Le guerre civili e la fine della repubblica

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Le guerre civili
Gaio Mario
La carriera di Gaio Mario generale e politico romano, per sette volte console della repubblica
romana, è particolarmente emblematica della situazione nella tarda repubblica, in quanto si sviluppa
attraverso fatti e circostanze che, in seguito, porteranno alla caduta della Repubblica romana. Le sue
vicende si intrecciano con quelle di Silla, che si porrà come suo antagonista nella trasformazione dello stato
romano.
Mario nacque come homo novus, cioè proveniente da una famiglia della provincia italiana che non
faceva parte della nobiltà romana, e seppe distinguersi e giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma
per merito della propria competenza militare. L'oligarchia dominante fu costretta, suo malgrado, a cooptarlo
nel proprio sistema di potere. A causa del verificarsi di una situazione di grande pericolo per la minaccia di
invasioni su larga scala, gli si dovette concedere un potere militare senza precedenti nella storia di Roma, e
questo a scapito del rispetto delle leggi e delle tradizioni vigenti, che dovettero essere adattate alla nuova
situazione di emergenza. Alla fine fu varata una profonda riforma della leva militare, che in passato
raccoglieva solamente proprietari terrieri, e che da allora fu aperta anche a cittadini provenienti dalle classi
dei nullatenenti. Nel lungo termine questa riforma ebbe l'effetto di cambiare in modo radicale e irreversibile
la natura dei rapporti fra l'esercito e lo stato.
Gaio Mario nacque nel 157 a.C. ad Arpino nel Lazio meridionale La città era stata conquistata dai
Romani alla fine del IV secolo a.C., ed aveva ricevuto la cittadinanza romana senza diritto di voto (civitas
sine suffragio). Soltanto nel 188 a.C. le vennero concessi i pieni diritti civili. Plutarco riferisce che il padre
era un manovale, ma la notizia non è confermata da altre fonti, e tutto lascia pensare che sia falsa. Infatti i
Marii avevano relazioni con ambienti della nobiltà romana, partecipavano da protagonisti alla vita politica
della piccola cittadina e appartenevano all'ordine equestre. Le difficoltà che incontrò agli esordi della sua
carriera a Roma dimostrano semmai quanto fosse arduo per un homo novus affermarsi nella società
romana del tempo.
Nel 134 a.C. Mario si distinse per le notevoli attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di
Numanzia, in Spagna, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione (in seguito soprannominato
Emiliano o Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di
Scipione, oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da
tempo cingeva d'assedio Numanzia. Sta di fatto che Mario parve fin dall'inizio molto interessato a far
carriera politica in Roma stessa. Infatti si candidò per la carica di tribuno militare. Lo storico Sallustio ci
informa che il suo nome era del tutto sconosciuto agli elettori, ma che alla fine i rappresentanti delle tribù lo
elessero per merito del suo eccellente stato di servizio e su raccomandazione di Scipione Emiliano.
Successivamente si ha notizia di una sua candidatura alla carica di questore ad Arpino. È probabile che egli
utilizzasse le posizioni di comando ad Arpino per raccogliere dietro di sé un consistente numero di clienti su
cui fare affidamento per le successive mosse che aveva in animo di compiere. Tuttavia sono solo
congetture in quanto nulla si conosce della sua attività come questore.
Nel 120 a.C. Mario fu eletto tribuno della plebe per il 119 a.C.. A quanto sembra si era già candidato
alla carica nel 121 a.C., ma senza successo. Un ruolo determinante ebbe, nell'occasione, il sostegno della
potente famiglia dei Cecilii Metelli, verso i quali probabilmente aveva un rapporto di clientela. Durante il suo
tribunato Mario perseguì una linea vicina alla fazione dei popolari, facendo in modo che venisse approvata,
fra l'altro, una legge che limitava l'influenza delle persone di censo elevato nelle elezioni. Negli anni intorno
al 130 a.C. si era introdotto il metodo del ballottaggio scritto nelle elezioni per le nomine dei magistrati, per
l'approvazione delle leggi e per l'emanazione delle sentenze legali, in sostituzione del metodo tradizionale
di votazione orale. Poiché i nobiles cercavano sistematicamente di influenzare l'esito dei ballottaggi con la
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minaccia di controlli ed ispezioni, Mario fece approvare un'apposita legge per far costruire uno stretto
corridoio da cui i votanti dovevano passare per depositare il proprio voto nell'urna al riparo dagli sguardi
indiscreti degli astanti. In conseguenza di ciò Mario si alienò la potente famiglia dei Metelli, che da quel
momento in poi diventarono suoi fieri oppositori.
