Le persecuzioni antisemite in Europa - Digilander

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Le persecuzioni antisemite in Europa
di G. Deambrogio, B. Mantelli, L. Riberi
Introduzione
Quando nel 1879 il giornalista tedesco Wilhelm Marr, fondando la Antisemiten
Liga (Lega degli Antisemiti), utilizzò per la prima volta il nuovo termine di
“antisemitismo”, l’avversione e l’ostilità nei confronti degli ebrei, nonché le persecuzioni
che ne erano state conseguenza, presentavano già una storia plurisecolare.
Lo scopo che queste brevi note introduttive si prefiggono, quindi, consiste
nell’offrire, a fini didattici, una sintesi informativa sul fenomeno antisemita, ricordando
alcune delle sue manifestazioni storiche di maggiore rilievo, dalle origini alla seconda metà
del XIX secolo.
Così facendo, si intende seguire la significativa distinzione, ormai divenuta classica
in ambito storiografico, tra un antisemitismo tradizionale, presente pressoché
ininterrottamente, in forme e momenti diversi, dall’antichità al secolo scorso (sebbene non
acora estinto ai giorni nostri), e un antisemitismo moderno, assai più violento e distruttivo
del precedente, fortemente influenzato da dottrine razziste, imperialiste e nazionaliste,
apparso nei decenni conclusivi dell’Ottocento e capace di sfociare nel Novecento, durante
la seconda guerra mondiale, nel cosiddetto Olocausto, ovvero nello sterminio pianificato
del popolo ebraico in Europa, progettato e condotto a compimento dal regime
nazionalsocialista tedesco.
Queste pagine si occupano dunque della prima forma di antisemitismo, mentre al
suo secondo tipo, con le specifiche formulazioni teoriche e le terribili realizzazioni pratiche
che gli sono proprie, sono essenzialmente dedicati i successivi due contributi contenuti in
queste dispense.
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1. Brevi cenni storici sul fenomeno dell’antisemitismo dalle origini al
XIX secolo
Antichità pagana e cristiana. L’Alto Medioevo
Già nel mondo pre-cristiano è possibile riscontrare testimonianze di un
atteggiamento antiebraico, se non a livello popolare, perlomeno negli scritti di intellettuali
come Cicerone, Giovenale, Seneca e soprattutto, in forma notevolmente aspra, Tacito.
Questa avversione nacque dalla condanna dei caratteri distintivi di un popolo, quello
ebraico appunto, dotato di una identità nazionale, e in special modo religiosa, molto forte.
Tale consapevolezza della propria unicità, orgogliosamente manifestata dagli ebrei e
gelosamente difesa dall’esterno, suscitò nei romani timore e preoccupazione. Era presente
inoltre in questi autori il disprezzo per l’attività commerciale, già allora prevalente tra gli
ebrei, ritenuta antitetica alle tradizioni agricole tipiche della società romana e all’ideale
aristocratico dell’otium. Gli ebrei dunque furono considerati già in quest’epoca pagana
come una minoranza separata e irriducibile all’interno del mondo romano, fonte di sdegno
per i suoi costumi “immorali” e potenziale minaccia per lo Stato in ragione della sua
inaffidabilità politica.
E’ significativo ricordare che alcuni dei motivi di ostilità presenti negli scritti degli
autori latini citati, ad esempio l’attribuzione agli ebrei di un atavico odio verso l’umanità o
il riconoscimento di una loro “malattia” e “impurità” naturale, divennero poi ricorrenti nei
secoli successivi e furono ripresi con convinzione anche dall’antisemitismo più recente.
Un vero e proprio antisemitismo di natura religiosa e teologica fu tuttavia presente in
Occidente solo dopo l’affermazione del Cristanesimo, in misura rilevante a partire dal IV
secolo d.C. Fu allora che, basandosi sulla lettura di alcuni passi dei Vangeli (Mt. 27, 25;
Gv. 8, 44), il popolo ebraico venne accusato di “deicidio” e di “associazione con il
demonio”. La condanna inappellabile che ne derivò (abbandonata ufficialmente dalla
Chiesa cattolica solo nel 1962 con il Concilio Vaticano II) segnò profondamente la
considerazione degli ebrei nel mondo cristiano e motivò la discriminazione nei loro
confronti.
Privati di ogni diritto civile ed emarginati, gli ebrei furono da allora guardati dai
cristiani con odio e sospetto, e accompagnati dall’accisa infamante di aver ucciso Cristo e
aver negato le verità divine. Si diede così ragione della loro diaspora e della esistenza
umiliata e separata cui erano costretti, giustificate in quanto volute da Dio. Nacque in
quest’epoca la teoria del “popolo testimone”, espressa assai chiaramente da S. Agostino:
l’ebreo era destinato a scontare in eterno la pena per le proprie terribili colpe. Secondo il
filosofo cristiano, la sua triste condizione di esule perenne, rinnegato dalla società in cui
viveva da straniero, svolgeva tuttavia un ruolo positivo, in quanto prova indubitabile della
verità del messaggio cristiano. Se dunque era impossibile qualunque assimilazione nella
comunità cristiana, a meno di una sincera conversione, l’ebreo doveva però essere protetto
dalla Chiesa e la sua presenza nella società tollerata, seppur nel ruolo di paria.
Sulla scorta di una simile concezione, in epoca altomedievale fino all’XI secolo, la
situazione degli ebrei nel mondo cristiano previde sì l’esclusione dai pubblici uffici e dalla
carriera militare, nonché la discriminazione assai netta da parte dei cristiani, ma di solito
non fu tuttavia minacciata da atti di aggressione e di persecuzione violenta. Anzi, in questi
secoli il ruolo fondamentale degli ebrei in ambito commerciale, come mediatori tra Oriente
e Occidente, era considerato prezioso per l’Europa cristiana e pertanto sostenuto dalle
autorità religiose e politiche.
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Dal Basso Medioevo all’Età Moderna
La situazione di relativa tranquillità degli ebrei nel mondo cristiano altomedievale
venne sconvolta dopo il Mille, in occasione delle Crociate. Quando il papa Urbano II, nel
1096, esortò i cristiani alla riconquista della Terra Santa, egli inaugurò infatti un periodo
assai lungo di sanguinose persecuzioni degli ebrei, dal momento che nella mentalità dei
crociati questi vennero assimilati ai nemici musulmani e considerati meritevoli di morte, in
quanto infedeli e deicidi.
Nell’XI secolo i saccheggi e le stragi furono numerosi, soprattutto nella zona del
Reno, a Rouen, Metz, Colonia e Bamberg, dove gli ebrei uccisi si contarono a decine di
migliaia, inaugurando una lunga sequenza di azioni consimili, con un numero crescente di
vittime, tutte esplicitamente motivate dai persecutori con ragioni di carattere religioso.
Inoltre gli ebrei vennero spesso ritenuti responsabili, di abominevoli profanazioni o indicati
come diffusori volontari di malattie contagiose, rafforzando così la loro fama di “agenti di
Satana” e di “odiatori dell’umanità”.
Quasi sempre, in realtà, accanto ai motivi religiosi, le cause delle persecuzioni
annoverarono anche ragioni economiche, spesso non esplicitamente dichiarate. Questa fu
una novità di grande importanza e a cui dedicare particolare attenzione nello sviluppo
storico del fenomeno antisemita.
Occorre ricordare infatti che, dopo le Crociate e in parte a causa di esse, mentre in
Europa si affermava una potente ripresa economica, con un incremento dei commerci e una
crescente domanda di capitali, la condizione di emarginazione della minoranza ebraica
invece si irrigidì, privando tra l’altro gli ebrei del precedente controllo pressoché esclusivo
sui traffici commerciali con l’Oriente. In questa mutata situazione, grazie anche alla
condanna di tale attività pronunciata dalla Chiesa, per molti ebrei l’usura, interdetta ai
cristiani, divenne l’occupazione fondamentale, al punto che l’identificazione tra l’ebreo e
l’usuraio si presentò nella mentalità della gente comune come scontata.
Allo stereotipo dell’ebreo deicida e detestabile per ragioni religiose, si accompagnò
così d’ora in poi quello dell’ebreo usuraio dedito a una pratica illecita e immorale, anche se
quanto mai utile, e considerato un individuo spregevole, che si arricchiva alle spalle dei
cristiani, speculando sui loro bisogni e approfittando delle loro difficoltà economiche. Da
ciò a reputare l’usuraio ebreo responsabile della miseria di molti il passo era breve.
Ad una forma di odio, già ben radicato da secoli nel sentire comune, se ne aggiunse
dunque un’altra altrettanto coinvolgente e capace di scatenare l’aggressività antiebraica
fino alle sue estreme conseguenze distruttive. L’antico antisemitismo teologico pertanto si
rafforzò, unendosi ad un nuovo antisemitismo economico.
Aspetti del pregiudizio e forme di discriminazione.
Sembra opportuno, a questo punto, fornire qualche indicazione su ulteriori
stereotipi che l’antisemitismo costruì nel tempo e ricordare attraverso quali strumenti e
provvedimenti l’emarginazione e la persecuzione delle minoranze ebraiche in Europa si
realizzarono.
In primo luogo si può citare l’inquietante immagine dell’ebreo che tramava
segretamente per colpire il mondo cristiano, complottando nell’ombra con i suoi
correligionari, al fine di arrecare danno ai gentili. Diffuse fin dall’epoca medievale tra gli
strati più bassi della popolazione e del clero, le superstizioni e le credenze popolari che
identificavano nell’ebreo lo stregone dedito a perversi riti satanici persistettero a lungo in
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Europa. Le imputazioni più frequenti a tale proposito riguardarono la profanazione
dell’ostia consacrata – quasi una sorta di replica infinita del deicidio originale –, e
l’assassinio rituale, compiuto soprattutto ai danni di bambini cristiani. Variazioni su questo
tema avevano per oggetto l’accusa di avvelenare i pozzi o di diffondere la peste. In
generale si considerarono gli ebrei responsabili di ogni disgrazia individuale o collettiva di
cui era impossibile identificare la causa precisa.
Anche la cospirazione ebraica mondiale per il dominio dell’umanità ha origini molto
antiche ed è attestata come una credenza già presente in Spagna negli ultimi secoli del
Medioevo. L’ebreo era considerato il nemico sleale ed oscuro che combatte incessantemente
una guerra cosmica contro la cristianità.
Negli ambienti socialmente e culturalmente più elevati, nonché tra le alte gerarchie
ecclesiastiche, anche se questi rozzi stereotipi vennero spesso rifiutati e condannati, circolò
tuttavia una forte ostilità verso certi testi della cultura ebraica, in special modo il Talmud,
considerati portatori di criptici e minacciosi messaggi anticristiani.
Ne conseguirono frequenti roghi di libri sacri ebraici, di cui si resero ripetutamente
responsabili i sovrani cattolici di Francia e Spagna, a partire dal XIII secolo.
All’archetipo dell’“ebreo errante”, Ahsverus, condannato da Dio per l’eternità, si
accompagnarono le credenze che attribuivano al popolo maledetto un marchio di infamia.
Talvolta, a livello popolare, esso si concretizzò nel riconoscimento di un presunto odore
sgradevole distintivo, – il famigerato “foetor judaicus” – anticipante di alcuni secoli, in
certo qual modo, le concenzioni razziste che attribuirono in seguito all’ebreo caratteri fisici
particolari ed esclusivi.
Poiché dunque essi rappresentavano una minaccia da cui occorreva proteggersi, il
mondo cristiano ritenne necessario contrassegnare gli ebrei per distinguerli, concentrarli in
aree corcoscritte delle città per sorvegliarli meglio ed eventualmente costringerli
all’emigrazione o alla conversione forzata, per risolvere alla radice il problema
rappresentato dalla loro esistenza.
Il segno distintivo riservato obbligatoriamente agli ebrei (una stoffa colorata sui
vestiti o un cappello di foggia particolare), poi ripreso nel nostro secolo dalla legislazione
antisemita durante il regime nazionalsocialista, ebbe una lontana origine extraeuropea, dal
momento che era stato utilizzato per la prima volta nel Medio Oriente islamico del VII
secolo. Il papa Innocenzo III nel 1215 applicò nei suoi domini il provvedimento, subito
imitato dal resto d’Europa, dove per circa sei secoli, sebbene in forme diverse e non
dappertutto con la stessa rigidità, la misura del segno distintivo fu ritenuta doverosa e
rimase in vigore, sanzionando in modo visibile la diversità degli appartenenti alla comunità
ebraica rispetto al resto della popolazione.
Un’altra disposizione discriminante fu costituita dall’istituzione, a partire dal XVII
secolo, dei ghetti, ovvero di quartieri speciali, in un primo tempo cinti da mura e
sorvegliati, nei quali gli ebrei delle città furono obbligati a risiedere e in cui dovevano
ritirarsi al calar del sole per rimanervi rinchiusi durate la notte. In realtà la consuetudine di
concentrarsi in certi quartieri cittadini, noti come “giudecche”, anche per salvaguardare la
propria sicurezza, era stata nel Medioevo una libera scelta di molti ebrei, ma con la
Controriforma appare evidente che la trasformazione della giudecca nel ghetto assunse il
valore di un atto ostile e repressivo, destinato a far assumere a questa parola il significato
negativo che ancora oggi noi gli riconosciamo.
Provvedimenti anche più pesanti dei due sopra ricordati, come l’espulsione dai
confini dello Stato o la messa in atto di una politica finalizzata a costringere gli ebrei alla
scelta forzata fra migrazione e conversione, furono più volte decisi in Europa a partire dal
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XIII secolo. L’Inghilterrra espulse gli ebrei nel 1290, la Francia nel 1306 e nel 1394, la
Spagna nel 1492, il Regno di Napoli nel 1510, lo Stato Pontifio nel 1569 e nel 1593, con
l’esclusione delle città di Roma ed Ancona. Dovunque in Europa occidentale dal XVI
secolo in poi il peggioramento dei rapporti fra società, istituzioni e minoranze ebraiche fu
all’origine di movimenti migratori che condussero centinaia di migliaia di ebrei verso
Oriente, in Turchia, Russia e soprattutto Polonia, alla ricerca di condizioni di vita meno
difficili. Il caso spagnolo offre in proposito numerosi elementi di interesse.
“Conversos” e “ marranos”
Dopo secoli di coesistenza, nella penisola iberica, tra popolazione musulmana,
cristiana ed ebraica, il processo di formazione di uno Stato cattolico nel corso del XV
secolo in vaste regioni della Spagna pose all’ordine del giorno il problema dei non cristiani.
Nel 1492 la politica dei sovrani cattolici fu diretta in modo intransigente a colpire le
minoranze islamiche ed ebraiche. Mediante un editto di espulsione si cercò una soluzione
drastica della questione. Molti ebrei lasciarono la Spagna, ma numerosi invece si
convertirono formalmente al cristianesimo per restare nei luoghi in cui vivevano da molte
generazioni. Essi presero tra la gente comune il nome di marranos, ovvero “maiali”,
oppure in termini meno spregiativi ma ugualmente discriminanti, di conversos e di nuevos
cristianos. Verso di essi il sospetto e l’ostilità dei cristiani non venne tuttavia meno, poiché
la conversione fu in genere considerata solo un espediente di comodo. In realtà, per i più,
oggetto di avversione era soprattutto la presenza in Spagna di minoranze considerate
“impure” dal punto di vista razziale. La “limpidezza di sangue” venne perciò codificata per
legge e coloro, in gran parte ebrei convertititi, che non potevano vantarla, soggetti ad una
campagna di persecuzioni, a una condizione giuridica di inferiorità rispetto ai normali
sudditi del regno ed estromessi dalle cariche politiche e amministrative, nonché dalla
carriera ecclesiastica.
