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‘VAERA’
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Ed Apparvi
“Io sono il Signore. Apparvi ad Abramo, Isacco e Giacobbe come h¨S©a k¥t
ma con il mio nome
vuvh non mi feci conoscere da loro. Con loro feci un patto che avrei
dato loro la terra di Canaan, cioè quella terra dei loro pellegrinaggi nella quale risiedettero.
Poi ho udito il gemito dei figli di Israele, che gli egiziani hanno reso schiavi e mi sono
ricordato del mio patto”.
vuvh
Il tetragramma, lo Shem hammeforash, sintesi della denominazione più compiuta, con cui Dio
si è definito a Mosè, nella parashah Shemot, rispondendo alla domanda circa quale nome
dovrà dire ai suoi fratelli narrando loro l’incontro e il mandato ricevuto:
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. Ora il Signore chiarisce a Mosè, e così Egli stesso rievoca, la rivelazione di sé ai patriarchi,
ai quali non si era presentato con questo nome pregnante di essenza, per quanto già il nome a
loro noto, El Shaddai, ancora
detto e scandito,
risuona
divina potenza, ed anzi ha
l’opportunità di essere pronunciato, mentre sul tetragramma si stende il velo misterioso
dell’astensione dalla pronuncia: solo il sommo sacerdote una volta l’anno lo pronunciava nel
penetrale intimo del Tempio.
La storia della relazione di Dio con Israele, o di Israele con Dio, si svolge in tempi diversi, in
scansioni temporali, passa attraverso generazioni e situazioni. Il Signore, che ha modificato i
nomi di Abramo e Sara, ed ha fatto rinominare dall’angelo Giacobbe in Israele, ora,
rinnovando la relazione con il popolo, ha tenuto a chiamarsi con quel nome ontologicamente
fondante, che esprime il permanere e la creativa dinamica dell’essere in tensione. Riandando
a quanto si è detto nella derashah precedente, sull’istruzione di Mosè in fonti sapienziali
egizie,
che già coglievano nella divinità il primato dell’essere,
si può intendere meglio
l’assunzione del nome che Dio ora rivela a Mosè: sembra confermare quell’intuizione
umana fattasi strada nella cultura dell’ambiente ospitante e perfezionare la preparazione
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che Mosè stesso aveva avuto. L’intravisto supremo essere si presenta all’uomo Mosè come
provvidente liberatore del suo popolo asservito ed umiliato, di cui ha accolto il grido, affinché
questo popolo venga educato nel culto della sua unicità, sbozzando e testimoniando l’idea
monoteistica nella storia religiosa dell’umanità.
Per Martin Buber (La regalità di Dio, ed. Marietti, p. 118), il nome riveste un significato
complementare di divina presenza nel vivo delle situazioni, un vigile, concreto
ESSERCI,
STARCI accanto, ESSER PRESENTE a quanto avviene, con occhio pronto e pronta mano;
un essere che sta in tensione per assistere ed irrompere. La risposta di Dio a Mosè, che gli
chiede cosa dovrà dire quando il popolo gli domanderà come si chiama il Dio che lo manda,
al capitolo 3 di Esodo, versetto 14, qualificandosi
Ejjé asher Ejjé esprime, oltre il concetto
sostanziale dell’Essere, oltre la dinamica universale dell’Essere in tensione, particolarmente,
ora, per Israele in quella situazione, la protettiva promessa di un esserci là, in quell’accadere.
Dio c’è, ma non farà tutto da solo: l’uomo Mosè e il fratello Aronne devono mobilitarsi ad
affrontare il duro padrone terreno.
Mosè si reca, per prima cosa, dai connazionali, ad annunciare loro le confortanti parole che
ha ricevuto, ma loro non sono in grado di dargli ascolto per lo stato d’animo di angustia,
accasciati come sono dai pesanti lavori coatti.
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Lo shamù el Moshè mikkozer ruah umeavodah kashah
I figli di Israele hanno avuto
la sensazione di sentirsi dire da Mosè belle parole, non
corrispondenti alle condizioni aggravate in cui si trovano, dopo che egli era intervenuto la
prima volta invano a loro favore. Se la missione verso i fratelli è ardua per il loro sconforto,
quella presso il faraone è ancora più ardua per la durezza dell’uomo sicuro nell’esercizio del
potere e sprezzante verso una straniera plebe asservita a strumento di produzione. Dio si fa
carico della durezza di cuore del dominatore. Tanto la prevede da arrivare a dire che è Lui
ad indurirne il cuore nella prova di forza, che infine lo vincerà.
