Conseguenze delle guerre di espansione

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Conseguenze delle guerre di espansione
Le guerre contro le diverse popolazioni italiche, contro i Galli, i Cartaginesi e i Macedoni, porteranno a
consolidare il dominio sull'Italia e a iniziare l'espansione in Spagna e in Macedonia. Data simbolo di questa
espansione nel Mediterraneo è il 146 a.C., anno in cui, dopo un assedio durato tre anni e altrettante guerre
combattute nell'arco di più di un secolo contro Roma, cadde definitivamente Cartagine, la quale venne
completamente rasa al suolo fu cosparsa di sale dalle truppe romane comandate da Publio Cornelio Scipione
Emiliano; venne conquistata e distrutta anche Corinto, città simbolo della resistenza greca alla politica di
espansione romana; con queste due grandi vittorie, Roma abbandona il ruolo di potenza regionale nel
Mediterraneo Occidentale per assurgere a superpotenza incontrastata di tutto il bacino, il quale d'ora in poi, non a
caso, verrà rinominato mare nostrum.
Le classi dirigenti si aprirono all'influenza della cultura greca e vennero importate opere d'arte e di
artigianato artistico in gran numero dalla Grecia e dalle province orientali di cultura ellenistica.
I problemi connessi ad una espansione così grande e repentina che la Repubblica dovette affrontare furono
enormi e di vario genere: le istituzioni romane erano fino ad allora concepite per amministrare un piccolo stato;
adesso le province (paragonabili alle colonie degli stati moderni, da non confondere con le colonie romane
propriamente dette, le quali erano stanziamenti di cittadini romani a pieno titolo, cives optimo iure in territori
extracittadini soggetti all'amministrazione e organizzazione diretta dello stato romano) si stendevano dall'Iberia,
all'Africa, alla Grecia, all'Asia.
Le continue guerre in patria e all'estero, inoltre, immisero sul "mercato" una quantità enorme di schiavi, i
quali vennero usualmente impiegati nelle aziende agricole dei patrizi romani, con ripercussioni tremende nel
tessuto sociale romano. Infatti la piccola proprietà terriera andò rapidamente in crisi a causa della maggior
competitività dei latifondi schiavistici (che ovviamente producevano praticamente a costo zero), ciò provocò da
una parte la concentrazione dei terreni coltivabili in poche mani e una grande quantità di merci a buon mercato,
dall'altra generò la nascita del cosiddetto sottoproletariato urbano: tutte quelle famiglie costrette a lasciare le
campagne si rifugiarono nell'urbe, dove non avevano un lavoro, una casa e di che sfamarsi dando origine a
pericolose tensioni sociali abilmente sfruttate dai politici più scaltri.
Anche la struttura originale della famiglia, delle relazioni sociali e della cultura romana subirono profondi
sconvolgimenti: il contatto con la civiltà greca e l'arrivo nella città di moltissimi schiavi ellenici (in molti casi più colti
e istruiti dei loro stessi padroni) generò nel popolo romano, specialmente tra la classe dirigente, sentimenti e
passioni ambivalenti: da una parte si desiderava (e alla fine in buona parte ci si riuscì) a rinnovare i costumi rurali
romani - mos maiorum - introducendo usanze e conoscenze provenienti dall'Oriente. Questo comportamento fece
sì effettivamente che il livello culturale dei Romani, almeno dei patrizi, crescesse significativamente - basti pensare
all'introduzione della filosofia, della retorica, della letteratura e della scienza greca - ma indubbiamente generò
altresì una decadenza dei valori morali, testimoniata dalla diffusione di costumi e abitudini perfino oggi moralmente
discutibili.
