Come si vede, l’audizione del minore è configurata come meramente eventuale: riteniamo tuttavia che, in applicazione
dell’art. 12, secondo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo,
sussista un vero e proprio diritto del minore ad essere sentito, la cui
violazione costituisce motivo di gravame (28). Infine, contro il decreto
del Tribunale per i Minorenni è dato ricorso per cassazione.
In conclusione, occorre segnalare un’altra lacuna della Convenzione del 1961: non vi è una norma sulla litispendenza, sicché è possibile che le autorità di più Stati contraenti intervengano (o vengano adite) contemporaneamente e prendano misure protettive diverse ed incompatibili tra loro. Anche in questi casi il meccanismo di
riconoscimento previsto dall’art. 7 risulta di fatto paralizzato. Dal
punto di vista italiano, ci sembra che la ricezione della Convenzione nella legge di riforma, imponga di applicare anche in questa materia la nuova regola dell’art. 7 che attribuisce rilevanza alla pendenza di un processo all’estero, se il giudice italiano ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetti in Italia.
(27) Ai sensi dell’art. 8, 2° comma, gli altri Stati non sono tenuti a riconoscere le
misure adottate, in caso di grave pericolo, dalle autorità dello Stato della residenza.
(28) Ai sensi del 2° comma dell’art. 12, gli Stati sono tenuti a dare al fanciullo la
possibilità di essere sentito in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in
maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione interna. Per un’analisi approfondita di questa norma e delle implicazioni che essa ha per l’ordinamento
italiano, v. A. GRAZIOSI, Note sul diritto del minore di essere ascoltato nel processo, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 1281-1305, spec. p. 1291.
381
2.7. - Cooperazione tra autorità.
Il sistema convenzionale è completato da alcune disposizioni,
rivelatesi poco efficaci, sulla cooperazione tra le autorità di Stati
contraenti. In Italia, la competenza per le informazioni e le consultazioni è stata attribuita all’Ufficio per la giustizia minorile presso il
Ministero di Grazia e Giustizia.
Ai sensi dell’art. 10, le autorità competenti devono astenersi,
per quanto possibile, dall’adottare misure protettive prima di essersi consultate con le autorità di un altro Stato contraente i cui provvedimenti siano ancora in vigore, al fine di assicurare la continuità
del regime protettivo. L’art. 11 stabilisce inoltre che tutte le autorità
che hanno preso delle misure protettive devono informarne senza
ritardo le autorità nazionali ed eventualmente quelle della residenza abituale. A tal fine, ogni Stato contraente è tenuto a designare le
autorità competenti a dare e ricevere tali informazioni: l’Italia ha
designato l’Ufficio centrale per la giustizia minorile, presso il Ministero di Grazia e Giustizia, che svolgerà anche la funzione di “Autorità centrale” agli effetti previsti dalle due convenzioni del 1980 (29).
A questi obblighi generali, se ne aggiungono di più specifici,
come quello previsto dal già ricordato art. 4, a norma del quale il
potere di avocazione riconosciuto alle autorità nazionali è subordinato ad un previo avviso alle autorità del paese della residenza (30).
Nell’applicazione pratica della Convenzione, il coordinamento
preconizzato da queste disposizioni è spesso mancato, sebbene la
sua utilità venga riconosciuta da tutti gli esperti del settore. La cooperazione tra le autorità dei diversi paesi con i quali il minore abbia
dei legami consente di prevenire possibili conflitti positivi di competenze e, soprattutto, di realizzare uno scambio di conoscenze e di
esperienze, fondamentali per soddisfare nel modo più adeguato l’interesse del minore.
2.8. - Le Convenzioni de L’Aja e del Lussemburgo del 1980.
Qualche cenno meritano anche le due convenzioni de L’Aja e di
Lussemburgo del 1980, cui la legge di riforma non fa riferimento, ma
che sono state recentemente ratificate dall’Italia.
La Convenzione de L’Aja sugli aspetti civili della sottrazione
internazionale di minori del 25 ottobre 1980 (che è già stata ratifi-
(29) Art. 3 della l. 15 gennaio 1994 n. 64, cit..
(30) Altre forme di coordinamento sono previste dall’art. 5, 2° comma (per la
sostituzione delle misure prese dall’autorità della precedente residenza abituale) e dall’art. 6 (delegazione di competenze tra le autorità di Stati diversi).
382
cata da più di 30 Stati) ha lo scopo principale di assicurare la restituzione immediata del minore che sia stato introdotto o trattenuto in un
paese contro la volontà del genitore che esercita la potestà o cui il minore è stato affidato.
A tal fine viene istituita, in ogni Stato contraente, un’Autorità centrale incaricata di prendere tutte le misure all’uopo necessarie (art. 6,
7 e 10). Se al momento della domanda di restituzione è trascorso un
periodo di meno di un anno dalla sottrazione illegittima, le autorità
della Stato in cui il minore si trova devono disporre la restituzione immediata; se è trascorso più di un anno, la restituzione può essere rifiutata se il minore si è integrato nel nuovo ambiente (art. 12) o se egli si
oppone al rientro, “sempreché abbia raggiunto un’età e una maturità
in cui si ritiene opportuno tenere conto di questa opinione” (art. 13)
(31). In nessun caso la restituzione può essere rifiutata per il fatto che
le autorità dello Stato in cui il minore si trova hanno preso una decisione relativa al suo affidamento o sono state adite a tal fine (art. 17).
Del resto, una tale decisione andrebbe contro il dovere di astensione
sancito a carico delle autorità di quello Stato dal già citato art. 16.
Problemi di coordinamento possono nascere tra le convenzioni
de L’Aja del 1961 e del 1980. In linea di principio, nessuno dubita
che, anche nel caso di sottrazione illegale, il minore possa acquistare una nuova residenza abituale nel paese in cui è stato illegittimamente introdotto o trattenuto: tale acquisto, di norma, non è immediato, ma presuppone l’integrazione sociale del minore nel nuovo
paese (32).
Quando tale condizione è realizzata, le autorità del paese della
nuova residenza possono esercitare la competenza riconosciuta dall’art. 1 della Convenzione e prendere i provvedimenti circa l’affidamento del minore. Tali misure possono anche prevalere (ex art. 5, 1°
comma) su quelle precedentemente adottate nel paese di provenienza, dunque anche su quel droit de garde che è stato illegittimamente violato con la sottrazione. Per varie ragioni, che vanno
dall’interesse del minore ad un certo nazionalismo protettivo, le autorità della nuova residenza tendono a rifiutare la restituzione del
minore e finiscono dunque per premiare l’autore della sottrazione
illegittima.
(31) Cass. 15 novembre 1997, n. 11328, in Mass. Giust. Civ., 1997.
(32) I criteri per valutare il carattere abituale della residenza sono quelli ordinari:
occorre cioè che il minore abbia sviluppato nel nuovo paese quei contatti familiari e
sociali che consentono di ravvisare un minimo d’integrazione sociale.
383
Proprio per ovviare a tale situazione è stata elaborata la Convenzione de L’Aja del 1980, la cui finalità è quella di consentire l’immediato ripristino dello status quo ante. Le norme di questa convenzione prevalgono sulla convenzione del 1961 (33), ma non alterano il sistema di competenze da essa stabilito: le autorità del paese
di provenienza del minore restano competenti fino al momento in
cui il minore acquisti una residenza abituale nel nuovo paese.
Una vera e propria lacuna protettiva deriva invece dall’art. 16,
a norma del quale le autorità del paese in cui il minore è stato introdotto (o nel quale viene trattenuto) devono astenersi da ogni decisione sul merito della custodia del minore, a partire dal momento in
cui sono state informate del trasferimento illegale e fino a quando
non si sia accertato che non sono realizzate le condizioni per la restituzione del minore ai sensi della Convenzione (o fino a quando
sia trascorso un ragionevole periodo di tempo, senza che sia stata
presentata alcuna domanda di restituzione).
Ciò vale anche se quelle autorità sarebbero in principio competenti, secondo la Convenzione del 1961, in quanto il minore ha
acquistato una nuova residenza abituale oppure è cittadino di quello Stato.
Nello stesso tempo, tuttavia, le autorità dello Stato di provenienza possono aver perso, a loro volta, la competenza ad intervenire. Per ovviare a tale vuoto di competenza sarebbe opportuno precisare, in sede di revisione, che le autorità del paese della residenza
originaria restano competenti, sebbene il minore abbia acquistato la
residenza abituale nel nuovo Stato.
Anche la Convenzione del Lussemburgo del 25 maggio 1980
(in vigore in altri 16 Stati membri del Consiglio d’Europa) contiene
alcune disposizioni dirette ad assicurare il ritorno immediato del
minore nel caso di spostamento illegittimo (art. 9 e 10), ma la loro applicazione è sottoposta a condizioni molto restrittive: occorre, tra l’altro, che tutte le parti (minore e genitori) abbiano esclusivamente la
nazionalità dello Stato in cui il minore si trovava prima dello spostamento (sono esclusi i casi di matrimoni misti, di grande rilevanza nella pratica).
In assenza di questa (e altre) condizioni, si applicano le norme
generali della convenzione relative al riconoscimento e all’esecuzione
di decisioni in materia di affidamento di minori. Anche queste disposizioni, tuttavia, sono state criticate perché prevedono troppe cause
(33) Tale prevalenza è espressamente sancita dall’art. 34 della Convenzione del
1980.
384
ostative al riconoscimento: questo può essere rifiutato, tra l’altro, perché il minore è cittadino dello Stato richiesto e non dello Stato a quo
oppure perché, a seguito del mutamento delle circostanze, gli effetti
del provvedimento straniero risultano palesemente non più conformi
all’interesse del minore. In questo modo si consente alle autorità dello
Stato richiesto di effettuare un vero e proprio riesame del merito.
La differenza tra le due convenzioni del 1980 è posta in rilievo
da una recente sentenza della Corte di Cassazione (34), che ha applicato la Convenzione de L’Aja ad una domanda di rientro in Germania presentata dalla madre tedesca di un minore illecitamente sottratto dal padre italiano.
Secondo la Corte, la Convenzione de L’Aja ha come scopo esclusivo la tutela dell’affidamento quale situazione di mero fatto, da
reintegrare con l’immediato ritorno del minore, indipendentemente
dal titolo giuridico su cui l’affidamento si fonda. Per contro, la Convenzione del Lussemburgo presuppone che, anteriormente al trasferimento del minore attraverso la frontiera, sia stata adottata, in
uno Stato contraente, una decisione esecutiva sull’affidamento ovvero che, dopo il trasferimento del minore, sia stato pronunciato un
provvedimento dichiarativo dell’illiceità della sottrazione. La corretta qualificazione della domanda compete al giudice ed è censurabile in cassazione.
2.9. - La nuova Convenzione de L’Aja del 1996 (non ancora ratificata).
Il 19 ottobre 1996 è stata adottata, nell’ambito della Conferenza de
L’Aja, una nuova convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il
riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità parentale e di misure di protezione dei minori. Questo nuovo
strumento è destinato a sostituire la convenzione del 1961, di cui cerca
di risolvere i principali problemi applicativi.
La competenza è stata assegnata alle autorità dello Stato della
residenza (art. 5). Queste ultime, quando ritengono che le autorità
di un altro Stato contraente (dello Stato nazionale del minore, di
quello di situazione dei beni, di quello in cui viene si deve decidere
sullo scioglimento del matrimonio tra i genitori del minore o di un
altro Stato con cui il minore presenta uno stretto legame) sono in
condizione di valutare meglio l’interesse del minore nel caso concreto, possono chiedere alle autorità di tale altro Stato di adottare
delle misure protettive (art. 8).
(34) Cass. 20 marzo 1998, Giust. Civ., 1998, p. 916.
385
Una richiesta in tal senso può essere rivolta alle autorità della
residenza anche dalle autorità di uno degli Stati indicati (art. 9).
Delle regole speciali sono previste per il caso di minori che cercano
rifugio in un paese per sfuggire a situazioni di guerra (enfants internationalement déplacés: art. 6) e per il caso di sottrazione illecita di
minori (art. 7).
La Convenzione attribuisce competenza anche alle autorità
dello Stato contraente che decidono su una domanda di divorzio, di
separazione o di annullamento del matrimonio tra i genitori del minore (art. 10). Infine, vi sono delle norme che regolano la competenza in caso di urgenza (art. 11) nonché per l’adozione di misure provvisorie (art. 12).
Per quel che riguarda la legge applicabile, viene confermata
l’unità tra forum e ius: le autorità competenti applicano la propria
legge (art. 15 par. 1). Viene prevista tuttavia una “clausola di eccezione”, in virtù della quale l’autorità competente può decidere di
applicare o di prendere in considerazione la legge di uno Stato
diverso, con cui la situazione presenta uno stretto legame (art. 15
par. 2).
Una novità importante è prevista per i rapporti di autorità ex
lege (in particolare per la responsabilità parentale), che non sono
più regolati dalla legge nazionale, bensì da quella della residenza
abituale del minore (art. 16).
Per evitare che il trasferimento della residenza abituale in un
altro Stato comporti un mutamento della legge applicabile, si è stabilito che la legge della residenza precedente continua ad applicarsi
anche dopo il trasferimento (art. 16 par. 3). In tal caso, tuttavia, la
legge della nuova residenza è applicabile quando attribuisce la potestà parentale ad una persona ce non ne era già titolare.
La Convenzione stabilisce il principio secondo cui le misure
prese dalle autorità di uno Stato contraente sono riconosciute “di
pieno diritto” negli altri Stati contraenti, ed elenca i casi in cui il riconoscimento può essere rifiutato (art. 23). Tali motivi sono anche
gli unici che consentono di rifiutare l’esecuzione (art. 26 par. 3),
mentre la disciplina della procedura di delibazione viene rimessa ad
ogni Stato contraente (art. 26 par. 1).
Infine, la Convenzione tenta di migliorare le modalità di cooperazione interstatuale, prevedendo, tra l’altro, che ogni Stato
contraente deve designare un’Autorità centrale (art. 29), seguendo
un modello organizzativo già adottato con crescente successo in
altre convenzioni internazionali elaborate dalla Conferenza de
L’Aja. Le Autorità centrali hanno il compito principale di fornire
alle autorità amministrative e giudiziarie le informazioni circa i
servizi previsti negli altri Stati e di agevolare i contatti tra tali
autorità (art. 30).
386
3. – Adozione.
3.1. - Le fonti della normativa.
La legge di riforma dedica all’adozione l’intero Capo V che comprende quattro articoli. I primi due riguardano la legge applicabile,
rispettivamente, alla costituzione ed alla revoca dell’adozione (art. 38)
ed ai rapporti tra adottante e adottato (art. 39). L’art. 40 regola la giurisdizione sia per la costituzione e la revoca dell’adozione (1° comma),
sia per i rapporti personali e patrimoniali tra adottato e adottante (2°
comma). Infine, l’art. 41 disciplina il riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione.
La particolare attenzione che si è voluta dedicare a questa materia è ben comprensibile se si considera l’evoluzione che l’istituto dell’adozione ha vissuto nel corso degli ultimi cinquant’anni: il fenomeno,
che ha dimensioni mondiali, è marcato in Italia dalle due leggi che
hanno introdotto e disciplinato l’adozione legittimante dei minori, ancora sconosciuta al codice civile del 1942: la l. 5 giugno 1967 n. 431 e
la legge 4 maggio 1983 n. 184, (d’ora in avanti: “l. adoz.”).
L’adozione c.d. legittimante produce un pieno inserimento del minore nella famiglia degli adottanti, con acquisto di uno status equiparato a quello di figlio legittimo e totale distacco dalla famiglia di origine. La pronuncia di un’adozione non legittimante di minore è consentita soltanto in alcuni “casi particolari”, tassativamente previsti
dall’art. 44 l. adoz. (adozione del minore orfano da parte di parenti o
di persone prossime; adozione da parte del coniuge di uno dei genitori; constatata impossibilità di affidamento preadottivo).
All’“adozione internazionale” è dedicato il Titolo III l. adoz. (artt.
29-43) in cui sono disciplinate diverse situazioni, accomunate dalla diversa cittadinanza o residenza dell’adottato e degli adottanti. Queste
disposizioni della l. adoz. vengono fatte salve dalle regole di conflitto
della legge di riforma (v. oltre, articoli 38 e 41). Il coordinamento tra
questi due corpi normativi solleva vari problemi interpretativi di non
facile soluzione.
Ulteriori difficoltà derivano dall’intenzione dell’Italia di ratificare
la Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale. Un disegno di legge che autorizza la ratifica ed ordina l’esecuzione della Convenzione sta completando il suo iter parlamentare. Questo provvedimento sostituisce le disposizioni sull’adozione internazionale contenute nel Titolo III l. adoz., al fine di renderle compatibili con la Con-
387
venzione. In questo capitolo esporremo i tratti salienti della nuova
disciplina.