L’esempio spagnolo è significativo perché, benché all’origine della discriminazione
verso i conversos vi fosse una motivazione religiosa, l’ostilità verso questa minoranza
assunse con il tempo caratteri inequivocabilmente razziali, anticipando atteggiamenti poi
diventati consueti in altre parti d’Europa dalla fine del XIX secolo.
Il Settecento
E’ indubbio che il XVIII secolo rappresentò, in relazione al fenomeno
dell’antisemitismo, un’epoca apportatrice di novità importanti, dopo che nei decenni
precedenti la situazione degli ebrei in Europa e l’ostilità nei loro confronti non erano molto
mutate rispetto alle forme assunte in passato. La novità può essere individuata innanzitutto
nell’affermazione crescente della filosofia illuminista e razionalista. La critica rivolta da
queste correnti di pensiero agli aspetti più irrazionali e superstiziosi della tradizione e la
polemica anticristiana e anticlericale coinvolse anche la considerazione del rapporto con le
minoranze ebraiche.
Ciò avvenne in una duplice direzione, con conseguenze opposte rispetto
all’antisemitismo. Da un lato l’antica ostilità teologica nei confronti degli ebrei fu
condannata e considerata del tutto priva di fondamento, così come i pregiudizi e le
credenze popolari ad essa collegate. Dall’altro però, proprio per la loro forte identità
religiosa e per il riconosciuto rapporto di filiazione tra ebraismo e cristianesimo, gli ebrei
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osservanti vennero esplicitamente attaccati dalla filosofia dei lumi, che ne stigmatizzò la
fede, i riti e lo stile di vita.
Una grande personalità intellettuale che si distinse più volte nel polemizzare contro
il giudaismo e nel deridere i costumi degli ebrei, considerati rozzi ed incivili, fu Voltaire.
Anzi, per certe sue violente espressioni, l’antisemitismo del filosofo francese sembra
anticipare addirittura toni razzisti.
Non a caso con l’Illuminismo nacque l’antropologia “scientifica”, che si propose di
classificare gli uomini in base a caratteri come il colore della pelle, le dimensioni e la
conformazione dei corpi, la forma e le proporzioni dei crani. Se è vero che all’inizio questi
studi servirono da supporto esclusivamente all’affermazione della superiorità dei bianchi
sui neri, essi in seguito aprirono la strada a nuove costruzioni teoriche, tese ad argomentare
una inferiorità razziale dell’uomo semita rispetto a quello “ariano”, e ad alimentare così un
ulteriore tipo di antisemitismo.
L’Ottocento
Nella prima metà del XIX secolo la diffusione e il rafforzamento ulteriore di
sentimenti antisemiti nell’ambito della società europea occidentale furono il risultato della
interazione tra due processi cronologicamente paralleli, la progressiva affermazione di una
moderna economia capitalistica, e la lenta ma costante tendenza alla emancipazione e alla
assimilazione di parte della minoranza ebraica. Con il venir meno delle restrizioni
tradizionali (la Francia rivoluzionaria emancipò gli ebrei con la Costituzione del 1791 e in
seguito il provvedimento si diffuse in gran parte d’Europa), un numero sempre crescente di
personalità ebraiche, attive in campo economico, politico e culturale, raggiunse indubbie
posizioni di successo, dimostrando notevoli capacità.
In quest’epoca si formò in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti, ma anche
altrove – sebbene in Europa in modo più contrastato –, una élite ebraica di banchieri,
imprenditori, scrittori, scienziati e giornalisti. Questa ascesa sociale e l’assunzione di
innegabili posizioni di potere in diversi ambiti suscitarono però numerose reazioni negative
e alimentarono un rinnovato antisemitismo. Quest’ultimo di solito fu il risultato di una
commistione tra elementi antichi e moderni: senza abbandonare motivi religiosi, solo in
parte ormai anacronistici, esso fece proprie nuove suggestioni nazionalistiche e
pseudoscientifiche, e si nutrì soprattutto del profondo malcontento derivante dalle
traumatiche trasformazioni socioeconomiche in atto in Europa tra la fine del XVIII e la
prima metà del XIX secolo. Le nuove dottrine razziste teorizzanti una gerarchia esistente
all’interno della “razza bianca” e la superiorità biologica della sua componente ariana su
quella semita fornirono all’antisemitismo moderno un nuovo potente nutrimento.
Nel mondo occidentale, durante la seconda metà dell’Ottocento, mentre il
fenomeno antisemita tese a perdere di intensità nei paesi anglo-sassoni, rimase invece
massicciamente operante in Francia e in Germania, con tratti più tradizionali nel primo
contesto – presenti in modo emblematico nel celebre processo al capitano ebreo Dreyfuss –
, e con caratteri più moderni ed inediti nel secondo, grazie alla fortuna dell’ideologia
nazional-patriottica (völkisch) e delle teorie razziste.
Al di là dell’Elba, in Polonia e in Russia, infine, il secolo fu percorso da un
endemico antisemitismo di concezione tradizionale, che si rese responsabile di frequenti
persecuzioni e massacri, i famigerati pogrom, ai danni delle comunità ebraiche, numerose
in quei paesi dopo le massicce emigrazioni dall’Europa occidentale, iniziate nel XVI
secolo.
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2. Antisemitismo e razzismo in Germania e in Austria tra Ottocento e
Novecento
Mentre negli ultimi decenni dell’Ottocento la Russia, e l’Europa orientale in genere,
continuavano ad essere caratterizzate da un tradizionale antisemitismo di matrice religiosa,
nell’Europa centrale e in Francia iniziò a svilupparsi un nuovo tipo di antisemitismo su
basi razziali, grazie all’interazione di fattori quali l’elaborazione di specifiche teorie della
razza, l’emergere di nuove prospettive scientifiche e le trasformazioni economiche e sociali
causate dall’industrializzazione. L’antisemitismo razzista non costituì una definita
ideologia a sé stante, ma, come il razzismo in generale, si appropriò dei movimenti e delle
tendenze dell’epoca, oggettivandoli in simboli e stereotipi efficaci.
Occorre comunque tenere presente la persistenza, anche in questi paesi, del
tradizionale antisemitismo cristiano, che venne anzi rafforzato dall’ostilità delle Chiese nei
confronti della modernizzazione sociale e politica, della quale gli ebrei venivano
considerati tra i principali agenti e fruitori.
L’importanza del pregiudizio religioso sta nella sua giustificazione “filosofica”
dell’antisemitismo, che precedette l’elaborazione di teorie razziali “scientifiche”. Anche se
l’antisemitismo razziale fu spesso nettamente distinto da quello religioso, quest’ultimo
costituì un fertile terreno di coltura per il primo, e i due finirono per sostenersi
reciprocamente, conservando e rafforzando una temperie sociale ostile agli ebrei. Per la
destra conservatrice l’antisemitismo cristiano, perlopiù non violento, costituiva un mezzo
per rafforzare l’ordine tradizionale, e quindi un freno all’esplicita adozione del razzismo;
ma la separazione tra antisemitismo “rispettabile” e razzismo attivo poteva essere
facilmente superata. Ciò avvenne in modo particolare in Francia, dove l’antisemitismo
religioso profondamente radicato acquisì spesso atteggiamenti razzisti. Ma è in Austria e,
soprattutto, in Germania che l’antisemitismo “moderno” assunse caratteristiche specifiche
che lo fecero emergere con particolare intensità.
Un altro elemento importante è la presenza sovraproporzionata di ebrei in
determinati settori, quali quello delle libere professioni e delle attività finanziarie e
intellettuali; in Germania questo dato di fatto contrastava con le ridotte dimensioni della
popolazione ebraica (fino al 1933 essa oscillò intorno all’1% della popolazione
complessiva), nell’Impero austroungarico con l’esistenza di una grande maggioranza di
ebrei che (soprattutto nelle campagne orientali) viveva in condizioni di grande povertà.
Questa situazione, dovuta alle circostanze storico-sociali della diaspora e rafforzata
dai processi di modernizzazione, permise agli ebrei di svolgere un ruolo rilevante nella vita
pubblica, ma li collocò anche in una posizione particolarmente esposta. Lo stretto nesso e il
reciproco sostegno tra ebraismo e liberalismo, culminato nella definitiva emancipazione
del 1866-69 ad opera dei liberali al potere sia nella maggioranza degli stati tedeschi che in
Austria-Ungheria, costituì inoltre un punto debole, poiché la crisi del liberalismo nel
mondo tedesco, che iniziò poco dopo, permise all’antisemitismo di riemergere con
particolare violenza.
I fondamenti teorici
In Germania (ma si può dire lo stesso anche per i tedeschi dell’Impero asburgico)
tanto i ripetuti fallimenti dei tentativi di conseguire l’unità nazionale, quanto l’entusiasmo
provocato dalla creazione dell’Impero nel 1870, incoraggiarono il radicamento della
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tradizione völkisch. L’antisemitismo si unì al conservatorismo romantico dal quale era nata
questa tradizione, la concezione metafisica della nazione e del popolo (Volk) tedeschi
fondata su connotati esclusivamente storico-culturali non concepibili in termini
razionalistici, sull’idea di comunità nazionale “organica” e “spirituale” legata alla terra su
cui viveva da secoli. In quanto non appartenenti a questa comunità, sradicati e privi di una
patria (e quindi di una storia), gli ebrei venivano considerati irrimediabilmente estranei al
popolo tedesco.
Con l’industrializzazione una forma già esistente di antisemitismo, l’anticapitalismo, l’ostilità nei confronti dei banchieri e dei mercanti ebrei, assunse forme nuove e
più virulente. Soprattutto i ceti commercianti e artigiani maggiormente investiti dalle
trasformazioni economiche che ne minacciavano l’esistenza furono particolarmente
sensibili alla propaganda antisemita. La loro era un’ostilità contro la nuova mobilità sociale
fondata sulla capacità individuale da parte di chi era inserito in solide gerarchie (le
corporazioni preindustriali); si trattava di un’ideologia che si opponeva al progresso e alla
modernizzazione, e si poneva come alternativa al mondo moderno e alla civiltà industriale
urbana, della quale gli ebrei erano ritenuti i principali esponenti. L’ostilità al capitalismo si
unì con la tradizione di pensiero völkisch nell’esaltare i valori precapitalistici e ruralistici in
funzione antiebraica. Questo atteggiamento fu rafforzato dalla crisi mondiale scoppiata nel
1873, che favorì l’ostilità verso gli ambienti bancari e finanziari e verso le grandi
concentrazioni industriali sorte in risposta alla crisi.
Tentativi di unire antisemitismo e razzismo si erano avuti già negli anni Quaranta;
ma è dalla fine degli anni Settanta che si intensificarono le contrapposizioni tra semiti e
ariani su base razziale. L’operazione fu facilitata dalla distinzione, attuata dalla linguistica
nei decenni precedenti, tra lingue indogermaniche e semitiche, che fu indebitamente
trasposta sul piano dell’antropologia con la creazione delle presunte razze ariana e
semitica; e dalla grande influenza dello scientismo positivista, che si manifestò tramite vari
canali.
In un’epoca caratterizzata dall’intensificazione del nazionalismo e dalla nascita dei
contrasti imperialistici, l’applicazione ai fenomeni sociali dei concetti darwiniani di
selezione naturale e sopravvivenza del più adatto pose le idee di forza e potere al centro dei
rapporti sociali e politici, facilitando altresì la creazione di una gerarchia di razze e di
popoli; l’eugenetica, mirante al controllo scientifico del patrimonio ereditario della razza,
diede una patente di rispettabilità all’igiene razziale e favorì l’insorgere di un misticismo
della razza.
Di per sé il darwinismo sociale non era antisemita, ma è indubbio che esso fornì al
pensiero razzista due concetti che, ulteriormente semplificati e volgarizzati, divennero
centrali nella pubblicistica antisemita. Il primo fu quello di lotta per la sopravvivenza tra
l’elemento germanico e quello ebraico. Lo spostamento della lotta sul piano razziale aveva
il duplice vantaggio di non suscitare sospetti di intolleranza religiosa e di esercitare una
maggiore attrattiva sugli strati popolari indifferenti alla religione; il messaggio razziale
(avallato dall’autorità di presunte teorie scientifiche) poteva essere facilmente compreso da
tutti. Il secondo concetto fu quello di degenerazione, dovuta a immutabili fattori genetici,
che tramite discipline come la frenologia e la fisiognomica assunse particolare rilievo nella
“razza” ebraica, il cui aspetto fisico fu messo in relazione con i caratteri morali.
Primi esempi di questo nuovo antisemitismo tedesco a base razziale furono i libri
del giornalista (presunto inventore del termine “antisemitismo”, e fondatore nel 1879 di
una Lega degli Antisemiti) Wilhelm Marr La vittoria dell’ebraismo sul germanesimo,
considerata da un punto di vista non confessionale (1873), e dell’economista e filosofo
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Eugen Dühring La questione ebraica come questione razziale e il suo carattere nocivo per
l’esistenza dei popoli, la morale e la civiltà (1881), che attribuiva la depravazione morale e
culturale degli ebrei alle loro caratteristiche razziali, e giudicava il “materialismo” ebraico
un ostacolo al dinamismo del Volk tedesco erede dell’antico germanesimo. L’idea
dell’incurabile depravazione degli ebrei fu ripresa da Theodor Fritsch, che fino agli anni
del nazismo fu un instancabile propagandista dell’antisemitismo razzista.
Oltre che della scienza, il razzismo si appropriò anche della religione: a partire dal
1870 l’antisemitismo razzista elaborò una concezione positivistica della religione come
prodotto razziale, e produsse un cristianesimo germanizzato, liberato dalla presenza ebraica
e incentrato su un Cristo ariano. Non solo: attraverso la riscoperta dei miti nordici pagani si
sviluppò anche un “mistero” della razza, un razzismo a base mistico-religiosa nel quale il
nazionalismo si unì a correnti spiritualistiche per creare una nuova mistica nazionale su
basi religiose e razziali.
Qui emersero influenti pensatori come Paul de Lagarde (Scritti tedeschi, 1878) e
Julius Langbehn (Rembrandt come educatore, 1890), fautori di una concezione
pseudoreligiosa del Volk germanico come mediatore tra l’uomo e le forze cosmiche, che
ebbero un ruolo centrale nella diffusione dell’“ideologia germanica”. Questa assunse toni
più nettamente razzisti in personaggi come Richard Wagner, che nelle sue opere fuse la
mitologia della razza germanica con il mito cristiano del sangue di Cristo, e che rese il suo
circolo di Bayreuth un centro di diffusione del razzismo antisemita; e come l’inglese
germanizzato (e genero di Wagner) Houston Stewart Chamberlain, che ne I fondamenti del
XIX secolo (1899) esaltò l’anima razziale ariana e la missione civilizzatrice della razza
germanica, destinata alla battaglia decisiva della storia contro la razza ebraica,
materialistica e immorale. Scienza e metafisica razziste si fusero in Ernst Haeckel, che ne
Gli enigmi dell’universo (1899) definì gli ebrei una razza inferiore sulla base di una
“legge” di continuità della razza, giungendo ad una mistica della razza germanica; e nell’austriaco (ebreo) Otto Weininger, che in Sesso e carattere (1903) definì il tipo ideale
ariano sulla base del sesso e della razza, negando agli ebrei e alle donne la capacità di
ragionamenti superiori.