Tutto ciò naturalmente non accadde senza provocare una strenua opposizione e resistenza da parte degli
ambienti più conservatori, reazionari e anche retrivi della comunità romana. Costoro si scagliarono contro le
culture extra-romane, tacciate di corruzione dei costumi, di indecenza, di immoralità, di sacrilegio nei confronti
delle abitudini religiose romane. Questi due opposti schieramenti furono ben rappresentati da due gruppi di potere
di eguale importanza ma di radicalmente opposta visione: il circolo culturale degli Scipioni, che diede a Roma
alcuni tra i più dotati comandanti militari della storia, e il circolo di Catone, il quale lottò accanitamente contro
l'ellenizzazione del modo di vivere romano con una tenacia e un vigore che diventarono leggendarie (o famigerate
a seconda dei punti di vista), tutto a favore del ripristino del più antico, genuino ed originale mos maiorum,
quell'insieme di costumi e usanze tipiche della Roma arcaica che, secondo Catone, avevano permesso al popolo
romano di rimanere unito di fronte alle avversità, di sconfiggere ogni sorta di nemico, di piegare il mondo al proprio
volere.
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Questo scontro tra nuovo e antico, come è facile immaginare, non si placò fino alla fine della repubblica,
anzi possiamo dire che questo scontro tra "conservatorismo" e "progressismo" è stato presente in tutta la storia
romana, anche nel periodo imperiale, a testimonianza di quale trauma deve essere stato la scoperta, il contatto e il
confronto con civiltà al di fuori del Lazio.
La questione agraria
La piccola proprietà terriera messa in crisi dalle aziende agricole patrizie (che sfruttavano il lavoro degli
schiavi), e le nuove influenze culturali provocarono forti tensioni sociali all'interno della società romana.
Nel I secolo a.C. la Repubblica iniziò a incrinarsi, si ampliò il latifondo e si affermarono forti poteri personali
dei personaggi più influenti che, facendosi interpreti dei bisogni delle masse meno favorite o della necessità di
mantenere il controllo nelle mani delle principali e più ricche gentes, portarono alla guerra civile.
Tra i protagonisti di questo periodo vanno ricordati sicuramente i fratelli Gracchi.
Tiberio Sempronio Gracco (163 - 133 a.C.) fu tribuno della plebe nel 133 a.C.; egli fece approvare una
legge agraria a favore del popolo e venne assassinato da sostenitori dei suoi nemici.
Figlio maggiore dell'omonimo Tiberio Sempronio Gracco di origine plebea e di Cornelia, figlia di Publio
Cornelio Scipione Africano, di antica famiglia aristocratica, appartenne quindi all'oligarchia patrizio-plebea. Il
legame genealogico paterno con la gens plebea permise a Tiberio prima, a Caio poi, l'ascesa al tribunato (133 e
123 a.C.), quindi il primo contatto con l'attività politica del senato. Poco più che fanciullo fece parte dei sacerdoti
aùguri grazie anche all'approvazione dell'influente senatore Appio Claudio che poco più tardi gli darà in moglie la
figlia Claudia, da cui non ebbe figli. Nel 146 a.C. all'età di diciassette anni militò in Libia sotto il comando del
cognato Scipione Emiliano. Nove anni dopo al suo ritorno a Roma venne eletto questore e dovette partire per la
guerra contro i Numantini sotto il comando del console Gaio Ostilio Mancino.
L'esito della guerra fu disastroso e una volta messi in fuga i Romani i nemici si dichiararono disposti a
trattare soltanto con Tiberio, memori delle gesta del padre che in passato era stato loro alleato. Tiberio accettò di
trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate
nel saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il
popolo e le famiglie dei soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al massacro lo acclamarono come un
salvatore. La reazione ostile venne proprio dalla compagine dei senatori per il fatto che i romani uscirono piegati
dalla presa di Numanzia e patteggiarono la pace non da vincitori ma da vinti. Il senato rimandò a Numanzia Gaio
Ostilio Mancino come prigioniero per causa di disonore, in secondo luogo non ratificò la pace che Tiberio aveva
formulato; infine Scipione Emiliano fu inviato in terra numantina e nel 133 a.C. ottenne il dominio della città.