La convenzione de L’Aja del 1993 ha tra i suoi obiettivi principali, enunciati all’art. 1, quello di stabilire alcune garanzie irrinunciabili affinché le adozioni internazionali abbiano luogo nell’interesse superiore del minore, quello di instaurare un sistema di cooperazione tra gli Stati contraenti al fine di assicurare il rispetto di
tali garanzie e di prevenire la sottrazione, la vendita e la tratta dei
minori, nonché quello di garantire il riconoscimento delle adozioni
fatte in conformità alla Convenzione in tutti gli Stati contraenti.
La Convenzione intende applicarsi in tutti i casi in cui un minore con residenza abituale in uno Stato contraente (“Stato d’origine”)
è stato o dev’essere spostato in un altro Stato contraente (“Stato di
accoglienza”), dopo essere stato o al fine di essere adottato da persone residenti abitualmente nello Stato d’accoglienza. Essa riguarda soltanto le adozioni che stabiliscono un legame di filiazione tra
adottato e adottanti.
Nel Capitolo II vengono previste le condizioni minime per la
pronuncia dell’adozione, le quali devono essere verificate in parte
dalle autorità dello Stato di origine, in parte da quelle dello Stato
di accoglienza del minore. Le prime devono accertare (art. 4): a)
che il minore è adottabile; b) che un’adozione internazionale corrisponde al suo interesse (a tal fine devono aver verificato impossibilità di procedere ad un’adozione interna: è il c.d. principio di
“sussidiarietà” dell’adozione internazionale rispetto a quella interna); c) che è stato ottenuto il consenso delle persone, istituzioni o
autorità che devono prestarlo (tale consenso deve risultare per
iscritto e dev’essere dato liberamente, senza contropartite in denaro e dopo aver ricevuto un’appropriata informazione sulle conseguenze dell’adozione); d) che il minore è stato consigliato, informato, sentito e, se necessario, che ha dato liberamente il suo consenso all’adozione.
Le autorità dello Stato di accoglienza devono verificare (art. 5):
a) che i futuri adottanti sono idonei; b) che hanno ricevuto i consigli necessari; c) che il minore è stato o sarà autorizzato ad entrare e
a risiedere permanentemnete nello Stato.
Nel Capitolo III, la Convenzione regola la cooperazione tra gli
Stati contraenti, prevedendo che ogni Stato designi un’autorità centrale, chiamata a svolgere – direttamente o mediante altri organismi
autorizzati – i compiti stabiliti dalla Convenzione stessa. Il Capitolo
IV regola la procedura che dev’essere seguita per far luogo all’adozione. La principale particolarità consiste nel fatto che l’affidamento del minore ai futuri genitori adottivi da parte delle autorità dello
Stato d’origine dev’essere previamente approvata da quelle dello
388
Stato di accoglienza, al fine di evitare la costituzione di adozioni
“claudicanti”.
Nel Capitolo V viene stabilito il principio secondo cui l’adozione
pronunciata dall’autorità di uno Stato contraente e certificata
conforme alle regole convenzionali è riconosciuta di pieno diritto in
tutti gli altri Stati contraenti (art. 23). Il riconoscimento può essere
rifiutato soltanto nel caso di contrasto manifesto con l’ordine pubblico (art. 24). Quando l’adozione straniera non ha l’effetto di far cessare tutti i legami con la famiglia d’origine, l’articolo 27 prevede la
possibilità di “convertirla” in un’adozione che produce tale effetto.
La Convenzione rappresenta il tentativo di conciliare le posizioni degli Stati di provenienza dei bambini da adottare (in gran
parte, paesi in via di sviluppo) con quello degli Stati industrializzati “importatori” di bambini. Questo compromesso non permette
sempre di assicurare in modo ottimale l’interesse del minore, che
pure viene proclamato come obiettivo prioritario dell’adozione internazionale (art. 1, lett. a).
Si deve ricordare, infine, che continua ad esistere nel diritto italiano l’adozione non legittimante di persone maggiorenni, disciplinata dagli articoli 291 ss. c.c., la cui finalità è ancora quella, tradizionale, di perpetuare il nome dell’adottante e la titolarità del suo patrimonio, in mancanza di discendenti.
3.2. - Giurisdizione.
Il primo comma dell’art. 40 regola, in termini molto ampi, la giurisdizione in materia di costituzione e revoca del rapporto adottivo,
senza distinguere tra adozione di persone maggiorenni e adozione
(legittimante o non legittimante) di minori:
I giudici italiani hanno giurisdizione in materia di adozione
allorché
a) gli adottanti o uno di essi o l’adottando sono cittadini italiani ovvero stranieri residenti in Italia;
b) l’adottando è un minore in stato di abbandono in Italia.
Da un lato, l’art. 40, lett. b), dev’essere posto in relazione con l’art.
37 l. adoz. (37-bis del disegno di legge), a norma del quale si applica la
legge italiana al minore straniero che si trova in stato di abbandono in
Italia.
D’altro lato, l’art. 40, lett. a), si spinge oltre quanto previsto dalla
legge 184/1983. L’art. 29 l. adoz. (art. 29-bis del disegno di legge) prevede, infatti, la competenza dei tribunali italiani per l’adozione di un
389
minore straniero residente all’estero da parte di coniugi cittadini italiani ovvero residenti in Italia. Secondo la disposizione della legge di
riforma, invece, è sufficiente che soltanto uno degli adottanti abbia la
cittadinanza italiana o sia residente in Italia.
Già prima della riforma, peraltro, il Tribunale di Ancona si era
ritenuto competente per dichiarare l’idoneità all’adozione di una
coppia di coniugi residenti all’estero, anche se uno solo di essi era
cittadino italiano (35).
Sorge in questi casi il problema di stabilire quale tribunale sia
territorialmente competente: la soluzione va cercata applicando
analogicamente quanto dispone l’art. 29 l. adoz. per il caso di coppia di italiani residenti all’estero (art. 29-bis, comma 2, del disegno
di legge): competente sarà il Tribunale del luogo di residenza dell’adottante, quello dell’ultimo domicilio in Italia o, in mancanza, il Tribunale per i Minorenni di Roma.
Infine, a norma dell’art. 40 lett. a) risulta che le autorità italiane
sono competenti anche quando l’adottando è italiano o risiede in Italia.
3.3. - Adozione internazionale in base al diritto italiano.
La legge applicabile alla costituzione del rapporto adottivo è determinata, in termini generali, dall’art. 38, 1° comma, legge di riforma:
I presupposti, la costituzione e la revoca dell’adozione sono regolati dal diritto nazionale dell’adottante o degli adottanti se comune o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti
sono entrambi residenti, ovvero da quello dello Stato nel quale la
loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al momento
dell’adozione. Tuttavia si applica il diritto italiano quando è richiesta al giudice italiano l’adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio legittimo.
In base alla prima frase dell’art. 38, la costituzione del rapporto
adottivo è regolata dalla legge nazionale dell’adottante o degli adottanti. Qualora gli adottanti non abbiano una cittadinanza comune, è
applicabile la legge dello Stato in cui sono entrambi residenti ovvero
in cui la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata.
La nuova disciplina di conflitto vale, in linea di principio, sia per
(35) Trib. Minorenni Ancona, 25 ottobre 1984 (decr.), RDIPP, 1985, p. 645.
390
l’adozione di persone maggiorenni, sia per l’adozione di minori. Relativamente a quest’ultima, tuttavia, occorre tener conto di quanto previsto dalla legge 184/1983. In effetti, le norme di questa legge sono
considerate di applicazione necessaria dalla giurisprudenza (36) e
dalla maggior parte della dottrina. Ciò è confermato del resto dallo
stesso art. 38 secondo il quale, in deroga ai criteri di collegamento da
esso previsti, il diritto italiano deve applicarsi “quando è richiesta al
giudice italiano l’adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato
di figlio legittimo”.
La prevalenza del diritto italiano significa, in concreto, che il Tribunale per i Minorenni, in presenza di una domanda di adozione di un
minore, deve verificare se sussistono i requisiti previsti dalla legge italiana per far luogo ad un’adozione legittimante in applicazione della
legge 184/1983. Soltanto in caso contrario si potrà far luogo ad un’adozione secondo il diritto straniero.
Per sapere quali sono i requisiti previsti per l’adozione legittimante secondo il diritto italiano, occorre distinguere a seconda che il
minore da adottare si trovi in Italia oppure in un paese straniero. Queste osservazioni si basano sul nuovo testo delle norme sull’adozione
internazionale la cui approvazione dovrebbe essere imminente. Tale
testo è stato predisposto per rendere possibile l’esecuzione della Convenzione de L’Aja sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia
di adozione internazionale del 29 maggio 1993.
a) Se il minore si trova in Italia in stato di abbandono, si applicano le norme previste per l’adozione interna, contenute nel Titolo II
l. adoz., qualunque sia la cittadinanza o il luogo di residenza degli
adottanti.
Per il minore straniero, ciò risulta espressamente dall’art. 37-bis l.
adoz. a norma del quale “al minore straniero che si trova nello Stato
in situazione di abbandono si applica la legge italiana in materia di
adozione, di affidamento e di provvedimenti necessari in caso di
urgenza”. A fortiori, la legge italiana è applicabile quando l’adottando
in stato di abbandono è un minore italiano.
b) Se una coppia di adottanti residenti in Italia intende adottare
un minore straniero residente all’estero, si ha un caso di “adozione
internazionale”, disciplinato dal Titolo III l. adoz. e dalla Convenzione
de L’Aja del 1993. Il progetto di legge di ratifica e di esecuzione della
(36) Cass., S.U., 19 gennaio 1988 n. 392; Corte Cost. 11 dicembre 1989 n. 536, Foro
it., 1990, I, c. 5.
391
Convenzione introduce profonde modifiche nel regime attualmente
vigente. Poiché l’approvazione delle nuove norme dovrebbe essere imminente, ci limiteremo ad esporre il sistema quale risulterà per effetto delle modifiche.
Quanto all’ambito di applicazione di queste norme, notiamo innanzitutto che la Convenzione de L’Aja riguarda i casi in cui un fanciullo abitualmente residente in uno Stato contraente viene trasferito in un altro Stato contraente (Stato d’origine) dopo essere stato (o
al fine di essere) adottato da coniugi o da una persona singola abitualmente residenti nello Stato di accoglienza.
La sfera di efficacia delle norme italiane sull’adozione internazionale è più ampia, dato che l’art. 29-bis l. adoz. si riferisce – oltre
che all’adozione da parte di coniugi residenti in Italia (primo comma) – anche all’adozione da parte di italiani residenti in uno Stato
straniero, prevedendo che in questo caso è competente il Tribunale per i Minorenni del distretto in cui si trova il luogo della loro ultima residenza in Italia o, in mancanza, il Tribunale per i Minorenni
di Roma (secondo comma). In linea di principio, dunque, le norme
sull’adozione internazionale si applicano anche in questo caso: traspare lo scopo di evitare facili elusioni della normativa.
Occorre considerare, tuttavia, che i cittadini italiani i quali
dimostrino di aver soggiornato e di aver avuto la residenza in uno
Stato straniero da almeno due anni, possono ottenere una pronuncia di adozione in quel paese, senza dover sottostare alla procedura
prevista dalla legge italiana. L’adozione straniera potrà essere riconosciuta in Italia con provvedimento del Tribunale per i Minorenni,
purché sia conforme ai principi della Convenzione de L’Aja (art. 36,
quarto comma, l. adoz.). Questa disposizione permette di evitare le
difficoltà cui sarebbero esposti, al momento del rientro in Italia, gli
italiani che hanno adottato un minore nello Stato straniero in cui
risiedono, senza conoscere le condizioni poste dal diritto italiano.
L’art. 29 stabilisce che l’adozione di minori stranieri ha luogo conformemente ai principi e secondo le direttive della Convenzione. Tuttavia, il legislatore italiano si è distaccato sotto alcuni profili dalla normativa convenzionale.
In primo luogo, la legge italiana si contraddistingue perché prevede l’intervento di diverse istituzioni durante la procedura di adozione. Questa scelta non è in contrasto con la Convenzione, la quale,
pur assegnando la maggior parte dei compiti ad una sola Autorità
centrale, prevede che questa possa esercitarli sia direttamente, sia
con il concorso di altre autorità pubbliche (cfr. art. 22).
In Italia, le funzioni dell’Autorità centrale verranno assolte, in
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genere, dalla Commissione per le adozioni internazionali, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e composta dai
rappresentanti di vari ministeri interessati (art. 39 l. adoz.). Tale
Commissione collabora con le autorità centrali degli altri Stati contraenti della Convenzione de L’Aja e promuove la conclusione di accordi bilaterali con gli Stati non contraenti. Nel corso della procedura di adozione, essa svolgerà delle funzioni di raccordo e di coordinamento (cf. art. 39-bis l. adoz.).
Tuttavia, i compiti attribuiti a tale Commissione restano limitati, e ciò per due ragioni: da un lato, il legislatore italiano ha voluto conservare il carattere giurisdizionale (e non amministrativo)
della procedura di adozione, anche internazionale, prevedendo l’intervento del Tribunale per i Minorenni in alcune fasi cruciali (dichiarazione di idoneità degli adottanti, riconoscimento del provvedimento straniero di adozione o di affidamento); d’altro lato, si è
voluto lasciare ampio spazio ad organismi locali, più vicini alle aspiranti famiglie adottive (i servizi socio-assistenziali degli enti locali e
soprattutto gli “enti autorizzati”, sui quali v. oltre). Questi organismi, oltre a partecipare direttamente alla procedura di adozione,
svolgono importanti funzioni di informazione, di preparazione e di
assistenza degli adottanti, non soltanto durante la procedura, ma
anche dopo le decisioni di affidamento e di adozione.
Sotto altro profilo, la legge italiana intende assicurare il rispetto di alcuni princìpi ben saldi del diritto interno. Così, l’adozione internazionale è accessibile a coppie di coniugi che presentino i requisiti di idoneità previsti per il diritto interno; inoltre, essa deve avere
effetto legittimante e far cessare i rapporti giuridici tra l’adottato e
la famiglia d’origine.
La procedura di adozione inizia con una “dichiarazione di disponibilità” degli adottanti. Come nel caso di adozione interna, essi devono ottenere una dichiarazione di idoneità all’adozione, che viene pronunciata dal Tribunale dei Minorenni con decreto motivato, dopo aver
ricevuto una relazione dei servizi socio-assistenziali degli enti locali
(art. 29-bis e 30 l. adoz.). Il decreto di idoneità o di inidoneità è reclamabile davanti alla Corte d’Appello.
Per il prosieguo della procedura, gli aspiranti all’adozione devono
conferire incarico ad un “ente autorizzato”, affinché svolga le pratiche di adozione presso le competenti autorità del paese di residenza
del minore (art. 31 l. adoz.).
Gli enti autorizzati sono organismi senza scopo di lucro, diretti da persone qualificate per la loro integrità morale nonché per la
loro formazione e le loro esperienze; tali enti devono essere sottoposti alla vigilanza statale (art. 11 della Convenzione e art. 39-ter l.
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adoz.). L’autorizzazione viene conferita dalla Commissione per le
adozioni internazionali.
L’ente autorizzato, dopo aver trasmesso alle autorità dello Stato
d’origine del minore la domanda di adozione, unitamente al decreto di
idoneità ed alla relazione dei servizi sociali, riceve da esse una concreta proposta d’incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da
adottare. Tale proposta viene comunicata agli adottanti affinché esprimano il loro consenso scritto. Successivamente, l’ente riceve dall’autorità dello Stato d’origine del minore l’attestazione della sussistenza
delle condizioni previste dall’art. 4 della Convenzione de L’Aja e, se tali
requisiti sono riuniti, concorda l’opportunità di procedere all’adozione. Se viene richiesto dallo Stato di origine, l’ente approva la decisione di affidare il minore agli adottanti.
Questa fase della procedura corrisponde a quanto previsto dall’art. 17 della Convenzione de L’Aja, secondo cui la decisione di affidare un minore agli adottanti dev’essere approvata dalle Autorità
centrali di entrambi gli Stati interessati.
Affinché l’ingresso e la permanenza del minore in Italia possa essere autorizzato dalla Commissione per le adozioni internazionali, occorre che le autorità dello Stato d’origine abbia preso una decisione di
adozione o di affidamento del minore.
Prima di rilasciare l’autorizzazione, la Commissione deve dichiarare che l’adozione risponde al superiore interesse del minore. Tale dichiarazione non è ammessa in due casi (art. 32 l. adoz.): a) quando
dalla documentazione non emerge la situazione di abbandono del minore e la constatazione dell’impossibilità di affidamento o di adozione nello Stato d’origine; b) qualora nel paese straniero l’adozione non
abbia effetto legittimante o non determini la cessazione dei rapporti
giuridici tra l’adottato e la sua famiglia d’origine, a meno che i genitori naturali abbiano espressamente consentito al prodursi di tali
effetti.