Il razzismo di impronta biologica e quello mistico-spirituale sarebbero poco più
tardi confluiti, ad un ancora maggiore (se possibile) livello di rozzezza, nell’ideologia del
nazionalsocialismo. Vale la pena, infine, osservare che la pseudoscienza della razza, con la
contrapposizione tra razze degenerate e superiori e l’affermazione dell’origine razziale
della morale, permise al razzismo di rafforzare, attribuendoli agli “ariani”, stereotipi come
laboriosità produttiva, onore, pulizia fisica e morale, che corrispondevano alla moralità e ai
valori delle classi medie. Queste ultime divennero così ancora più permeabili dalla
propaganda antisemita.
Le articolazioni politiche e sociali
Rispetto ad altre manifestazioni di antisemitismo di massa (per esempio i pogrom di
carattere religioso in Russia), l’antisemitismo di fine Ottocento nell’Europa centrale (e in
Francia) presentò un maggiore grado di organizzazione in movimenti e partiti politici, nei
quali funse da cemento ideologico di interessi economici e politici diversi. E rispetto alla
destra tradizionalista, poco incline al razzismo, questo antisemitismo politico mostrò
spesso, al fine di ottenere un maggiore appoggio popolare, una tipica unione di
rivendicazioni nazionaliste e semisocialiste (i primi casi di “socialismo nazionale”, basato
sull’idea di una società fondata su gerarchie e sulla “comunità nazionale” ma aperta a
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riforme in favore dei lavoratori, e ostile al capitalismo finanziario ebraico) che
sconfinarono spesso nel razzismo. Unendo le preoccupazioni economiche delle classi
medie e inferiori con l’ideologia del Volk, questo antisemitismo divenne il principale
veicolo di diffusione delle idee völkisch.
In Germania il più noto movimento antisemita fu il partito cristiano-sociale fondato
nel 1878 dal predicatore di corte Adolf Stoecker; conservatore ostile al liberalismo e al
socialismo, Stoecker ricorse all’antisemitismo per motivi tattici, il che gli permise di
guadagnare un certo consenso tra i ceti medi, abbandonando gli originari piani di riforme in
favore degli operai. Ma negli anni Ottanta sorsero anche altri gruppi e partiti minori, alcuni
dei quali apertamente razzisti (e responsabili dei pochi casi di violenze antiebraiche nella
Germania imperiale); tra cui quello di Otto Böckel, il primo deputato apertamente
antisemita e non conservatore, ispiratore di un movimento contadino ostile agli ebrei
monopolizzatori di ricchezza.
La stessa divisione si riscontra nell’antisemitismo politico organizzato in Austria,
dove però esso assunse articolazioni più complesse a causa della struttura plurinazionale
dell’Impero asburgico, e una maggiore solidità a causa dell’assenza in parlamento di una
forza come la socialdemocrazia, che in Germania rappresentò un efficace contraltare
all’antisemitismo politico. Il Partito cristiano-sociale (1889) guidato da Karl Lueger (che fu
abile sindaco di Vienna dal 1897 al 1914) ottenne un vasto seguito di massa grazie al suo
antisemitismo ideologicamente ambiguo ed eterogeneo ma non privo di fanatismo razzista,
che sfruttava i conflitti religiosi e razziali causati dalla lenta industrializzazione, la crisi
economica della piccola borghesia e il ruolo preponderante degli ebrei nel capitalismo
austriaco, e godeva del sostegno di esponenti cattolici apertamente antisemiti.
Il movimento pangermanista fondato da Georg von Schönerer alla fine degli anni
Settanta propugnava invece sia un radicale antisemitismo biologico fondato
sull’opposizione ariani/semiti, che proclamava la guerra agli ebrei al fine del rafforzamento
del Volk, sia un tradizionale antisemitismo anticapitalistico e “riformatore”; ma non acquisì
dimensioni di massa anche per la sua netta avversione sia alla monarchia asburgica (suo
obiettivo era l’unione alla Germania) che alla Chiesa cattolica.
L’antisemitismo come
fenomeno organizzato di massa si sviluppò quindi in primo luogo in Austria; e non è un
caso che la formazione intellettuale di Adolf Hitler si svolgesse in buona parte a Vienna,
dove egli venne influenzato in misura decisiva sia da Schönerer, del quale ammirava i
principi, che da Lueger, del quale apprezzava invece la capacità politica.
Nell’Europa centrale l’antisemitismo non riuscì a cancellare gli effetti
dell’emancipazione, ma conobbe (malgrado il sostanziale fallimento dei partiti e
movimenti politici che facevano dell’antisemitismo la loro unica ragione) una crescente
penetrazione nella vita sociale, tramite associazioni e gruppi di pressione di vario genere e
tramite stereotipi ampiamente diffusi dalla letteratura popolare, dalla pubblicistica
pseudoscientifica ed anche dal sistema scolastico. L’antisemitismo si configurò sempre più
come un codice culturale, che riassumeva un ampio complesso di valori e norme, una
visione del mondo espressa da quelle forze (nazionalismo, militarismo, imperialismo,
razzismo) che si opponevano al liberalismo, alla democrazia e al capitalismo in quanto
ritenuti responsabili dell’emancipazione degli ebrei nell’Ottocento. Quanto più questa
visione del mondo penetrava tra la popolazione, tanto meno aveva a che fare con i concreti
problemi dei rapporti tra ebrei e non ebrei, sempre più considerati entità impersonali, e
tanto più la presunta “questione ebraica” assumeva dimensioni astratte e totalizzanti.
Nei confronti del liberalismo il razzismo antisemita adottò un atteggiamento
strumentale: chiaramente ostile ai suoi valori di tolleranza e morale universale, esso piegò
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alle sue esigenze concetti liberali come l’atteggiamento “scientifico” nei confronti del
diritto e della religione (pur esibendo a volte un irrazionalismo ateo e pagano), e la
partecipazione delle masse alla politica. In questo senso, mentre gli scrittori conservatori
tradizionali erano preliberali in quanto difensori della religione cristiana, della monarchia e
della vita rurale, gli autori razzisti si possono definire postliberali, intenzionati ad
affrontare la nascente società di massa con i suoi stessi strumenti ma allo scopo di negarla
radicalmente. Fino al 1914 minoritario rispetto al tradizionale antisemitismo di ispirazione
cristiana, l’antisemitismo razzista (limitato dapprima agli ambienti intellettuali e
accademici) divenne predominante dopo la guerra mondiale. Questo fu il momento
decisivo per il salto qualitativo compiuto dall’antisemitismo tedesco, che subì una
radicalizzazione in senso biologico-razziale.
Gli effetti della guerra mondiale e delle rivoluzioni
Nel quadro di generale esasperazione del nazionalismo provocata dal conflitto
mondiale, in Germania l’esperienza dei combattimenti e delle trincee stimolò in modo
particolare il senso di cameratismo e lo spirito di violenza e li aprì alla penetrazione
razzista, che si espresse nello stereotipo della bellezza virile “nordica” e nella mistica dello
slancio vitale dei “guerrieri” come sublimazione della battaglia; dopo la guerra, queste
concezioni si tramandarono nelle associazioni di ex-combattenti e nelle società segrete che,
presentandosi come incarnazione delle tradizioni germaniche, costituirono un importante
focolaio di nazionalismo razzista.
Il trauma della sconfitta militare e del crollo degli Imperi centrali spinse i settori
conservatori del mondo politico e dell’opinione pubblica a cercare un capro espiatorio cui
addossare le responsabilità della sconfitta. Questo fu facilmente trovato negli ebrei, dato il
loro presunto comportamento antipatriottico durante la guerra (che aveva visto invece la
grande maggioranza degli ebrei tedeschi aderire alla causa nazionale), e data la cospicua
presenza ebraica tra i dirigenti del movimento operaio protagonista delle rivoluzioni che
avevano portato alla nascita della repubblica in Germania e in Austria. Gli eventi
rivoluzionari del 1917-20 in Russia e nell’Europa centrale crearono così un nuovo
stereotipo antiebraico, l’identità ebraismo-bolscevismo, che si legò senza difficoltà alla già
esistente associazione tra ebreo e capitalista “sfruttatore”.
Nel periodo postbellico si diffuse così nuovamente, e in grado maggiore che in
precedenza, la psicosi della “cospirazione mondiale” ebraica, che raggiunse paesi finora
immuni come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, ma che trovò in Germania il terreno di massimo
sviluppo grazie alla situazione di grave crisi politica, economica e sociale. Anche se in
Germania e in Austria non vi furono aperte violenze (che si verificarono invece in Europa
orientale, specialmente in Polonia e nella Russia sconvolta dalla guerra civile),
aumentarono i casi di discriminazione sociale e culturale nei confronti degli ebrei.
Organizzazioni professionali, studentesche e sportive, lo stesso partito cristiano-sociale
austriaco mostrarono atteggiamenti e programmi pesantemente discriminatori.
In Germania la grande fioritura di una violenta e delirante pubblicistica antisemita
(grande successo ebbe in particolare la traduzione, nel 1920, dei Protocolli dei Saggi di
Sion) e lo sviluppo di associazioni nazionaliste di destra che facevano dell’antisemitismo,
unito all’odio per il socialismo e la democrazia, la loro bandiera testimoniano non solo la
continuità, ma la radicalizzazione dei motivi antisemiti. Se è vero che l’antisemitismo
razzista rimase prerogativa perlopiù dell’estrema destra (che ricorse anche all’assassinio
del leader socialista Kurt Eisner e del ministro degli esteri Walther Rathenau, in quanto
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avversari politici ed ebrei), è anche vero che gli ambienti conservatori ostili alla repubblica
parlamentare (da questi chiamata volentieri “repubblica degli ebrei”) trovarono nei gruppi
della destra radicale dei comodi alleati, e per rinsaldare questa alleanza non esitarono ad
appropriarsi dei temi della propaganda antisemita e razzista, che penetrò così anche negli
ambienti militari. Nel 1924, con la stabilizzazione economica e sociale, l’antisemitismo,
insieme all’attività degli estremisti di destra, sembrò attenuarsi; ma ciò riguardava solo gli
aspetti più estremi e violenti, dato che gli stereotipi antiebraici continuarono ad avere
ampia circolazione, soprattutto grazie alla stampa e al sistema scolastico. Con lo scoppio di
una crisi economica molto più grave, nel 1929, l’ostilità antiebraica riprese vigore e si
preparò a compiere un nuovo salto di qualità, dalla teoria alla pratica della “guerra contro
gli ebrei”. Ciò fu reso possibile grazie alla propaganda da tempo in atto ad opera di Hitler e
dei nazisti, che negli anni precedenti la presa del potere, malgrado gli aggiustamenti tattici,
non persero mai di vista il fondamento razziale della dottrina e degli obiettivi del loro
movimento.
3. Il razzismo nella teoria e nella prassi del Terzo Reich
Razzismo biologicista e razzismo spiritualista nella concezione del mondo dei
nazionalsocialisti
Il regime nazista fece del razzismo (e in primo luogo dell’antisemitismo) un dogma
ed un pilastro del proprio agire politico, come si evince dalle teorie razziali di cui si fece
portatore e che mise in atto con spietata risolutezza.
Esaminiamo due testi chiave: Mein Kampf (La mia battaglia) (1924) di Adolf Hitler
e Il mito del XX secolo (1930) di Alfred Rosenberg, filosofo semiufficiale del movimento.
Alla base di Mein Kampf Hitler pose uno schema di carattere biologicista, fondato su una
gerarchia di razze differenti, che combattevano per la sopravvivenza e l’autoaffermazione,
secondo uno schema preso di peso dal darwinismo; la razza per definizione migliore era
quella ariana, destinata a trionfare purché il popolo tedesco si sottoponesse ad un processo
di purificazione fisica e spirituale. Proprio sul piano eugenetico-razziale, quindi, Hitler
individuava il compito essenziale, la vera ragione d’essere dello stato. Nel Mito del XX
secolo Rosenberg non si poneva, come Hitler, finalità agitatorie, ma mirava ad una sintesi
storico-filosofica, fondata sulla storia della razza come «storia naturale e mistica
spirituale», «religione del sangue» come metafora di valori e prerogative spirituali
caratteristici della «libera anima nordica» rinata dalle macerie della guerra mondiale.
Nella visione nazista del mondo compaiono dunque due diverse accezioni del
razzismo, una su base biologica, l’altra su base spiritualista e culturalista. E’ possibile
rintracciare elementi comuni ad entrambe sul piano dei valori di fondo, strutturati in coppie
concettuali in cui uno dei termini corrisponde al positivo e l’altro al negativo, senza alcuna
possibilità di mediazione. Di queste, le principali sono: purezza/mescolanza;
natura/cultura; restaurazione/trasformazione; sottomissione delle donne/libertà delle donne.
In sostanza, si afferma che la purezza della razza (non importa su quali parametri essa
venga definita) è un valore in sé, mentre l’“imbastardimento” è stato ed è foriero di
disastri; analogamente, l’unica cultura degna di questo nome è quella che rispecchia la
natura, quindi in quanto tale immutabile e passibile, semmai, di essere “riscoperta” dopo un
periodo di occultamento.
La dimensione più propriamente moderna della cultura come costruzione
storicamente data, come rielaborazione tipicamente umana che contiene in sé la volontà di
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dar senso al mondo, viene negata alla radice. Siamo nel cuore di un pensiero tradizionalista
e restauratore, che colloca in un passato non importa quanto mitico una sorta di età
dell’oro. E’ però un tradizionalismo che, a differenza di altri precedenti, non rifiuta
globalmente il moderno, accettandone e valorizzandone invece la dimensione della tecnica,
di cui ci si intende servire fino in fondo allo scopo di restaurare l’ordine naturale violato.
Va notato che, da questo punto di vista, il nazionalsocialismo anticipa un atteggiamento
che sarà poi, nella seconda metà del XX secolo, tipico di tutti i fondamentalismi: negare i
valori della modernità accettandone la dimensione scientifico-tecnologico-manipolatoria.
Queste ed altre consimili teorie tipiche del nazismo nascevano dal mutamento
intervenuto nell’ultimo trentennio dell’Ottocento (in modo particolare nell’Impero
guglielmino e nella parte austriaca di quello asburgico) in seno al nazionalismo: accanto ad
una corrente, ancora predominante, il cui obiettivo era la germanizzazione dei gruppi non
tedeschi che risiedevano nei territori dei due stati, emerse una tendenza, minoritaria fino
alla prima guerra mondiale, che sostenne l’opposto programma di difesa del germanesimo
dalle contaminazioni. Ad un nazionalismo “imperiale” ed “includente” se ne contrappose
uno “purificatore” ed “escludente”, che si identificò con la tradizione völkisch ed il cui
obiettivo divenne “disassimilare”. Su questo filone l’innesto dell’antisemitismo risultò
quanto mai facile; anzi, gli ebrei tedeschi ed austriaci diventarono il primo bersaglio della
propaganda disassimilatrice.
Con tutte le cautele del caso, mi pare che la forma di nazionalismo che sta in questi
anni rinascendo in numerose parti d’Europa abbia un’impronta essenzialmente
“escludente”, e quindi, benché non esprima un pensiero razzista di tipo biologicista,
contenga elementi che la apparentano ad una dimensione völkisch. Questa, come si è detto,
fa riferimento a un’idea organicista di popolo-stirpe (il Volk), contrapponendo alla società
industriale borghese, attraversata da conflitti e contrapposizioni di gruppi e di classi, la
comunità organica. Non a caso una delle architravi del nazionalsocialismo e poi
dell’impalcatura politico-giuridica del Terzo Reich è il concetto di Volksgemeinschaft,
comunità organica di stirpe, ad un tempo criterio per separare gli esseri umani (gli stessi
tedeschi in primo luogo) in Volksgenossen (membri del popolo) e Gemeinschaftsfremde
(estranei alla comunità), e obiettivo da raggiungere utilizzando gli apparati dello stato.