Una volta eletto tribuno della plebe nel 133 a.C. la prima vera iniziativa di Tiberio fu quella di compilare con
l'aiuto del pontefice massimo Crasso e del console Publio Muzio Scevola una legge, la lex agraria, per la
redistribuzione delle terre del suolo italico, usurpate dai ricchi ai più poveri e offerte ai forestieri per la lavorazione.
La legge limitava l'occupazione delle terre dello stato a 125 ettari e riassegnava le terre eccedenti ai contadini in
rovina. Una famiglia nobile poteva avere 500 iugeri di terreno, più 250 per ogni figlio, ma non più di 1000; i terreni
confiscati furono distribuiti in modo che ogni famiglia della plebe contadina avesse 30 iugeri (7,5 ettari).
Il provvedimento era sostenuto dal popolo anche attraverso scritte sui maggiori monumenti e sulle pareti dei
portici di Roma, ma fu ricusata sdegnosamente dai ricchi che tentarono inutilmente di incitare una rivolta contro
Tiberio.
I possidenti si appoggiarono allora ad un altro tribuno della plebe, il giovane Marco Ottavio, che accettò di
porre il veto alla legge agraria. Tiberio in risposta al veto scrisse una legge ancora più restrittiva per i possidenti
terrieri e iniziò così una sfida tra i due tribuni che quotidianamente si cimentavano in senato in dure sfide oratorie.
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Con un nuovo editto si proibì ai magistrati di intraprendere affari sino alla votazione della legge e questi come
risposta si dimisero dalle loro cariche arrivando anche ad assoldare sicari per far uccidere Tiberio.
Il giorno nel quale il popolo fu chiamato a votare, i nemici di Tiberio asportarono le urne creando gran
tumulto, ma lo scontro fu evitato anche grazie alla mediazione dei consolari Manlio e Fulvio che lo convinsero a
rimettersi al senato. La discussione in assemblea fu però infruttuosa e così Tiberio fu costretto a proporre la
destituzione di Ottavio che il giorno dopo fu approvata dal concilio della plebe portando così anche
all'approvazione della legge; ma il clima era sempre infuocato e nonostante i gesti distensivi di Tiberio nei confronti
dell'avversario, Ottavio fu a fatica sottratto alla folla inferocita.
Sorvegliare l'equità della divisione spettò, oltre allo stesso Tiberio, al suocero Claudio Pulcro (princeps del
senato) e al fratello Gaio Sempronio Gracco. Intanto l'opposizione dei più ricchi si faceva sempre più estenuante e
andava dal rifiuto di costruire un edificio pubblico preposto alla causa della legge agraria fino all'avvelenamento di
un amico di Tiberio.
Alla sua morte il re di Pergamo Attalo III Filopatore (133 a.C.) lasciò in eredità le sue terre e le sue
ricchezze al popolo romano. Tiberio propose che il suo patrimonio fosse destinato all'acquisto di sementi e attrezzi
agricoli per i nuovi proprietari e che le nuove terre fossero anch'esse divise tra la plebe.
Intanto i suoi amici pensarono di farlo candidare nuovamente al tribunato (andando contro la Lex Villia del
180 a.C.) e perciò doveva in tutti i modi accattivarsi in maniera esponenziale i favori della plebe. Propose leggi
sull'abrogazione del servizio militare per lungo tempo, sulla concessione del diritto all'appello contro tutti i
magistrati e sull'ingresso in senato di un maggior numero di cavalieri.
Il giorno della votazione non disponeva però della maggioranza ed i suoi alleati fecero ostruzionismo fino al
rinvio dell'assemblea al giorno dopo: Tiberio scoppiò a piangere per paura di possibili attentati alla sua persona
suscitando commozione nel popolo che si offrì di sorvegliare la sua casa durante la notte.
La mattina seguente al Campidoglio, dove era radunato il popolo per votare, c'era un tale rumore che non si
riusciva a parlare. Tiberio fu informato che i suoi nemici avevano un piano per uccidere il console Muzio Scevola e
negli sviluppi dell'assemblea cominciò a diffondersi il panico, con i sostenitori di Tiberio che impugnarono le lance
come per difendersi.