In questi casi l’adozione non potrà essere riconosciuta in Italia.
Se il minore non è in stato di abbandono, non vi è ragione per procedere ad un’adozione internazionale; giova rilevare, tuttavia, che
come è chiarito nella Relazione esplicativa del progetto di legge, lo
stato di abbandono può risultare anche dal consenso all’adozione
liberamente espresso dai genitori naturali.
Inoltre, l’adozione internazionale è giustificata soltanto se non
vi è la possibilità di far luogo all’affidamento o all’adozione nel paese di origine: tale “sussidiarietà” dell’adozione internazionale corri-
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sponde a quanto previsto dalla Convenzione de L’Aja del 1993 (art.
4 lett. b) ed è ben comprensibile se si considera che l’adozione internazionale comporta, in genere, difficoltà di adattamento molto
maggiori che un’adozione interna.
Infine, come già accennato, l’Italia è disposta a riconoscere
un’adozione straniera soltanto se essa ha effetti legittimanti e determina la cessazione dei rapporti giuridici con la famiglia d’origine.
Se la decisione straniera non produce quest’effetto, essa potrà avere
effetto in Italia soltanto se può essere convertita in un’adozione di
quel tipo (v. oltre).
In mancanza dell’autorizzazione all’ingresso (art. 33 l. adoz.), e
fatte salve le ordinarie disposizioni relative all’ingresso nello Stato
per fini familiari, turistici, di studio e di cura, non è consentito l’ingresso nello Stato a minori che non sono accompagnati da almeno
un genitore o da parenti entro il quarto grado. Un eccezione è prevista per il caso di eventi bellici, calamità naturali o altri eventi eccezionali.
Se il minore è comunque entrato nel territorio dello Stato senza
autorizzazione, il Tribunale per i Minorenni prende ogni opportuno
provvedimento temporaneo nell’interesse del minore (art. 33 n. 5 l.
adoz.). In seguito, se il minore è in stato di abbandono, può iniziare la procedura diretta a dichiararne l’adottabilità sulla base della
legge italiana (applicabile a norma dell’art. 37-bis l. adoz.) oppure
segnala la situazione alla Commissione per le adozioni internazionali affinché questa prenda contatto con le autorità dello Stato d’origine del minore.
L’adozione pronunciata all’estero produce nell’ordinamento italiano gli effetti di cui all’art. 271. adoz.: l’adottato acquista lo stato di
figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome; con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia
d’origine, salvi i divieti matrimoniali.
Se l’adozione pronunciata nello Stato d’origine non determina la
cessazione dei rapporti con la famiglia d’origine, essa può essere convertita in un’adozione che produca tale effetto, sempreché il Tribunale dei Minorenni la riconosca conforme alla Convenzione de L’Aja (art.
32, terzo comma, l. adoz.). Anche la Convenzione prevede la possibilità della conversione, alla condizione che le persone o le istituzioni il
cui consenso è richiesto abbiano espressamente consentito al prodursi di tale effetto (art. 27, 1° comma, lett. b). In caso contrario, l’adozione non potrà essere riconosciuta in Italia.
Quando l’adozione è stata pronunciata in un altro Stato contraente della Convenzione de L’Aja prima dell’arrivo del minore in Italia, il
395
Tribunale per i Minorenni deve verificare che dal provvedimento straniero risulti la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 4 della
Convenzione (v. sopra) e che l’adozione non sia contraria ai principi
fondamentali che regolano il diritto di famiglia e dei minori nell’ordinamento italiano. Accerta inoltre la sussistenza della certificazione di
conformità alla Convenzione, rilasciata dalle autorità dello Stato d’origine, nonché dell’autorizzazione all’ingresso e alla permanenza del
minore in Italia, conferita dalla Commissione per le adozioni internazionali. Dopo aver effettuato questo controllo, il tribunale ordina la
trascrizione del provvedimento straniero nei registri dello stato civile
(art. 35, 1° e 2° comma, l. adoz.).
Sebbene la lettera di queste disposizioni della l. adoz. non sia
del tutto chiara, si deve ritenere che la decisione del Tribunale per i
Minorenni abbia carattere meramente dichiarativo, non costitutivo.
Ciò si desume dall’art. 23 della Convenzione de L’Aja, secondo cui
l’adozione certificata conforme alla Convenzione dalle autorità dello Stato d’origine del minore è riconosciuta di diritto (“de plein
droit”) negli altri Stati contraenti. Nello stesso senso si pronuncia la
relazione esplicativa del progetto di legge di ratifica, secondo cui il
provvedimento del Tribunale per i Minorenni è “accertativo e dichiarativo della conformità dell’adozione pronunciata all’ordine
pubblico interno”.
Secondo il progetto di legge il riconoscimento è escluso (art. 35, 6°
comma, l. adoz.) quando: il provvedimento riguarda adottanti che non
sono in possesso dei requisiti previsti dalla legge italiana; non sono
state rispettate le indicazioni contenute nella dichiarazione di idoneità; non è possibile la conversione dell’adozione straniera in un’adozione di tipo legittimante; l’adozione o l’affidamento stranieri non si
sono realizzati tramite le autorità centrali e un ente autorizzato; l’inserimento del minore nella famiglia adottiva si è rivelato contrario al
suo interesse.
Com’è chiarito nella relazione esplicativa, questi motivi di rifiuto del riconoscimento sono stati concepiti dai redattori del progetto
di legge come “specificazioni” della nozione di ordine pubblico italiano. Per comprendere tale affermazione, occorre considerare che,
a norma dell’art. 24 della Convenzione de L’Aja, il riconoscimento
dell’adozione straniera può essere rifruttato soltanto se l’adozione è
manifestamente contraria all’ordine pubblico dello Stato ad quem,
tenuto conto dell’interesse superiore del minore.
Ci si può chiedere, tuttavia, se l’elencazione prevista nella legge
italiana sia compatibile con la Convenzione: appare dubbio, ad
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esempio, che il mancato rispetto delle indicazioni contenute nella
dichiarazione di idoneità sia sufficiente a determinare un contrasto
con l’ordine pubblico italiano, specie se l’adozione corrisponde all’interesse del minore.
Se il provvedimento di adozione è stato preso in uno Stato non
contraente della Convenzione de L’Aja (art. 36 l. adoz.), esso può essere dichiarato efficace in Italia dal Tribunale dei Minorenni alla seguenti condizioni: a) che sia accertata la condizione di abbandono del
minore o il consenso dei genitori naturali ad una adozione che determini l’acquisizione dello stato di figlio legittimo e la cessazione dei
rapporti con la famiglia d’origine; b) che gli adottanti abbiano ottenuto il decreto di idoneità; c) che le procedure adottive siano state effettuate con l’intervento della Commissione per le adozioni internazionali e di un ente autorizzato; d) che siano state rispettate le indicazioni contenute nel decreto di idoneità; e) che la Commissione abbia concesso l’autorizzazione all’ingresso del minore.
Si tratta di condizioni in gran parte corrispondenti a quelle previste per le adozioni pronunciate in Stati contraenti.
Si è voluto evitare che i minori provenienti da Stati non contraenti siano meno tutelati e che si formi quindi un “doppio binario” per le
adozioni internazionali.
Giova rilevare, infine, che il progetto di legge preconizza la conclusione di accordi bilaterali con Stati non contraenti della Convenzione de L’Aja. Tali accordi saranno promossi dalla Commissione
per le adozioni internazionali e dovranno essere ispirati ai principi
della Convenzione.
Qualora l’adozione debba perfezionarsi dopo l’arrivo del minore
in Italia, il Tribunale per i Minorenni riconosce il provvedimento straniero come affidamento preadottivo, stabilendone la durata per un periodo non superiore ad un anno (art. 35, 4° comma, l. adoz.). Decorso
tale periodo, se la permanenza del minore nella famiglia che lo ha
accolto appare tuttora conforme al suo interesse, il tribunale pronuncia l’adozione. In caso contrario, revoca l’affidamento e prende le
misure previste dall’art. 21 della Convenzione de L’Aja.
Secondo tale disposizione, l’autorità centrale dello Stato in cui
il minore è stato accolto, oltre a prenderne cura a titolo provvisorio,
cerca di provvedere affinché il minore sia affidato senza ritardo ad
un’altra famiglia. A tal fine deve consultare l’autorità centrale dello
Stato d’origine, che dev’essere anche informata prima che venga
preso il provvedimento di adozione in favore dei nuovi affidatari. Il
397
minore dev’essere rinviato nello Stato d’origine, se il suo interesse lo
esige. In ogni caso, il minore dev’essere consultato e, se ciò è richiesto, deve dare il suo consenso all’adozione.
La procedura di consultazione con le autorità dello Stato d’origine dovrebbe permettere di evitare quegli eccessi di “nazionalismo”
adottivo che, in passato, avevano determinato alcune proteste diplomatiche da parte di Stati “esportatori” di bambini. Ricordiamo comunque che già nel 1991 la Corte di Cassazione aveva stabilito che
“la condizione di abbandono di un minore straniero in Italia è impedita – e la dichiarazione di adottabilità resta caducata – qualora lo
Stato di cui esso è cittadino intenda, con la richiesta di rimpatrio,
riassumerne la protezione” (37).
3.4. - Adozione in base alla legge designata dalle regole di diritto internazionale privato.
Quando le condizioni previste per l’adozione legittimante dal diritto italiano fanno difetto, l’adozione potrà essere pronunciata alle condizioni previste dal diritto straniero richiamato dall’art. 38 legge di
riforma.
Tale possibilità sussiste, evidentemente, quando la legge designata dall’art. 38 non coincide con la legge italiana, cioè quando la
domanda di adozione è stata presentata da un cittadino straniero o
da una coppia di cittadini stranieri con nazionalità comune oppure
una coppia mista residente all’estero o la cui vita matrimoniale è
prevalentemente localizzata all’estero.
Se invece si tratta di una coppia di coniugi italiani o di una coppia mista residente in Italia, la legge italiana è comunque applicabile ai sensi dell’art. 38 legge di riforma. Pertanto, se non è possibile
far luogo all’adozione legittimante, resta soltanto da verificare se si
rientra in uno dei “casi particolari” in cui l’art. 44 l. adoz. permette
la pronuncia di un’adozione non legittimante di minore.
a) Casi in cui può operare il richiamo internazionalprivatistico.
L’applicazione del diritto straniero è certamente possibile quando
esso prevede la pronuncia di un’adozione non legittimante. In altre parole, è indubbio che, in virtù dell’art. 38 legge di riforma, gli adottanti
stranieri (e le coppie miste residenti all’estero) hanno il diritto di pretendere dal giudice italiano la pronuncia di un’adozione non legittimante di minore, ogni qualvolta tale possibilità sia prevista dalla loro
(37) Cass. 24 aprile 1991 n. 4528, RDIPP, 1992, p. 890.
398
legge nazionale comune (o, in mancanca, dalla legge dello Stato straniero dove risiedono o dove è localizzata la loro vita familiare), e dunque anche al di fuori dei “casi particolari” previsti dall’art. 44 l. adoz..
Del pari, un adottante singolo straniero potrà chiedere ed ottenere nel
nostro paese la pronuncia di un’adozione non legittimante, se questa
è prevista dalla sua legge nazionale.
Ci si può chiedere se la possibilità di ottenere un’adozione non
legittimante alla stregua della legge straniera sussiste anche quando
il minore è in stato di abbandono ed è stato dichiarato adottabile a
norma della legge 184/1983. Si potrebbe ritenere, da un lato, che la
dichiarazione di adottabilità del minore abbia l’effetto di rendere
“necessaria” l’applicazione della legge italiana, rendendo inoperante il richiamo del diritto straniero previsto dall’art. 38.
Occorre considerare, tuttavia, che secondo la Corte Costituzionale la dichiarazione di adottabilità del minore non è di ostacolo
alla successiva pronuncia di un’adozione non legittimante nei casi
particolari dell’art. 44 l. adoz., a condizione che il Tribunale dei Minorenni possa valutare in concreto se tale adozione corrisponde all’interesse preminente del minore (38). Alla stessa condizione riteniamo che la dichiarazione di adottabilità non precluda la pronuncia di un’adozione non legittimante alla stregua del diritto straniero
degli adottanti.
Meno chiara è la situazione quando la legge straniera richiamata
dall’art. 38 prevede la pronuncia di un’adozione legittimante a condizioni diverse da quelle della legge italiana. Dopo aver rinunciato all’applicazione della legge italiana per assenza dei requisiti da essa previsti, il giudice può pronunciare un’adozione legittimante alla stregua
della legge straniera?
La lettera dell’art. 38, ultima frase, sembrerebbe escludere tale
possibilità. Da questa disposizione sembra doversi ricavare infatti che
un’adozione legittimante può essere pronunciata soltanto in applicazione della legge italiana. Una parte della dottrina ritiene tuttavia che
il giudice italiano possa anche pronunciare, in certi casi, un’adozione
legittimante secondo il diritto straniero.
Concretamente, tale possibilità sussisterebbe quando la legge
straniera permette l’adozione legittimante in assenza dei requisiti
posti dalla legge italiana.
(38) Corte Cost. 10 febbraio 1981 n. 11, Giur cost., 1981, p. 44 (nota EBENE
COBELLI).
399
Così, secondo una tesi interpretativa, il giudice italiano potrebbe pronunciare l’adozione legittimante di un minore che non è stato
dichiarato adottabile ai sensi della legge 184/1983, quando l’ordinamento straniero designato dall’art. 38 consente di far luogo ad un’adozione legittimante sulla base del consenso dei genitori naturali
(c.d. “adozione consensuale”).
La questione si pone in termini parzialmente diversi nei casi in
cui il diritto italiano permette in concreto un’adozione non legittimante, mentre la legge straniera designata dall’art. 38 prevede un’adozione legittimante. L’esempio è fornito dall’adozione da parte del
coniuge del genitore naturale dell’adottando: tale adozione è considerata non legittimante in Italia (art 44 lett b l. adoz.), mentre altri
ordinamenti le riconoscono effetti legittimanti (così il diritto tedesco: Stiefkindsadoption). Nel silenzio della legge, riteniamo che il
giudice italiano possa pronunciare l’adozione legittimante in conformità alla legge straniera. In questo caso, infatti, la legge italiana
non rivendica una sfera di applicazione necessaria: non vi è dunque
ragione per escludere l’operatività del richiamo internazionalprivatistico e l’applicazione del diritto straniero designato dalla norma di
conflitto; in tal senso.
b) Criteri di collegamento utilizzati.
In base alla prima frase dell’art. 38, la costituzione del rapporto
adottivo è regolata dalla legge nazionale dell’adottante o degli adottanti. Qualora gli adottanti non abbiano una cittadinanza comune, è
applicabile la legge dello Stato in cui sono entrambi residenti ovvero
in cui la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata. Questo
criterio è lo stesso che viene utilizzato per la disciplina dei rapporti
personali e patrimoniali tra coniugi aventi diversa cittadinanza.
Se invece gli adottanti non sono sposati (l’adozione da parte di coppie non sposate, vietata dal diritto italiano, ben può essere consentita
dalla lex causue straniera) e non hanno la stessa cittadinanza, l’unico
criterio utilizzabile è proprio quello della residenza nello stesso paese.
L’art. 38 si riferisce anche al caso di adozione da parte di un solo
adottante. È noto che la legge italiana non consente, in linea di principio, l’adozione di minori da parte di un single: è possibile tuttavia
che tale adozione sia consentita dalla legge nazionale o della residenza dell’adottante.
Sotto questo profilo, mette conto segnalare che, a giudizio della
Corte di Cassazione (39), l’adozione da parte di un single disposta
(39) Cass. 5 ottobre 1992 n. 10923, RDIPP, 1993, p. 962 ss..
400
con un provvedimento straniero di cui si chiede la delibazione in
Italia non contrasta con il nostro ordine pubblico.
Per la stessa ragione, riteniamo che una simile adozione possa
anche essere pronunciata direttamente dal giudice italiano, se e
quando prevista dalla legge competente ex art. 38.
Giova inoltre ricordare che anche in questa materia è operante il
principio del rinvio, nei termini previsti in generale dall’art. 13 legge
di riforma (v. sopra).
c) Questioni regolate dal diritto straniero.