La ricostruzione della Volksgemeinschaft come obiettivo
nazionalsocialismo: la legislazione del Terzo Reich dal 1933 al 1939
prioritario
del
La tradizione politica e culturale völkisch trova la sua più completa (ancorché non
univoca) espressione nella Germania del primo dopoguerra nella Nationalsozialistische
Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP – il partito guidato da Adolf Hitler); la sua propaganda,
il suo manifesto politico (Mein Kampf), la sua visione del mondo hanno come prospettiva
centrale la ricostituzione della Volksgemeinschaft, definita in un’accezione che trasforma
razzismo biologicista e razzismo spiritualista in due facce della stessa medaglia.
Chi è razzialmente “impuro” (ebrei, zingari, slavi, e così via) non fa parte della
Volksgemeinschaft, da cui deve immediatamente essere espulso; ma anche chi si comporta
in modo “indegno”, violando i valori e le norme propri della stirpe germanica è
necessariamente impuro dal punto di vista razziale, anche se di sano ceppo “ariano”. Del
resto, lo avevano scritto sia Hitler sia Rosenberg, compito primario dello stato völkisch
sarebbe stato restaurare l’originaria purezza del Volk, ripulendolo dalle conntaminazioni e
dalle degenerazioni.
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Trasformare i tedeschi nel “popolo dei signori” si presenta perciò come
un’operazione né indolore né priva di crudeltà verso quello stesso popolo destinato a
dominare. Per diventare razza eletta esso deve essere sottoposto ad operazioni di ingegneria
territoriale, sociale ed eugenetica, dev’essere “purificato”. Il razzismo nazista si rivela così
un mostruoso Giano bifronte, che agisce tanto verso l’esterno quanto verso l’interno, anche
se con tecniche e strumenti diversificati. Ciò appare in tutta evidenza se si considera la
produzione legislativa del Terzo Reich tra la chiamata al potere di Hitler (gennaio 1933) e
l’attacco alla Polonia, che accende la seconda guerra mondiale (settembre 1939).
Il dispositivo giuridico fondamentale con cui la costituzione democratica
weimariana venne di fatto svuotata e si attuò il passaggio alla modalità totalmente verticale
di produzione del diritto tipica del Terzo Reich fu l’ordinanza del 28 febbraio 1933 «per la
sicurezza del popolo e dello stato», che proclamò lo stato di emergenza, che diventò –
paradossalmente – la normalità durante i dodici anni di vita del regime nazista.
Con le norme del 28 febbraio fu introdotto l’istituto della detenzione di sicurezza,
che permetteva agli organi di polizia di arrestare e detenere senza limiti di tempo
qualunque persona qualificata come «nemico dello stato», senza dover sottostare ad alcun
controllo da parte della magistratura. Il successivo 23 marzo fu emanata la legge che dava
pieni poteri al governo del Reich (in pratica al suo capo, il Führer della NSDAP, Adolf
Hitler). Il 7 aprile 1933 venne disposto il licenziamento di tutti i pubblici funzionari “non
ariani”. Il 25 aprile fu limitato l’accesso all’istruzione di scolari e studenti ebrei, e il 28
dicembre seguente si stabilì che la quota delle ragazze (non ebree!) che ogni anno potevano
sostenere gli esami di maturità non doveva superare il 10% del totale.
Il 14 luglio 1934 fu emanata la legge per la prevenzione delle tare ereditarie che
autorizzava la sterilizzazione coatta delle persone potenzialmente portatrici di malattie
ereditarie. In 12 anni furono sterilizzate in tal modo 360.000 persone, in gran parte donne (i
casi di morte furono parecchi). Nei giorni 10-16 settembre 1935 furono promulgate le
cosiddette “leggi di Norimberga” che introdussero la divisione tra «cittadini del Reich» (gli
“ariani”) e semplici «residenti nel Reich» (gli ebrei e tutti i non “ariani”). Il 18 ottobre 1935
entrò in vigore la seconda legge per «la difesa della stirpe tedesca», che vietava il
matrimonio a coloro che erano affetti da malattie giudicate «pericolose per la stirpe». Nel
1936-37 una serie di disposizioni del Ministero degli interni e degli organi di polizia stabilì
l’internamento nei campi di concentramento (Konzentrationslager - KL) di diverse
categorie di «estranei alla Volksgemeinschaft»: zingari, mendicanti, vagabondi, prostitute,
persone senza fissa dimora, «disoccupati abituali», maschi omosessuali (circa 15.000, ben
pochi sopravvissero), e così via.
Il 25 gennaio 1938 fu emanata una nuova disposizione indirizzata contro i
cosiddetti «asociali» (i gruppi appena nominati, cui venne aggiunto – almeno
potenzialmente – chiunque si comportasse in modo anomalo rispetto alla norma sociale
dominante). L’8 dicembre 1938 Heinrich Himmler, capo supremo (Reichsführer) della SS
e massimo responsabile degli apparati di polizia del Reich, emanò disposizioni per la
discriminazione e la persecuzione degli zingari (almeno 220.000 di loro vennero uccisi
entro la fine della guerra). Il 21 settembre 1939 Reinhard Heydrich, capo dei servizi di
sicurezza della SS e dello stato, ordinò ai gruppi di intervento (Einsatzgruppen, unità
costituite da agenti dell’apparato poliziesco incaricato del mantenimento dell’ordine
pubblico inquadrati da ufficiali SS) che muovevano alla spalle delle truppe tedesche in
azione contro la Polonia, di chiudere tutti gli ebrei in ghetti. Nell’ottobre successivo, Hitler
dispose l’operazione «Eutanasia» (Aktion T4), cioè l’eliminazione fisica di malati mentali,
anziani incurabili e di tutti coloro che venivano definiti «vite senza valore».
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L’azione T4 fu interrotta il 24 agosto 1941, ma proseguì in modo decentrato
confondendosi con le altre operazioni di sterminio portate avanti dai nazisti. In tutto ne
furono vittime circa 90.000 persone. L’operazione «Eutanasia», in cui furono impegnati alti
quadri della SS poi attivi nello sterminio degli ebrei (dove misero a frutto l’esperienza ivi
accumulata) venne portata avanti sotto lo schermo di nomi e sigle di copertura, esattamente
come poi sarebbe avvenuto per la Shoah.
La logica operativa del Terzo Reich: ghettizzare, isolare, disassimilare
Tutti i provvedimenti legislativi elencati obbedivano ad una logica unitaria di
fondo. Ciò non significa che non vadano fatte distinzioni, più che altro dal punto di vista
dei soggetti e dei gruppi sociali che vennero colpiti da questa o quella disposizione del
regime; alcuni di essi, infatti, patirono conseguenze ben più pesanti di altri.
Si può comunque affermare che l’imperativo categorico del nazismo era la
disassimilazione, la rottura dei mille fili, dei legami tessuti dalla quotidianità che univano i
membri dei gruppi che le autorità del Terzo Reich intendevano discriminare dai loro
concittadini “ariani”. In tal modo ci si proponeva di agire in profondità sull’immaginario
collettivo e sulla percezione dell’altro; lo dimostra il caso più significativo, quello degli
ebrei tedeschi, gruppo i cui membri si sentivano – in grande maggioranza – profondamente
tedeschi. Le misure vessatorie disposte nei loro confronti ebbero come effetto di ridurre le
occasioni di contatto tra loro e i non ebrei, radicando lentamente nella testa di molti
tedeschi lo stereotipo (tanto disincarnato quanto generalizzante) dell’ebreo; ai singoli
individui, ciascuno con un nome, una personalità, un viso, un sesso, si sovrappose in tal
modo una categoria astratta. E’ difficile considerare una persona specifica, conosciuta,
come l’incarnazione di un male assoluto; ma quando si tratta di poco più di un nome lo si
può odiare con facilità.
La rete di strutture concentrazionarie di cui, lentamente, la Germania nazista si
coprì era destinata a portare al parossismo questa logica; il recinto, il reticolato, il Lager
(letteralmente: deposito, magazzino) divise la società in due campi: al di fuori stavano i
“normali”, nello spazio circondato dal filo spinato erano rinchiusi i diversi, che non
avevano più un nome ma solo un numero.
La nascita del “modello di Dachau”
Il primo KL ufficiale fu aperto già nel marzo 1933 a Dachau, nei pressi di Monaco,
per ordine di Heinrich Himmler, Reichsführer della SS e allora capo della polizia della
Baviera; era destinato ad accogliere antinazisti ed oppositori politici di qualunque
orientamento, internati senza processo. Nell’estate successiva entrarono in attività i KL di
Esterwegen, Papenburg, Oranienburg (a Sachsenhausen, presso Berlino). Un anno dopo
Dachau assunse la funzione di scuola per i quadri SS destinati a mansioni direttive
nell’apparato concentrazionario e di luogo d’istruzione per i reparti speciali SS a cui i KL
erano affidati.
Fino al 1936 l’internamento nei KL fu applicato quasi soltanto agli oppositori
politici del regime, non coinvolse gli ebrei né altri gruppi. I deportati nei KL erano circa
10.000; ad essi era imposto l’obbligo del lavoro, ma in una logica non di carattere
produttivistico, bensì meramente punitivo (si trattava di lavori pesanti, di sterro o in cave di
pietra, da svolgere con strumenti primitivi e senza alcun macchinario).
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Una svolta si verificò tra il 1937 ed il 1938, quando nuove categorie di persone
entrarono nell’universo concentrazionario: i cosiddetti asociali e gli Arbeitsscheue (più o
meno, «gente che non ha voglia di lavorare»). Il numero di deportati salì a questo punto a
30.000; la macchina concentrazionaria iniziò ad occuparsi non solo di oppositori politici,
ma anche di gruppi sociali dal comportamento non conformista e non allineato coi valori
dominanti, ma non necessariamente nemici coscienti del nazismo. Era un salto di qualità;
da allora in poi per essere esclusi dalla Volksgemeinschaft non era più necessario schierarsi
politicamente contro il Terzo Reich, bastava trasgredire le sue ferree regole di vita, che
pretendevano di fondarsi sulle tradizioni connaturate alla stirpe. Il giro di vite è senz’altro
da collegare con la concentrazione degli sforzi in vista dell’attuazione del colossale
progetto di riarmo previsto dal primo Piano quadriennale, ma anche in questo caso non in
una logica piattamente produttivistica: non si trattava ancora di pianificare lo sfruttamento
del lavoro dei deportati, quanto piuttosto di espellere dal tessuto sociale gli improduttivi,
che potevano essere impiegati in attività sgradevoli e faticose che altrimenti rischiavano di
non essere remunerative.
La “notte dei cristalli” e le sue conseguenze
Il 9 novembre 1938, prendendo a pretesto l’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi
per mano di un giovane ebreo i cui genitori (assieme ad altri 15.000 ebrei tedeschi di
origine polacca) erano stati espulsi pochi giorni prima dal Reich, la NSDAP e le sue milizie
(SS e SA) scatenarono un grande pogrom contro gli ebrei in tutto il territorio del Reich (cui
era stata da poco annessa l’Austria, dove viveva una consistente comunità ebraica). Agli
incendi delle sinagoghe, alla distruzione e al saccheggio di negozi e case, ai ferimenti e agli
omicidi si aggiunse l’arresto di oltre 20.000 ebrei tedeschi che vennero trasferiti nei KL,
portando così a circa 60.000 il numero dei deportati.
A partire da questo momento universo concentrazionario e persecuzione antisemita
iniziarono ad incontrarsi, anche se in modo non ancora sistematico; la detenzione di un
gran numero di ebrei tedeschi (ed austriaci) mirava per ora ad impadronirsi di tutti i loro
beni, che i malcapitati erano costretti a cedere senza contropartite per poter ottenere un
permesso di espatrio. Le autorità naziste presero così due piccioni con una fava: espulsero
dal Reich un buon numero di ebrei, e avviarono l’“arianizzazione” delle attività
imprenditoriali e commerciali fino a quel momento in mano a persone “di razza ebraica”.
All’antisemitismo fu così offerta un’ulteriore possibilità di radicarsi maggiormente
tra i non ebrei: non si trattava più di un’opzione solo ideologica o di un mero pregiudizio;
per molti borghesi l’arianizzazione forzata dei beni ebraici significò buoni affari e la
scomparsa di fastidiosi concorrenti sul mercato.
L’intervento nel corpo vivo della nazione tedesca: sterilizzazione coatta ed eutanasia
Come si è visto, la logica razzista incentrata sull’interpretazione nazista del
concetto di Volksgemeinschaft comportava la “purificazione” dello stesso popolo tedesco;
la propaganda del regime sottolineava inoltre che un handicappato consumava risorse
preziose per il Volk; era quindi ragionevole ridurre il più possibile il numero dei
“parassiti”.
Uno dei più importanti mezzi per ottenere tale obiettivo fu la sterilizzazione coatta
di chi era ritenuto indegno di procreare, perché portatore di malattie ereditarie (o presunte
tali) o perché aveva abitudini ritenute dannose per la stirpe (tra le altre, l’etilismo). La
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legge stabilì in dieci anni l’età minima per la sterilizzazione. L’attuazione del programma
di sterilizzazione fu affidata agli uffici sanitari statali, accanto ai quali operavano dei
«tribunali per la salute della stirpe». Medici, infermieri, ostetriche erano obbligati dalle
legge a segnalare i casi sospetti, su ciascuno dei quali veniva poi avviata un’istruttoria.
Attraverso il coinvolgimento delle categorie professionali tradizionalmente considerate
custodi della salute pubblica e privata, oltre che attraverso la propaganda diffusa tramite
giornali, radio, cinema (collocati tutti sotto il controllo assoluto del regime), il nazismo
puntava a far sì che la maggioranza della popolazione considerasse normale ciò che stava
avvenendo.
Non troppo diverso il modo in cui fu avviata l’operazione «Eutanasia» (o Aktion
T4); disposta da Hitler alla fine dell’ottobre 1939, essa intendeva ridurre drasticamente il
numero delle «bocche inutili e improduttive» (schizofrenici, epilettici, affetti da demenza
senile, persone con gravi deficit mentali, malati di sifilide, portatori di postumi da
meningite). A tal fine furono istituite speciali strutture, camuffate da ospizi e cronicari, in
cui si doveva procedere all’eliminazione di coloro la cui vita aveva «scarso valore». Ad
ospedali, manicomi e analoghe istituzioni giunsero dettagliati questionari in cui si chiedeva
di indicare nomi e cifre dei pazienti che soffrissero delle affezioni sopra elencate; nei
moduli si richiedeva anche di indicare coloro che, pur senza avere le patologie in
questione, non fossero cittadini tedeschi o avessero «sangue non ariano nelle vene». Le
vittime erano eliminate col veleno se bambini; per gli adulti si iniziarono ad usare le
cosiddette «camere a gas mobili», furgoni con l’interno totalmente sigillato in cui si
convogliavano i gas di scarico del motore.