I nemici di Tiberio corsero al Senato e denunciarono il fatto: il senatore Publio Cornelio Scipione Nasica
Serapione esortò i suoi a far rispettare la legge e i suoi partigiani marciarono armati fino al Campidoglio. Ne seguì
una carneficina nella quale persero la vita oltre trecento cittadini romani e tra loro lo stesso Tiberio, ucciso a
bastonate. Il suo cadavere fu gettato nel Tevere e i suoi amici condannati a morte o esiliati senza processo.
Il senato non si oppose però alla spartizione delle terre ed elesse come nuovo esecutore Publio Licinio
Crasso. L'opera di Tiberio venne poi continuata dal fratello maggiore Gaio, eletto tribuno della plebe, nel 123 a.C.,
dieci anni dopo la sua morte.
Divenuto questore nel 126 a.C., Gaio fu inviato in Sardegna e lì trattenuto fino al 124. Di propria iniziativa
fece ritorno a Roma prima dello scadere del mandato e nel 123 venne eletto tribuno della plebe, carica nella quale
venne confermato l'anno seguente. Cercò di opporsi al potere esercitato dal senato romano e dall'aristocrazia,
attuando una serie di riforme favorevoli ai populares, ovvero al proletariato che si era riversato nell'Urbe dopo
l'espansione territoriale delle guerre puniche; composto in parte dagli abitanti delle nuove provincie conquistate, in
parte dai piccoli agricoltori italici che non potevano eguagliare i bassi prezzi delle derrate provenienti dalle
provincie (Sicilia, Sardegna, Nord Africa). Durante il secondo tribunato proseguì la politica agraria del fratello,
permettendo la vendita di grano a prezzo ridotto. Dedusse inoltre varie colonie, una delle quali a Cartagine. La sua
importanza è legata tuttavia essenzialmente alle sue leges Semproniae.
Durante la sua carica, oltre a confermare la legge agraria del fratello, Gaio Gracco fece approvare tramite
plebisciti diverse leggi: de tribunis reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni della plebe; de abactis,
con cui si toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo, de capite civis che ribadiva il divieto di
giudicare in iussu populi; iudiciaria che stabiliva alcune regole per la formazione delle giurie nei processi per
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quaestiones e de suffragiorum confusione con la quale si prescriveva che la centuria prerogativa sarebbe dovuta
essere estratta a sorte tra le 193 centurie dei comizi centuriati e non scelta invece soltanto tra le 80 centurie della
prima classe (questa riforma verrà poi abrogata da Lucio Cornelio Silla). In seguito all'introduzione dei comizi
tributi (rappresentanti del popolo) ed all'assegnazione delle province, Gracco propose nel maggio del 122 a.C. la
concessione della cittadinanza romana ai latini e di quella latina agli italici.
L'opposizione al suo disegno di legge trovò concordi il Senato (che trovava così il modo di liberarsi di un
pericoloso rivale), la maggior parte dei cavalieri e pressoché tutta la plebe, gelosa dei propri privilegi. I nobili gli
gettarono contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio Carbone.
Gaio perse molta della sua popolarità e non fu rieletto al tribunato. Inoltre, nel giorno in cui si presentò in
Campidoglio per difendere davanti all'assemblea del popolo la sua legge, scoppiò un grave tumulto tra le parti
avverse. Il Senato decretò il senatus consultum ultimum e Gaio si vide costretto a rifugiarsi con i suoi fedeli
sull'Aventino, dove fu attaccato dalle truppe del console Lucio Opimio. Sopraffatto, persa ormai ogni speranza,
secondo la tradizione più accreditata si fece uccidere da un servo al di là del Tevere, sul Gianicolo, nel bosco delle
Furrine. Con lui morirono anche circa tremila cittadini, vittime di una feroce repressione
La guerra sociale
La guerra sociale (dal latino socius, alleato) vide opposti dal 91 all'88 a.C. Roma e i municipia dell'Italia fin
allora alleati del popolo romano.