Successivamente Mario si candidò per la carica di edile plebeo, ma senza successo. Nel 116 a.C.
riuscì, di stretta misura, a farsi eleggere pretore per l'anno successivo e fu immediatamente accusato di
brogli elettorali (ambitus.) Riuscito a malapena a farsi assolvere da questa accusa, esercitò la carica senza
che si verificassero avvenimenti degni di particolare menzione. Terminato il mandato ricevette il
governatorato della Hispania Ulterior, dove fu necessario intraprendere alcune campagne militari contro le
popolazioni celtiberiche mai del tutto sottomesse. Il governatorato e le guerre gli fruttarono ingenti ricchezze
personali, come sempre accadeva ai comandanti romani.
Le vittorie ottenute gli permisero, tornato a Roma, di richiedere ed ottenere il trionfo. La carriera di
Mario tuttavia non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C.. In quell'anno gli fu proposto un
matrimonio con una giovane esponente della aristocrazia, Giulia Maggiore, figlia del senatore Caio Giulio
Cesare (futura zia di Giulio Cesare). Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania. La gens Iulia
era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e
a Venere), ma, nonostante ciò, i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a
ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era
stato console). Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede a
Mario la legittimità per candidarsi al consolato. Il figlio che ne nacque, Caio Mario il giovane, vide la luce nel
109 (o 108) a.C., quindi il matrimonio probabilmente fu contratto nel 110 a.C. .
Come abbiamo visto, la famiglia di Mario era per tradizione cliente dei Metelli, e Cecilio Metello
aveva appoggiato la campagna elettorale di Mario per il tribunato. Sebbene i rapporti con i Metelli si fossero
in seguito deteriorati, la rottura non dovette essere definitiva, tanto è vero che Q. Cecilio Metello, console
nel 109 a.C., prese con sé Mario come suo legato nella campagna militare contro Giugurta, re della
Numidia. I legati erano originariamente semplici rappresentanti del Senato, ma, gradualmente, era invalso
l'uso di adibirli a compiti di comando alle dipendenze dei comandanti generali. Quindi, molto probabilmente,
Metello ottenne che il Senato nominasse Mario legato, in modo che potesse servire alle sue dipendenze
nella spedizione che si accingeva a compiere in Numidia. Questo rapporto conveniva ad entrambi, in
quanto, mentre Metello si avvantaggiava dell'esperienza militare di Mario, questi rafforzava le sue
possibilità di aspirare in seguito al consolato. Va osservato che, se la gravità della rottura con Metello del
119 a.C., alla luce di quanto avvenne in seguito, fu probabilmente riferita in modo esagerato, quella che si
determinò riguardo alla condotta della guerra in Numidia fu invece molto più seria e foriera di conseguenze.
Nel 107 a.C. Mario si convinse che i tempi erano maturi per candidarsi alla carica di console. A
quanto pare chiese a Metello il permesso di recarsi a Roma per portare a termine il proprio proposito, ma
Metello gli raccomandò di astenersi, e probabilmente gli consigliò di aspettare il tempo necessario per
potersi candidare insieme al figlio ventenne dello stesso Metello, cosa che avrebbe rimandato tutto di
almeno venti anni. Mario fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma nel frattempo, durante tutta
l'estate del 107, fece in modo di guadagnarsi il favore della truppa, allentando notevolmente la rigida
disciplina militare, e di accattivarsi anche i commercianti italici del posto, ansiosi di intraprendere i propri
lucrosi traffici, assicurando a tutti che, se avesse avuto mano libera, avrebbe potuto, in pochi giorni e con la
metà delle forze a disposizione di Metello, concludere vittoriosamente la campagna con la cattura di
Giugurta. Entrambi questi influenti gruppi si affrettarono a inviare a Roma messaggi in appoggio di Mario,
con cui si suggeriva di affidargli il comando, e si criticava Metello per il modo lento e inconcludente con cui
stava conducendo la campagna militare. In effetti la strategia di Metello prevedeva una lenta, metodica e
capillare sottomissione di tutto il territorio. Alla fine Metello dovette cedere, rendendosi conto, a ragione, che
non gli conveniva mettersi contro un subordinato tanto influente e vendicativo.