L’Aktion T4 suscitò notevole malcontento nella popolazione, perché ciò che
accadeva nei nuovi «cronicari» non poteva essere tenuto nascosto; intervennero anche le
chiese cristiane, con proteste pubbliche. Nell’agosto 1941, pressato dalle esigenze di
evitare il manifestarsi di qualunque forma di dissenso nel momento in cui veniva sferrato
l’attacco all’Unione Sovietica, Hitler in persona ordinò l’interruzione dell’azione;
l’eliminazione di anziani non autosufficienti e di malati incurabili però proseguì, sia pure
con maggior cautela. Il gruppo di funzionari ed alti ufficiali SS che avevano partecipato
all’operazione, accumulando una notevole esperienza nell’assassinio di massa e
sviluppando la prima forma di camera a gas, mise ben presto a frutto ciò che aveva
appreso; saranno costoro, infatti, ad organizzare, subito dopo la brusca fine dell’Aktion T4,
lo sterminio sistematico degli ebrei d’Europa negli appena costruiti campi d’annientamento
immediato (Vernichtungslager).
L’intervento delle Einsatzgruppen nella Polonia occupata
Come si è detto, le Einsatzgruppen (gruppi d’intervento) furono costituite poco
prima dell’attacco alla Polonia; compito specifico di queste unità era di rastrellare il
territorio occupato dalle truppe regolari durante la loro avanzata, “bonificandolo” da tutte
le presenze che il regime nazista riteneva ostili per ciò che facevano (o avrebbero potuto
fare), o semplicemente per ciò che erano. A quest’ultima categoria appartenevano gli ebrei,
contro cui furono scatenate cacce all’uomo tese ad espellerli dai luoghi di residenza e a
concentrarli nei vecchi quartieri ebraici (i ghetti) delle città del Governatorato generale,
come era chiamata la regione attorno a Cracovia, retta dagli occupanti tedeschi secondo un
modello coloniale (a differenza delle altre province settentrionali e occidentali della
Polonia, direttamente annesse al Reich).
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I polacchi dovevano diventare gli schiavi, la nuova manodopera servile agli ordini
del popolo dominatore; perciò occorreva eliminare fisicamente chiunque, per cultura e
collocazione sociale (medico, prete, maestro di scuola, ecc.) poteva diventare un punto di
riferimento per un’eventuale opposizione; le terre conquistate dovevano poi essere
“deebreizzate”, ripulite di ogni traccia dell’ebraismo. Per ora gli ebrei erano concentrati nei
ghetti; si sarebbe poi visto cosa fare dei sopravvissuti ai rastrellamenti (che diventavano
spesso veri e propri pogrom, accompagnati da fucilazioni di massa che non risparmiavano
donne, vecchi, bambini), ai trasferimenti forzati nei ghetti, alla fame, al sovraffollamento,
alle epidemie che in essi inevitabilmente regnavano.
L’estensione del sistema dei KL (1939-41)
Con il sorgere dei primi nuclei dei movimenti di resistenza nell’enorme territorio in
mano tedesca, i KL divennero uno strumento di repressione verso qualunque tipo di
opposizione. Aumentò, fino a superare in breve la soglia dei 100.000, il numero dei
deportati, tra i quali crebbe in modo esponenziale la percentuale di non tedeschi. Il 7
dicembre 1941, quando già le armate tedesche si trovavano di fronte a Mosca, Hitler
emanò il decreto “Notte e nebbia”, che prevedeva il trasporto in KL di tutti gli oppositori
politici nei territori occupati dell’Europa occidentale.
Nuovi nomi si aggiunsero al rosario dei Lager: Groß-Rosen, Neuengamme,
Natzweiler (nell’Alsazia francese ora annessa alla Germania), Ravensbrück (riservato alle
donne), Majdanek (alla periferia di Lublino, destinato ai polacchi). Contemporaneamente le
condizioni di vita dei deportati conobbero un ulteriore peggioramento; con lo scoppio della
guerra cadde la possibilità di essere rimessi in libertà (sia pur vigilata) dopo un certo
periodo (non breve, almeno un anno) in KL. Dall’autunno 1939 in avanti dal Lager si poté
uscire solo morti. La rete dei KL venne inoltre finalizzata all’eliminazione fisica di tutti
coloro che, a giudizio delle autorità di polizia tedesche, avrebbero potuto mettere in
pericolo la vittoria, se non addirittura propiziare la sconfitta, delle armi naziste.
La guerra di annientamento sul fronte orientale e la «soluzione finale della questione
ebraica» (1941-43)
Per il regime nazista la campagna contro l’URSS, avviata il 22 giugno 1941, era
qualitativamente diversa da quelle precedenti: ad un tempo guerra ideologica e guerra di
annientamento, aveva come obiettivo non solo la distruzione dell’apparato militare
sovietico e l’occupazione di ricche ed economicamente importanti porzioni del suo
territorio, ma anche la completa eliminazione del bolscevismo e dell’ebraismo, categorie
che il nazismo vedeva da sempre strettamente intrecciate, per non dire coincidenti.
Si ricorse nuovamente, in prima istanza, alle Einsatzgruppen, il cui compito questa
volta fu puramente e semplicemente il massacro della popolazione civile ebraica e
l’eliminazione dei commissari politici comunisti e di chiunque potesse essere anche
lontanamente sospettato di simpatie comuniste. Nelle lande ucraine, bielorusse e baltiche
conquistate nella prima travolgente avanzata tedesca le Einsatzgruppen (composte in tutto
da circa 3.000 uomini) massacrarono tra il giugno 1941 e l’aprile 1942 circa 600.000
persone, in stragrande maggioranza ebrei: uomini, donne, bambini. Agli occhi del gruppo
dirigente nazista la situazione apparve estremamente favorevole alla «soluzione finale del
problema ebraico», cioè l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei presenti nella sfera di potere
tedesca. Il 14 ottobre 1941 fu emanato l’ordine di deportare tutti gli ebrei ancora presenti
19
nel territorio del Reich (e non detenuti) nei ghetti costituiti nei territori orientali occupati;
negli stessi giorni furono allestiti, in una fascia di territorio polacco a circa 300 chilometri
ad est di Varsavia, sei Lager di nuovo tipo, di sterminio (Vernichtungslager - VL), il cui
obiettivo era l’eliminazione immediata di masse enormi di esseri umani. Le loro vittime
predestinate erano gli ebrei di tutta Europa. Quattro di loro (Chelmno, Belzec, Treblinka,
Sobibor) erano pure macchine di morte costruite ex novo; due (Auschwitz-Birkenau,
Majdanek) furono approntate nei pressi di KL già esistenti, di cui divennero sezioni
separate. La decisione di eliminare fisicamente, senza eccezione alcuna, gli ebrei fu poi
confermata il 20 gennaio 1942, alla conferenza di Wannsee (un sobborgo di Berlino dove si
radunò un gruppo di alti dignitari del regime), dove il proposito venne operativamente
messo a punto.
Tra l’autunno 1941 e l’estate 1944 oltre tre milioni di persone, quasi tutti ebrei,
persero la vita nei VL per mano nazista.
Sterminio di massa e annientamento mediante il lavoro: la funzionalizzazione
produttiva dei KL nell’ultima fase della guerra (1943-45)
Il progetto di “deebreizzare” il Reich e con esso l’Europa sembrava a buon punto,
tanto che il 5 ottobre 1942 Himmler ordinò il trasporto ad Auschwitz di tutti gli ebrei
detenuti in KL nel territorio metropolitano tedesco; ma l’andamento della guerra, con
l’imprevista ed efficace resistenza dell’Urss e l’impegno militare degli USA, non era più
così favorevole alla Germania come nei mesi precedenti. Di fronte alla carenza di braccia e
alla necessità di spostare la produzione industriale fuori dalle aree metropolitane, per
sottrarla almeno parzialmente alle offensive aeree angloamericane, le centinaia di migliaia
(ormai quasi mezzo milione) di uomini e donne deportati in KL costituivano una riserva di
manodopera a cui i nazisti furono costretti a ricorrere; allo stesso modo, le esigenze
economiche e produttive li costrinsero a non dare più l’assoluta priorità (almeno
temporaneamente) allo sterminio immediato di ebrei ed altre “razze inferiori” (zingari in
primo luogo). Tra l’autunno del 1943 e l’estate 1944 furono smantellati i quattro VL di
Chelmno, Belzec, Treblinka e Sobibor; i convogli che trasportavano ebrei rastrellati in tutta
Europa vennero ora inviati solo ad Auschwitz e Majdanek, che mantennero la doppia
funzione di VL e KL.
La rete dei KL propriamente detti arrivò a toccare, tra campi principali e
sottocampi, la cifra di 2.000 installazioni. Questa fase fu denominata dello «sterminio
mediante il lavoro», il cui obiettivo era sfruttare al massimo la capacità produttiva dei
deportati, spremendoli fino al midollo, in un’ottica per cui – in media – la loro possibilità
di sopravvivenza era calcolata dalle stesse gerarchie della SS in poco più di sei mesi.
Soltanto il collasso militare del Terzo Reich di fronte alle parallele avanzate dell’Armata
rossa ad est, degli angloamericani ad ovest, pose fine, nella primavera del 1945, a
quest’ultima, parossistica fase dell’universo concentrazionario.
20
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Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1994 (biografia di Franz Stangl,
comandante del lager di Treblinka, frutto tra l’altro di lunghe conversazioni dell’autrice
con Stangl, detenuto a Düsseldorf)
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Le persecuzioni antisemite in Italia
di M. Brunazzi e G. Genovese
1. Cenni storici sull’ebraismo italiano
La presenza degli ebrei in Italia risale all’antichità. In Roma le prime notizie si
collocano intorno al 300 a.C. e per circa due secoli la comunità in riva al Tevere si ingrossa
grazie all’intensa attività mercantile e alle numerose ambascerie dalla Giudea, poi ancora
accresciuta con i prigionieri di guerra dopo la conquista di Gerusalemme nel 63 a.C. e gli
apporti delle fiorenti comunità di Alessandria d’Egitto e del Vicino Oriente
Poiché gli ebrei rifiutavano, anche se ridotti in schiavitù, di violare il precetto del
sabato festivo, i loro padroni romani trovavano più conveniente liberarli dietro compenso
del riscatto raccolto dai loro familiari e correligionari, cosicchè molti di loro, divenuti
liberti, potevano inserirsi senza problemi nelle attività artigianali o mercantili. Giulio
Cesare concesse agli ebrei piena libertà di culto, ivi compreso il sabato festivo, riconobbe i
loro tribunali, li dispensò dal servizio militare in quanto incompatibile con le regole
alimentari rituali della tradizione ebraica. Ben si comprende il sincero cordoglio della
comunità romana, nel 44 a.C., per l’assassinio del loro generoso protettore.
Dopo la prima distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., ad opera delle legioni di
Tito, si stima che gli Ebrei in Italia fossero circa 40/50mila su una popolazione di circa 4 o
5 milioni di abitanti.
In seguito le loro condizioni generali cominciarono a peggiorare, soprattutto dopo la
definitiva distruzione di Gerusalemme ad opera di Adriano, che ne deportò dalla Palestina
in gran numero, e l’inizio delle persecuzioni contro i cristiani (dapprima non sempre
distinguibili dagli ebrei) e i culti orientali ritenuti pericolosi per la sicurezza dell’Impero.
Ma fu soltanto con l’editto di tolleranza di Costantino per i cristiani (313 d.C.) e
pochi anni dopo con il riconoscimento del Cristianesimo quale religione ufficiale dello
Stato, che gli ebrei subirono le prime importanti discriminazioni.
Sino ad allora gli ebrei, a parte quelle che apparivano ai Romani come le stranezze
assurde del loro culto, non avevano destato sentimenti ostili. Il loro lavoro di artigiani,
mercanti, piccoli banchieri e cambiavalute non suscitava invidie o rancori speciali.
Ma la vittoria del Cristianesimo acuiva inevitabilmente un contrasto teologico
insanabile con la religione della quale esso si proclamava unico e legittimo erede e che
tuttavia si “ostinava”, nella maggior parte dei suoi adepti, a non voler abbandonare la sua
fede originaria. Con ciò confermando, evidentemente, il rifiuto opposto al riconoscimento
della messianicità e divinità di quel Cristo che, in quanto Dio incarnato, proprio gli ebrei
avevano fatto crocifiggere rendendosi in tal modo “deicidi”.
Già Costantino aveva proibito le conversioni all’ebraismo, pena la confisca dei beni
del convertito e di chi lo avesse a ciò indotto. Agli ebrei era vietato possedere schiavi
cristiani e, sotto Costanzo, anche pagani. A pena di morte erano proibiti i matrimoni misti,
mentre forme di lavoro obbligatorio e gratuito erano loro frequentemente imposte.
Questa miscela di discriminazioni legislative e di intolleranza religiosa preparava
un clima di ostilità popolare, tanto più facile da attizzare quanto maggiori erano i periodi di
crisi, di guerra, di disordini, di carestie che inducevano a scaricare rabbie e paure su capri
espiatori sostanzialmente indifesi e ormai divenuti invisi.
Nel 368 venne incendiata una sinagoga a Roma e poco tempo dopo un’altra
ad Aquileia. Furono i primi episodi di una lunghissima serie di violenze contro luoghi di
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culto e persone che per secoli, durante il Medioevo (e anche dopo) avrebbero perseguitato
gli ebrei in Europa.
Gli ebrei italiani che erano da secoli diffusi, oltre che a Roma soprattutto nel
Mezzogiorno (Puglie, Campania, Calabria, Sicilia Sardegna) si erano nel frattempo estesi
nei centri del Nord, (Milano, Torino, Genova, Bologna, Ferrara, Trieste), oltre a molte
piccole località della Pianura Padana.
Relativamente protetti nell’illuminato regno del goto Teodorico, gli ebrei subirono,
dopo la conquista bizantina dell’Italia, i rinnovati attacchi delle istituzioni ecclesiastiche e
delle plebi fanatizzate.
Dopo l’arrivo dei Longobardi, il potere bizantino perdette gran parte della sua forza,
sovente frammentandosi in potentati civili od ecclesiastici, specie nel Mezzogiorno, cosa
che favorì una relativa tranquillità per gli ebrei, che potevano facilmente spostarsi dai
centri più intolleranti verso altri più disponibili ad accoglierli.
In Sicilia poi, dominata dagli Arabi che vi governavano con sapienza
amministrativa e civile tolleranza, la condizione degli Ebrei era ottima. Si stima che ve ne
fossero ben centomila, soprattutto nella capitale Palermo, ma numerosi anche nelle altre
città dell’isola.
In generale si può osservare che alle primitive restrizioni di carattere religioso,
connesse all’esercizio libero del culto, si venivano aggiungendo altre di carattere civile e
amministrativo: divieti di risiedere in prossimità delle chiese e luoghi sacri alla religione
cristiana e a poco a poco obbligo di abitare in quartieri determinati (i futuri ghetti), in modo
da ridurre al minimo i contatti con i cristiani ed anche da umiliare con vessazioni crescenti
una minoranza disprezzata e insieme, irrazionalmente, temuta.
A Roma il diretto governo dei Papi, benché tendesse spesso ad aggravare le
discriminazioni e restrizioni a danno degli ebrei, era comunque meno violento e
imprevedibilmente meno accanito di quello di molti signori sia civili che ecclesiastici.
Questo sia per scrupoli etico-teologici, sia per ragioni di convenienza pratica che la
funzione economico-sociale degli ebrei poteva garantire.
La bolla di papa Callisto II del 1120 Constitutio pro Judaeis, pur ribadendo tutte le
restrizioni precedenti e i numerosi obblighi, tutelava – almeno in via di principio – le loro
vite e i loro averi. Per quasi quattro secoli questa bolla, pur variamente mitigata o
peggiorata e non uniformemente applicata, regolò la condizione degli ebrei non solo nei
possedimenti dello Stato della Chiesa, ma anche, almeno indicativamente, nei territori degli
altri signori italiani.