Già dal tempo dei Gracchi a Roma si avanzavano proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad
altri popoli italici fino ad allora federati, ma senza successo. La situazione si avviava al punto di rottura quando, nel
95 a.C., Lucio Licinio Crasso e Quinto Muzio Scevola proposero una legge che istituiva un tribunale giudicante a
chi si fosse abusivamente inserito tra i cives romani (lex Licinia Mucia). Legge, questa, che accrebbe il
malcontento dei ceti elevati italici, che miravano alla partecipazione diretta alla gestione politica. Marco Livio
Druso, si schierò per la causa italica avanzando proposte di legge a favore dell'estensione della cittadinanza, ma
la proposta non piacque né ai senatori né ai cavalieri. Il più accannito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio
Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno
votate. Nel novembre del 91 a.C. seguaci estremisti di Marcio Filippo mandarono un sicario ad assassinare Druso.
Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra sociale.
Dopo l'uccisione di Livio Druso gli italici - esclusi gli Etruschi e gli Umbri - si ribellarono a Roma, capeggiati
dal sannita Papio Mutilo. La rivolta scoppiò ad Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i Romani residenti in città
furono massacrati. Si organizzarono in una libera Lega con un proprio esercito, e stabilirono, dapprima a
Corfinium (oggi Corfinio) poi ad Isernia la loro capitale, dove crearono la sede del senato comune e mutarono il
loro nome da Lega Sociale a Lega Italica. Coniarono persino una propria moneta che recava la scritta Italia, nella
quale era raffigurato un toro che abbatteva la lupa romana. Benché Gaio Mario e Gneo Pompeo Strabone
riportassero alcune vittorie sui ribelli, nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare decise di promulgare la Lex Iulia,
con la quale si concedeva la cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero deposto le
armi. Seguì nel 89 a.C. la Lex Plautia Papiria che concedeva il diritto di cittadinanza romana a tutti gli italici a sud
del Po. Il risultato fu di dividere i rivoltosi: gran parte deposero le armi, mentre altri continuarono a resistere. Roma
spese ancora due anni per sconfiggere le città in armi grazie all'intervento di Silla e di Strabone. Tuttavia, lo scopo
che gli Italici si erano proposti era stato raggiunto: essi potevano divenire a pieno titolo cittadini romani.
Con la concessione della cittadinanza, l'Italia peninsulare divenne ager romanus. Il territorio venne
riorganizzato col sistema dei municipia e nelle comunità italiche venne avviato un grande processo di
urbanizzazione che si sviluppò lungo tutto il I secolo a.C., poiché l'esercizio dei diritti civici richiedeva specifiche
strutture urbane (foro, tempio alla triade capitolina, luogo di riunione per il senato locale). Tuttavia la cittadinanza
romana e il diritto a votare erano limitate, come sempre nel mondo antico, dall'obbligo della presenza fisica nel
giorno di voto. E per la gente di città lontane, in particolare per le classi meno abbienti, non era certo facile recarsi
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a Roma per votare nelle assemblee popolari. Così talvolta i candidati pagavano parte delle spese del viaggio per
permettere ai loro sostenitori di partecipare al voto. Di fatto, comunque, a beneficiare della cittadinanza furono
soprattutto le "borghesie" italiche, che conquistarono anche la possibilità di accedere alle magistrature.
La rivolta di Spartaco
In seguito la repubblica dovette affrontare anche una rivolta di schiavi, capeggiata da Spartaco.