Quando il Signore lo incarica di tornare dal Faraone con la richiesta di lasciar partire il suo
popolo, Mosè, scoraggiato dal mancato ascolto dei suoi, chiede al Signore come possa sperare
di essere preso sul serio dal cattivo sovrano, tanto più che non ha la parola sciolta, essendo
arel shefataim, alla lettera ottuso di labbra, come avesse un prepuzio, pellicina superflua
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poggiata
sulle labbra, che non gliele fa bene muovere, balbuziente. Già nella parashah
precedente, al capitolo 4 di Shemot, Mosè fece presente al Signore di non essere un ish
devarim, un uomo di parole, un buon parlatore.
Il Signore gli aveva detto che ogni umana
facoltà è data da Lui e che lo avrebbe sostenuto nel parlare,
e che comunque lo avrebbe
assistito il fratello Aharon, buon parlatore. Ora chiama entrambi, Mosè ed Aronne, e
quando Mosè, per esimersi, insiste sul proprio difetto, il Signore, per stimolare in lui
l’autostima e farlo sentire importante, ricorre argutamente ad un paragone strabiliante:
“guarda, io ti costituisco Dio davanti al Faraone e tuo fratello Aronne sarà il tuo profeta”.
W¤thc±b vhvh Wh¦j©t i«r©v©t±u v«g§rpk oh¦vO¤§t W¦,¨T±b
Netatikha Elohim le farò veaharon ahikha ijjé neviekha
Il paragone, naturalmente, non va preso alla lettera, è un’ardita metafora, in didascalica
umiltà, dello stesso Elohim, o a Lui attribuita dagli autori biblici. Per l’Ebraismo Dio non
costituisce un uomo al proprio livello, mentre può a lui delegare, serbando la propria unica
trascendenza.
Il Faraone favorevole, tanto tempo prima, si era tolto l’anello dal dito, dandolo a Giuseppe
per investirlo di una autorità. Ora il Signore Iddio, per vincere la titubanza del suo inviato
Mosè, gli presta, in immaginazione comparativa, il suo scettro,
attribuendo ad Aronne la
funzione di profeta, che è portavoce di Dio. Lo fa anche, delicatamente, per non umiliare
Mosè davanti alla capacità oratoria del fratello maggiore: guarda, Aronne, sarà il tuo
portavoce.
Elohim ha anche un significato di giudice, inerente alla funzione giudicante di cui Dio dà
esempio, e Rashì ha inteso questo passo nel senso che Dio costituisce Mosè giudice del faraone,
ma l’ausiliario compito di profeta attribuito ad Aronne sta meglio in relazione a Dio che al
giudice.
Possiamo tranquillamente lasciare alla parola Elohim il significato di Dio, come
una incoraggiante esagerazione proferita da Dio stesso per rendere ardito Mosè, il quale non
è così vanitoso da credersi lui Dio. L’autentico Dio si riserva il ruolo primario di istruire
Mosè su quel che dovrà dire, o far dire da Aronne, al faraone, e nell’annunciare che sarà
Lui, nella fine del gioco, a piegare il faraone, come è Lui a indurire il cuore del faraone
peggio di quanto già sia duro: “Tu comunicherai a lui tutto quanto ti ho comandato e Aron
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tuo fratello parlerà al faraone, dicendogli di lasciar partire i figli di Israele dal suo paese. Io
renderò ostinato il cuore del faraone e moltiplicherò i segni di potenza e i miei prodigi nella
terra d’Egitto. Il faraone non vi ascolterà e io stenderò la mia mano sull’Egitto e farò uscire le
mie schiere, cioè il mio popolo di Israele dall’Egitto mediante castighi straordinari”.