Tra il XIII e XIV secolo le eresie medievali cristiane provocarono la creazione di un
severo e spesso feroce strumento di repressione: l’Inquisizione. Di riflesso peggiorò anche
la condizione degli ebrei, specialmente di quelli che, costretti più o meno violentemente
alla conversione, si sospettava restassero legati alla fede originaria.
Torture, roghi di libri (il Talmud fu proibito ) ed anche di persone furono la
conseguenza, mentre il fanatismo sollevato dalle prime Crociate ingigantiva accuse
superstiziose di magia diabolica contro gli ebrei. Per una di queste accuse, il 1° luglio 1298
fu condannato al rogo il rabbino di Roma Elia de’ Pomis.
Di gran lunga più serena durò ancora per qualche decennio l’esistenza dei numerosi
ebrei del Mezzogiorno.
Qui il regno normanno, e soprattutto quello dell’illuminato imperatore Federico II,
fu particolarmente benevolo verso una minoranza di cui apprezzava il dinamismo
economico nel commercio, nel credito, nell’artigianato, nella professione medica.
23
Nel corpo di leggi raccolte nel Liber Augustalis e promulgate a Melfi nel 1231,
Federico II concesse addirittura agli ebrei la parità dei diritti.
Ma con la caduta degli Svevi, prima gli Angiò e poi gli Aragona introdussero anche
nei territori meridionali tutto il rigore dell’Inquisizione, accanendosi al punto che alla fine
del XVI secolo non vi erano più ebrei in quelle regioni, in parte forzati alla conversione, in
parte espulsi o emigrati.
L’accentuarsi dei divieti e delle restrizioni in particolare quello di possedere terre o
immobili, provocò rapidamente quella “specializzazione” coatta nel campo del prestito
usurario, che diventerà uno stigma dello stereotipo dell’ebreo avido e speculatore.
Si noti che la stessa “esosità” da un lato era propria anche dei banchieri cristiani e
dall’altra era anche commisurata alla estrema rischiosità di garantire crediti spesso non
esigibili; si pensi al famoso fallimento della banca fiorentina dei Bardi e Peruzzi (non
ebrei) che si erano esposti con il Re d’Inghilterra senza riuscire poi a rientrare dal prestito.
A ciò si aggiunga che il mestiere di mercante comportava una disponibilità
frequente di denaro liquido che non si poteva altrimenti investire che nel credito.
Inoltre, quella stessa liquidità era una garanzia nel caso delle frequenti espulsioni e
confische, a loro volta determinate dal cinico gioco delle parti che molti signori facevano,
utilizzando gli ebrei come esattori delle imposte (compensate con gli aggi, inevitabilmente
molto invisi) e scaricando poi su di loro la collera popolare per il peso fiscale
insopportabile da loro stessi provocato, magari per finanziare guerre costose e rovinose.
Tra il XII ed il XIV secolo molti ebrei fuggirono dalle violente persecuzioni
sterminatrici scatenate in occasione delle Crociate in Francia, Germania, Austria e si
rifugiarono nell’Italia settentrionale. Nel 1348 una spaventosa epidemia di peste, detta la
Morte Nera, devastava l’Europa colpendo anche l’Italia.
Anche della peste vennero accusati gli ebrei e come “untori” trattati, ma in Italia, sia
per il più mite costume che per l’influenza moderatrice della suprema autorità della Chiesa,
il Papa, vi fu minor fanatismo e minore violenza.
Così, dal Trentino al Veneto, dalla Lombardia al Piemonte e all’Emilia era un
continuo arrivare di ebrei profughi d’oltralpe, che trovavano in città più aperte ad un clima
di relativa tolleranza la loro nuova patria. Torino, Saluzzo, Asti, Casale, per non parlare di
Venezia, Ferrara, Mantova, Bologna, Modena ebbero modo di apprezzare il talento e
l’industriosità dei nuovi venuti che i Principi più avveduti non mancarono di proteggere
dalle intemperanze superstiziose delle plebi e dall’accanimento della stessa Inquisizione.
Certo, gli ebrei dovevano pur sempre sottostare a numerose e spesso umilianti
discriminazioni, da quella di risiedere nei ghetti all’obbligo di portare un segno distintivo
variamente colorato, per lo più giallo, al pagamento di tasse straordinarie e suppletive cui
non di rado si aggiungevano cospicue elargizioni personali ai signori e ai loro funzionari
per mitigare la durezza di nuove o improvvise disposizioni. legislative o amministrative.
La precarietà dei tale condizione non impedì agli ebrei italiani di dare un contributo
importante allo sviluppo economico, scientifico e culturale nell’età del Rinascimento (si
pensi a tipografi come il Soncino).
Alla metà del XV secolo, nel 1442, il papa Eugenio IV promulgò una nuova bolla
nei confronti degli ebrei, che revocava i precedenti “benefici” e introduceva nuove gravi
restrizioni. Vietati i contatti con i cristiani, impedito l’esercizio dell’artigianato, della
medicina (se non per altri ebrei), dello stesso prestito, chiusi i tribunali rabbinici, vietate le
costruzioni di nuove sinagoghe.
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La bolla ebbe in realtà una solo parziale applicazione, anche grazie alla tassa
straordinaria che gli ebrei romani versarono volontariamente alle casse del Pontefice, ma
lasciò aperta la porta ad ogni successivo arbitrio “legale”.
Nel 1492 Ferdinando e Isabella, sovrani della Spagna da loro unificata e liberata
dall’ultimo regno moresco di Granada, decisero l’espulsione in massa degli ebrei dai loro
territori, previa confisca dei beni e salvo immediata conversione, della cui autenticità
avrebbe valutato la sospettosa e implacabile Inquisizione.
Ne derivò l’espulsione anche dai possedimenti italiani, Regno di Napoli e Sicilia; si
stima che dalla sola isola se ne andarono via per sempre circa 40 mila ebrei.
Già si è detto dell’accusa telogica di “deicidio”, peraltro mai ufficializzata dal
magistero papale, che gravò sin dai primi secoli cristiani sugli ebrei.
Ma alla fine del XII secolo in Inghilterra cominciò a circolare tra le plebi più
superstiziose, l’accusa di “omicidio rituale” che gli ebrei avrebbero compiuto su neonati
cristiani per mescolarne il sangue alla pasta dei pani azzimi usati per il rito di Pasqua.
Sarebbe fin troppo facile osservare, anche solo sotto il profilo psicanalitico e non
storico, la vistosa “proiezione” inconscia che vi è sottesa: i credenti di una religione che
prevede un sacrificio cruento (anche se misteriosamente metafisico) con il corpo e il
sangue del proprio Dio consumato nell’ostia eucaristica, lo attribuiscono, in senso
blasfemo e omicida, ai credenti di una fede che, al contrario, ha il tabù del sangue al punto
di imporre regole di macellazione e di alimentazione molto severe per evitarne la presenza!
Nel 1475 a Trento fu mossa agli ebrei un’accusa del genere, benché apparisse
infondata alle stesse autorità civili ed ecclesiastiche, che tuttavia non riuscirono ad evitare
il rogo a tredici ebrei né ad impedire il culto del presunto fanciullo martire, Simone, che
perdurò poi per secoli.
Se il quadro della condizione ebraica in Italia appariva, nella prima metà del
Cinquecento, quanto meno contraddittorio, e comunque migliore di quello di molte parti
d’Europa, esso peggiorò irreparabilmente con l’avvio della Controriforma.
Il 15 luglio 1555 papa Paolo IV Carafa emanava la bolla Cum nimis absurdum. Può
essere interessante citarne l’inizio: «E’ assurdo e sconvolgente al massimo grado che gli
ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la
scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a
noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia e da
pretendere dominio invece di sottomissione... ».
Seguivano poi quattordici ingiunzioni e divieti in parte nuovi in parte ripresi da
precedenti in disuso o dissapplicati, che in sostanza ribadivano il divieto di abitare se non
in ghetti chiusi di vestire in modo e con segni riconoscibili, di non praticare altra attività
che quella di stracciarolo o cenciaiuolo, di non poter richiedere interessi da prestito
superiori al 12% (percentuale, dati tempi e i rischi, del tutto insufficiente).
Queste misure si applicarono con lievi oscillazioni, non solo nello Stato della
Chiesa e nei domini spagnoli in Italia, ma condizionarono pesantemente anche i piccoli
ducati o principati (come Mantova o Ferrara) che non osavano contraddire l’autorità del
Papa e del monarca spagnolo. Solo Venezia, entro certi limiti, manifestò una certa
autonomia, così come il Duca di Toscana che volle anzi creare una città-porto franco,
Livorno, dove gli ebrei, specie di origine spagnola, furono attirati dalle buone condizioni
offerte a chiunque ne garantisse lo sviluppo economico-commerciale. Un’analoga
situazione fu riservata dagli Asburgo d’Austria agli ebrei che vennero chiamati a Trieste
per incoraggiarne la crescita del porto.
25
Ma in generale si può dire che nel corso del Seicento e della prima metà del
Settecento gli ebrei italiani vissero in condizioni di forte degrado; chiusi in ghetti
sovraffollati e malsani, confinati in attività marginali, inseguiti dal disprezzo popolare e dai
pregiudizi di origine religiosa ed economico-sociale che da secoli si accumulavano contro
di loro.
Alla vigilia della Rivoluzione francese, mentre già cominciavano a spirare i venti
riformatori dell’Illuminismo, si calcola che vi fossero in Italia circa 30.000 ebrei su di un
totale di 17 milioni di abitanti, meno del due per mille. La comunità più numerosa era a
Roma e nello Stato della Chiesa (10.000); cui seguiva la Toscana (6.000, di cui ben 5.000 a
Livorno); 4.500 nel Regno sabaudo e 3.500 a Venezia; il resto nei ducati padani (Parma,
Modena, Mantova) e in altri piccoli centri.
Con l’arrivo delle armate rivoluzionarie e l’instaurazione delle repubbliche
giacobine, anche agli ebrei venne garantita libertà di culto ed eguaglianza giuridica. Molti
giovani si arruolarono nella guardia civica ed altri entrarono nelle nuove amministrazioni
locali.
Ciò valse peraltro, nella convinzione delle plebi più influenzabili dalla predicazione
controrivoluzionaria del clero, ad identificare gli ebrei con gli odiati francesi e i loro amici
giacobini e quindi ad accanirsi contro di loro nel breve periodo contrassegnato dal ritiro
delle armate francesi.
A Pesaro, Urbino, Pitigliano, Arezzo, Lugo, Senigallia vi furono eccidi di ebrei. A
Siena arsero sul rogo, insieme all’albero della libertà, tredici ebrei.
Il ritorno di Napoleone Bonaparte e poi il trionfo dell’egemonia francese
garantirono di nuovo le libertà perdute, pur con qualche limitazione (libertà di culto in
privato; ribadita ufficialità del cattolicesimo come religione di Stato). Alla conferenza
preparatoria del Sinedrio convocato da Napoleone a Parigi nel 1806, quale assise generale
degli ebrei da riorganizzare, riformare e controllare in via amministrativa, parteciparono 29
ebrei italiani.
Caduto Napoleone, la Restaurazione provvide a ripristinare l’arsenale di
discriminazioni e divieti antiebraici.
In verità, anche in questo campo, come in altri economico-sociali, il tentativo riuscì
solo parzialmente, frustrato da frequenti e più o meno estese disapplicazioni o compiacenze
di autorità che si rendevano conto di quanto potesse essere controproducente un ritorno
puro e semplice al passato.
In generale si può dire che solo a Roma la Restaurazione antiebraica si dispiegasse
in tutta la sua durezza. Altrove, anche dove si rialzavano i muri dei ghetti, si cercava di non
calcare troppo la mano verso una minoranza del cui apporto economico e civile pareva
ormai assurdo privarsi.
Non può sorprendere che gli ideali liberali o addirittura democratici dei patrioti
risorgimentali trovassero allora sostegno e adesione convinta tra gli ebrei. Nel corso delle
cospirazioni rivoluzionarie come delle battaglie negli anni delle guerre d’indipendenza si
trovarono non pochi ebrei accanto a Mazzini e a Cattaneo a Garibaldi e a Cavour.
Fra i tanti, basti citare il nome di Daniele Manin, l’eroe della sfortunata Repubblica
di Venezia nel 1849, o la famiglia Nathan di Pisa, che sosterrà la causa mazziniana sino a
dare asilo nella propria casa (dove morì) al rivoluzionario, e dalla quale famiglia verrà
quell’Ernesto Nathan futuro sindaco di Roma.
Del resto, lo Statuto albertino, sin dal 1848 in Piemonte aveva sancito eguaglianza
di diritti anche per i non cattolici e aperto la strada alla piena e definitiva emancipazione
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degli ebrei italiani, realizzata con la nascita del Regno d’Italia nel 1861 ed estesa anche a
Roma, dopo l’abbattimento dello Stato pontificio, il 20 settembre 1870.
Quella Roma dove ancora nel 1858 e nel 1864 si erano verificati – come nei secoli
più bui e intolleranti – casi di rapimenti di bambini ebrei, per essere battezzati e avviati poi
alla vita ecclesiastica, in spregio dei diritti e degli affetti delle famiglie d’origine e
nonostante l’indignazione che l’opinione pubblica internazionale aveva all’epoca
manifestato.
La piena integrazione degli ebrei nella loro patria non più matrigna, dove essi siano
figli legittimi al pari di tutti gli altri, si manifestò anche attraverso il loro straordinario
fervore di partecipazione ad ogni aspetto civile, economico, sociale, culturale, politico,
artistico, scientifico.
Si può dire che da quel momento, e sino alle sciagurate leggi razziali volute da
Mussolini e dal regime fascista nel 1938, diventi quasi impossibile percepire una
specificità civile ebraica (che certo permane come memoria tradizionale e familiare,
affettiva, religiosa e culturale) nella vita dell’Italia postunitaria. Gli ebrei si dividono e si
uniscono nelle scelte pratiche e ideali come tutti gli altri italiani, non in quanto ebrei.
A ciò certamente contribuiva il particolare clima culturale dell’epoca, segnato dal
positivismo e dal laicismo, incline a guardare alle tradizioni pur onorevoli e care del
passato con la sufficienza di chi è convinto che si è dischiusa un’era nuova, nella quale
soltanto il valore individuale e le conquiste della scienza e della tecnica corrispondono
all’irresistibile progresso della storia umana.
Al contrario sarà proprio la tragedia della prima guerra mondiale, che coinvolse
profondamente gli ebrei italiani al pari di tutti gli altri e poi l’avvento della dittatura
fascista che imporranno una riflessione nuova.
L’identità ebraica, mai sentita in opposizione a quella nazionale, porrà l’esigenza di
una ridefinizione alla luce dei nuovi eventi e delle nuove ideologie, soprattutto delle
inaudite tragedie che colpiranno due volte gli ebrei italiani: come italiani e come ebrei nella
vergogna delle leggi razziali e nell’orrore della persecuzione e dello sterminio nazifascista.
Da questa breve sintesi storica appare evidente come la vicenda degli ebrei italiani
si caratterizzi per alcuni aspetti particolari.
Innanzitutto l’antichità dell’insediamento, che ha reso gli ebrei a pieno titolo quali
elementi costitutivi, pur nell’esiguità del numero, dell’identità nazionale italiana.
Del pari manifesta è la condizione di relativa tranquillità di convivenza, se
confrontata con quella di altri paesi d’oltralpe.