La legge designata dall’art. 38 regola, in primo luogo, i presupposti dell’adozione tra cui si possono menzionare, senza pretese di
esaustività: la possibilità di adozione da parte di un soggetto singolo o di una coppia non coniugata; l’età minima dell’adottante o la
differenza di età che deve esistere tra l’adottando e l’adottante; le
altre condizioni di idoneità richieste agli adottanti e le modalità di
accertamento di esse (ad es. dichiarazione di idoneità); il consenso
dell’adottando, dei suoi genitori naturali, di altre persone o di pubbliche autorità; la necessità di un periodo di affidamento preadottivo. Un problema interpretativo si pone per quel particolare presupposto dell’adozione che è, nel diritto italiano, la dichiarazione di
adottabilità del minore.
Questa dichiarazione, che viene pronunciata dal Tribunale per
i Minorenni a conclusione di una particolare procedura (artt. 8-21 l.
adoz.), è necessaria dato che il nostro ordinamento non richiede, né
dà rilevanza al consenso espresso dai genitori naturali del minore.
La dichiarazione di adottabilità ha carattere preliminare rispetto al vero e proprio procedimento di adozione e viene pronunciata
in un momento in cui non soltanto non è stata ancora presentata
una richiesta di adozione (dunque, non si sa se il diritto italiano si
applicherà necessariamente ex art. 38 1° comma i.f.), ma non sono
ancora note le persone alle quali il minore sarà affidato a scopo di
adozione (dunque, non si può sapere quale sia la legge designata
nella prima parte dell’art. 38). La disposizione dell’art. 38 risulta
pertanto strutturalmente inapplicabile per determinare i presupposti e le modalità della dichiarazione di adottabilità.
Come ovviare alla lacuna? In altre parole, quale legge deve essere applicata per stabilire in quali casi e con quale procedura deve
essere dichiarato lo stato di adottabilità del minore? La soluzione
più semplice è di continuare ad applicare, come prima della riforma, l’art. 37 l. adoz. (art. 37-bis del progetto di legge), con la conseguenza che il giudice italiano potrà dichiarare lo stato di adottabilità di ogni minore, anche straniero, che si trovi in stato di abbandono in Italia. In altri termini, le norme italiane che regolano lo sta-
401
to di adottabilità continuano ad essere di applicazione necessaria,
quando il minore è in stato di abbandono in Italia.
A sostegno di tale soluzione si può invocare anche l’art. 40 della
legge di riforma, nella parte in cui riafferma la giurisdizione italiana in ogni caso in cui un minore si trovi in stato di abbandono nel
nostro paese. A che servirebbe tale attribuzione di competenza se
non, appunto, per consentire la dichiarazione di adottabilità?
La legge designata dall’art. 38 regola, infine, le ipotesi e le modalità di revoca dell’adozione (per es. in caso di gravi delitti commessi dall’adottato contro l’adottante oppure per violazione dei doveri incombenti sugli adottanti).
3.5. - Riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione.
A norma dell’art. 41:
1. I provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili in Italia ai sensi degli articoli 64, 65 e 66.
2. Restano ferme le disposizioni delle leggi speciali in materia
di adozione dei minori.
Il problema di tracciare la linea di demarcazione tra la legge
184/1983 e le norme generali contenute nella legge di riforma si ripropone in materia di riconoscimento dei provvedimenti di adozione stranieri.
La legge speciale – come abbiamo visto – prevede la possibilità di
riconoscere ad un provvedimento straniero gli effetti di un’adozione
italiana o di un affidamento preadottivo in vista di un’adozione italiana, ma esige a tal fine il rispetto di alcune condizioni previste dalla
legge italiana, in particolare la dichiarazione di idoneità degli adottanti e la cessazione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine.
Come risulta dall’art. 41 legge di riforma, le norme della l. adoz. “restano ferme”, devono cioè continuare ad applicarsi nei casi ed alle condizioni che esse stesse determinano. Soltanto al di fuori di questa sfera
di applicazione riservata assumono rilevanza gli artt. 64, 65 e 66, cioè
le norme ordinarie sul riconoscimento di provvedimenti stranieri. Il
principio affermato nel 1° comma è in realtà il caso eccezionale, mentre l’eccezione del 2° comma costituisce la regola.
Come abbiamo visto, la l. adoz. rivendica un ambito di applicazione necessario in relazione a due ipotesi, quella di adozione di un
minore che si trova in Italia in stato di abbandono e quella di adozione di un minore straniero, residente all’estero, da parte di adottanti
402
residenti in Italia o di cittadini italiani residenti all’estero da meno di
due anni. Il riconoscimento “ordinario” resta possibile pertanto: a) per
l’adozione di persone maggiorenni; b) per le adozioni non legittimanti di minori pronunciate all’estero nei casi in cui l’art. 44 l. adoz. consente la pronuncia di un’adozione non legittimante; c) nei casi di adozione all’estero di minore italiano; d) nei casi di adozione all’estero di
minore straniero da parte di adottanti stranieri.
In genere, l’adozione straniera dovrà essere qualificata come un
provvedimento di volontaria giurisdizione. A norma dell’art. 66 legge
di riforma, pertanto, il riconoscimento avverrà, in modo automatico,
se l’autorità straniera era competente secondo i principi sulla competenza giurisdizionale vigenti in Italia o se la decisione è stata presa o
è riconosciuta nello Stato la cui legge è applicabile secondo le regole
di diritto internazionale privato cioè nello Stato di cui gli adottanti
hanno la nazionalità o in quello in cui risiedono o hanno la propria
residenza abituale.
403
LE NUOVE COMPETENZE DELL’AUTORITÀ CENTRALE
PREVISTE DALLA L. 64/1994
Relatore:
Dott. Francesco MALAGNINO
Direttore dell’Ufficio Centrale
per la Giustizia Minorile
1. – Considerazioni introduttive.
Nell’ambito del diritto minorile internazionale è ormai universalmente riconosciuta l’esigenza di armonizzare l’ampio e, per molti
aspetti, ancora troppo variegato complesso delle normative vigenti, sia
nei singoli Paesi, sia nelle sedi internazionali.
Questa esigenza comporta, tra l’altro, una particolare attenzione
alle procedure ed ai criteri attraverso i quali le autorità competenti
procedono nella trattazione delle problematiche e dei casi concreti in
materia, soprattutto, di adozione e di altri provvedimenti di tutela dei
minori.
Per risolvere i problemi sempre più complessi derivanti dalle differenze presenti sia sul piano normativo, sia su quello procedurale, tra
gli ordinamenti dei vari Paesi e tra questi e l’ordinamento internazionale, le Convenzioni internazionali vigenti prevedono l’attribuzione ad
organismi con attribuzioni e funzioni specifiche dei compiti relativi
all’applicazione concreta dei principi e delle norme contenuti nelle
Convenzioni stesse.
Tali organismi, appunto le Autorità Centrali oggetto di questa relazione, sono quindi specializzati nell’attuazione pratica delle diverse
Convenzioni, con il compito di far attuare ed osservare, nell’ambito
dei singoli ordinamenti giuridici nazionali, le norme e i provvedimenti assunti in conformità alle disposizioni convenzionali, con il fine ultimo della tutela dell’interesse prevalente del minore.
Alle Autorita Centrali è affidato, quindi, il ruolo delicato di ottemperare agli impegni che i singoli Stati assumono con l’adesione alle
varie Convenzioni internazionali. A questo compito si connette, peraltro, l’esigenza di favorire quanto più è possibile la cooperazione fra gli
Stati e di appianare le differenze tra le molteplici realtà ordinamenta-
405
li, in vista di un’effettiva tutela degli interessi del minore. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che le procedure e le soluzioni
adottabili non differiscano radicalmente da Paese a Paese, per evitare
al minore stesso le conseguenze negative di provvedimenti contraddittori e di conflitti tra le autorità che si occupano dei singoli casi
concreti.
Le Autorita Centrali hanno, quindi, funzioni operative specifiche
e, contestualmente, assumono il ruolo di garanti dell’attuazione dei
dettati delle singole Convenzioni e dell’interpretazione autentica delle
norme in esse contenute. In questa prospettiva si dovrebbe, quindi, situare, anche la previsione di un organismo sovranazionale preposto
alla risoluzione dei conflitti tra Stati sulle decisioni prese in materia di
affidamento e adozione di minori.
A questo proposito occorre ricordare, in via preliminare, come,
alle differenze tra i diversi ordinamenti giuridici nazionali, faccia, per
così dire, da “sfondo” una netta divaricazione di prospettive e di obiettivi tra Paesi, specialmente nel delicatissimo settore dei provvedimenti di tutela e di adozione. Da un lato, vi sono i Paesi nei quali si concentra un numero spesso molto ingente di minori in stato di abbandono e quindi adottabili, per i quali le autorità locali tendono generalmente ad agevolare il più possibile l’attivazione di procedure di adozione internazionale; dall’altro lato, vi sono i Paesi nei quali si concentra la “domanda” di adozioni, che tendono a privilegiare la tutela
di norme e procedure trasparenti, che garantiscano l’assunzione dei
provvedimenti più appropriati negli interessi dei minori. È, perciò, necessario predisporre un insieme di misure per armonizzare le tendenze, spesso, contrastanti, dei diversi soggetti interessati e coinvolti nelle
procedure di adozione e di tutela. A questo scopo, il complesso della
normativa convenzionale ha fissato una serie di criteri e di indicazioni procedurali volte a prevenire, e comunque a gestire conflitti d’interesse e di interpretazione tra tali soggetti. D’altra parte, è oggi prioritario garantire una vera e propria azione giudiziaria per la repressione del fenomeno, assai vasto a livello mondiale, del traffico di bambini a scopo di adozione, che, com’è noto, si connota per le sue odiose
caratteristiche di speculazione sulle condizioni di povertà estrema nelle quali versa una parte consistente dell’infanzia nei Paesi meno sviluppati.
Altre questioni che si presentano frequentemente riguardano il cosiddetto “legal kidnapping”, ovvero della “sottrazione internazionale”
dei minori, contesi tra i genitori e indebitamente trasferiti da uno dei
due in uno Stato diverso da quello di residenza abituale o impediti a
406
tornare dopo che il trasferimento sia avvenuto in modo legittimo; in
questi casi il genitore sottrae il figlio all’altro genitore per esercitare un
proprio diritto che, nella sua prospettiva, considera ostacolato dall’ordinamento giuridico del Paese nel quale il figlio risiede abitualmente.
In tutti questi casi è necessaria un’azione tempestiva delle autorità
competenti, volta a tutelare gli interessi del minore ed a garantire, in
funzione dell’efficacia dell’azione tutoria, l’assunzione di provvedimenti in grado di comporre rapidamente tali conflitti.
La normativa convenzionale trova, peraltro, un inquadramento
complessivo nei grandi documenti delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, in particolare nella Convenzione di New York sui diritti del
fanciullo del 20 novembre 1989, che sancisce esplicitamente ed inequivocabilmente i diritti inalienabili di ogni minore, a prescindere dalle differenze di nazionalità e di cittadinanza. Ad essa si può oggi
affiancare la Convenzione Europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996
sull’esercizio dei diritti dei minori. Lo strumento delle convenzioni internazionali appare, di conseguenza, orientato a garantire l’effettiva
tutela di questi diritti, attraverso l’individuazione delle condizioni e
degli strumenti normativi atti a superare le differenze e le controversie relative alla situazione giuridica dei singoli minori.
Le Autorità Centrali si inseriscono in questo quadro con il preciso scopo di attuare nella pratica concreta l’armonizzazione dei differenti ordinamenti giuridici in vista della tutela effettiva dei diritti dell’infanzia.
Questo importantissimo ruolo comporta una molteplicità di funzioni, non soltanto di tipo specificamente giudiziario, ma anche para-giudiziario, esplicandosi, per un verso, nell’organizzazione di tutti
gli interventi necessari per risolvere le contese tra genitori di diversa
nazionalità, per un altro verso, nello svolgimento di complesse procedure riguardanti le adozioni internazionali. Tale ambito d’attività
concerne un ampio ventaglio di competenze, derivanti dagli impegni
assunti dal nostro paese a seguito della ratifica delle seguenti convenzioni internazionali:
– Convenzione de L’Aja, 5 ottobre 1961 in materia di protezione
dei minori (ratificata con la Legge 24 ottobre 1980, n. 742);
– Convenzione de L’Aja, 28 maggio 1970, in materia di rimpatrio
di minori (ratificata con la Legge 30 giugno 1975, n. 396);
– Convenzione de L’Aja, 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili della
sottrazione internazionale di minori (ratificata con la Legge 15 gennaio 1994, n. 64);
407
– Convenzione di Lussemburgo, 20 maggio 1980, sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento (ratificata anch’essa con la
Legge 15 gennaio 1994, n. 64).
La legge 64/1994 contiene inoltre norme d’attuazione delle due
prime Convenzioni de L’Aja (1961 e 1970).
L’Autorità Centrale provvede anche all’adempimento dei compiti
contemplati dalla Convenzione tra gli Stati membri delle Comunità
Europee sulla semplificazione delle procedure relative al recupero dei
crediti alimentari (Roma, 6 novembre 1990), ratificata dall’Italia con
Legge 23 dicembre 1992, n. 524.
L’attività dell’Autorità Centrale riceverà un ulteriore impulso dall’entrata in vigore della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993,
sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale. Per questo motivo, nell’ambito di un’esposizione organizzata secondo un criterio cronologico, si darà particolare
rilievo all’analisi delle problematiche relative a questa Convenzione,
già firmata dall’Italia, l’11 dicembre 1995, e a quella di Lussemburgo
del 1980.
2. – L’Autorità Centrale secondo la Convenzione de L’Aja sulla competenza delle autorità e la legge applicabile in materia di protezione dei
minori (5 ottobre 1961).
Questa Convenzione, ratificata dall’Italia quasi vent’anni dopo la
sua elaborazione, è entrata in vigore soltanto il 23 aprile 1995. Si tratta, dunque, di un testo decisamente “datato”, che non corrisponde più
adeguatamente alle esigenze attuali della protezione dei minori e che,
proprio per questo motivo, è in corso di revisione. In questa sede non
entriamo nei dettagli del suo dettato, dovendo occuparci specificamente delle competenze delle Autorità Centrali, si può segnalare, comunque, che in alcuni punti la Convenzione del 1961 non si conforma
pienamente alla Convenzione di New York del 1989 e, perciò, le misure integrative in fase di elaborazione puntano ad un riallineamento del
testo della Convenzione de L’Aja con quello della Convenzione O.N.U.
La Convenzione de L’Aja del 1961 ha, tuttavia, un notevole rilievo
storico, in quanto ha riformato il sistema della protezione dei minori,
rispetto all’impostazione della precedente Convenzione de L’Aja del
1902. In particolare, mentre nel testo del 1902 la competenza giurisdi-
408
zionale era stata attribuita al Paese di cui il minore risultava cittadino,
nella Convenzione del 1961 il criterio della cittadinanza è posto in collegamento con quello territoriale. Si vedano, per questo aspetto, le disposizioni contenute, ad es., all’art. 1 della Convenzione (“Le autorità,
sia giudiziarie che amministrative, dello Stato di residenza abituale di
un minore sono competenti (…) ad adottare misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni”), all’art. 4, comma 1 (“Se le
autorità dello Stato di cui il minore è cittadino giudicano che l’interesse del minore lo esige, esse possono, dopo aver informato le autorità dello Stato di sua residenza abituale, adottare in base alla loro legislazione interna misure miranti alla protezione della sua persona o
dei suoi beni”) e, infine, all’art. 6, comma 1 (“Le autorità dello Stato di
cui il minore è cittadino possono, d’accordo con quelle dello Stato in
cui egli ha la sua abituale residenza o possiede dei beni, affidare a queste ultime l’applicazione delle misure adottate”).
In sostanza, la “ratio” della Convenzione punta ad attribuire la facoltà di assumere provvedimenti di tipo amministrativo o giurisdizionale a protezione dei minori alle autorità del Paese di residenza abituale del minore, mentre i rapporti di tutela derivanti direttamente
dalla legge restano regolati in base al principio di cittadinanza (cfr.
Art. 3: “Un rapporto d’autorità risultante di pieno diritto dalla legislazione interna dello Stato di cui il minore è cittadino è riconosciuto in
tutti gli stati contraenti”).
La Convenzione prevede forme di cooperazione tra gli Stati parti,
per una più efficace tutela del minore. Oltre al già citato art. 6, che dispone un’azione concertata tra lo stato di residenza e lo Stato di cui il
minore è cittadino, l’art. 11 contempla il compito per tutte le autorità
interessate ad informare dei propri provvedimenti le altre autorità interessate alle vicende dei singoli minori, con l’impegno per ciascuno
Stato di designare gli organismi preposti a questo scambio di informazioni con gli altri Stati. Qui si delinea chiaramente un ambito di
competenza precipua dell’Autorità centrale, che deve garantire la circolarità delle informazioni necessarie per l’adozione dei provvedimenti opportuni.