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oh¨rm¦n .¤r¤tC
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h©,pun ,¤t±u h©,«,«t ,¤t h¦,hC§r¦v±u
Anì akshè et lev parò
Veirbeti et ototai veet mofetai
Beerez Mizraim
Io indurirò il cuore del faraone e moltiplicherò
I miei segni e i miei prodigi
Nella terra di Egitto
Akshè : indurirò, Kashè significa duro pesante difficile
Ot è segno qui significa segno, dimostrazione, di intervento, di potenza
Ototai : i miei segni
Mofet è prova prodigiosa significa anche un esempio valido, eccezionale un modello
Dunque Mosè accetta ed assume l’incarico di tornare dal faraone per chiedergli di lasciare
andar libero il popolo. Ce lo immaginiamo giovane o uomo maturo e invece
aveva
ottant’anni, e Aronne, il facondo giovanotto, ne aveva ottantatre. Ma dobbiamo prendere le
bibliche indicazioni di età nella dimensione evocativa e trasfigurata di una longevità dei
giusti.
Il Signore avvisa i due inviati che il Faraone non li ascolterà. E’ una missione impossibile,
come sarà per Isaia, ma va espletata lo stesso. Vi sono imprese, che lì per lì paiono
fallimentari, ma servono a preparare altri svolgimenti.
Per piegare il Faraone, bisogna
pressarlo con una serie di richieste, seguite da altrettanti colpi. Il Faraone si sente dominante
e non molla fino a che pensa di poter resistere.
Se Mosè ha le labbra ottuse, il re di Egitto ha
il cuore duro e pesante, è khaved lev. Avrà bisogno, nella sua ostinazione di ricevere e fare
ricevere al suo popolo molte batoste, prima di decidersi a fare uscire i figli di Israele.
Come già nella parashah precedente, Dio dice a Mosè e ad Aronne di stendere la verga per la
prodigiosa sua trasformazione in serpente. In un tempo e in un contesto di maghi, bisogna
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farsi pure mago, competendo coi maghi. Aronne stende la verga davanti al Faraone per
dimostrargli che li manda Dio, ne viene fuori un serpente. Faraone chiama i suoi maghi, che
coi loro sortilegi stendono le verghe e fanno uscire altrettanti serpenti.
‫ַשפִים‬
ְ ‫וַיִ ְקרָא גַם פַּרעֹה ַל ַח ָכמִים וְַל ְמכ‬
‫וַיַעַשוּ גַם הֵם ַח ְרטֻמֵּי ִמ ְצ ַריִם בְּ ַל ַהטֵיהֶם כֵּן‬
Vaikrà gam parò lahakhamim velamekhashfim
Vaiaasù gam hem hartumé Mizraim belahatehem ken
‫ַלהַט‬
Laat è sortilegio incantesimo
Rashì intende qui come effetti di procedimenti segreti
E anche il faraone chiamò i sapienti e I maghi
E fecero anche loro, gli esperti dell’Egitto, con i loro sortilegi, così
Fecero così. Fecero lo stesso, ma la verga-serpente di Aronne inghiotte quelle dei maghi.
Sembra un fantasmagorico gioco di cartoni animati. Allora non c’era la tecnologia
cinematografica dei cartoni animati, ma c’era una tecnologia delle operazioni di destrezza, in
cui i maghi erano esperti, dando performances nelle corti. Sicché il Faraone, fidando in un
migliore round dei suoi specialisti, incassa il colpo e resta facilmente ostinato. Poco male, del
resto, se crepano i serpenti; per ora, ma siamo solo all’inizio del confronto.
Mosè, su ordine divino, si ripresenta al Faraone il mattino seguente, quando egli si reca sulle
rive del Nilo. Gli chiede, a nome di Dio, di lasciare andare il mio popolo, “Shlakh et ammì”.
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L’espressione diventerà uno spiritual degli schiavi neri, “Let My People Go” e diventerà il
motto inalberato per l’uscita degli ebrei dalla dittatura sovietica.
Gli ebrei sono potuti
finalmente uscire, se lo vogliono, da quel grande paese. I neri in America non sono più
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schiavi e Barak Obama addirittura governa alla Casa Bianca.
Anche dall’Egitto gli ebrei
alfine sono usciti, ma ci sono volute le piaghe. Nella storia c’è un comportamento ricorrente,
che si chiama ostinazione. Anche la dittatura sovietica, in tempi recenti, proibì agli ebrei di
uscire, concedendo a gocce i permessi in cambio di altri vantaggi, ed infine cadde,
dissolvendosi. Anche allora, nei nostri tempi, è risuonato il “Let my people go”. “Shlah et
ammì”.
Il Signore conosce la durezza del faraone e mette in atto la serie delle azioni che lo
piegheranno, facendole compiere con atti di Mosè e di Aronne, dotati della sua efficacia:
È l’Aggadah:
Si cambiarono in sangue tutte le acque del Nilo.