Questo innegabile dato di fatto non deve però far dimenticare la realtà di una
costante discriminazione, che ha segnato anche gli ebrei italiani, come i loro correligionari
europei, con tutto il suo carico di violenze più o meno episodiche, di umiliazioni e di
vessazioni
La natura di tale relazione implica che anche in Italia il pregiudizio antiebraico, pur
non così esplicito e virulento come altrove, si sia consolidato e stratificato nella coscienza
collettiva, nutrito essenzialmente di contenuti religiosi e via via rafforzato con quelli
economico-sociali e infine con un razzismo, forse più storico-culturale che biologico, ma
egualmente attivo e disponibile ad essere amplificato dalle direttive politiche del regime
fascista.
Si potrebbe anzi osservare che tale “fondo oscuro”, sedimentato da secoli di
pregiudizi opachi, dissimulati spesso da una sorta di cinica bonarietà ma mai veramente
estinti, riveli insospettate capacità di ripresa, non appena le circostanze politiche od una
mutata atmosfera culturale glielo consentano.
27
In questo senso, parafrasando Gobetti, si può forse affermare che anche
l’antisemitismo – così come il fascismo – è stata una triste “rivelazione” della storia
italiana.
2. La normativa fascista contro gli ebrei
La normativa razziale emanata nel novembre 1938 dal fascismo introduceva, anche
nella nostra legislazione, come era già avvenuto nella Germania nazista nel 1935 con le
“leggi di Norimberga”, i principi di razza e di razzismo. La difesa di una presunta
supremazia razziale italiana, allora al suo apice di potenza coloniale, su quella delle
popolazioni delle colonie italiane risulta, nella realtà, poco più che un pretesto per
costringere i cittadini italiani di razza ebraica in un fitto e insidioso reticolo di norme e
regolamenti atto ad individuarli, isolarli e, da ultimo, perseguitarli.
Il regime fascista non aveva aderito – come hanno rivelato alcuni studi recenti – alla
crociata antisemita per legittimarsi agli occhi dell’alleato tedesco, tanto da potere parlare di
un percorso nazionale al razzismo. Tracce di un sentimento di intolleranza religiosa, se non
di aperto antisemitismo, erano infatti evidenti già nei primi atti del fascismo e addirittura
nel programma di San Sepolcro. Mussolini si era mosso in tale direzione spinto da una
ricerca di semplificazione e polemica politica che gli aveva fatto giudicare, ad esempio, nel
1917, gli eventi della rivoluzione sovietica come «la vendetta dell’ebraismo» contro il
cristianesimo affermando che «la razza non tradisce la razza ... Il bolscevismo è difeso
dalla plutocrazia internazionale. Questa è la sostanziale verità».
Non si può non porre l’accento sulla consonanza di temi ricorrenti nella successiva
propaganda del regime, quali quelli del bolscevismo e delle plutocrazie occidentali, con
radicate espressioni razziste che vedevano la luce assieme al fascismo stesso. Così mentre
premesse antiebraiche venivano adottate per interpretare i sommovimenti internazionali, il
fascismo si andava delineando come un regime totalitario di massa che si fondava su un
ampio e generalizzato consenso. Il richiamo al cattolicesimo come alla religione prevalente
degli italiani – contenuto nei primi documenti del movimento fascista – costituiva, nelle
intenzioni di Mussolini, un importante strumento di coesione nazionale intorno al regime.
Così facendo il dittatore otteneva di riavvicinare la Chiesa e la maggioranza degli italiani,
di fede cattolica, al proprio governo ricucendo lo strappo della breccia di Porta Pia. Nello
stesso tempo, però, egli rivestiva la sua azione politica di espressioni di intolleranza,
sempre più accentuate, nei riguardi delle minoranze religiose del paese.
Non sfuggiva neppure a personalità come il torinese Ettore Ovazza, fascista ed
ebreo, propugnatore di un fascismo ebraico, come la posizione di Mussolini verso le
minoranze religiose fosse – come annotava nel proprio diario – ambigua e tentennante.
L’episodio di Ponte Tresa, il 31 marzo 1934, quando alcuni giovani ebrei torinesi, aderenti
a Giustizia e libertà (Sion Segre Amar, Carlo Levi, Leone Ginzburg) vennero fermati al
confine italo-svizzero con materiale di propaganda antifascista, pone in luce i segni di una
diffusa sensazione di insicurezza tra gli ebrei italiani. L’accaduto aveva dato la stura alla
stampa di regime e non – in particolare “Il Tevere” di Telesio Interlandi – che subito parlò
di «un complotto ebraico antifascista», spingendo uomini come Ovazza ad affrettarsi – un
giorno prima che la notizia diventasse di pubblico dominio – a deplorare il caso, in un
telegramma allo stesso Mussolini, ribadendo, nel contempo, la propria fedeltà e quella dei
suoi correligionari al regime. Quello di Ponte Tresa è evidentemente una tappa di un più
ampio processo di accerchiamento dei cittadini italiani di razza ebraica, culminato con le
leggi del 1938, ma di cui era possibile percepire, seppure in modo indistinto, i contorni.
28
Gli anni Trenta, e in particolare quelli a partire dal 1936, furono dominati da
contrastanti prese di posizioni nei confronti degli ebrei italiani. Il regime alternava ampie
rassicurazioni sulla sorte e la sicurezza degli ebrei a minacce sempre meno velate. E’ il
caso del viaggio in Libia di Mussolini il quale, incontrando il 25 marzo 1936 il rabbino
Lattes di Tripoli, sentì la necessità di dichiarare: «Dica agli ebrei di Tripoli il mio vivo
compiacimento per la loro accoglienza. Gli ebrei di Tripoli possono stare tranquilli. Il
Governo fascista ... rispetterà sempre le loro tradizioni». Risulta evidente come espressioni
così rassicuranti fossero determinate da un clima di minaccia che ormai proveniva dal
regime. Quella di Mussolini, insieme ad altre affermazioni di analogo tenore, riuscivano
appena a mitigare le invettive sempre più frequenti contro la “minaccia ebraica
internazionale” pubblicate sui più importanti organi di stampa, a partire dallo stesso
quotidiano del fascismo “Il Popolo d’Italia”. Le rassicurazioni, da parte del regime, sul
destino degli ebrei italiani erano in realtà il prodotto di una campagna antisemita
orchestrata dal fascismo stesso che di gesto isolato in gesto isolato avrebbe condotto
all’emarginazione e alle sofferenze patite dagli ebrei italiani tra il 1938 e il 1945: dalla
persecuzione all’internamento e allo sterminio.
Michele Sarfatti fa coincidere l’avvio della campagna persecutoria con
l’“Informazione diplomatica” n. 14 del 16 febbraio 1938, dove per la prima volta viene
fatto riferimento all’esistenza di un “problema” ebraico nazionale con accenni anche alla
dimensione della presenza ebraica sul territorio italiano. «Dato che anche in Italia –
osservava Galeazzo Ciano nella sua relazione a Mussolini – esistono degli ebrei, non ne
consegue di necessità che esista un problema ebraico specificatamente italiano. In altri
paesi europei gli ebrei si contano a milioni, mentre in Italia, sopra una popolazione che
attinge ormai i 44 milioni di abitanti, la massa degli ebrei oscilla fra le 50-60 mila unità ...
Il Governo fascista si riserva tuttavia di vigilare sull’attività degli ebrei venuti di recente
nel nostro Paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva della Nazione non
risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro
comunità». (Michele Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle
leggi del 1938, Zamorani Editore, Torino 1994, p. 18). Anche se apparentemente
inoffensiva l’“Informazione diplomatica” n. 14 introduceva, con ampio anticipo, alcuni e
pericolosi elementi discriminatori come il principio di proporzionalità all’accesso delle
funzioni direttive o generalmente operative. Negli ambienti ebraici, al contrario, le
dichiarazioni contenute nell’“Informazione” vennero addirittura interpretate come
un’ulteriore conferma della volontà di Mussolini di non seguire Hitler sulla strada del
razzismo e della persecuzione.
Quasi nello stesso periodo sulle pagine della “Gazzetta del Popolo” di Torino
appariva, con lo pseudonimo di Arianus, alla cui firma si possono attribuire le prese di
posizione più virulente contro gli ebrei alla vigilia delle norme del novembre e anche negli
anni a venire, un’Inchiesta sugli ebrei a Torino. Nell’articolo l’autore si mostrava bene
informato sulla vita della Comunità ebraica di Torino, tanto da indicare, con una certa
precisione, la dimensione numerica della gruppo ebraico torinese ma, soprattutto, un’ampia
serie di dati sulla sua composizione professionale e, incidentalmente, sulla sua ricchezza:
temi su cui avrebbe fatto leva tutta la propaganda di quegli anni e la normativa emanata dal
regime. Arianus aveva avuto accesso a dati riservati ma, soprattutto, raccolti ancor prima
del censimento del 22 agosto 1938, segno che il cerchio intorno ai cittadini italiani di razza
ebraica aveva cominciato a stringersi di gran lunga prima della promulgazione delle leggi
razziali.
29
Non può non colpire la completa assonanza di toni tra l’informativa diplomatica di
Ciano e gli articoli, come quello apparso sul quotidiano torinese, dove si insiste, con
ossessione, sul numero degli ebrei in Italia ma soprattutto su cosa fanno. L’antisemitismo
italiano, come nel resto d’Europa, si era sempre fondato su un pregiudizio: quello della
ricchezza degli ebrei e della loro espansione demografica: una minaccia per gli italiani non
ebrei. Sono emblematiche le parole di Giovanni Preziosi, scritte nel 1920 ma ribadite
ancora nel 1944, secondo cui gli ebrei «pur essendo tra noi una minuscola minoranza – non
più di cinquantamila – posseggono in Italia una posizione predominante, in quanto sono
preposti alle direttive dei centri nervosi della vita nazionale. Gli ebrei sono, in Italia, alla
testa di grandi banche; dànno una percentuale altissima di membri ai Consigli di
amministrazione delle nostre Società Anonime; sono numerosi tra i membri del Senato e
della Camera dei Deputati; occupano i primi e più importanti posti delle nostre
Amministrazioni di Stato. Nel campo dell’insegnamento sono numerosissimi, e alcune
delle facoltà delle nostre Università sono divenute un loro campo chiuso. Hanno nelle mani
quasi tutte le Case editrici librarie d’Italia. Molta parte dei giornali quotidiani sono nelle
loro mani ... Né si dimentichi, che tutte le iniziative affaristiche, anche quelle a tinta
patriottica, hanno alla loro testa un ebreo». (Giovani Preziosi, Giudaismo-bolscevismoplutocrazia-massoneria, Milano 1944, pp. 46-47).
La promulgazione delle leggi contro gli ebrei ossia i Provvedimenti per la difesa
della razza italiana, R.D.L. 17 novembre 1938, n. 1728, era stata anticipata da numerose
iniziative normative e di propaganda. Si intendeva così creare, nell’opinione pubblica, un
clima favorevole all’indifferenza se non alla condivisione di quegli atti con cui il regime si
prefiggeva di individuare, isolare e colpire i cittadini italiani di razza ebraica. Mussolini
raggiungeva, con la sua iniziativa razzista, il punto più alto di costruzione del consenso
intorno al regime. Leggi che colpivano numerosi cittadini italiani nei diritti fondamentali
alla libertà individuale e alla proprietà, lasciarono indifferente il paese, se si escludono rare
prese di posizione personale, raccogliendo anzi entusiastiche approvazioni.
Il dittatore non aveva trascurato neppure di adottare un’impalcatura scientifica a
sostegno delle proprie iniziative razziste. Abbracciando i principi del razzismo biologico,
ampiamente condivisi dal nazismo ma non ancora dal fascismo, il regime promosse la
pubblicazione, avvenuta il 14 luglio del 1938, del Manifesto della razza (o Manifesto degli
“scienziati” razzisti) che al suo punto 9 proclama: «Gli ebrei non appartengono alla razza
italiana». Fu questa la prima ed esplicita presa di posizione del regime a sostegno della
svolta razzista. Il 26 luglio successivo il segretario del partito fascista riceveva i
sottoscrittori del manifesto, realizzato sotto l’egida del Ministero della cultura popolare –
che ne fu in realtà il solo estensore sotto la diretta supervisione di Mussolini – e in cui si
ponevano le basi della via italiana alla persecuzione razziale. Ad assumersi la
responsabilità del manifesto furono dieci firmatari, resi noti solo ad alcuni giorni di
distanza dalla pubblicazione del manifesto, tratti in parte dai ranghi dell’università: degli
illustri sconosciuti se si esclude i docenti di specialità mediche Nicola Pende e Arturo
Donaggio. Gli altri sottoscrittori erano poi personaggi che nulla avevano a che vedere con
la loro presunta “specializzazione” razziale: un giornalista sportivo, un medico pediatra
legato alla Pubblica sicurezza, un insegnante della Scuola veterinaria, un insegnante di
scienza dell’alimentazione e due ignoti, irreperibili anche sui più completi annuari del
fascismo.
Il manifesto, pubblicato con ampio rilievo su “Il Secolo d’Italia”, avrebbe
conosciuto vasta eco sui più importanti quotidiani nazionali, anzi va osservato come la
pubblicazione del manifesto coincise con l’avvio delle pubblicazioni de “La difesa della
30
razza” foglio di divulgazione ultra razzista diretto da Telesio Interlandi che divenne ben
presto organo ufficiale dei razzisti e degli antisemiti italiani. Interlandi, autore del libello
Contra Judaeos, chiamò a ricoprire l’incarico di segretario di redazione Giorgio Almirante,
leader dopo la Liberazione e segretario politico fino alla seconda metà degli anni Ottanta
del Msi, il partito politico cha ha sempre rappresentato – fino alla sua trasformazione in
Alleanza nazionale – i sentimenti fascisti del paese. La pubblicazione del manifesto e le
modalità stesse della sua compilazione, il coro di articoli antisemiti che da quel momento
in poi avrebbero invaso tutti gli organi di informazione, caratterizzarono il razzismo
italiano per la nota dominante di cortigianeria, servilismo e opportunismo. La crudeltà e la
ferocia dell’antisemitismo nazista non hanno conosciuto, è vero, rivali ma quello prodotto
dal fascismo è stato, per molti versi, ancor più cinico e servile.
Il fascismo italiano non andava tanto per il sottile, come abbiamo visto, quando si
trattava di trovare argomenti pseudoscientifici a sostegno della sterzata razzista impressa al
regime. Il manifesto degli “scienziati” razzisti sarebbe stato infatti assunto come base della
Carta della razza nella seduta del Gran consiglio del fascismo (6-7 ottobre), ricordata a
ragione come la “notte dei cristalli” italiana. Il serrato dibattito di quella seduta assume un
particolare rilievo poiché è lì che vennero indicate le linee essenziali della politica e della
legislazione “razziale” del regime e le cornici culturali e normative a cui quella si sarebbe
dovuta informare. I deliberati del Gran consiglio, mentre ponevano ancora in rilievo la
corrispondenza di ebraismo e sionismo con l’antifascismo internazionale, ponendo quindi
in luce la “motivazione” politica dell’antisemitismo, riconoscevano criteri di grado diverso
nell’applicazione delle norme ancora da promulgarsi contro gli ebrei. Particolare attenzione
venne riservata alla possibilità di escludere dal rigore della legge razzista, o di mitigarne gli
effetti, categorie di cittadini particolarmente meritori: quei discriminati che avrebbero
conosciuto un particolare destino negli anni della persecuzione e della deportazione.