In queste circostanze è facile immaginare il modo trionfale con cui Mario, alla fine del 108, fu eletto
console per l'anno successivo. La sua campagna elettorale fece leva sull'accusa, rivolta a Metello, di scarsa
risolutezza nel condurre la guerra contro Giugurta. Viste le ripetute sconfitte militari subite negli anni fra il
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113 e il 109, nonché le accuse di spudorata corruzione rivolte a molti esponenti dell'oligarchia dominante, è
facile comprendere come l'onesto uomo fattosi da sé, e affermatosi percorrendo faticosamente tutti i gradini
della carriera, fu eletto a furor di popolo, essendo visto come l'unica alternativa ad una nobiltà divenuta
corrotta e incapace. Tuttavia il Senato aveva ancora un asso nella manica. Infatti la lex Sempronia stabiliva
che il Senato aveva facoltà di decidere ogni anno quali province dovessero essere affidate ai consoli per
l'anno successivo. Alla fine dell'anno, e appena prima delle elezioni, il Senato decise di sospendere le
operazioni contro Giugurta e di prorogare a Metello il comando in Numidia. Mario non si perse d'animo e si
servì di un espediente già sperimentato nell'anno 131 a.C. In quell'anno si era stati infatti in disaccordo su
chi avrebbe dovuto comandare la guerra contro Aristonico in Asia, e un tribuno aveva fatto approvare una
legge che autorizzava un'apposita elezione per decidere a chi affidare il comando. Mario fece approvare
una legge simile anche in quell'anno (108 a.C.), risultando eletto a grande maggioranza. Metello ne fu
profondamente offeso, tanto che, al suo ritorno, non volle nemmeno incontrarsi con Mario, dovendosi
accontentare del trionfo e del titolo di Numidico che gli vennero generosamente concessi.
Mario aveva un estremo bisogno di raccogliere truppe fresche e, a questo scopo, introdusse una
profonda riforma del sistema di reclutamento, foriera di conseguenze di un'importanza di cui lui stesso, al
momento, probabilmente non comprese la portata. Tutte le riforme agrarie attuate dai Gracchi si basavano
sul tradizionale principio secondo cui erano esclusi dal servizio di leva i cittadini il cui reddito era inferiore a
quello stabilito per la quinta classe di censo. I Gracchi, con le loro riforme, avevano cercato di favorire i
piccoli proprietari terrieri, che da sempre avevano costituito il nerbo degli eserciti romani, in modo da fare
aumentare il numero di quelli che avevano i requisiti per essere arruolati. Nonostante i loro sforzi, tuttavia,
la riforma agraria non risolse la crisi del sistema di arruolamento, che aveva avuto lontana origine dalle
sanguinose guerre puniche del secolo precedente. Si cercò quindi di trovare una soluzione semplicemente
abbassando la soglia minima di reddito per appartenere alla quinta classe da 11.000 a 3.000 sesterzi, ma
nemmeno questo fu sufficiente, tanto che già nel 109 a.C. i consoli erano stati costretti a derogare dalle
restrizioni sugli arruolamenti imposte dalle leggi graccane. Nel 107 a.C. Mario ruppe ogni indugio e decise
di arruolare senza alcuna restrizione riguardo al censo e alle proprietà fondiarie del potenziale soldato.
D'ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro, al
termine del servizio, dipendeva unicamente dai successi conseguiti dal proprio generale, che era solito loro
assegnare parte delle terre frutto delle vittorie riportate. Di conseguenza i soldati avevano il massimo
interesse ad appoggiare il proprio comandante, anche quando si scontrava con i voleri del senato,
composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante, ed anche quando andava contro il pubblico
interesse, che, a quell'epoca, veniva di fatto impersonato dal Senato stesso. Va notato che Mario, persona
fondamentalmente corretta e fedele alle tradizioni, non si avvalse mai di questa potenziale enorme fonte di
potere, cosa che invece fece dopo vent'anni il suo ex questore Silla.
