Euro sull`orlo di una crisi di nervi

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Economia
EURO SULL’ORLO
DI UNA CRISI
DI NERVI
Il futuro della moneta
unica dopo il terremoto
greco, tra problemi
istituzionali, riforme
tecniche e l’esigenza di
un’unificazione fiscale
Emilio Rossi
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MARZO 2015
I
L RECENTE RITORNO ALLA RIBALTA della crisi legata al
debito della Grecia ha riaperto il dibattito sui limiti della costruzione dell’euro. Una soluzione duratura del “problema
greco” richiede di tener conto di vari aspetti, tra cui le implicazioni per gli altri paesi dell’eurozona che presentano problemi di debito e la revisione delle regole e delle istituzioni
alla base della moneta unica.
Il “problema greco” è nel breve termine legato alla restituzione del
debito in scadenza nei prossimi
mesi (circa 12 miliardi di euro),
mentre nel più lungo termine dipende dall’enorme debito contratto dalla Grecia nei confronti dei creditori esteri, 317 miliardi di euro (di
cui circa 200 detenuti dai paesi dell’eurozona), ossia circa il 177% del
pil greco. I paesi dell’eurozona
hanno di fronte due alternative
principali: mantenere un profilo di
aiuti di breve durata (2-3 anni) per
tenere sotto pressione le politiche
del governo greco fino alla prossima crisi oppure trovare una soluzione più strutturale e duratura.
Dato che la Grecia è sostanzialmen-
te in bancarotta, questa seconda
opzione non è perseguibile senza
coinvolgere il meccanismo di funzionamento dell’euro.
Parametri da rivedere
All’inizio della costruzione dell’euro, per tenere insieme un
gruppo di paesi molto eterogenei
per struttura economica, progresso tecnologico e cultura, furono adottati solamente i parametri relativi al bilancio pubblico
e all’inflazione. Ma questi parametri si sono rivelati del tutto
inadeguati a fronte dei cambiamenti epocali degli ultimi quindici anni, e non a caso, visto che
i parametri di Maastricht sono
stati quantificati in un periodo in
cui il ciclo economico sembrava
avviato verso un sentiero di crescita continua nella maggior parte del mondo industrializzato.
All’inizio degli anni Novanta era
ragionevole attendersi un tasso di
crescita annuo del pil reale dei paesi europei intorno al 3%, a fronte di
un obiettivo di inflazione del 2%, e
conseguentemente un pil nominale del 5%. Sulla base di queste assunzioni, il tetto del 3% nel rapporto deficit/pil e del 60% in quello
debito/pil erano sicuramente appropriate. Qualora il ciclo economico avesse portato a scostamenti
dagli obiettivi, sarebbero intervenute politiche fiscali dei governi e
monetarie della Bce a riportare i valori sotto controllo.
Oggi il contesto economico globa-
L’evento veramente
epocale degli ultimi 15 anni
è costituito dallo
spostamento di risorse dai
paesi avanzati a quelli
emergenti, certamente
inatteso nella sua
dimensione
le ed europeo è molto diverso e i
parametri di Maastricht appaiono
più che ambiziosi. Nell’eurozona,
in presenza di un calo di domanda e di un peggioramento delle
condizioni di credito, molte imprese sono state costrette alla chiusura o a delocalizzare la produzione. Il numero di occupati si è ridotto significativamente, soprattutto
nelle fasce giovanili, riducendo
ulteriormente i consumi e creando
condizioni di disagio sociale che
rendono più complessa la gestione dei deficit pubblici.
La concorrenza
dei mercati emergenti
Ma l’evento veramente epocale
degli ultimi 15 anni è costituito
dallo spostamento di risorse dai
paesi avanzati a quelli emergenti,
certamente inatteso nella sua dimensione. Questo fenomeno va
salutato sicuramente con favore,
dato che ha comportato l’uscita
dalla povertà assoluta e il raggiungimento di condizioni di vita ra-
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Economia
Dal punto di vista
istituzionale, la riforma più
rilevante da implementare
è l’unificazione della
politica fiscale insieme alla
politica monetaria
gionevoli per oltre un miliardo di
abitanti del pianeta. La concorrenza proveniente dai mercati emergenti (anche dai paesi dell’Est europeo), inizialmente focalizzata
sui prodotti a basso valore aggiun-
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to, ha creato condizioni meno favorevoli nei paesi dell’eurozona
per poter affrontare la crisi del
2008. Già negli anni precedenti la
delocalizzazione aveva prodotto
effetti significativi sull’occupazione e sulla crescita dei paesi dell’eurozona. Questo fenomeno non
si è esaurito, visto che altri paesi in
via di sviluppo sostituiranno
quelli oggi emergenti. In altre parole, la struttura globale del sistema economico è cambiata e ai paesi dell’eurozona non resta che
prenderne atto.