Questi, esasperato dalle inumane condizioni che Lentulo riservava a lui e agli altri gladiatori in suo
possesso, decise di ribellarsi a questo stato di cose e nel 73 a.C. scappò dall'anfiteatro capuano in cui era
confinato; altri 70 gladiatori lo seguirono fino al Vesuvio, prima tappa della rivolta spartachista. Sulla strada che
portava alla montagna i ribelli si scontrarono con un drappello di soldati della locale guarnigione, che gli erano stati
mandati incontro per contrastarli e catturarli. La vittoria però arrise a Spartaco e ai suoi, benché armati di soli
attrezzi agricoli e di coltelli e spiedi di cui si erano impossessati nella caserma e nella mensa della scuola
gladiatoria, e essi ebbero così modo di armarsi con le armi da guerra dei soldati romani caduti. Spartaco fu eletto
a capo dei ribelli che si rifugiarono ai piedi del vulcano per riorganizzarsi, aumentare le proprie forze accogliendo
altri schiavi fuggiaschi e addestrandoli e per decidere sul da farsi.
Il senato di Roma inviò, in rapida successione, due pretori (prima Gaio Claudio Glabro e poi Publio Varinio)
in Campania con l’ordine di reprimere la rivolta. Glabro arruolò, strada facendo, una legione raccogliticcia di 3000
unità circa, fatta di uomini inesperti e non addestrati. Inoltre, una spedizione di repressione del brigantaggio e
cattura di schiavi fuggitivi era considerata non particolarmente onorevole dal punto di vista militare per i legionari, i
quali non avevano neppure la prospettiva di fare bottino di guerra (trattandosi, diremmo noi oggi, di un’operazione
di polizia militare interna) né la speranza di saccheggio, né di premio di congedo, per cui sostanzialmente vennero
arruolati uomini di basso livello.
Quando Glabro cinse d’assedio la posizione sulla quale si erano asserragliati Spartaco e i suoi, questi
ultimi, profittando dell’oscurità, riuscirono ad aggirare l’accerchiamento senza che le sentinelle romane se ne
accorgessero, per cui riuscirono addirittura a circondare l’accampamento romano e forti della sorpresa
l’attaccarono, sterminando una gran parte dei legionari, mentre altri ancora si davano ad una precipitosa fuga in
quella che viene denominata "battaglia del Vesuvio". Questo successo militare ottenuto grazie all’esperienza
militare di Spartaco e alla sua sagacia tattica fece accorrere tra le sue fila un enorme numero degli schiavi
fuggitivi, pastori e contadini poveri dei dintorni del Vesuvio, sicché la cinta d’assedio posta intorno al Vesuvio fu
spezzata e più legioni romane finirono per essere successivamente e nettamente sconfitte in Campania.
Il successo militare più eclatante ottenuto dai rivoltosi fu quello conseguito contro il pretore Publio Varinio e
i suoi legati propretori, Furio e Cossinio: Spartaco non si limitò a sconfiggere i soldati, ma riuscì anche ad
impadronirsi dei cavalli, delle insegne delle legioni e dei fasci littori del pretore. Da questa posizione egli riuscì a
dominare su tutta la ricca regione campana.
Dopo un inseguimento Cossinio venne sopraffatto; quindi, venne il turno di Varinio il quale, dal canto suo, aveva
preso delle contromisure preventive atte a dissuadere attacchi di sorpresa del nemico. Tuttavia, la disciplina
militare nel campo romano lasciava molto a desiderare: parte dei legionari era ammalata mentre la parte
superstite si era ammutinata evidentemente per l’incapacità nell’esercizio del comando militare di Varinio, oltre che
per la scarsa qualità umana dei reparti a disposizione del pretore, che si vide costretto ad inviare il questore Gaio
Toranio, allo scopo di fare rapporto al senato sull’andamento delle operazioni.
Non deve assolutamente sorprendere un simile rovescio subito dalle armi romane, sia perché non si
trattava delle legioni migliori, sia perché i pretori e i loro legati, ufficiali arruolati al seguito e tratti dal loro entourage
politico–amministrativo–amicale, erano spesso e volentieri completamente digiuni di strategia e di tattica militare,
siccome a Roma si occupavano essenzialmente di esercitare la giurisdizione e solo raramente, e in casi
eccezionali, erano investiti di comandi militari.