Ben presto Mario si rese conto che concludere la guerra non era così facile come egli stesso si era in
precedenza vantato di poter fare. Dopo essere sbarcato in Africa verso la fine del 107 a.C. costrinse
Giugurta a ritirarsi in direzione Sud-Ovest verso la Mauritania. Nel 107 suo questore era stato nominato
Lucio Cornelio Silla, rampollo di una nobile famiglia patrizia caduta economicamente in disgrazia. A quanto
pare Mario non fu contento di avere alle proprie dipendenze un simile giovane dissoluto, ma,
inaspettatamente, Silla dimostrò sul campo di possedere grandi qualità di comandante militare. Nel 105
a.C. Bocco, re di Mauritania e suocero di Giugurta, nonché suo riluttante alleato, si trovò di fronte l'esercito
romano in avanzata. I romani gli fecero sapere di essere disponibili ad una pace separata e Bocco invitò
Silla nella sua capitale per condurvi le trattative. Anche in questa circostanza Silla si dimostrò
particolarmente abile e coraggioso; in effetti, Bocco rimase a lungo dubbioso se consegnare Silla a
Giugurta oppure, come poi avvenne, Giugurta a Silla. Alla fine, Bocco fu convinto a tradire Giugurta, che fu
subito consegnato nelle mani dello stesso Silla. La guerra era così conclusa. Poiché Mario era il
comandante dotato di imperium e Silla militava alle sue dirette dipendenze, l'onore della cattura di Giugurta
spettava interamente a Mario, ma era chiaro che gran parte del merito andava riconosciuto personalmente
a Silla, tanto che gli fu consegnato un anello con un sigillo commemorativo dell'evento. Al momento la cosa
non fece particolarmente scalpore, ma in seguito Silla si vanterà di essere stato il vero artefice della
conclusione vittoriosa della guerra. Mario, intanto, si guadagnava fama di eroe del momento. Il suo valore
stava per essere messo alla prova da un'altra grave emergenza che incombeva su Roma e sull'Italia.
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L'arrivo in Gallia del popolo dei Cimbri e la vittoria da loro conseguita su Marco Giunio Silano, il cui
esercito fu totalmente annientato, aveva provocato un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che
erano state di recente assoggettate dai romani nella parte meridionale del paese. Nel 107 a.C. il console
Lucio Cassio Longino venne completamente sconfitto da una tribù locale, e l'ufficiale di grado più elevato
fra quelli sopravvissuti (Gaio Popilio Lenate), figlio del console dell'anno 132, riuscì a mettere in salvo
quanto restava delle forze romane solo dopo aver ceduto metà degli equipaggiamenti ed aver subito
l'umiliazione di far marciare il proprio esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori. L'anno
successivo (106 a.C.) un altro console, Quinto Servilio Cepione, marciò contro le tribù stanziate nella zona
di Tolosa, che si erano ribellate a Roma, e si impossessò di un'enorme somma di denaro custodita nei
santuari dei templi. La maggior parte di questo tesoro sparì misteriosamente durante il trasporto verso
Massilia (l'odierna Marsiglia) e, molto probabilmente, fu lo stesso Cepione che ordinò il finto furto per
impossessarsi dell'oro. Cepione fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, mentre uno dei
nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo, si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale. Al pari di Mario,
anche Mallio era un uomo nuovo, e la collaborazione fra lui e Cepione si dimostrò subito impossibile.
I Cimbri e i Teutoni erano entrambi composti da tribù di ceppo germanico che, nel corso delle proprie
migrazioni, erano apparse sul corso del fiume Rodano proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella
stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di
venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli
aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia egli si rifiutò di unire le forze dei due eserciti, e si
mantenne a debita distanza dal collega. I Germani approfittarono della situazione e, dopo aver sbaragliato
Cepione, distrussero anche l'esercito di Mallio il 6 ottobre del 105 a.C. presso la città di Arausio. I Romani
dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata, e, stando alle cronache, furono
uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi,
ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più
capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano
state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde barbariche. Il malcontento del
popolo contro l'oligarchia aveva raggiunto ormai l'esasperazione.
Nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa, Mario fu rieletto console. L'elezione in
absentia era una cosa abbastanza rara, e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C. imponeva un
intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre una del 135 a.C. sembra che proibisse
addirittura che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia
incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine, e Mario, ritenuto il più abile
comandante disponibile, fu rieletto console per 5 ben volte consecutive (dal 104 al 100 a.C.), cosa mai
avvenuta in precedenza. Al suo ritorno a Roma, il 1 febbraio 104 a.C., vi celebrò il trionfo su Giugurta, che
fu prima portato come un trofeo in processione, e infine giustiziato in carcere. Nel frattempo i Cimbri si
erano diretti verso la Spagna, mentre i Teutoni vagavano senza una meta precisa nella Gallia
settentrionale, lasciando a Mario il tempo di approntare il proprio esercito, curandone in modo molto attento
l'addestramento e la disciplina. Uno dei suoi legati era ancora L. Cornelio Silla, e questo dimostra che in
quel momento i rapporti fra i due non si erano ancora deteriorati. Sebbene avesse potuto continuare a
comandare l'esercito in qualità di proconsole, Mario preferì farsi rieleggere console fino all'anno 100, in
quanto questa posizione lo metteva al riparo da eventuali attacchi di altri consoli in carica. L'influenza di
Mario divenne in quel periodo talmente grande che era addirittura in grado di influenzare la scelta dei
consoli che in ogni anno dovevano essere eletti insieme a lui, e pare che egli facesse in modo che
venissero scelti quelli che riteneva più malleabili. Nel 103 a.C. i Germani indugiavano ancora nelle proprie
scorribande in Spagna ed in Gallia, e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio
Oreste, consentì a Mario, che stava già marciando verso nord, di rientrare a Roma per venirvi confermato
console per l'anno 102, insieme ad un nuovo collega.
Nel 102 a.C. i Cimbri dalla Spagna tornarono in Gallia, e, insieme ai Teutoni, decisero di invadere
l'Italia. Questi ultimi avrebbero dovuto puntare a Sud dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i
Cimbri dovevano penetrare nell' Italia settentrionale da Nord-Est attraversando il passo del Brennero. Infine
i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107 pensavano di attraversare le Alpi
provenendo da Nord-Ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata
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fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la
possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta
in volta necessario.
Nel frattempo Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata. I soldati erano stati
sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, ed erano abituati a sopportare senza
lamentarsi le fatiche delle lunghe marce di avvicinamento, dell'allestimento degli accampamenti e delle
macchine da guerra. Dapprima decise di affrontare i Teutoni, che si trovavano in quel momento nella
provincia della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi. In un primo momento rifiutò lo
scontro, preferendo arretrare fino ad Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence), un insediamento fondato da
Gaio Sestio Calvo, console nel 109 a.C., in modo da sbarrare loro il cammino. Alcuni contingenti di
Ambroni, avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni
romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, e 30.000 di essi rimasero uccisi. Mario schierò poi un
contingente di 30.000 uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Germani, che presi alle
spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini; quasi altrettanti
ne furono catturati.
Il collega di Mario Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non ebbe altrettanta fortuna, non
riuscendo a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero avanzando nell'Italia settentrionale
verso il finire del 102 a.C. Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove fu rieletto console per
l'anno 101 a.C. Il senato gli accordò il trionfo ma lui rifiutò perché ne voleva fare partecipe anche l'esercito,
quindi lo posticipò ad una vittoria contro i Cimbri. Immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con
Catulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101. Infine, nell'estate di quell'anno, a Vercelli, nella Gallia
Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo. Ancora una volta la
ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei barbari, e almeno 65.000 di loro (o forse
100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tigurini, a questo punto,
rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle proprie sedi. Catulo e
Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma, nell'opinione popolare, tutto il
merito venne attribuito a Mario. In seguito Catulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più
acerrimi rivali. Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Mario venne rieletto
console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi.
Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino richiese con forza che si
varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per
l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato
di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo
scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come
console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo
interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a
questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente.
Durante gli anni di assenza di Mario da Roma, e subito dopo il suo ritorno, Roma conobbe alcuni
anni di relativa tranquillità. Nel 95 a.C., tuttavia, venne approvata una legge che decretava che tutti coloro
che non fossero cittadini romani, cioè coloro che provenivano da altre città italiche dovessero essere
espulsi da Roma. Nel 91 a.C. Marco Livio Druso fu eletto tribuno e propose una grande distribuzione di
terre appartenenti allo Stato, l'allargamento del senato e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli
uomini liberi di tutte le città italiche. Il successivo assassinio di Druso provocò l'immediata insurrezione delle
città-stato italiche contro Roma, e la Guerra Sociale degli anni 91 a.C. - 88 a.C. Mario fu chiamato ad
assumere, insieme a Silla, il comando degli eserciti chiamati a sedare la pericolosa rivolta.
