Estratto

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Premessa
Secondo Franco Ruffini, «“Antropologia teatrale” è dizione che copre
campi di ricerca molto diversi. Basterà ricordare lo studio degli aspetti antropologici del teatro e quello degli aspetti teatrali dell’antropologia. “Antropologia teatrale” designa talora anche l’indagine volta a
rintracciare le “origini del teatro”: origini non tanto in senso storico,
quanto in senso filosofico» 1. Si tratta d’una premessa metodologica
che, in linea di massima, possiamo condividere. Risulta, invece, meno
agevolmente accettabile il concetto per cui – una volta elencati simili
“campi di ricerca” – esisterebbe (al di là di essi) una prospettiva d’indagine “privilegiata” da denominarsi «antropologia teatrale [...] intesa
in senso scientifico»: quella che avrebbe per principio che «l’antropologia teatrale come scienza si occupa dell’uomo in situazione di rappresentazione» 2. D’altro canto, lo stesso studioso, poche righe dopo,
non esita ad ammettere che, qualora si voglia intendere “scienza” in
“senso preciso”, questa “antropologia teatrale” non potrebbe essere
definita propriamente “una scienza”. Dovrebbe essere considerata,
piuttosto, ambito d’esercizio d’un “empirismo pragmatico” le cui leggi – anziché «mostrare perché da un fatto a segue un fatto b» – mirano a segnalare «che e come da un fatto a segue un fatto b» 3.
Le domande alle quali un empirismo siffatto vorrebbe dare risposta sorgono, per esempio, da tematiche del genere: “livello preespressivo e presenza dell’attore”, “la correlazione profonda del fisico e del
mentale rispetto al lavoro dell’attore”, “il rapporto attore-regista e
quello attore-spettatore”. E l’ideale obiettivo d’una inchiesta così
orientata consisterebbe nel rispondere a questo imperativo: «Se la
con-sonanza spettacolo-spettatore si verifica [...], è necessario ricercarne le leggi pragmatiche. Cercare di sapere cosa fare e come farlo
1. F. Ruffini, Antropologia teatrale, in “Teatro e storia”, I, 1986, n. 1, p. 3.
2. Ivi, p. 4.
3. Ibid.
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affinché essa si verifichi: anche se si continua ad ignorarne il perché» 4.
Sarebbe alquanto difficile dover decidere se tutto ciò sia davvero
“antropologia teatrale” (vuoi da etichettarsi quale esclusiva depositaria d’un “senso scientifico” più o meno elasticamente inteso vuoi disponibilissima a diluirsi nello sterminato territorio dell’“empirismo
pragmatico”); o non sia piuttosto un semplice progetto di de-scrizione d’una qualche poetica dello spettacolo posta in opera da sperimentalismi tanto apprezzabili quanto – per necessità – relativi a un ben
preciso contesto storico. E, in effetti, non ci sentiremmo di giurare
che l’autentica “scienza del teatro” consista solo nella comunque opinabile capacità di “sapere cosa fare e come farlo” affinché si verifichi
“la con-sonanza spettacolo-spettatore”. Anche perché temiamo che la
suddetta “con-sonanza” non sia codificabile secondo statuti sanciti
una volta per tutte. E siamo quasi certi che le sue tanto celebrate
“leggi”, ammesso che vengano scoperte e formulate con assoluta esattezza nel caso d’un gruppo teatrale operante (poniamo) nel 1990,
possano poi essere applicate indifferentemente a proposito d’un allestimento tragico del V secolo a.C., d’una messinscena elisabettiana, o
d’una qualsivoglia performance futuribile.
Ma, se così non può avvenire, a che serve parlare di scienza e di
leggi? E, soprattutto, cui prodest tanta sufficienza nei confronti di
quel povero “perché?” al quale andrebbe almeno riconosciuto il merito di dare un qualche senso sia pur provvisorio a tanti “cosa” e a
tanti “come”? Dal canto nostro, una volta preso atto che “antropologia teatrale” possa anche essere definita come “dizione” usata per coprire “campi di ricerca molto diversi”, non ce ne sentiamo per nulla
scandalizzati. Anzi, lasciando ad altri ogni velleità di definire senza
margini di vaghezza cosa sia o cosa non sia autentica “scienza”, preferiamo abbandonare alle sue sorti ogni filosofema ruotante attorno
alle lapalissiane verità dell’“empirismo pragmatico”, e scegliere di restare ancorati ad un dato quantomai semplice: antropologia teatrale
non è (almeno per origine) né un settore scientifico autorizzato da
accademie o reali o metafisiche né un’etichetta buona a raccogliere e
a nobilitare i contenuti più disparati. È innanzitutto una terminologia
che si è voluto applicare – faute de mieux – a un intreccio di fenomeni verificatosi nell’ambito di plessi culturali appartenenti a una precisa svolta della storia che ci ha formato.