Da quando è entrata in vigore nel nostro paese, la Convenzione de
l’Aja del 1961 ha avuto un’applicazione estremamente ridotta. In effetti, il contesto storico-sociale è profondamente mutato e, nonostante la
portata innovativa di questa Convenzione, appare oggi di difficile
applicabilità rispetto alle norme previste dalle altre Convenzioni
internazionali vigenti, più adatte ad affrontare una situazione di massicci flussi migratori e di crescente complessità delle relazioni intrafa-
409
miliari, specialmente nei nuclei familiari multietnici. Di conseguenza,
ai sensi di tale Convenzione, fino al marzo 1996 è stato trattato un solo
caso, ancora pendente.
3. – L’Autorità Centrale secondo la Convenzione de L’Aja del 28 maggio
1970 sul rimpatrio dei minori.
Anche questa Convenzione ha avuto uno sviluppo estremamente
limitato, in quanto non è ancora entrata in vigore in nessuno degli
stati firmatari; infatti, non è stato raggiunto il numero minimo di ratifiche previste dall’accordo.
L’oggetto della Convenzione è il rimpatrio dei minori ed in essa
sono regolamentate le procedure di rinvio del minore, sottrattosi con
l’espatrio alla potestà cui è soggetto, allo Stato di provenienza su richiesta di uno degli Stati parti. La richiesta di rimpatrio può avere origine da una dichiarazione di volontà da parte di una persona che esercita la potestà genitoriale sul minore, oppure da un provvedimento
dell’autorità competente in materia di protezione o rieducazione del
minore stesso.
L’art. 3 della Convenzione prevede che ogni Stato contraente designi un’Autorità Centrale “incaricata di formulare, emettere e ricevere
le domande di rimpatrio”. Compito dell’Autorità centrale è anche quello di verificare la fondatezza delle richieste, sulle quali ogni decisione
deve essere presa soltanto dopo aver ascoltato il minore per il quale è
stato richiesto il rimpatrio; prima della decisione si dovrebbero ascoltare anche gli esercenti la potestà genitoriale e coloro che hanno di fatto la custodia del minore.
Da parte dell’Autorità centrale italiana non è stato finora possibile
applicare la Convenzione, in quanto, come già s’è detto, la stessa non
è ancora in vigore. Un solo caso è stato definito, tuttavia, con l’archiviazione, proprio a causa del fatto che la Convenzione non è operativa.
4. – L’Autorità Centrale secondo la Convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni relative all’affidamento dei minori e sul ristabilimento dell’affidamento (Lussemburgo, 20 maggio 1980).
Questa Convenzione è considerata, insieme a quella de L’Aja dello
stesso anno, con la quale intercorrono strette affinità, come lo stru-
410
mento più idoneo per regolamentare l’ampia gamma di problematiche e di situazioni concrete che si possono verificare in materia di
affidamento di minori e di violazione dei provvedimenti assunti in
proposito.
L’obiettivo della Convenzione di Lussemburgo è di stabilire le forme di un’autentica collaborazione a livello internazionale per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento e
di diritto di visita. A questo scopo, viene in essa sancito il principio
fondamentale, secondo il quale i provvedimenti emessi leggittimamente in uno degli Stati parti devono essere riconosciuti ed eseguiti
dagli altri. Conseguentemente, i casi di trasferimento di minori al di
fuori o in violazione delle decisioni assunte dalle autorità competenti
devono essere risolti con la “restituzione” di questi minori ed il ristabilimento delle situazioni determinate dai provvedimenti legittimi, attraverso un preciso processo d’attivazione dell’autorità giudiziaria che
vede nelle Autorità Centrali il fulcro di tutta l’organizzazione competente.
Le modalità d’azione delle Autorità Centrali sono delineate chiaramente dalla Convenzione con una precisa connotazione volta a sottolineare l’importanza della collaborazione internazionale (v. per
esempio l’art. 3: “Le autorità centrali degli Stati contraenti devono cooperare tra loro e promuovere un concerto tra le autorità competenti
e i loro rispettivi Paesi”). In questo senso, diventa allora fondamentale la massima circolazione delle notizie tra gli organi competenti; per
questo motivo le Autorità Centrali hanno una serie di compiti specifici: a) assicurare la trasmissione di tutte le domande d’informazione
provenienti dalle autorità competenti; b) comunicarsi reciprocamente
informazioni e documentazioni sulla rispettiva legislazione; c) adoperarsi per il superamento di tutte le difficoltà d’applicazione della Convenzione.
Le Autorità Centrali divengono, quindi, il punto di riferimento per
tutte le situazioni che richiedono il riconoscimento o l’esecuzione di
atti d’affidamento assunti in uno degli Stati parti anche in altri Paesi
aderenti alla Convenzione. La Convenzione indica anche espressamente le azioni che le Autorità Centrali possono e debbono compiere
per adempiere ai propri compiti istituzionali, anche in collaborazione
con altre autorità competenti: a) rintracciare il luogo in cui si trova il
minore per il quale è stato chiesto il riconoscimento o l’esecuzione di
un provvedimento d’affidamento; b) evitare in ogni modo che siano
lesi gli interessi del minore; c) assicurare il riconoscimento o l’esecuzione del provvedimento richiesto; d) assicurare la consegna del mino-
411
re al richiedente; e) informare le autorità interessate delle misure adottate; f) trasmettere i documenti all’Autorità di un altro Stato contraente, se vi sono ragioni per credere che il minore si trovi in questo
Stato.
È compito delle Autorità Centrali anche di garantire l’assunzione
dei provvedimenti idonei senza spese per i richiedenti, ad eccezione di
quelle per il rimpatrio; l’assistenza legale, nei casi di contenzioso, deve
essere assicurata in maniera tale che il ricorrente possa godere di una
rappresentanza nello Stato estero altrettanto valida di quella che possono avere i cittadini di quello Stato.
Lo spirito della Convenzione è, dunque, chiaramente teso ad attribuire alle Autorità Centrali un ruolo dinamico e attivo. In concreto,
tali organismi possono avvalersi del sostegno delle forze di polizia per
localizzare i minori sottratti illegalmente e devono informarsi su eventuali procedimenti penali pendenti sui genitori, scegliere le soluzioni
più adatte per garantire la tutela dei superiori interessi del minore, assistere le parti e ricorrere alle autorità giudiziarie e di altro genere
competenti evitando nel contempo che eventuali tentativi di composizione amichevole siano strumentalmente rivolti a ritardare le procedure attivate o comportino ulteriori trasferimenti del minore. Si fissa
anche, all’art. 14, un termine temporale preciso per la definizione dei
procedimenti attivati: per i casi che comportino la restituzione del minore, tale termine è di sei settimane, un tempo decisamente breve, giustificato dalla natura stessa dei provvedimenti da assumere, tutti di carattere urgente, per risolvere casi di vero e proprio “legal kidnapping”.
Peraltro, rientra nell’ambito della Convenzione l’assunzione di misure anche nei casi di violazione del diritto di visita. Anche qui, l’elemento essenziale per la soluzione delle problematiche di questi casi è
la collaborazione tra le varie autorità competenti (cfr. Art. 11).
In alcuni casi è possibile trovare un accordo tra le parti su decisioni che conferiscano la custodia congiunta o la custodia alternata.
Tali provvedimenti dovrebbero trovare applicazione anche negli Stati
in cui l’uno o l’altro tipo di custodia non sia contemplato dall’ordinamento giuridico interno.
La Convenzione di Lussemburgo non limita la sua sfera di competenza ai casi di sottrazione o non restituzione di minori, ma la estende a tutte le decisioni relative all’affidamento, per tutelare gli interessi
del minore in situazioni che coinvolgono le Autorità di più Stati.
A questo scopo, la Convenzione delinea una procedura di risoluzione di tali questioni, per assicurare il riconoscimento delle decisioni
in materia di affidamento e di diritto di visita. In questa prospettiva, la
412
Convenzione del Lussemburgo è applicabile non solo alle decisioni delle autorità giudiziarie, ma anche a quelle delle autorità amministrative; risulterebbe opportuno, a tale proposito, garantire l’esecuzione
delle decisioni di natura amministrativa (per esempio, in campo previdenziale), attraverso specifiche misure legislative nei singoli Stati.
Come si vedrà meglio in seguito, i contenuti della Convenzione del
Lussemburgo sono strettamente affini a quelli della Convenzione de
L’Aja sugli aspetti civili della sottrazione dei minori. Ciò determina,
talvolta, nell’attività delle Autorità Centrali, la possibilità che si verifichino divergenze di vedute su quale delle due convenzioni risulti più
opportuno applicare nei singoli casi. Quando si verificano tali dubbi
interpretativi, la via da seguire per risolverli è, chiaramente, la collaborazione e lo scambio d’informazioni tra le Autorità Centrali richiedenti e quelle destinatarie delle richieste.
In Italia, la Convenzione del Lussemburgo è entrata in vigore il 1°
giugno 1995, finora è stato trattato dall’Autorità Centrale un numero
piuttosto limitato di casi (9, dei quali 4 definiti e 5 ancora pendenti),
nonostante l’ambito, invece, assai ampio di questioni e di situazioni
concrete alle quali si possono applicare le norme convenzionali. I motivi principali di questa ancora limitata applicazione della Convenzione si possono individuare essenzialmente nel suo ambito geografico
d’applicazione, ristretto, per così dire, alla sola Europa, e nella scarsa
informazione sui suoi contenuti tra gli operatori della giustizia.
5. – L’Autorità Centrale secondo la Convenzione de L’Aja (25 ottobre
1980) sugli aspetti civili della sottrazione dei minori.
Questa Convenzione deve essere letta in stretta connessione con il
dettato della Convenzione del Lussemburgo.
I principali obiettivi del trattato sono quelli di assicurare l’immediata restituzione dei minori illecitamente sottratti e di rendere possibile ed effettivo l’esercizio sia del diritto di visita, sia del diritto di custodia, per impedire la cristallizzazione di situazioni di fatto difformi
da quelle precedenti la sottrazione.
Anche in queste situazioni, l’obiettivo da perseguire è quello della
tutela dei diritti del minore, in particolare per quanto concerne, non
soltanto il ristabilimento di una situazione definita dalle autorità competenti, ma anche l’alleviamento e l’eliminazione di tutte le tensioni
emotive ed affensive che possono influenzare in modo estremamente
negativo lo sviluppo psicologico del bambino illecitamente sotratto.
413
Sul piano operativo, la soluzione di questi casi richiede che le autorità competenti esaminino le cause dell’alterazione di fatto della
situazione stabilita prima della sottrazione del minore, decidendo sul
merito dopo che sia stata accertata la sussistenza dei requisiti stabilita nella stessa Convenzione per il rimpatrio, o meno, del minore. Il
dettato della Convenzione, in sostanza, scinde il problema di merito
sulla custodia del minore da quello relativo alla restituzione dello
stesso, mantenendo inalterato il diritto dei soggetti coinvolti ad esperire azioni legali in qualsiasi Paese per modificare la titolarità della
custodia.
Il presupposto per l’applicazione della Convenzione ai singoli casi
è, ovviamente, che il diritto violato trovi adeguata giustificazione e
fondamento nell’ordinamento giuridico dello Stato di residenza abituale del minore prima della sottrazione e che tale diritto sia stato realmente esercitato.
L’attuazione concreta della Convenzione è affidata anche in questo caso all’azione delle Autorità Centrali, orientata, da un lato, alla cooperazione amministrativa e giudiziaria tra i vari Stati parti, da un altro lato, all’attivazione delle procedure necessarie per localizzare il minore illecitamente sottratto, analizzare le singole situazioni, organizzare il rimpatrio, ecc..
Lo spirito di profonda collaborazione tra i diversi organismi è
espressamente richiamato e sottolineato dalla Convenzione (cfr. art. 7:
“Le Autorità Centrali devono cooperare reciprocamente e promuovere
la cooperazione tra le Autorità competenti nei loro rispettivi Stati, al
fine di assicurare l’immediato rientro dei minori e conseguire gli altri
obiettivi della Convenzione”).
Nella Convenzione è specificato, inoltre, l’insieme dei compiti che
le Autorità Centrali devono svolgere: a) localizzare i minori illecitamente trasferiti o trattenuti; b) impedire situazioni di pericolo per il
minore o pregiudizi alle parti; c) assicurare la consegna volontaria del
minore o agevolare la composizione amichevole delle controversie; d)
scambiare con gli organismi corrispondenti informazioni sulla situazione sociale dei minori; e) scambiarsi informazioni sui rispettivi ordinamenti legislativi; f) nei singoli casi, organizzare e consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita e il rientro del minore, e instaurare
le opportune procedure giudiziarie e amministrative; g) concedere o
agevolare l’assistenza giudiziaria e legale; h) assicurare, sul piano amministrativo, tutte le misure per il rientro del minore in condizioni di
sicurezza; i) impegnarsi nello scambio reciproco d’informazioni con le
varie Autorità Centrali in vista della rimozione di qualsiasi ostacolo ri-
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scontrato nell’applicazione della Convenzione stessa. Occorre anticipare qui che l’attuazione concreta della Convenzione, nel periodo ancora breve trascorso dalla sua entrata in vigore (il 1° maggio 1995) incontra in effetti numerosi, rilevanti ostacoli, proprio nella collaborazione tra le Autorità Centrali di alcuni Paesi.
Il numero dei casi trattati da parte dell’Autorità Centrale italiana
è, per questa Convenzione, assai elevato: 94 pratiche istruite fino al
marzo di quest’anno, riguardanti ben 22 Paesi (Argentina, Australia,
Austria, Canada, Danimarca, Ex-Jugoslavia, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Polonia, Scozia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Stati Uniti). Il maggior numero di casi riguarda gli Stati
Uniti (23 casi), la Germania (15 casi), la Francia (11 casi), la Gran Bretagna (8 casi) e la Svizzera (8 casi).
L’esperienza accumulata evidenzia un problema non marginale,
relativo alle non sempre agevoli modalità di comunicazione con le varie Autorità Centrali straniere, che spesso hanno tempi di risposta e di
completamento delle procedure richieste piuttosto lunghi. Un’altra
questione da segnalare riguarda il fatto che un buon numero dei casi
trattati finora si riferisce a sottrazioni precedenti la data di entrata in
vigore in Italia della Convenzione (1° maggio 1995); in questi casi,
l’Autorità Centrale ha svolto essenzialmente la funzione di assicurare
la tutela del diritto di visita del genitore non affidatario.
Un nodo problematico che si pone con notevole rilievo all’attenzione degli operatori del diritto è quello relativo alle notevoli differenze d’impostazione che sono state riscontrate nei rapporti tra l’Autorità
Centrale italiana e i suoi omologhi stranieri. La Convenzione sottolinea l’esigenza di una stretta collaborazione tra le Autorità Centrali al
fine di garantire l’effettiva tutela dei diritti del minore; a questo riguardo si può facilmente notare come l’ambito d’applicazione della Convenzione riguardi espressamente casi che si contraddistinguono tutti
per la gravità delle situazioni venutesi a creare e per la forte conflittualità tra le parti in causa. Ciò richiede una profonda sensibilità sia
verso le problematiche psico-pedagogiche di tali situazioni, sia verso
l’attuazione completa sul piano operativo del principio del ristabilimento del diritto eventualmente violato. Nel giudizio degli operatori
dell’Autorità Centrale è stato possibile riscontrare profonde divergenze d’atteggiamento tra le diverse Autorità Centrali per quanto riguarda, per esempio, l’assicurazione delle misure necessarie per realizzare
il rientro dei minori sottratti. Si può parlare anche di una certa “chiusura” di alcuni Stati contraenti rispetto alle stesse finalità del dettato
convenzionale.
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In vari casi gli Stati richiesti esercitano un’azione conforme più
alla tutela degli interessi del “proprio” cittadino che all’esame obiettivo delle singole situazioni e all’assunzione dei provvedimenti più idonei a risolverle. Ciò sfocia, durante la trattazione dei casi, nell’attivazione di procedure giudiziarie ordinarie, che rallentano considerevolmente la risoluzione delle situazioni contese, talvolta persino con
l’handicap, per il cittadino italiano, di doversi fornire di assistenza legale, con i notevoli costi che questo comporta.
In prospettiva, appare quindi necessario che si giunga alla costituzione di un organismo sovranazionale preposto espressamente all’attuazione dello spirito e della lettera della Convenzione, per porre fine all’increscioso spettacolo di pesanti contese ostruzionismi tra le varie Autorità Centrali.
6. – L’Autorità centrale secondo la Convenzione sulla semplificazione
delle procedure relative al recupero dei crediti alimentari (Roma, 6
novembre 1990).
Il recupero delle obbligazioni alimentari è uno dei settori di più rilevante impegno per le autorità giudiziarie in tutti i Paesi occidentali.