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Evidentemente, i consoli in carica Gaio Cassio Longino e Marco Terenzio Marrone e Lucullo non avevano
particolare interesse ad impegnarsi in questa campagna e la sottovalutazione di Spartaco fu la causa
dell’espandersi del conflitto, che causò molte perdite umane ed economiche. Resosi conto di ciò, Spartaco decise
di volgere la sua marcia verso sud in direzione di Cuma, dopo essere riuscito a spezzare il tentativo di
accerchiamento e successivo aggancio operato da Varinio. I ribelli spartachisti riuscirono a svernare nel 73-72
a.C. indisturbati, anzi non solo con le razzie si alimentavano, ma riuscirono anche ad equipaggiarsi con armi
fabbricate da loro stessi.
Tuttavia, iniziò a serpeggiare il seme della discordia anche nel campo di Spartaco, poiché i ribelli Galli e
Germani volevano riprendere l’iniziativa attaccando le legioni romane, mentre Spartaco, ben consapevole della
resistenza e capacità di ripresa sulla lunga distanza degli eserciti romani, era contrario. Infatti si decise di
estendere la rivolta anche a Sud della Campania, occupando quindi la Calabria e la Lucania. In queste zone,
contro gli ordini stessi di Spartaco i ribelli Galli e Germani si abbandonarono ad ogni sorta di violenza, saccheggio,
devastazione: villaggi bruciati, donne stuprate e assassinate, bestiame depredato, sembrava che un’apocalisse si
fosse abbattuta sulla Campania. Tutti i tentativi di Spartaco d’impedire questi eccidi furono vani, tanto che iniziò ad
attirarsi l’odio dei suoi stessi seguaci.
Nel 72 a.C. sembrò che il senato iniziasse a prendere sul serio la rivolta spartachista, sulla scia
dell’indignazione popolare suscitata dalle violenze degli schiavi fuggitivi; si deliberò che i consoli di quell’anno,
Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano schiacciassero la rivolta. Crisso, con una maggioranza di
ribelli celti e germanici ai suoi ordini, scese in Apulia (oggi Puglia), ma qui fu sconfitto da Publicola nella battaglia
del Gargano. L'esito fu così disastroso che Quinto Avio, il propretore di Gellio, riuscì assolutamente indisturbato ad
uccidere Crisso con un pugnale.
Spartaco non si intimorì alla notizia della morte dell'alleato, e anzi riuscì a battere nuovamente le truppe
romane. Spartaco ebbe la meglio anche sul governatore della Gallia cisalpina, il proconsole Gaio Cassio Longino
Varo, che gli venne incontro nei pressi di Mutina (l'attuale Modena) con un esercito di 10.000 uomini, ma fu
letteralmente sbaragliato e a stento si salvò, dopo un’enorme strage di legionari romani.
Perciò, guidò le sue truppe verso la Lucania e si fermò nei pressi di Turi, ove riarmò il suo esercito,
alimentandolo con le razzie e i saccheggi e si scontrò nuovamente con i Romani che furono ancora una volta
sconfitti.
Nel dicembre del 72 a.C., proprio mentre Spartaco tornava in Lucania, il Senato romano diede al
proconsole Marco Licinio Crasso l'incarico di reprimere la rivolta. Crasso pretese il comando su otto legioni, in
modo tale da avere una schiacciante superiorità in termini numerici.
Crasso mosse contro Spartaco con sei legioni, cui si aggiunsero le altre due consolari ripetutamente
sconfitte, che le fonti, però, riferiscono essere state decimate dal loro stesso nuovo comandante. Infatti, si narra
che, venuto a battaglia con l’esercito di Spartaco, Crasso sia stato sconfitto e per punizione abbia ordinato la
decimazione delle legioni consolari fino all’immane cifra di ben 4.000 legionari giustiziati con il sistema della
verberatio (a bastonate) per la codardia mostrata nei confronti del nemico. Con l'uso della verberatio Crasso si
guadagnò più di Spartaco la paura e il timore reverenziale dei suoi uomini, ristabilendo, in questo modo alquanto
sanguinario, ma non inconsueto nella storia dell’esercito romano, la disciplina e la fedeltà delle sue truppe.