Lungo tutto il 1938, e già negli anni precedenti, il regime aveva rivelato appieno la
propria chiara e ferma intenzione di dare corso all’iniziativa razzista e antisemita con cui si
andava identificando vieppiù il fascismo e, con quello, l’intero paese. Il Censimento deciso
dai dirigenti del regime per la mezzanotte del 22 agosto 1938 segna un tornante nella
politica razzista impressa alla legislazione italiana. Abbiamo visto come il fascismo avesse
una consapevolezza sufficientemente precisa della presenza ebraica in Italia che
l’“Informazione diplomatica” n. 14 indicava in 50-60 mila e che il censimento dell’estate
1938 avrebbe collocato a 47.252. A sostegno dell’ipotesi che vede il fascismo e l’apparato
burocratico del paese già attivo nel tentativo di definire la dimensione del “problema
ebraico” potremmo ricordare, ancora una volta, l’articolo di Arianus dove si parla di 3.786
ebrei torinesi che una recente ricerca indica in 3.672, un numero quindi assai vicino a
quello rivelato dall’articolista. Il fascismo allora conosceva il numero degli ebrei italiani
ancor prima di dare corso al censimento, per quali ragioni allora diede avvio alla procedura
di rilevazione demografica? Studi recenti posti dinanzi a questa stessa domanda rilevano
come il vertice fascista «in presenza di misure discriminatorie già decise nelle loro linee
essenziali ... ed avviate con sollecita determinazione ad opera di questo o quel ministero
pur senza che fosse ancora stata varata alcuna misura legislativa in proposito» fosse
orientato a dare corso ad «un’indagine tempestiva e mirata intesa ad agevolare lo sviluppo
ulteriore di un processo già in corso. Si rendeva necessaria insomma un’accurata messa a
fuoco su un gruppo già sommariamente individuato, intesa in primo luogo a delineare con
precisione i connotati dei singoli ebrei – visti nei rispettivi contesti familiari e sociali – e, in
seconda istanza, a fare chiarezza nella zona grigia di confine tra israeliti e non, al fine di
segnare una netta linea di demarcazione (il corsivo è nostro)». (Fabio Levi, Il censimento
31
del 22 agosto 1938, in Id. (a cura di), L’ebreo in oggetto, Zamorani Editore, Torino 1991,
p. 17)
Identificare e isolare gli ebrei, fare terra bruciata intorno a loro, innescare una
cultura del timore tra i cittadini italiani di razza ebraica e, nello stesso momento, del
sospetto da parte dei non ebrei: questi sembrano i compiti primari affidati al censimento del
22 di agosto. Determinante fu il ruolo che assunse l’apparato burocratico centrale e
periferico: dalla fase della preparazione della rilevazione, avvolta nel più rigoroso e
impenetrabile segreto, affidata a personale selezionato in base a criteri di fedeltà e
affidabilità, alla realizzazione vera e propria del censimento e all’utilizzo dei dati così
raccolti. Svolto con rapidità e segretezza il censimento, anticipato dall’“Informazione
diplomatica” n. 18 del 5 agosto, precisato nelle sue forme di attuazione l’11 dello stesso
mese e ulteriormente definito il 20 e il 22, appariva all’esterno in nulla dissimile dai molti
altri censimenti, uno ancora nel 1936, che si erano via via succeduti negli anni. Anzi il
Ministero dell’interno, responsabile dell’operazione, si affrettò a dirottare le attenzioni
dell’opinione pubblica ricordando, in un telegramma ai prefetti, che al fine di evitare
qualunque appiglio, occorreva insistere nel descrivere l’iniziativa come se fosse svolta «ad
esclusivo fine di studio». Tale spiegazione ebbe come risultato quello di attenuare le
resistenze tra gli ebrei e di ottenere la collaborazione della gente comune a cui il
censimento era stato presentato come un passo necessario per approdare ad una
legislazione discriminatoria di tipo “proporzionalista”. La montante “minaccia” ebraica
poteva così venire imbrigliata in un’equa proporzione tra popolazione ebraica e accesso ai
posti di lavoro e alle professioni.
Al di là della facciata statistica si nascondeva, però, un meccanismo che avrebbe
dato, di lì a poco, i suoi frutti. Gestito come un’indagine estesa e capillare il censimento si
caratterizzava, e sono parole del sottosegretario all’interno Buffarini-Guidi, come
un’operazione «eminentemente politica» atta a isolare gli ebrei dagli “ariani” attraverso una
estensione indiscriminata dei criteri di ebraicità che obbligava i colpiti ad assoggettarsi ad
una sequela, spesso umiliante, di passaggi burocratici al solo scopo di dimostrare la propria
non appartenenza alla razza ebraica. Individuati spesso sulla sola base del cognome i
presunti ebrei, che per Torino furono 6.250 contro i 3.672 colpiti poi dalle norme razziali,
dovettero affannarsi a raccogliere una documentazione dispersa e lacunosa per poter
prendere le distanze dagli ebrei ormai obiettivo di una gabbia normativa finalizzata alla
loro emarginazione. Ponendo dei netti distinguo tra ebrei e non ebrei il fascismo otteneva,
dagli “ariani”, una diffusa acquiescenza nei confronti di un regime che aveva abituato da
lungo tempo la popolazione ad una rassegnata accettazione della prevaricazione. Dagli
israeliti otteneva, invece, una collaborazione fattiva, da un lato per sviare il clima di
sospetto che si addensava sul loro capo, confortati dal condividere quella stessa condizione
di pericolo con i non ebrei, dall’altro per dimostrare, ancora una volta e per di più in un
frangente minaccioso, la propria fedeltà allo stato e ai suoi ordinamenti.
Il censimento, coordinato dalle prefetture e condotto direttamente dai podestà che si
incaricavano della rilevazione, anche porta a porta, venne compiuto con rapidità: due soli
giorni di tempo erano stati concessi per la raccolta, da parte dei capi delle province, dei
dati. La dimostrazione di efficienza andava di pari passo con la pressione che le prefetture
esercitavano sulle amministrazioni locali. Il quadro che si può dipingere è quello di un
organismo burocratico ben organizzato e ramificato capace di far raggiungere, anche nelle
sue periferie, gli indirizzi politici del regime. Sintomatiche furono le direttive a individuare
gli ebrei assenti perché in villeggiatura, attivando le amministrazioni comunali delle più
famose località di vacanza. L’efficienza della burocrazia risulta ancor più evidente se
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consideriamo che gli ideatori del censimento decisero di assumere un concetto di “ebreo”
quanto mai estensivo; dovevano infatti essere presi in considerazione alla stessa stregua: gli
iscritti alle Comunità israelitiche, gli ebrei residenti temporaneamente in città, gli israeliti
tali anche se professanti altra o nessuna religione, gli ebrei decisisi ad abiurare “in qualsiasi
epoca” e gli ebrei avvicinatisi ad altra religione attraverso il matrimonio e, infine, doveva
considerarsi ebreo chi discendeva anche da un solo genitore ebreo. Per centinaia di migliaia
di cittadini ha inizio così un calvario fatto di richieste di documenti a questa o a quella
amministrazione, pubblica o ecclesiastica, di solleciti e ricorsi e di attese spesso vane. Solo
nella sua battaglia contro la burocrazia per salvare in un primo momento i propri diritti e,
in seguito, anche la vita, l’ebreo si espone al cinico sospetto e alla pubblica indifferenza,
solo di fronte ad uno stato già determinato ad annientarlo.
Non si erano ancora ultimate le operazioni relative al censimento che già altre
amministrazioni statali davano corso ai primi atti della normativa antiebraica. Il 1°
settembre il Consiglio dei ministri decretava l’espulsione, entro sei mesi, di tutti gli ebrei
stranieri e ordinava la revoca della cittadinanza quando essa fosse stata conseguita dopo il
1° settembre 1919. Il decreto colpiva tutti gli ebrei stranieri rifugiatisi in Italia per sfuggire
al nazismo, introducendo quegli elementi di apolidia che collocavano gli ebrei nella “terra
di nessuno” dei diritti; una scelta già applicata nella normativa razzista tedesca, primo atto
della persecuzione contro gli ebrei in Germania. Il 2 settembre vennero promulgati i
Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, R.D.L. 5 settembre 1938, n.
1390 in cui si prevedeva l’allontanamento degli insegnanti e degli studenti di razza ebraica
dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, Università comprese. Veniva vietata, nello
stesso tempo, l’adozione di libri di testo di autori ebrei. Unica eccezione era quella
riconosciuta agli studenti universitari di concludere gli studi per potersi laureare. Si voleva
in tal modo colpire gli ebrei nel bene per loro più prezioso, quello della cultura,
destinandoli all’estinzione intellettuale ancora prima che fisica, segno di una «bestiale
inciviltà e incultura» per usare le parole di Renzo De Felice.
Quando vennero emanati i provvedimenti del novembre del 1938 le linee guida del
regime rispetto alla politica razzista erano ormai chiaramente delineate, si trattava solo di
darne un’organica sistematicità, demandando a circolari e norme specifiche emanati di lì a
pochi mesi i necessari approfondimenti. Su alcuni aspetti occorre soffermare la nostra
attenzione, quelli relativi al diverso trattamento riservato ad ebrei particolarmente
meritevoli e quelli concernenti le proprietà ebraiche. I discriminati, quanti potevano cioè
aspettarsi dal regime un maggior favore per meriti di guerra o per benemerenze fasciste,
rappresentavano certo un numero esiguo rispetto al numero degli ebrei colpiti dalla
normativa razziale ma la loro presenza assunse, agli occhi del regime, un ruolo per nulla
marginale. I loro vani affanni per portare in salvo la famiglia e i beni costituivano, per il
fascismo, un importante elemento di legittimazione della politica razziale appena varata.
Che ci fossero ebrei nelle condizioni di poter sperare in un più mite atteggiamento e che
questi stessi si affrettassero a documentare questo loro diritto vale come un
riconoscimento, persino da una parte degli stessi ebrei, della fondatezza dell’iniziativa
razzista. Il loro esporsi come israeliti per rivendicare un trattamento da “ariano” non varrà
però a salvarli, saranno anzi i discriminati quelli che più di altri pagheranno, dopo il 1943,
con la deportazione la scelta dell’isolamento e di una più netta visibilità.
Le Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e
commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica, R.D.L. 9 febbraio 1939, n. 126
rappresentano l’espressione forse più complessa tra la decretazione di attuazione della
normativa del novembre 1938. Agli ebrei veniva fatto divieto di possedere proprietà
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immobiliari, di essere esercente di attività commerciali e artigianali, di essere
amministratore di società e membro di consigli di amministrazione e, infine, di esercitare la
libera professione, se non per clienti ebrei. Singolare destino quello del decreto sulla
materia economica, quello più in sintonia con il pregiudizio generalizzato dell’ebreo ricco
ma anche quello più disatteso nella sua parte attuativa, un po’ per la complessità della
struttura finanziaria ma soprattutto per le resistenze a dare attuazione ad una norma così
illiberale come quella che colpiva il diritto alla proprietà. Una recente ricerca sull’Ente di
gestione e liquidazione immobiliare (Egeli) di Torino, l’Ente che aveva il compito di
amministrare i beni e le proprietà sequestrate e confiscate agli ebrei, mette in luce come il
regime, altrimenti bene informato sugli ebrei, trascuri ampie zone della proprietà
immobiliare a Torino forse perché negli anni della guerra, è il periodo 1943-1945, la
macchina burocratica si era inceppata oppure perché la burocrazia, profilandosi la fine del
regime, sentiva un progressivo allentarsi della tensione e aveva considerato maturi i tempi
per un cambiamento di insegne.
Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la nascita della Repubblica sociale
italiana a Salò il 23 settembre 1943, la sorte degli ebrei si fece ancor più drammatica. La
Carta di Verona, il documento programmatico con cui si ponevano le basi della nuovo stato
fascista, dichiarava al punto sette: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri.
Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Al dolore della persecuzione si
somma il dramma di una vera e propria caccia all’uomo qual è l’atteggiamento di
Mussolini, dal ‘43 in poi, verso gli ebrei; egli in tal modo sfoga tutto il suo rancore contro
il tradimento dell’8 settembre che imputa all’internazionale ebraica. A sostenere il regime
in questo programma persecutorio, che ora giunge anche alla deportazione nei campi di
concentramento tedeschi, e nel primo campo italiano a San Saba, vi è anche la truppa di
occupazione tedesca. Si è molto discusso sull’originalità del razzismo di Salò, interpretato
da molti come una scelta indotta dall’alleato tedesco, con una presenza da comprimari dei
nostri connazionali. Basta, a questo riguardo, ricordare la particolare ferocia delle SS
italiane macchiatisi di massacri individuali e collettivi di violenza di gran lunga superiore a
quella dei commilitoni tedeschi.
L’ampio consenso ottenuto dal regime intorno alla normativa antiebraica ci impone
ora una riflessione sulla natura e gli strumenti del razzismo. E’ lecito parlare ancora di
quello italiano come di un popolo refrattario al razzismo? E, ancora, la sofferenza e lo
sgomento provati dalla civiltà dell’uomo dinanzi ad Auschwitz ci ha forse immunizzato dal
ripetersi di certi fenomeni, trattenendoci dal perseguitare un altro uomo solo perché diverso
da noi? Quanto accaduto solo all’indomani della guerra ci porta a dire di no. Il razzismo e
l’antisemitismo sono sopravvissuti al fascismo ed hanno attraversato tutta la storia
dell’Italia repubblicana e dell’Europa riaffiorando in anni a noi vicini. La vicenda legata
alle restituzioni dei beni sequestrati agli ebrei dall’Egeli, in alcuni casi protrattasi fino agli
anni Settanta, è esemplare di un atteggiamento perlomeno di disprezzo nei confronti degli
ebrei tornati dai campi di concentramento avendo sulle spalle i segni di un’ingiuria
inguaribile e che non trovavano, in chi li aveva perseguitati, neppure un’occasione per
perdonare e riconciliarsi.
Con il ritorno dai campi di sterminio gli ebrei si trovarono di fronte all’indifferenza,
se non all’ostilità, di quanti erano rimasti. Gli autori di una recente ricerca parlano infatti di
“ebrei invisibili”, perché tali dovevano restare se si volevano ricostruire le prime tracce di
una convivenza. Per tutti, all’indomani della guerra, la parola d’ordine fu «Dimenticare!».
Per chi aveva partecipato alla persecuzione, anche da testimone, ma anche per chi l’aveva
subita – per non suscitare astio tra i persecutori – l’unica strada percorribile sembrava
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quella dell’oblio. Non furono pochi gli antifascisti che all’indomani della Liberazione, a
cui pure avevavno partecipato ebrei come Primo Levi, non trascurò di ricordare agli ebrei
la loro adesione al fascismo per ribadire, con diversi argomenti, la necessità della loro
emarginazione. Vi furono ebrei che, in presenza di questo invito alla cancellazione della
memoria e in particolare nei paesi dell’Est, preferirono l’emigrazione ad un’esistenza
sempre ai margini, accettando l’irreparabilità della frattura che si era procurata nella storia
di intere società. Per quanti decisero di restare si inaugurò un nuovo cinquantennio di
emarginazione all’insegna di un antisemitismo rinvigorito da nuovi argomenti, come quello
di essere l’ebraismo la causa degli orrori dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est.
Troviamo così gli ebrei schiacciati tra il sospetto dei regimi socialisti di essere agenti
dell’internazionale capitalistica e l’ostilità della gente comune che vede nell’ebreo, anima
del comunismo, la causa prima della propria sofferenza, tanto che un movimento come il
polacco Solidarnosc ha discusso a lungo, nei primi anni Ottanta, sull’ammissibilità o meno
di dichiararsi antisemita.
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