In particolare, è frequente il ricorso all’autorità giudiziaria per le numerose inadempienze che si possono riscontrare nell’adempimento
degli obblighi alimentari necessari al mantenimento dei figli non conviventi da parte della persona tenuta alla corresponsione di tali alimenti. La frequenza di situazioni di questo genere anche in campo internazionale, con il conseguente coinvolgimento di più Stati nell’assunzione di provvedimenti idonei alla tutela degli interessi del minore, ha determinato fin dagli anni Cinquanta un adeguamento del sistema giuridico internazionale alle problematiche in questo settore: si
può qui citare la Convenzione di New York del 20 giugno 1956, ratificata dall’Italia con l. 23 marzo 1958, n. 338.
L’apertura delle frontiere, negli anni Sessanta, ha spinto la Comunità Europea a elaborare nuove norme in tema di recupero dei crediti alimentari all’estero. Dopo la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, l’ulteriore evoluzione sociale legata all’enorme incremento della mobilità degli abitanti dei Paesi membri, ha determinato
l’elaborazione di una nuova Convenzione sulla semplificazione delle
procedure relative al recupero dei crediti alimentari, stipulata a
Roma il 6 novembre 1990 e ratificata dall’Italia con l. 23 dicembre
1992, n. 524.
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Questa Convenzione, nonostante il suo indubbio valore come strumento atto a dirimere controversie spesso molto accese, non è ancora
entrata in vigore, essendo previsto che ciò avvenga dopo novanta giorni a decorrere dalla data del deposito degli strumenti di ratifica di tutti
gli Stati membri, cosa che non è ancora avvenuta.
Ad ogni modo, la Convenzione prevede una cooperazione tra gli
organismi centrali, volta a favorire l’esecuzione degli obblighi alimentari, grazie essenzialmente alla semplificazione delle procedure attraverso le norme in essa contenute, affidando agli Stati parti il compito
di designare un’Autorità Centrale per l’esecuzione delle disposizioni
convenzionali: rintracciare il debitore o il suo patrimonio, registrare le
decisioni, trasferire la pensione alimentare, assicurarsi dell’attivazione di tutte le vie d’esecuzione praticabili da parte dello Stato richiesto
(cfr. art. 3).
Risulta estremamente significativo che in questa Convenzione sia
contemplata l’istituzione di un Comitato permanente “destinato a permettere uno scambio di opinioni sul funzionamento della Convenzione ed a risolvere le difficoltà pratiche che si dovessero eventualmente
presentare” (art. 8), composto da rappresentanti designati da ogni Stato membro con la facoltà di formulare raccomandazioni sull’attuazione della Convenzione o, anche, sue modifiche.
7. – L’Autorità Centrale secondo la Convenzione de L’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale (29 maggio 1993).
Questa Convenzione, che ha assunto un ruolo del tutto fondamentale nella gestione delle controversie in materia di adozione internazionale, è stata firmata dall’Italia l’11 dicembre 1995 ed è oggi in attesa di ratifica.
Questa Convenzione appare oggi come uno strumento essenziale
per la lotta contro il traffico illecito di minori a scopo di adozione e,
per attuare gli obiettivi ambiziosi che si pone, prevede l’istituzione di
Autorità Centrali, alle quali sono attribuite funzioni complesse, tra le
quali quelle, esercitate in via esclusiva, di delega nei confronti di Enti
autorizzati riconosciuti, allo scopo di evitare ogni forma di intermediazione che non segua canali ufficiali e trasparenti.
Le Autorità Centrali devono assumere tutte le misure idonee a garantire la massima collaborazione e lo scambio di informazioni tra i
vari organismi (art. 7) e, avvalendosi anche della collaborazione di al-
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tre autorità pubbliche, devono prevenire in ogni modo i profitti materiali indebiti in occasione di adozioni internazionali (art. 8).
A questo scopo, spetta alle Autorità Centrali: a) raccogliere e far
circolare tutte le informazioni relative alla situazione dei minori e dei
futuri genitori adottivi, utili ai fini dell’adozione; b) seguire, attivare e
agevolare le procedure in vista dell’adozione; c) promuovere lo sviluppo dei necessari servizi di assistenza, anche per la fase successiva all’adozione; d) scambiare rapporti valutativi delle esperienze in materia
di adozione internazionale; e) rispondere alle richieste motivate di
informazioni su situazioni particolari d’adozione formulate da altre
Autorità Centrali o pubbliche; f) ricevere le domande degli aspiranti
all’adozione internazionale e valutare il possesso da parte loro dei requisiti necessari, redigendo relazioni dettagliate al riguardo; g) raccogliere tutti i dati utili riguardanti i minori adottabili, intorno alla loro
identità, all’ambiente sociale, all’evoluzione personale e familiare,
all’anamnesi sanitaria del minore e della sua famiglia, alle sue necessità, tenendo conto delle sue origini etnica, culturale e religiosa (cfr.
per queste competenze gli artt. 6-9, e 14-16 della Convenzione).
Per la sua natura estremamente particolare, nella Convenzione si
specifica che l’adozione internazionale può essere decisa soltanto se le
autorità competenti dello Stato d’origine hanno constatato, dopo aver
valutato le possibilità di affidamento “interno”, che l’adozione internazionale corrisponda all’interesse superiore del minore (art. 4).
Inoltre, la Convenzione specifica le modalità entro le quali le Autorità Centrali devono verificare la praticabilità dell’adozione internazionale e la regolarità delle procedure svolte al riguardo: a) assicurarsi che i consensi all’adozione siano stati ottenuti fornendo alle persone, istituzioni, autorità il cui consenso è necessario per assumere il
provvedimento, l’opportuna assistenza e un’adeguata informazione in
merito alle conseguenze dell’assenso, specialmente in merito alla conservazione/rottura dei legami giuridici fra il minore e la sua famiglia
d’origine; b) assicurarsi che il consenso sia stato ottenuto liberamente, in forma scritta e senza contropartite (quello della madre deve essere stato prestato solo dopo la nascita del figlio; c) assicurarsi che, tenuto conto dell’età e della maturità del minore, siano state fornite anche
a quest’ultimo l’assistenza e l’informazione necessarie e che si sia tenuto conto dei suoi desideri ed opinioni, cosicchè il suo consenso sia
stato prestato anch’esso liberamente, in forma scritta e senza contropartite (art. 4). Si può qui già sottolineare l’importanza del principio
della considerazione dei desideri e delle opinioni del minore, compatibilmente con la sua età e maturità. Ogni provvedimento d’adozione,
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secondo il dettato di questa Convenzione, che non tenga conto di tali
desideri ed opinioni appare privo di validità. Ciò dovrebbe comportare, in effetti, ampie ripercussioni anche sulle legislazioni nazionali.
Tale orientamento è stato, del resto, fortemente riaffermato dalla
recente Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori, che
definisce i diritti procedurali del minore, precisando che in tutti i procedimenti giudiziari vengano riconosciuti “(…) al minore considerato
dal diritto interno capace di sufficiente discernimento i seguenti diritti di cui può chiedere egli stesso di beneficiare:
a – ricevere ogni informazione pertinente;
b – essere consultato ed esprimere la sua opinione;
c – essere informato delle eventuali conseguenze della messa in
pratica della sua opinione e delle eventuali conseguenze di qualunque
decisione” (art. 3), nonché del diritto di chiedere la designazione e di
avvalersi di rappresentanti speciali.
Le decisioni di affidamento del minore ai futuri genitori adottivi
possono essere prese soltanto se esiste un comune accordo tra l’Autorità Centrale del Paese d’origine del minore e quella dello Stato d’accoglienza (art. 17 della Convenzione de L’Aja). Conseguentemente, le
due Autorità Centrali adottano le misure opportune per la realizzazione dell’affidamento (autorizzazioni all’espatrio e all’ingresso nel paese
d’accoglienza, trasferimento in condizioni di assoluta sicurezza, possibilmente con il minore accompagnato dai genitori adottivi – artt.
18-19).
Ai sensi dell’art. 21 della Convenzione è compito delle Autorità
Centrali seguire l’adozione nelle fasi successive all’assunzione del
provvedimento, intervenendo con nuove decisioni (ivi inclusi, eventualmente, nuovi affidamenti, qualora il primo affidamento non risulti più conforme al superiore interesse del minore, e il ritorno del minore nel Paese d’origine), con le stesse modalità già descritte.
La Convenzione de L’Aja del 1993 è fondamentale anche perché
regolamenta per la prima volta in modo organico l’attività dei cosiddetti “enti autorizzati”, vale a dire di quegli organismi che possono
svolgere le funzioni sopra descritte nel campo delle adozioni internazionali, sulla base di una delega specifica concessa dalle autorità dei
singoli Stati.
L’istituzione e il riconoscimento dell’azione di questi enti appare
oggi di fondamentale rilievo, sia nella direzione di un’attività efficace
per la repressione del traffico illecito di minori a scopo di adozione,
sia per stabilire una rete di canali ufficiali adeguatamente ramificata,
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per offrire alle coppie di aspiranti all’adozione prospettive ragionevoli, anche rispetto al tempo necessario per l’accoglimento delle loro esigenze e richieste e per il completamento delle procedure.
La Convenzione de L’Aja specifica che l’ottenimento, da parte di
questi enti, delle necessarie autorizzazioni ad operare è subordinato
ad una precisa idoneità “a svolgere correttamente i compiti che potrebbero essere loro affidati” (art. 10). Una volta ottenuta, l’autorizzazione può sempre essere revocata per il venir meno di tale idoneità.
L’art. 11 della Convenzione, inoltre, delinea le modalità che devono necessariamente caratterizzare l’azione degli enti autorizzati, i
quali, chiaramente, non possono assumere iniziative che non siano
pienamente inserite negli ambiti e nelle metodologie stabilite dalle Autorità Centrali. In particolare, gli enti autorizzati devono “perseguire
solo scopi non lucrativi nelle condizioni e nei limiti fissati dalle autorità competenti”, essere gestiti e diretti da persone idonee sia sul piano
morale, sia su quello tecnico-professionale ed essere sottoposte alla
sorveglianza accurata di tali Autorità, non solo sul piano specificamente operativo, ma anche su quello finanziario e della composizione
interna.
Un altro aspetto peculiare della Convenzione de L’Aja riguarda la
previsione che gli Stati parti stipulino accordi bilaterali con altri Stati
per l’applicazione della Convenzione (art. 39, comma 2: “Ogni Stato
contraente può concludere, con uno o più degli altri Stati contraenti,
accordi tendenti a favorire l’applicazione della Convenzione nei loro
reciproci rapporti”). Tale previsione si dovrebbe rivelare utile, in prospettiva, a stabilire un quadro di riferimento globale per la regolamentazione di tutta la materia relativa all’adozione internazionale, di
cui la Convenzione de L’Aja appare l’asse portante.
Il dettato della Convenzione de L’Aja pone sul tappeto importanti
questioni relative all’individuazione delle caratteristiche e della collocazione operativa delle Autorità Centrali previste dal testo convenzionale. L’individuazione delle soluzioni idonee per queste problematiche
è lasciata ai singoli Paesi. Per quanto concerne l’Italia, l’Autorità Centrale è stata collocata in quello che può considerarsi il suo ambito
“naturale”, vale a dire presso l’Ufficio Centrale per la Giustizia minorile. Tale collocazione risponde pienamente alle esigenze operative e
alle funzioni specifiche, di carattere prettamente giurisdizionale, che
è chiamata ad assolvere l’Autorità Centrale nell’ambito della normativa convenzionale qui delineata.
Per il futuro, sarebbe opportuno prevedere, in vista dell’armonizzazione delle procedure previste dal diritto interno dei vari Paesi con
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il modello proposto dalla Convenzione, la creazione di un organismo
internazionale super partes, in grado di svolgere funzioni di garante
dell’effettivo adeguamento ai princìpi della Convenzione del diritto interno degli Stati nei quali sussistano difformità interpretative ed applicative.
È stata anche avanzata la proposta di una diversa collocazione
dell’Autorità Centrale nell’ambito di un Comitato interministeriale per
l’affidamento e l’adozione dei minori (cfr., per esempio, la proposta di
legge n. 1746/C avanzata dall’on. Bolognesi nella XII legislatura). A
questo riguardo, in questa sede è opportuno sottolineare che la natura dei compiti, estremamente delicati dell’Autorità Centrale, che richiedono specifiche competenze e l’attività congiunta di magistrati e
di esperti delle discipline psicopedagogiche e del servizio sociale, esige
che questo organismo operi con pienezza di funzioni in un contesto
che, sulla base del dettato della Convenzione, privilegia intrinsecamente il carattere giudiziario ed operativo dell’Autorità Centrale.
Vi sono, inoltre, alcuni punti nodali, che pongono problemi interpretativi al riguardo del raccordo tra la normativa convenzionale e
quella italiana. Tra questi, si segnala quanto è disposto all’art. 9 della
Convenzione, nel quale si delinea come compito precipuo dell’Autorità
Centrale quello di raccogliere, conservare e scambiare informazioni
sulla situazione dei minori e dei futuri genitori adottivi.
La normativa italiana prevede che i compiti d’inchiesta sulla personalità dei genitori e sui loro requisiti per l’adozione e quelli di conservazione degli atti relativi competono all’Autorità Giudiziaria. Lo
stesso art. 9, citato, stabilisce, comunque, che le attività in esso elencate possano essere svolte dall’Autorità Centrale sia direttamente, sia
con il concorso di altre “autorità pubbliche”. Tra queste ultime è legittimo ricomprendere anche i Tribunali per i Minorenni; si può considerare sufficiente, per l’applicazione della normativa pattizia sopra menzionata, una comunicazione dello Stato contraente all’Ufficio permanente della Conferenza de L’Aja, ai sensi dell’art. 13 della Convenzione.
Un secondo punto, certamente più problematico, riguarda la previsione, contenuta nell’art. 15, che sia compito dell’Autorità Centrale
redigere la relazione sui futuri genitori adottivi, indicando, tra l’altro,
informazioni sulla loro idoneità all’adozione. Tale disposizione fa sorgere un problema di competenza, in quanto l’attuale legislazione attribuisce, invece, all’Autorità Giudiziaria il compito di dichiarare l’idoneità. A quest’ultima è anche attribuita dalla nostra normativa la facoltà di dichiarare l’idoneità anche in presenza di una relazione sfavorevole dei servizi sociali. Nell’ipotesi in cui l’Autorità Centrale si tro-
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vi di fronte ad una dichiarazione di idoneità pronunciata dai giudici
minorili (Tribunale o Corte d’Appello) che essa non condivide, risulta
dubbio se l’Autorità Centrale possa inviare ugualmente un rapporto
negativo, ovvero debba comunque trasmettere la dichiarazione di idoneità formulata dal giudice minorile.
La questione può essere risolta, facendo riferimento alla natura
giuridica e alle finalità proprie della dichiarazione d’idoneità. Tale
provvedimento ha, infatti, la natura di mera condizione di ammissibilità all’adozione internazionale, trattandosi di un accertamento attitudinale preventivo ed eseguito a scopi interni. La sentenza di adozione
dell’Autorità giudiziaria straniera non potrebbe quindi essere giudicata efficace in Italia, senza questa dichiarazione. Di conseguenza, da
quest’ultima non deriva un autentico diritto all’adozione e l’Autorità
Centrale italiana avrebbe la facoltà di rappresentare le proprie, motivate, perplessità alla corrispondente Autorità Centrale straniera.
Nel caso in cui, invece, l’idoneità fosse negata, l’Autorità Centrale
dovrebbe adeguarsi alla decisione del giudice italiano, in quanto, allora, oltre all’impossibilità di dichiarare l’adozione straniera efficace in
Italia, non si potrebbe nemmeno consentire l’ingresso del bambino nel
territorio nazionale.
Un’altra disposizione della Convenzione de L’Aja che suscita questioni relative all’integrazione con la normativa italiana è quella prevista all’art. 21, nel quale si attribuisce all’Autorità Centrale la facoltà di
decidere se la permanenza del minore nella famiglia affidataria non
sia più conforme al suo interesse preminente. Secondo la nostra legge,
il provvedimento straniero di adozione è efficace solo come affidamento preadottivo, dato che l’Autorità Giudiziaria italiana può pronunciare l’adozione solo dopo un periodo di prova di almeno un anno,
con esiti favorevoli. In tale periodo, il controllo sull’evoluzione della
prova spetta alla stessa Autorità Giudiziaria, alla quale è pure attribuito, in via esclusiva, la revoca motivata dell’affidamento preadottivo. A dirimere gli eventuali conflitti di competenza interviene, comunque, l’art. 22 comma 1 della stessa Convenzione, che stabilisce che le
funzioni attribuite all’Autorità Centrale possano essere adempiute anche da Autorità pubbliche, nei limiti fissati dalle leggi dello Stato. La
revoca del provvedimento di affidamento preadottivo può, perciò,
rimanere nelle competenze del Tribunale per i Minorenni, ma sarebbe, comunque, auspicabile ricercare soluzioni operative idonee a ridurre il rischio di sovrapposizioni tra Autorità Centrale e Autorità giudiziaria, garantendo ad entrambe piena autonomia istituzionale nei
rispettivi ambiti di competenza.