Le rane si sollevarono dal fiume, invadendo tutto il paese.
Tutta la polvere della terra divenne insetti in tutto il paese di Egitto.
Un grandissimo miscuglio di animali dannosi penetrò nella casa del Faraone e dei
suoi servi. Tutto il territorio egiziano andava in distruzione per il miscuglio degli
animali dannosi.
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Morì tutto il bestiame egiziano.
Si produssero ulcere in forma di bubboni su uomini e bestie.
Il Signore produsse tuoni e grandine, fulmini turbinarono verso il suolo, la
grandine devastò in tutto il paese tutto ciò che si trovava all’aperto.
Sono queste le piaghe subite dall’Egitto nello spazio narrativo della presenta parashah Vaerà.
Il resto alla prossima puntata.
Ad ognuno di questi flagelli si interpone una pausa, con
l’apparente cedimento alla ragione da parte del Faraone.
Si ha la preghiera di Mosè e di
Aronne al Signore per far cessare i malanni, quindi i ripensamenti del Faraone quando gli si
lascia una tregua, le perplessità dei ministri del Faraone che cominciarono a rendersi conto
dell’ineluttabile resa ad una superiore forza celeste. Vi furono egiziani che temettero l’Eterno
e sui quali non si abbatterono certe piaghe. Al riparo furono collettivamente gli ebrei ,
venendo risparmiato il paese di Goshen, dove risiedevano: “Farò distinzione fra la terra di
Goshen, dove risiede il mio popolo, e nella quale non vi sarà il miscuglio di animali dannosi”.
Ma in Goshen non c’erano soltanto loro, dovevano
risiedervi
i non pochi addetti alla
sorveglianza degli ebrei, beneficiati in grazia di loro; non pochi se si pensa che gli ebrei erano
impiegati in opere pubbliche, evidentemente per luoghi e centri di popolamento egiziano.
La Bibbia dà delle indicazioni utili per la ricostruzione storica, ma non è storia documentata,
e bisogna cercare di ricostruire come siano andate le cose.
La soluzione del particolare
problema può essere che in Goshen ancora risiedesse una maggioranza di ebrei, ma che altri
potessero trovarsi in altre parti dell’Egitto.
Nel capitolo 9 (versetti 4, 6, 7) è detto che il Signore distingue tra ciò che appartiene agli
egiziani e ciò che appartiene agli ebrei, tra il bestiame degli uni e degli altri, sicché risulta
(anzi si conferma quanto già in precedenza osservato) che gli ebrei, non del tutto alienati dalla
pastorizia, conservavano una proprietà di animali.
Altre questioni: come facevano Mosè ed Aronne ad avvicinare il potente sovrano, se si
confronta la situazione con il racconto del libro di Ester, dove lei, che è la regina, non può
presentarsi quando vuole alla presenza del re Assuero? I faraoni egiziani non erano meno
protetti dei re persiani, ma forse nei confronti di Mosè e Aronne, esponenti di una comunità
etnica, valeva una attenzione politica.
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Queste osservazioni inducono una verifica, con parziali attenuazioni nel giudizio complessivo
circa la durezza della persecuzione egiziana, che però indubbiamente ci è stata ed ha pesato
sul popolo ebraico.
E’ verosimile
che, mantenendo margini di vivibilità nella loro
occupazione tradizionale di pastori, con una sussistente proprietà, dovessero nel contempo
fornire un pesante quantitativo di manodopera per i lavori coatti.
SI POSSONO STORICAMENTE SPIEGARE LE PIAGHE DELL’EGITTO?