Le ipotesi di crescita alla base dell’euro, quindi, non reggono più e i
parametri di finanza pubblica appaiono non adeguati nel lungo termine. Secondo previsioni effettuate da Oxford Economics, con prezzi del petrolio intorno ai 60 dollari
e un tasso di cambio euro/dollaro
sotto 1,1 (entrambe ipotesi realisticamente favorevoli all’eurozona),
la crescita del pil reale prevista fino
al 2025 è di circa 1,5% con un’inflazione all’1,3%, valori di poco sopra
la metà di quelli pensati all’inizio
degli anni Novanta.
L’euro è ancora affidabile?
La crisi greca potrebbe essere quindi il momento per avviare la rifles-
sione su tutti gli aspetti che rendono l’euro una moneta meno affidabile di quanto potrebbe essere. Oltre alla valutazione numerica dei
parametri (esercizio tecnico che sarebbe tutto sommato semplice rivedere), colmare altre lacune appare anche più cruciale per consentire all’euro di sopravvivere e prosperare. Tuttavia, questo richiederebbe una leadership politica che i
leader attuali forse non hanno o
che non sembrano disposti a mettere in campo, orientati come sono
a mantenere i propri indici di gradimento presso il proprio elettorato. Alcuni passi importanti sono in
realtà già stati fatti, basti ricordare
la creazione dello European stability mechanism (atto a fornire assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà) e l’avvio dell’unione bancaria, ma moltissimo resta da fare.
Le principali lacune che richiederebbero interventi sono sia “tecniche” che istituzionali. Quelle “tecniche” sono quelle che forse potrebbero essere implementate più
rapidamente, ma in realtà richiedono comunque correzioni nei
trattati e cambiamenti istituzionali: l’emissione di bond europei,
l’inclusione dell’occupazione nel
mandato Bce, la trasformazione
della Bce in prestatore di ultima
istanza (ossia come garante delle
obbligazioni emesse dai singoli
stati). Entrambe queste riforme
sono osteggiate dalla Germania e
da altri paesi che le ritengono, giustamente, premature e a rischio di
“moral hazard” da parte dei paesi
meno attenti ai deficit di bilancio.
Dal punto di vista istituzionale, la
riforma più rilevante da implementare è l’unificazione della politica fiscale, vera architrave di una
moneta unica, insieme alla politica
monetaria. L’unificazione fiscale è
osteggiata soprattutto dalla Francia, timorosa di cedere una porzione di sovranità all’Ue, ma rappresenterebbe un passo decisivo anche per l’implementazione delle
suddette riforme “tecniche”.
Il programma della Bce
In questo contesto di debolezza
politica e istituzionale dell’euro, la
Bce di Mario Draghi ha intanto
lanciato un programma di “Quantitative easing” (Qe) mirato all’ampliamento del bilancio della
Bce stessa o, in altre parole, ad aumentare le attività della banca di
almeno un trilione di euro in diciotto mesi. La scelta di una politica monetaria decisamente espansiva (al contrario di quanto effettuato tra il 2013 e il 2014) denota le
In questo contesto
di debolezza politica
e istituzionale dell’euro,
la Bce di Mario Draghi
ha intanto lanciato
un programma di
“Quantitative easing”mirato
all’ampliamento del
bilancio della Bce stessa
difficoltà di mantenere un percorso di crescita dei prezzi coerente
con l’obiettivo del 2% annuo. Il risultato concreto di questa decisione sarà di abbassare i rendimenti
anche delle obbligazioni a lungo
termine, avviando l’euro verso un
lungo periodo di indebolimento
sui mercati internazionali, soprattutto nei confronti del dollaro. La
soglia del cambio euro/dollaro 1
contro 1 potrebbe non essere lontana, a patto che gli Usa si avviino
sulla rotta contraria di aumento
dei loro tassi di interesse.
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