Le guerre mitridatiche
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Finita la guerra in Italia si aprì un nuovo fronte in Asia, dove Mitridate, re del Ponto, nel tentativo di
allargare verso occidente i confini del suo regno, invase la Grecia. Posto di fronte alla scelta se affidare il
comando dell'inevitabile guerra contro Mitridate a Silla o Mario, il Senato, in un primo momento, scelse
Silla. In seguito, tuttavia, quando il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, appoggiato da Mario cercò di
far passare una legge per distribuire gli alleati italici nelle tribù cittadine, in modo da influenzare con il loro
voto i comizi ne nacque uno scontro nel quale il figlio del console Quinto Pompeo Rufo trovò la morte. Silla
sfuggito alla confusione si rifugiò nella casa dello stesso Mario. Intanto la legge venne approvata e le tribù
che adesso contenevano anche i nuovi cittadini fecero passare una legge secondo la quale veniva affidata
a Mario la guerra contro Mitridate. Intanto Silla raggiunse l'esercito a Nola e Mario fece mandare due tribuni
per portare l'esercito a Roma. Ma l'esercito uccise i tribuni e Silla fece marciare l'esercito su Roma. Mario
all'arrivo di Silla abbandonò precipitosamente Roma, rifugiandosi in esilio. Gneo Ottavio e Lucio Cornelio
Cinna furono eletti consoli nell'87 a.C., mentre Silla, nominato proconsole, si mise in marcia verso oriente
con l'esercito.
Mentre Silla conduceva la sua campagna militare in Grecia, a Roma il confronto fra la fazione
conservatrice di Ottavio, rimasto fedele a Silla, e quella popolare e radicale di Cinna si inasprì sfociando in
aperto scontro. A questo punto, nel tentativo di avere la meglio su Ottavio, Mario, insieme al figlio, rientrò
dall'Africa con un esercito ivi raccolto e unì le proprie forze a quelle di Cinna, che aveva radunato truppe
filomariane ancora impegnate in Campania contro gli ultimi socii ribelli. Gli eserciti alleati entrarono in
Roma, di modo che Cinna fu eletto console per la seconda volta e Mario per la settima. Seguì una feroce
repressione contro gli esponenti del partito conservatore: Silla fu proscritto, le sue case distrutte e i suoi
beni confiscati. Nel primo mese del suo mandato, tuttavia, all'età di 71 anni, Mario morì.
Cinna fu in seguito rieletto console per altre due volte, per poi morire, vittima di un ammutinamento,
mentre si dirigeva con l'esercito verso la Grecia. L'armata di Silla, dopo aver concluso vittoriosamente la
campagna nel Ponto, rientrò in Italia sbarcando a Brindisi nell'83 a.C., e sconfisse il figlio di Mario, Gaio
Mario il giovane che morì in combattimento a Preneste, alle porte di Roma. Gaio Giulio Cesare, nipote della
moglie di Mario, sposò una delle figlie di Cinna. Dopo il ritorno di Silla a Roma si instaurò un regime di
restaurazione che perpetrò le più feroci repressioni, tanto che Giulio Cesare fu costretto a fuggire in Cilicia,
dove rimase fino alla morte di Silla nel 78 a.C.
Nell'88 a.C., quando fu dichiarato nemico pubblico da Silla e fu costretto a fuggire da Roma, Mario si
rifugio' tra le paludi di Minturnae. I magistrati locali decretarono la sua morte per mano di uno schiavo
cimbro il quale, tuttavia, mosso a compassione o intimorito non diede corso alla esecuzione.
Silla
Silla apparteneva ad un ramo povero della gens dei Cornelii, famiglia di antichissima origine patrizia,
ma in quell'epoca senza alcuna influenza nella vita politica della città. Conosceva molto bene le lettere
latine e greche. Aveva un animo grande, era cordiale nell'amicizia, era astuto e aveva l'abilità di
nascondere deliberatamente i suoi pensieri. Nei rapporti coniugali non era stato molto onesto giacché
aveva già tradito sua moglie Giulia. Amava la gloria e i piaceri ma questo non lo distoglieva dai doveri civili.