Come ricorda Monique Borie:
4. Ivi, p. 22.
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PREMESSA
Prodotto di una civiltà occidentale colpevole, l’apparizione dell’antropologo
è legata all’Occidente colonizzatore e ai suoi rimorsi; «La sua stessa esistenza
non è comprensibile, se non come un tentativo di riscatto» dice addirittura
Lévi-Strauss [...]. Malgrado la costante cura di mantenere una oggettività,
che vuole rifiutare un valore di modello a tale o talaltra società, i fantasmi di
una società primitiva idealizzata, vicina ai desideri fondamentali, non cessano
di attraversare l’antropologia contemporanea [...]. È questa antropologia fornitrice di nostalgie che affascina un teatro ossessionato dalla categoria del
primitivo, e che guarda verso l’esterno o verso l’Altro per tentare di trovare
soluzioni a questa crisi delle forme teatrali, che è allo stesso momento percepita come una crisi di tutta la cultura occidentale. Dall’inizio del secolo, al di
là delle divergenze estetiche o ideologiche, si delinea un vasto accordo tra la
maggior parte dei teorici del teatro sulla necessità di un ritorno alle origini.
Che si tratti di fare riferimento a una cultura lontana (il Messico, l’Oriente o
l’Africa), oppure di valorizzare la nostra passata tradizione occidentale (teatro greco, teatro del Medioevo o teatro elisabettiano), sempre queste forme
vengono percepite come modelli esemplari di un teatro primitivo, che ha
posseduto o mantenuto le virtù di un’arte delle origini, la sola veramente
creatrice. [...] Il ritorno all’originario si traduce anche in viaggi verso gli spazi investiti del loro prestigio, come i peripli verso il primordiale, effettuati a
una quarantina di anni di distanza da Artaud in Messico e da Brook in Africa. [...] In nome del valore delle origini si apre un processo al presente, contro il quale ci si richiama alle virtù del passato. Prima fra tutte, l’autenticità
perduta. [...] L’antropologia infatti studia le società “autentiche”, cioè basate
su relazioni personali, su rapporti concreti e diretti tra individui [...]. Le relazioni col prossimo si basano su “un’esperienza così globale, su una comprensione così concreta dei soggetti fra loro” che le nostre società moderne
hanno perduto. Le hanno perdute soprattutto perché sono società [...] dominate dall’espansione delle forme indirette di comunicazione, che, pur allargandone le possibilità di contatto, gli hanno conferito questo carattere di
“inautenticità” che è diventato il contrassegno stesso dei rapporti [...] tra
l’individuo e i suoi contemporanei, tra l’individuo e il suo passato, dato che
il contatto vissuto con delle persone – narratori, preti, saggi o anziani – che
caratterizza le società di tradizione orale, è completamente sparito 5.
L’antropologia teatrale, insomma, non è il campo di ricerca d’uno
specialismo scientifico rigorosamente definibile, ma la terminologia
connotativa attribuita a quel territorio di confine dove – tra Otto e
Novecento – taluni vettori energici dei loro pur diversi itinerari di
ricerca hanno condotto antropologi e teatranti ad addentrarsi lungo
sentieri paralleli, talvolta proclivi a formar crocicchi sdruccioli e confusi. Gli uomini di scienza, perseguendo il come e il perché relativi
5. M. Borie, Antropologia, in A. Attisani (a cura di), Enciclopedia del teatro del
’900, Feltrinelli, Milano 1980, p. 344.
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TEATRO E ANTROPOLOGIA
alle origini della rappresentazione. Gli uomini di spettacolo, col dichiarato intento di rivitalizzare le proprie performances attraverso le
terapie d’ogni possibile ritorno all’“originario” e all’“autentico”.
Per quanto concerne il versante delle arti sceniche, ciò ha significato innanzitutto il delinearsi d’un concetto di “teatralità” esteso sino
a comprendere danze, maschere, azioni mimate, stati di trance tipici
delle feste e dei riti intesi a ri-attualizzare immagini ed eventi dell’orizzonte mito-logico entro cui si muovono le culture dei cosiddetti
“primitivi”. Poi, lo studio – da una simile prospettiva – di quelle forme teatrali o arcaiche o extra-occidentali che potevano apparire immuni da qualsivoglia marchio di “inautenticità”: il tragico e il comico
greci, il Nō giapponese, gli spettacoli di Bali ecc. Infine, il recupero
di soluzioni espressive appartenute a civiltà più prossime nel tempo,
ma comunque tali da presentare tutti i crismi d’una teatralità profondamente innervata sulle linee-forza d’un immaginario collettivo
ricco di archetipi ancora energici: sacre rappresentazioni e farse medioevali, Commedia dell’Arte ecc. È a partire da questa ottica che i
grandi visionari e i massimi sperimentatori della scena moderna – ora
sottacendo ora esibendo fattori categoriali comunque riconducibili
alla voce antropologia teatrale – convertono dati attinti dal sapere teatrologico in poetiche e pratiche tese a incidere sul presente. E sono
appunto queste le fenomenologie che il nostro volume intende, nei
limiti delle pagine concesse, passare in rassegna.
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