L’avvenimento delle piaghe, come narrato prodigiosamente dalla Torah, non trova conferme
storiche se non in testi, come Giuseppe Flavio, che alla Torah si rifanno. Ma la matura
considerazione dei ricorrenti travagli umani per eventi naturali, nei quali spesso la coscienza
dei popoli ha veduto dei castighi, può fare intendere il racconto delle piaghe come
il
concentrato, in un tempo breve, di disastri e di intemperie che hanno afflitto l’Egitto nel
corso dei tempi, con particolare intensità durante una certa fase. Certi studiosi si sono dati a
trovare in testi egiziani il racconto dolente di sciagure avvenute per cause naturali, in periodi
in cui si verificarono anche divisioni politiche e occupazioni straniere. Un papiro egiziano,
chiamato Ipawer, pare dal nome dello scriba, lamentava confusioni, sconvolgimenti, miserie,
parlando, tra l’altro, di bestiame che si ammalava o che era razziato, di campi che non
producevano più grano (erano agli anni delle spighe magre avvizzite?) e di acqua del fiume
ridotta a sangue, forse per una strana colorazione rossa. Lo scriba diceva inoltre che queste
sventure erano state previste. Lo si spiega con i moniti che profeti o severi predicatori
rivolgono alle loro genti prevedendo le afflittive conseguenze di peccati e malvagi
comportamenti. Questo papiro egiziano o altri simili scritti sono riscoperti e decifrati per
trovare parziali conferme al racconto biblico, che si staglia, organico, autorevole, ben
tramandato e diffuso nel mondo, illustrando quei lamentevoli accadimenti dell’Egitto come
aspetto della nemesi di un popolo schiavo, risorto e salvato dall’Onnipotente, per farne
l’araldo del monoteismo e il custode di un sacerdotale codice di vita.
Nel capitolo 4, dal versetto 14 al 27, vi è un inciso con la
rassegna dei capi famiglia delle
tribù, nella quale apprendiamo i nomi di molti personaggi della generazione dell’Esodo, nomi
che si ritrovano nell’onomastica ebraica, come primi nomi personali e come cognomi, fino ad
oggi. Nella tribù di Shimon (Simeone) troviamo uno Shaul (sarà il nome del primo re di
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Israele), definito figlio della canaanea (ben ha-kenaanit). E’ un particolare interessante
perché attesta il permanere di rapporti con abitanti di Canaan, oltre al fenomeno di
matrimoni misti. Troviamo un levita Livni, il cognome di Zipora, già ministro ed ora leader
dell’opposizione. Troviamo Amram, il padre di Mosè e Aronne (Miriam non è nominata
perché si parla dei capi delle famiglie, uomini), e sappiamo che visse 137 anni. Amram sposò
la propria zia, Jocheved, cosa più tardi proibita. Troviamo il nome della moglie di Aharon,
che si chiamava Elisheva, era figlia di Amminadav e sorella di Nachshon, e generò ad Aharon
quattro figli (non sappiamo delle figlie): Nadav, Avihu, Elazar e Itamar. I primi due
moriranno avvolti da una fiamma nell’accendere fuoci sacri in modo improprio. Il terzo,
Elazar, sposò una figlia di Putiel e con lei generò Pinchas, il severo sacerdote che ucciderà la
coppia mista ebreo-midianita di Zimri e Kotzbi, da Pinchas prende nome una parashah dei
Numeri, che si è illustrata alla fine dello scorso anno.
**
La haftarah è tratta dal libro del profeta Ezechiele, precisamente dalla fine del capitolo 28 e
dal capitolo 29. Il nesso è costituito dal monito che il profeta, per ricorsi della politica di
potenza egiziana, rivolge al faraone e al suo paese, raffigurandoli nell’immagine del grande
coccodrillo, coricato con spavalda sicurezza fra i canali, nell’atto di dire che il Nilo, scenario
ed emblema di forza, è una sua creatura, laddove nella concezione biblica la terra con tutti i
suoi paesaggi è del Signore che la concede agli uomini affinché ci vivano degnamente e ne
facciano buon uso.
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Ko amar Adonai
Hinneni alekha Parò melekh Mizraim
Hattanim ha gadol ha rovez betokh ieorav
Asher amar li ieorì vaanì asiteni
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Così dice il Signore
Eccomi a te (su di te per punirti), o Faraone, re di Egitto,
il grande coccodrillo
Che se ne sta coricato (come sdraiato) in mezzo ai suoi corsi d’acqua,
e che dice ‘a me è il fiume (mio è il fiume) e io lo ho fatto’
Ipotizzo che la parola tannim o tannin, che vuol dire coccodrillo si connetta al latino thynnus,
italiano tonno, avendo potuto originariamente il significato di un animale acquatico, poi
precisato in diverse lingue con riferimento a diversi animali acquatici. In ebraico tonno si
dice,a sua volta, tuna per probabile prestito dal greco tiunnos o dal latino. Col nome tonno si
indica peraltro diverse specie affini. Una può arrivare a pesare quattro quintali.
Shabbat Shalom,
Bruno Di Porto
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