Infine sapeva elargire i beni e soprattutto il denaro. Completamente privo di mezzi economici, Silla
trascorse gli anni della gioventù ai margini dei circoli politicamente più influenti di Roma. In che modo il
giovane si procurò le risorse economiche per poter essere ammesso nel rango senatorio non è dato
sapere, sebbene alcune fonti facciano allusione all'eredità di un'anziana prostituta d'alto bordo dalla quale
s'era fatto mantenere fino ad oltre i trent'anni. Nel 107 a.C. Silla fu nominato questore di Gaio Mario, del
quale era cognato avendo sposato la sorella minore della moglie di Mario, Giulia, nel periodo in cui questi
stava assumendo il comando della spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia. Del ruolo giocato
da Silla in questo conflitto si è già detto. La fama che gliene derivò gli servì da trampolino di lancio per la
carriera politica, ma provocò il risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti. Nonostante ciò Silla
continuò a servire nello stato maggiore di Mario per tutta la durata della difficile campagna condotta in
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Gallia contro le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni (104 – 103 a.C.). Silla si distinse anche in questa
occasione, aiutando il console Quinto Lutazio Catulo, rivale di Mario, a sconfiggere i Cimbri nella Battaglia
dei Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101 a.C. Al suo ritorno a Roma, Silla riuscì a farsi eleggere pretore
urbano, e i suoi avversari non mancarono di accusarlo di aver corrotto all'uopo molti degli elettori. In seguito
fu assegnato al governo della Cilicia, regione situata nell'odierna Turchia.
Nel 92 a.C. si assistette ad un avvenimento storico per quell'epoca. La Repubblica romana ed il
grande Impero dei Parti vennero a contatto in modo del tutto pacifico. Una delegazione inviata dal sovrano
parto, Mitridate II, si incontrò sulle rive dell'Eufrate con il pretore Lucio Cornelio Silla, governatore della
nuova provincia di Cilicia.
Nel 92 a.C., Silla incontrò un satrapo dei Parti: questo primo incontro fissò sull'Eufrate il confine tra i
due imperi. Al termine del 92 a.C. Silla lasciò il Medio Oriente e rientrò a Roma, dove si unì al partito degli
oppositori di Gaio Mario. In quegli anni la Guerra Sociale (91-88 a.C.) era al suo culmine. L'aristocrazia
romana si sentiva minacciata dalle ambizioni di Mario che, vicino alle posizioni del partito popolare, aveva
già conseguito il consolato per 5 anni di seguito, dal 104 a.C. al 100 a.C. Nella repressione di quest'ultimo
moto di ribellione delle popolazioni italiche alleate di Roma, Silla si mise particolarmente in luce come
brillante e geniale stratega, eclissando sia Mario che l'altro console Gneo Pompeo Strabone (padre di Gneo
Pompeo Magno). Una delle sue imprese più famose fu la cattura di Aeclanum, capitale degli Irpini, ottenuta
incendiando il muro di legno che difendeva la città assediata. Come conseguenza, nell'88 a.C., ottenne per
la prima volta il consolato, insieme a Quinto Pompeo Rufo.
Assunta la carica, Silla poco dopo assunse l'incarico dal Senato di governare la provincia d'Asia, per
compiervi una nuova spedizione in Oriente e combattervi quella che poi sarebbe stata denominata la prima
guerra mitridatica. Si lasciò tuttavia alle spalle, a Roma, una situazione assai turbolenta. Mario era ormai
vecchio, ma nonostante ciò, aveva ancora l'ambizione di essere lui, e non Silla, a guidare l'esercito romano
contro il re del Ponto Mitridate VI e, per ottenere l'incarico, convinse il tribuno della plebe Publio Sulpicio
Rufo a fare approvare una legge che sottraeva a Silla il comando, già formalmente conferito, della guerra
contro Mitridate e lo attribuiva a Mario. Appresa la notizia Silla, accampato in quel momento nell'Italia
meridionale in attesa di imbarcarsi per la Grecia, scelse le 6 legioni a lui più fedeli e, alla loro testa, si
diresse verso Roma stessa. Nessun generale, in precedenza, aveva mai osato violare con l'esercito il
perimetro della città. La cosa era talmente contraria alle tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal
parteciparvi. Spaventati da tanta risolutezza, Mario ed i suoi seguaci fuggirono dalla città. Dopo avere preso
una serie di provvedimenti per ristabilire la centralità del Senato come guida della politica romana, Silla
lasciò di nuovo Roma, per intraprendere la guerra contro Mitridate.