422
Anche la “certificazione di conformità all’adozione”, prevista all’art. 23, n. 1 della Convenzione, è formulata in maniera generica e non
consente, quindi, di individuare, con sufficiente chiarezza, l’Autorità
competente ai fini dell’attuazione delle disposizioni contenute nel n. 2
dello stesso articolo. La già menzionata costituzione di un organismo
super partes che garantisca l’effettivo adeguamento del diritto interno
ai principi generali della Convenzione risulterebbe opportuna, per risolvere il problema interpretativo che sorge da tale genericità di formulazione.
L’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile ha già avuto modo, nelle comunicazioni interistituzionali, di puntualizzare questi ed altri
aspetti problematici riguardanti il raccordo tra la normativa convenzionale e la legge 4 maggio 1983, n. 184 che disciplina l’adozione e l’affidamento nel nostro Paese. Si può qui, in primo luogo, menzionare,
sia pure in forma schematica, il complesso problema della relazione
tra le prassi previste all’art. 4 della Convenzione, in materia di verifica
dei presupposti necessari per l’adozione internazionale e della regolarità delle procedure, e le norme contenute negli artt. 31, 32, 33 della L.
1983/184, sull’efficacia dei provvedimenti emessi da autorità straniere.
In particolare, appare in contrasto con la Convenzione la norma italiana riguardante l’anno di affidamento preadottivo.
Anche i due momenti della “pratica adozione” (abbinamento e
possibile rifiuto), molto delicati per la serenità del bambino, richiedono una particolare attenzione normativa, al fine di evitare errori nella
valutazione e nella decisione relativa all’adozione. Su questo punto,
l’esperienza acquisita consente di evidenziare la carenza di una normativa precisa al riguardo e l’esigenza di colmare questa lacuna.
8. – L’Autorità Centrale negli accordi bilaterali in materia di adozione internazionale.
A completare il quadro di riferimento normativo entro il quale si
muove attualmente l’Autorità Centrale italiana, si deve ricordare ancora la stipula di due accordi bilaterali, con il Perù e la Romania. Il
primo è entrato in vigore il 1° marzo 1995, il secondo, firmato il 28
marzo 1995, è in attesa di ratifica.
Anche questi accordi contemplano il ruolo fondamentale delle Autorità Centrali nell’adempimento di tutte le procedure occorrenti per
l’adozione di minori peruviani o rumeni. Tali accordi hanno avuto per
obiettivo prioritario la costituzione di un sistema di cooperazione che
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avesse efficacia, non soltanto in vista del reciproco riconoscimento
delle adozioni effettuate, ma anche il controllo e la repressione dei fenomeni di “traffico” e di sottrazione di minori.
In particolare, la Convenzione di Lima del 17 dicembre 1993 in
materia di adozione internazionale di minori attribuisce all’Autorità
Centrale il compito di garantire che il minore adottabile sia assegnato
alle persone più idonee, assicurando al contempo la correttezza delle
azioni svolte in tutte le fasi del procedimento e per il riconoscimento
dell’adozione.
Se è stato oggetto di particolare attenzione il controllo sulla legalità delle adozioni, occorre oggi, nell’agire concreto dell’Autorità Centrale, porre l’accento sulle problematiche relative agli aspetti psicologici dell’adozione.
Proprio allo scopo di assicurare un’azione efficace sia sul piano
giuridico-formale, sia su quello psico-sociologico, l’Autorità Centrale
si è strutturata internamente in due Uffici paralleli, quello dei Magistrati addetti e quello dell’Equipe tecnica, tra i quali intercorre una
costante circolarità d’informazione nelle varie fasi del processo istrunorio, assicurata anche da frequenti riunioni collegiali.
La strutturazione dell’Autorità Centrale nel modo sopra accennato si è resa necessaria anche in seguito alla constatata disomogeneità
dei materiali documentari relativi alle inchieste psico-sociali pervenute all’Ufficio. È facile immaginare la rilevanza del problema riguardante la qualità e l’estensione della documentazione psico-sociologica
sui minori adottabili e sugli aspiranti all’adozione. È questo un grave
problema che si riscontra nella prassi ordinaria di tutte le autorità giudiziarie, nazionali e internazionali, che operano nell’ambito dell’adozione e dell’affidamento di minori. A maggior ragione tale problematica è stata avvertita nell’avvio dell’attività dell’Autorità Centrale ed è
per questo che si intende farvi qualche cenno anche in questa sede.
Infatti, se i criteri in base ai quali valutare l’idoneità degli aspiranti
all’adozione nazionale devono essere, già di per sè, precisi e, per così
dire, “esigenti”, a maggior ragione per l’adozione internazionale sono
essenziali parametri ancor più rigorosi, in considerazione degli interessi prevalenti del minore e della natura residuale di questo genere di
provvedimenti. La pluralità metodologica propria delle discipline
psico-sociali, da un lato, e, dall’altro, l’eterogeneità delle provenienze
culturali e professionali degli operatori nei vari Paesi rendono molto
difficile il perseguimento di standard valutativi coerenti e attendibili
nel campo dell’adozione internazionale. Questa carenza si fa sentire in
particolare nella trattazione di casi che provengono da Paesi, nei quali
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la cultura dell’osservazione scientifica della personalità e del comportamento individuale e sociale non è sviluppata.
Di fronte a questa situazione, potenzialmente foriera di gravi difficoltà, se non addirittura di errori di valutazione, è stato compito dell’équipe appositamente costituita presso l’Autorità Centrale italiana
predisporre una “scheda valutativa” recante una serie di parametri atti
a ricondurre in un quadro informativo unitario la massa di informazioni messe a disposizione dagli operatori e dalle parti interessate, nelle fasi precedenti del procedimento d’adozione. Tale scheda ha per
obiettivo la valutazione dell’abbinamento minore/coppia adottiva, per
rendere il più funzionale possibile l’iter procedurale che, dall’esame e
dalla valutazione dell’inchiesta psico-sociale, porta alla formulazione
del relativo parere in merito all’istanza, eventualmente all’integrazione dei dati mancanti, e al parere sulla proposta di abbinamento. Vengono tracciati due profili psico-sociali, quello del bambino e quello
della coppia aspirante all’adozione, sulla base dei quali è quindi possibile formulare valutazioni adeguate.
La prima fase di applicazione della Convenzione Italia-Perù ha dato esiti sostanzialmente soddisfacenti, con un numero piuttosto elevato di richieste di adozione (oltre 70). Un problema aperto è, sul piano
pratico-operativo, il coordinamento tra l’èquipe tecnica italiana ed il
suo corrispondente peruviano, che non ha ancora acquisito quella stabilità che il gruppo italiano si è fin dall’inizio data. Le problematiche
riscontrate, in questo senso, soprattutto nel primo periodo di applicazione dell’accordo sono una dimostrazione della novità del regime introdotto con esso, certamente in grado di trasformare una realtà segnata da una scarsissima chiarezza e cogenza delle norme relative all’adozione internazionale sulla base di un dettato normativo che fissa
con precisione regole e compiti degli organismi che possono legittimamente operare in questo ambito. La crescita numerica dei casi da
seguire, dopo un periodo di stasi legato, appunto, alle predette difficoltà insite nel “trapasso” da un sistema quasi privo di regole ad uno,
invece, regolato rigorosamente, suggerisce, inoltre, che in tempi brevi
si proceda anche ad un potenziamento dell’organico dell’Autorità Centrale, sia per quanto riguarda il numero dei magistrati addetti, sia per
quanto riguarda il personale di cancelleria.
Appare inoltre opportuno disciplinare gli oneri e le spese connessi all’espletamento delle attivita dell’Autorità Centrale, particolarmente in merito alla traduzione/legalizzazione dei documenti, alla corrispondenza, alle missioni all’estero del personale.
Un altro aspetto rilevante appare l’individuazione di prassi colla-
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borative il più possibile funzionali tra l’Autorità Centrale e gli enti autorizzati a svolgere pratiche di adozione internazionale, ai sensi dell’art. 38 della legge 4 maggio 1983, n. 184, l’attività dei quali è stata disciplinata con il decreto interministeriale 28 giugno 1985.
Secondo quanto è stato stabilito dalla Convenzione con il Perù,
tali enti sono gli unici ad avere la facoltà, conferita loro dall’Autorità
Centrale, ad operare con poteri di delega (entro, ovviamente, limiti
specifici) nell’adozione di minori peruviani. I poteri di delega degli
enti autorizzati non riguardano, comunque, l’attività paragiudiziaria
rivolta ad accertare l’idoneità all’adozione internazionale delle coppie
aspiranti. Si è, purtroppo, constatato che alcuni di questi enti in realtà
operano un’ulteriore selezione degli aspiranti già dichiarati idonei dall’Autorità Giudiziaria, mettendo in discussione, sia pure per esigenze
di carattere operativo, le valutazioni già compiute per legge dall’unico
organo competente, vale a dire dal Tribunale per i Minorenni. Per questo motivo, l’Ufficio Centrale ha sensibilizzato i Tribunali per i Minorenni al fine di ottenere dichiarazioni di idoneità precise e inequivocabili, individuando gli spazi operativi entro i quali è possibile, in questa fase dell’applicazione della Convenzione Italia-Perù, delegare agli
enti autorizzati compiti e funzioni propri dell’Autorità Centrale; questi compiti sono: lo svolgimento delle procedure di trasmissione in
Perù dei documenti dell’Autorità Centrale (curandone anche la traduzione e la legalizzazione), la cura dei rapporti e delle comunicazioni
con le coppie idonee, organizzando l’assistenza da fornire ad esse in
Perù, l’osservazione dell’andamento della fase post-adottiva, redigendo apposite relazioni semestrali.
Sulla Convenzione con la Romania non ancora entrata in vigore
perchè in attesa di ratifica, si deve osservare che la struttura ed i contenuti dell’accordo sono sostanzialmente analoghi a quelli della Convenzione con il Perù. Anche questa Convenzione è finalizzata all’introduzione di norme trasparenti nelle procedure di adozione internazionale, privilegiando le funzioni di sorveglianza e di garanzia che le
Autorità Centrali svolgono nei confronti della regolarità nello svolgimento degli iter procedurali e della lotta contro il traffico di minori a
scopo di adozione.
9. – Conclusioni.
Al termine di questa panoramica sulle attribuzioni dell’Autorità
Centrale alla luce delle Convenzioni internazionali in materia di tute-
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la e di adozione di minori, è opportuno svolgere alcune, rapide, considerazioni conclusive.
Anzitutto, dovrebbe risultare sufficientemente chiaro che i testi
normativi devono essere integrati, nell’azione concreta di questi organismi, dall’assunzione di criteri chiari e scientificamente corretti nello
svolgimento di quelle osservazioni e valutazioni dei bisogni del minore e dell’idoneità degli aspiranti, che costituiscono uno degli aspetti
più delicati del lavoro nel campo delle adozioni, in generale, e di quelle internazionali, in particolare.
Inoltre, l’attuale regime di collaborazione tra le varie Autorità
Centrali nazionali, che presenta luci ed ombre, come s’è detto, deve essere in ogni caso considerato come una fase di passaggio verso la creazione di una autentica autorità sovranazionale con competenze ed attribuzioni adeguate a realizzare il difficile obiettivo di una piena armonizzazione tra i diversi ordinamenti giuridici nazionali e tra questi
e la normativa internazionale. Queste considerazioni possono sembrare, ad alcuni, premature, o addirittura utopistiche; bisogna, tuttavia,
tenere costantemente presente che, nella situazione attuale (e lo dimostra il complesso meccanismo delle stesse procedure di firma e di ratifica delle singole Convenzioni da parte degli Stati parti, che già in sè è
foriero di alcune limitazioni alla piena applicazione di tali convenzioni), le difficoltà di collegamento e d’intesa tra le varie Autorità Centrali sono una realtà dolorosa, non tanto per gli operatori, quanto per le
famiglie aspiranti e per i minori in attesa di essere adottati. Il superamento di questi condizionamenti negativi appare, allora, come un presupposto indispensabile per la concreta attuazione dei diritti dei minori solennemente sanciti dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989.
Infine, occorre risolvere definitivamente le perplessità che sono
state sollevate da alcuni sulla collocazione dell’Autorità Centrale. Questo problema è già stato delineato nel corso della relazione. Qui appare opportuno, in conclusione, sottolineare l’esigenza che un’organismo di questo genere, con funzioni tanto delicate e specifiche, possa
operare sulla base di un’identità stabile e riconosciuta da tutti gli operatori, nella diffusa consapevolezza delle funzioni giudiziarie che esso
deve svolgere in stretto collegamento con gli organismi omologhi degli
altri Stati parti, per la tutela concreta ed operante dei diritti dei minori e nella lotta contro pratiche illegali di traffico di bambini che
appaiono oggi tra le forme più odiose di sfruttamento dell’infanzia.
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PROTEZIONE DEL MINORE
E DIRITTO INTERNAZIONALE. IN PARTICOLARE:
LA SOTTRAZIONE DEL MINORE
Relatore:
Dott. Lamberto SACCHETTI
Già presidente del Tribunale per i Minorenni
di Bologna
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Analisi differenziale delle due Convenzioni. – 3. Problemi
di coordinamento tra le stesse. – 4. L’ascolto del minore e la limitata influenza della Convenzione O.N.U. del 1989. – 5. Questioni processuali.
1) Connesso soprattutto con la crescente instabilità della coppia e
binazionalità dei genitori è l’aggravarsi del fenomeno della sottrazione
internazionale di minori, affrontato nel 1980 da due trattati internazionali: il 20 maggio dalla convenzione di Lussemburgo “sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e ristabilimento dell’affidamento”, il 25 ottobre dalla Convenzione
de L’Aja “sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori”.
Fenomeno che ha poi indotto gli Stati partecipanti alla convenzione
O.N.U. del 1989 “sui diritti del fanciullo” a impegnarsi nell’art. 11 ad
adottare, mediante accordi internazionali, “provvedimenti per impedire gli spostamenti ed i non ritorni illeciti di fanciulli all’estero”. Implicito vincolo a sottoscrivere l’anzidetta convenzione de L’Aja, aperta alla
firma di ogni Stato e ideata appunto per diventare il rimedio ordinario
internazionale alla ritenzione illecita di minori oltre confine. La coeva
Convenzione di Lussemburgo si rivolge invece a un circoscritto ambito territoriale e a una specifica tecnica giuridica. Ma comune a entrambe è una molteplice finalità: superare quella separatezza degli Stati che
avvantaggia chi arbitrariamente ritiene un minore sapendo quanto raramente essi agiscono per reintegrare situazioni giuridiche o di fatto
costituite all’estero; risolvere i casi in tempi celeri; sviluppare l’azione
delle autorità centrali, organi amministrativi deputati a gestire canali
di comunicazione diretta tra loro e iniziative nell’interesse del minore,
in modo anche da risparmiare, a chi ne domanda il ritorno, attività legali e costi connessi. Una dimensione, quindi, di diritto procedurale
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uniforme e una assistenzialistica, di diritto amministrativo, facente
leva sul servizio fornito dalle autorità centrali dietro richiesta dell’interessato all’estero. Al quale non si manca peraltro di riconoscere facoltà
di adire direttamente l’autorità competente a decidere nello Stato ove
si trova il minore (art. 9/2 Lussemburgo, 29 L’Aja).
Le Autorità Centrali registrano dunque una grande espansione del
proprio ruolo, originariamente circoscritto, nella Convenzione de L’Aja del 1970 “sul rimpatrio dei minori”, a compiti di trasmissione delle
richieste nazionali. Convenzione che non affrontò il problema della
sottrazione, bensì quello del generico allontanamento dei minori dall’abituale residenza.
Il nostro legislatore, considerati gli aspetti comuni ai due strumenti del 1980, ne ha disposto la ratifica e l’esecuzione con la stessa
legge 15 gennaio 1994, n. 64, nella quale ha inserito anche norme attuative (nell’art. 6 in ordine alla convenzione di Lussemburgo, nell’art.
7 a quella de L’Aja), stabilendo la competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni a decidere, e prevedendo che sia il pubblico ministero a ricorrervi, non appena ricevuti gli atti dall’autorità centrale.
Pubblico ministero che dovrà anche eseguirne il decreto, da pronunciare entro trenta giorni.