Spartaco, preso in controtempo da questa decisione, decise allora di sbarcare in Sicilia in modo tale da
unirsi a una rivolta di schiavi, indipendente dalla sua, che si stava svolgendo in quel momento in Trinacria.
Tuttavia, a causa del tradimento di alcuni pirati cilici (che si misero d'accordo con il famigerato governatore della
Sicilia Verre), fu costretto ad arrestarsi, nonostante il tentativo di attraversare lo stretto a bordo di zattere
improvvisate che però non riuscivano ad assicurare l’approdo, anche perché Verre aveva nel frattempo fortificato
le coste nei pressi di Messina.
Crasso ordinò allora la creazione di un grande muro nella parte più stretta che separava il mar Ionio dal
mar Tirreno, in prossimità dell'istmo di Catanzaro, protetto da un fossato molto largo e profondo, che, tagliando da
mare a mare la Calabria bloccasse Spartaco e non facesse arrivare rifornimenti di alcun genere alle sue truppe,
tenendo nel contempo impegnati e ben allenati i legionari. Infatti, accadeva che Spartaco ricevesse aiuto da
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briganti, schiavi fuggitivi e disertori, ma non dai contadini o dagli abitanti delle città atterriti dalle sue imprese.
Spartaco, tuttavia, dopo una serie di tentennamenti, poiché in campo aperto aveva subito dei parziali rovesci da
parte dell’esercito romano, decise di forzare il blocco, facendo attraversare le sue truppe in un punto delle opere di
difesa che era stato neutralizzato.
Rotto il blocco Spartaco si diresse verso l’Apulia, secondo alcuni perché di lì voleva salpare alla volta della
Tracia, secondo altri perché voleva far insorgere gli schiavi di quella regione. Allora Crasso lo attaccò alle spalle,
ma egli riuscì inizialmente a sconfiggerlo nella battaglia di Petilia. Tuttavia, a causa della stanchezza dei suoi
uomini, Spartaco non poté sfruttare al meglio il suo successo, avvenuto nel gennaio del 71 a.C., anche perché
l'esercito romano, ora numeroso e ben armato, costrinse Spartaco prima alla fuga verso Brindisi e poi alla ritirata,
ancora verso la Lucania ove raccolse nuovi consensi. A Metapontum (oggi Metaponto), il gladiatore ribelle si
incontrò con il pirata cilicio Tigrane per organizzare il sospirato imbarco da Brindisi verso la Cilicia, poi fallito per il
tradimento di quest’ultimo.
Il preannunciato arrivo delle truppe di Pompeo e di Marco Terenzio Varrone Lucullo, proconsole di
Macedonia riscosse Crasso che, a quel punto, non voleva dividere la gloria dell’impresa con i suoi rivali, anche
perché a Roma si rumoreggiava sulla lunghezza della campagna stessa. La battaglia finale che vide la sconfitta e
la morte di Spartaco nel 71 a.C. si svolse nei pressi delle sorgenti del fiume Sele.
I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri; a quanto è dato sapere, alcuni legionari
romani dissero che Spartaco si buttò per primo contro di loro e dopo aver ucciso alcuni soldati romani fu crivellato
da così tanti colpi che il suo corpo non poté essere ritrovato. Alcuni reparti del suo esercito fuggirono e si
dispersero sui monti circostanti. Crasso fece crocifiggere – nudi – lungo la via Appia da Capua a Roma tutti i
prigionieri.
Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero intercettati e
annientati da Gneo Pompeo Magno, che sopraggiungeva con le sue truppe dall’Hispania. Terminava così la rivolta
di Sparta ononostante alcuni alcuni focolai portati avanti da seguaci di Spartaco scampati.
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