2) La legge 64 non aiuta però a meglio intendere la diversità delle
due Convenzioni, non facile da cogliere nell’ostica loro formulazione,
benché le si dovrebbe pensare coordinate nella contemporanea gestazione europea (di cui è un riflesso l’uguale scelta di tutelare il minore
fino all’età di sedici anni e di prescindere dalla nazionalità di tutti i
possibili interessati). Per cui è opportuno metterne anzitutto in luce,
per contrasto, le specifiche oggettività giuridiche.
La Convenzione Europea di Lussemburgo ha prodotto un diritto
uniforme nella sola area degli Stati membri del Consiglio d’Europa,
anche se ammette la possibilità di invitarne altri ad aderire. Quella de
L’Aja è – come detto – aperta a ogni adesione.
La convenzione di Lussemburgo presuppone un comportamento
“illegittimo” perché trasgressivo di un provvedimento validamente assunto in uno degli Stati contraenti. Quella de L’Aja si oppone a un
comportamento in sè “illecito”, riguardando “gli aspetti civili della sottrazione…di minori”, ossia una strategia di contrasto non penalistico
di fatti peraltro assunti come antigiuridici. È indifferente perciò all’esistenza di un provvedimento. Suo presupposto applicativo è il semplice fatto che un minore legalmente custodito all’estero sia stato arbitrariamente trasferito o ritenuto nello Stato richiesto.
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A Lussemburgo si è voluto creare uno strumento per “facilitare il
riconoscimento e l’esecuzione” di un provvedimento esecutivo. A L’Aja
uno strumento recuperatorio. Si è parlato di actio possessoria in infantem: una volta ricevuta la notizia che il minore si trova illecitamente
sul proprio territorio, lo Stato contraente non potrà deliberare sul merito dell’affidamento se non a obblighi internazionali soddisfatti (art.
16). E ciò anche allo scopo di neutralizzare la possibilità che il sottraente frattanto legalizzi in tale Stato la situazione del minore.
Il provvedimento di cui si cura Lussemburgo contiene una disciplina dei rapporti personali tra il minore e i genitori, presuppone un
conflitto tra genitori. A L’Aja non ci si limita al conflitto familiare: l’obiettivo è combattere ogni sorta di “kidnapping internazionale”, risolvere d’urgenza, con una delibera da assumere di regola entro sei settimane (art. 11), il problema del minore cui venga da chiunque impedito il “ritorno”. Lo strumento si presta, per esempio, a difesa dell’affidamento familiare.
Dalla postulazione o no di un provvedimento all’estero discende
la diversità dei controlli previsti dalle due Convenzioni nello Stato
richiesto.
Quella di Lussemburgo impone una serie di verifiche formali elencate in tre ordini di fattispecie, cui corrisponde un progressivo ridursi
della tutela fornita al provvedimento esecutivo straniero (artt. 8, 9,
10). La tutela massima prevede un “semplice ricorso”, suffragato unicamente dalla documentazione del provvedimento (art. 13), che sarà
solo da riconoscere ed eseguire (exequatur). La tutela minima si ha
quando il ricorso è presentato all’Autorità Centrale oltre sei mesi dopo
il fatto illegittimo, perchè allora si dà ingresso all’audizione del minore e a “opportune indagini”, in quanto la richiesta diventa rifiutabile:
non a seguito di un riesame del merito del provvedimento, ma di un
“mutamento di circostanze” tale da renderlo non più conforme all’interesse del minore (art. 10/1, lett. b e art. 15).
Quella de L’Aja pretende la documentazione, non il riconoscimento del titolo giuridico della custodia (vedi art. 8), facendo salva la possibilità nello Stato richiesto di tenere conto del diritto e delle decisioni giudiziarie e amministrative che sarebbero applicabili nello Stato
da cui proviene la richiesta (art. 14), nonché di quelle assunte o riconoscibili secondo il proprio ordinamento (art. 17).
In sostanza: la Convenzione di Lussemburgo tutela il minore in
modo presuntivo, formale, indiretto, avendo come unico obiettivo, nel
territorio dell’Unione Europea, imporre il rispetto del provvedimento
che ne ha disposto l’affidamento o regolato il diritto di visita; la Con-
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venzione de L’Aja vuole tutelare in modo diretto e sostanziale l’interesse personale del minore sottratto, o privato dei rapporti di visita,
perciò prevedendo, davanti all’autorità decidente nello Stato richiesto,
non una verifica formale di ammissibilità-rifiutabilità della domanda,
ma una sommaria istruzione volta a valutare l’opportunità di accoglierla.
La Convenzione de L’Aja è, insomma, sensibile all’interesse attuale del minore. Il secondo comma del suo art. 13, nello stabilire che il
rifiuto di ordinarne il ritorno “può altresì” derivare dal fatto che egli vi
si oppone avendo età e grado di maturità “tali per cui sia opportuno
tener conto del suo parere”, non sembra affatto ridurre un tale “parere” a elemento puramente integrativo di fattori decisori aliunde ricavati, quanto piuttosto assumerlo a possibile autonoma causa di relezione della domanda. Manifestazione soggettiva del minore che rimane tuttavia discrezionalmente valutabile: sia in ordine all’interpretazione della volontà (se veramente oppositiva), sia in ordine alla conformità della stessa al vero interesse di lui. Che costituisce il latente
parametro risolutivo.
Cause diverse e certamente cumulabili di rifiuto, sempre per la
convenzione de L’Aja, sono invece, qualora la domanda sia proposta
dopo oltre un anno dal fatto, la dimostrazione che il minore “si è integrato nel nuovo ambiente” (art. 12, comma 2); in ogni caso, la dimostrazione “che esiste un rischio grave che il ritorno … lo esponga a un
pericolo fisico o psichico, o comunque a una situazione intollerabile”
(art. 13, comma 1, lett. b). Chiaramente tutta subordinata al suo interesse è l’ipotesi, scritta per prima nell’art. 13, che chi ne ha chiesto il
ritorno non esercitasse effettivamente la custodia, o abbia consentito
a perderla. Fattori integrativi di conoscenza sono le “informazioni” da
assumere sulla “situazione sociale” del minore nello Stato di residenza abituale (art. 13 u.p.), anche se in dottrina non si è mancato di ammonire che attenderle non deve causare ritardi tali da trasformare la
procedura in riesame del merito dell’affidamento. Onde anche la loro
acquisizione è da ritenere discrezionale.
La distanza tra le due convenzioni può peraltro ridursi. L’art. 17/1
di quella di Lussemburgo consente infatti a ogni Stato contraente di
fare riserva di estendere i motivi di rifiutabilità del provvedimento
straniero contemplati nell’art. 10 anche alle ipotesi di cui agli art. 8 e
9, relative alle richieste avanzate entro sei mesi dal fatto. Estensione
però tanto anomala rispetto allo spirito di Lussemburgo da giustificare, quasi come ritorsione, una corrispettiva rifiutabilità se la richiesta
proviene da uno Stato che ha formulato la riserva (art. 17).
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3) Nonostante la differenza delle due convenzioni, balza evidente
la loro sovrapponibilità nella fattispecie, insieme illegittima e illecita,
in cui, esistendo in uno Stato un provvedimento di affidamento, il genitore non affidatario arbitrariamente trasferisca nello Stato di propria residenza il minore, o lo trattenga (abusando del diritto di visita).
In questo caso può darsi conflitto di norme se i due Stati interessati
sono parte di entrambi gli accordi internazionali. La cui diversa strategia di tutela del minore solleva perciò una scottante questione, che
investe, oltre al diritto interno, i rapporti tra gli Stati come soggetti di
diritto internazionale pubblico. Nel cui ambito un coordinamento
astratto fra le convenzioni non pare possibile.
Né le Convenzioni di Vienna sul diritto dei trattati, rette dal diritto internazionale consuetudinario, né la dottrina offrono un criterio di
coordinamento quando la stessa oggettività è compresa in accordi tra
gruppi eterogenei di Stati. Le norme convenzionali sono di regola dispositive, nel senso di non appartenere al c.d. jus cogens, quello dei
grandi princìpi di struttura e di funzionamento della comunità internazionale (norme assolute, di universale accettazione, indipendenti da
ogni legame pattizio), che si collocano tutte al medesimo livello nella
scala gerarchica delle fonti internazionali.
Sul piano del diritto internazionale pubblico siamo di fronte a due
autonomi accordi collettivi di uguale effıcacia tra le parti. Tra i quali
nondimeno, ove in concreto si determini connessione perché due Stati
che li hanno contratti sono coinvolti in una questione da entrambi gli
accordi contemplata, dovrebbe potersi istituire un rapporto di specialità. Specialità dimostrata, nella specie, dalla doppia qualificazione in
più che connota ratione materiae la Convenzione di Lussemburgo rispetto alla Convenzione de L’Aja: per il fatto di riguardare la situazione del minore come figlio di determinati genitori (mentre la Convenzione de L’Aja concerne la sottrazione del minore da chiunque commessa e in violazione di qualsiasi potere di custodia); per il fatto di riguardare una disciplina del rapporto tra genitori e figlio sanzionata da
un provvedimento (mentre la Convenzione de L’Aja considera il mero
fatto della sottrazione). Specialità che risulterebbe più evidente qualora la Convenzione di Lussemburgo, mercé il meccanismo dell’invito ad
altri Stati, giungesse a comprendere lo stesso gruppo di Stati che ha
contratto l’accordo de L’Aja.
È intuitivo che, nell’Europa ove siede la Conferenza Internazionale de L’Aja di diritto internazionale privato, i due trattati non fossero
concepiti per caso in parallelo, ma bensì nel disegno di fare della Comunità Europea un territorio specialmente assistito, in cui gli Stati,
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per il fatto di venire dotati di un mezzo atto a ottenere, in modo semplice e rapido, il riconoscimento e l’esecuzione dei propri provvedimenti esecutivi, ricevessero some sussidiario l’antidoto al kidnapping,
meno agile e più incerto, in quanto aperto alla disputa in punto di opportunità sul ritorno del minore. Di tale minor valore per i quindici
Stati firmatari della Convenzione Europea di Lussemburgo dello strumento realizzato a L’Aja sembra testimoniare il particolare che soltanto in quattro lo sottoscrissero all’origine.
Sul piano dell’operatività nel singolo procedimento, si parla di
complementarietà dei due trattati e si è sostenuto che, nel concorso
delle due discipline, è legittimo scegliere quella più atta a fornire il
“massimo di protezione nella situazione determinata”, come esemplato da un caso in cui (il 20 marzo 1987) il tribunale di grande istanza
di Tolosa, che poteva applicare per la restituzione di due fratelli alla
madre affidataria sia la Convenzione di Lussemburgo, sia quella de
L’Aja, preferì la seconda ed evitare il riconoscimento del provvedimento inglese di affidamento dei minori, su cui l’altro genitore eccepiva il
difetto di giurisdizione.
Non si è avvertito che la Convenzione de L’Aja, aperta all’interesse
concreto e attuale del minore, è potenzialmente per smentire l’interesse tutelato dalla convenzione di Lussemburgo. Trascuranza dei commentatori forse ascrivibile a un’attitudine a concepire i due strumenti
unicamente come fonti di azione, laddove quello de L’Aja potrebbe anche fornire diritto oggettivo opponibile dal sottraente in via di eccezione. Il suo ricordato art. 13 detta previsioni a difesa diretta del minore da “pericoli fisici e psichici”, o dal rischio di venirsi a trovare “in
una situazione intollerabile” se restituito a chi avrebbe titolo di custodirlo, e un suo diritto soggettivo a che, se egli si oppone, si tenga conto
delle sue ragioni. Ipotesi di pregiudizio del minore e istanze di sua
tutela sostanziale verso cui è assai attenta la giustizia minorile, davanti alla quale è perciò sempre forte la tendenza a tradurre il conflitto genitoriale in prospettazione di un pregiudizio, anche solo oggettivamente imputabile alla condotta di un genitore, a norma di quell’art.
333 c.c. che può permettere di allontanarne il minore. Condotta ravvisabile nella domanda stessa di riavere il figlio, se si tratta di riportarlo in situazione di pericolo.
Ma il fatto è che, qualora mai la Convenzione de L’Aja fosse invocabile per bloccare l’operatività di quella di Lussemburgo, risulterebbe scardinato il sistema europeo, pressochè eliminandovi la doppia
guarnizione in danno proprio del suo strumento principale. Cosa che,
tra Stati firmatari della Convenzione di Lussemburgo, non potrebbe
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avvenire se non rimuovendo il vincolo di diritto internazionale pubblico, ossia denunciandola a norma del suo art. 29.
Proprio perché vuole confortare i provvedimenti degli Stati contraenti, la Convenzione di Lussemburgo non può ammettere l’influenza di altre normative se non a proprio conforto, come fa intendere nell’art. 19, che prevede l’utilizzabilità di un altro strumento internazionale, e pure del diritto interno dello Stato richiesto, ma unicamente
“per ottenere il riconoscimento o l’esecuzione d’una decisione”.
Se a questo punto guardiamo alle due convenzioni nell’ottica del
nostro diritto interno, dobbiamo preliminarmente prendere atto che
tutte e due vi sono entrate per effetto dell’ordine di esecuzione contenuto nella legge 64/94, perché quella di Lussemburgo, quantunque stipulata fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, non avrebbe potuto avere negli ordinamenti interni l’efficacia automatica del diritto comunitario. La sua materia esulava dalle previsioni del trattato costitutivo della Comunità Economica Europea. Per cui, allo scopo di introdurla in veste di diritto uniforme nello spazio comunitario, gli Stati
membri dovettero adottare, nel 1980, lo strumento convenzionale del
diritto internazionale comune. Nel nostro ordinamento, pertanto, essa
non vanta il rango costituzionale, o sovra-costituzionale che discende
al diritto comunitario dall’autolimitazione di sovranità presupposta
dalla partecipazione dello Stato alla Comunità europea. Con la conseguenza che, pure come diritto interno, le due normative sono di uguale livello. Da cui peraltro non discende una possibilità di ibridazione
fra loro.
I due strumenti si presentano, anche nelle norme di attuazione,
completi e alternativi, oltre che distinguibili per gli elementi specializzanti propri della Convenzione di Lussemburgo. Sicché scegliere fra
essi, ove possibile per la comunanza dei presupposti di applicabilità in
concreto, è rimesso alla dispositività del ricorrente. Al quale nulla impedisce di girare la scelta deducendoli entrambi, senza che ciò, se il
giudice opta per la Convenzione di Lussemburgo, renda ammissibile
interpolarvi norme della Convenzione de L’Aja, poiché si tratta di formule autonome, solo al cui interno valgono le specifiche previsioni.
Formula rigida in particolare quella di Lussemburgo, finalizzata a un
exequatur. Ma non tanto da non dare spazio a eventuali contestazioni
sul pregiudizio che da una sua tardiva attivazione può derivare al minore (abbiamo visti gli art. 10/1 lett. b e 15).
4) Lo stridore tra Convenzione de L’Aja e di Lussemburgo potrebbe attenuarsi grazie a una lettura immediatamente precettiva dell’art.
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12/2 della convenzione O.N.U. “sui diritti del fanciullo”, che prescrive
di dare “al fanciullo la possibilità presupposta di essere ascoltato in
ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia
direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato,
in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione
nazionale”. Corollario del principio sancito nell’art. 3/1 che così recita: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle
autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore
del fanciullo deve essere una considerazione preminente”.
Ritenere l’operatività immediata dell’art. 12/2 comporterebbe l’obbligo di sentire il minore anche in tutte le procedure volte al riconoscimento e all’esecuzione dei provvedimenti stranieri che lo riguardano. Il
che significherebbe dare ingresso ovunque a un giudizio di opportunità
in rapporto all’interesse attuale del minore e, di conseguenza, alla
discrezionalità della decisione, a meno di non rendere ipocrita l’incombente. Di qui ad ammettere altri accertamenti, se necessari per meglio apprezzare tale opportunità, il passo sarebbe breve e necessitato.
Se non che la Convenzione sui diritti del fanciullo non sembra
attingere efficacia più che programmatica.
I commentatori si sono guardati dall’affermare esplicitamente che
essa ha creato diritti soggettivi perfetti. Hanno detto che le norme interne vanno lette tenendo conto dei nuovi princìpi, che essa avrà profonda influenza sugli ordinamenti degli Stati. Ma il punto cruciale sta
proprio nel non essere la Convenzione O.N.U. immediatamente garante della effettività dei diritti. Nella protezione del minore essa fa largo
uso del rinvio alle legislazioni nazionali, rinvio che nell’art. 12/2 è di
espressa subordinazione alla compatibilità “con le regole di procedura della legislazione nazionale”. Lo stesso ovvio rapporto di questo articolo con il primato dell’interesse del minore, proclamato nell’art. 3,
si risolve in una dipendenza dalla determinazione, anc
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