Approfittando dell'assenza di Silla, sul finire dell'87 a.C. Mario riuscì a riprendere il controllo della
situazione. Con il sostegno del console Lucio Cornelio Cinna (suocero di Gaio Giulio Cesare), ottenne che
tutte le riforme e le leggi emanate da Silla fossero dichiarate prive di validità e che lo stesso Silla fosse
ufficialmente dichiarato "nemico pubblico" e costretto perciò all'esilio. Insieme, Mario e Cinna eliminarono
fisicamente un gran numero di sostenitori di Silla, e furono eletti consoli per l'anno 86 a.C. Mario morì pochi
giorni dopo l'elezione e Lucio Valerio Flacco fu nominato console suffectus al suo posto, mentre Cinna
rimase a dominare incontrastato la politica romana, essendo rieletto console negli anni successivi.
Nel frattempo Silla si era recato in Grecia, dove portò alla caduta Atene nel marzo dell'86 a.C.. Il
generale romano vendicò quindi l'eccidio asiatico di Mitridate, compiuto su Italici e cittadini romani,
compiendo un'autentica strage nella capitale achea. Silla proibì, invece, l'incendio della città, ma permise ai
suoi legionari di saccheggiarla. Il giorno seguente il comandante romano vendette il resto della popolazione
come schiavi. Catturato Aristione, chiese alla città come risarcimento del danno di guerra, circa venti chili di
oro e 600 libbre d'argento, prelevandole dal tesoro dell'Acropoli.
Poco dopo fu la volta del porto di Atene del Pireo. Da qui Archelao decise di fuggire in Tessaglia,
attraverso la Beozia, dove portò ciò che era rimasto della sua iniziale armata, radunandosi presso le
Termopili con quella del generale di origine tracia, Dromichete.
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Con l'arrivo di Silla in Grecia nell'87 a.C. le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a
favore dei Romani. Espugnata quindi Atene ed il Pireo, il comandante romano ottenne due successi
determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, ed infine ad Orcomeno.
Contemporaneamente, agli inizi dell'85 a.C., il prefetto della cavalleria, Flavio Fimbria, dopo aver
ucciso il proprio proconsole, Lucio Valerio Flacco, a Nicomedia prese il comando di un secondo esercito
romano. Quest'ultimo si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte
vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo,e poco mancò che non riuscisse
a far prigioniero lo stesso re. Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua
strada gli si erano opposti.
Quando Mitridate seppe della sconfitta ad Orcomeno, rifletté sull'immenso numero di armati che
aveva mandato in Grecia fin dal principio, e il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza
di ciò, decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori condizioni possibili.
Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono
per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi da tutti i domini antecedenti la guerra, ma
ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato "amico del popolo romano". Un espediente per
Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana.
Quando fu raggiunto dalla notizia della morte di Cinna, nell'84 a.C., lasciò l'Oriente e si mise in
marcia verso Roma, ottenendo l'appoggio, tra gli altri, del giovane Gneo Pompeo Magno, destinato a
diventare di l’ a poco una figura di primo piano nella politica romana. Dopo un periodo iniziale di stasi delle
operazioni militari, nel novembre dell'82 a.C. l'armata di Silla sconfisse le forze consolari al comando di
Gneo Papirio Carbone nella Battaglia di Porta Collina. L'esito di questa battaglia fu determinato in modo
risolutivo dal sostegno del futuro triumviro Marco Licinio Crasso. Subito dopo la battaglia, essendo morti
entrambi i consoli, Silla fu nominato dittatore a tempo indeterminato: i suoi poteri comprendevano il diritto di
vita e di morte, la possibilità di presentare leggi, di effettuare confische, di fondare città e colonie, di
scegliere i magistrati. Fu sulla base di questi poteri che Silla realizzò un'articolata serie di riforme che
dovevano, nelle sue intenzioni, risolvere la crisi in cui si dibatteva da decenni lo stato romano. Silla depose
poi la dittatura nel corso dell'81.
Divenuto padrone assoluto della città, Silla instaurò un vero e proprio regno del terrore, mettendo al
bando e dichiarando fuori legge (prima proscrizione) tutti gli oppositori politici, offrendo ricompense a chi li
avesse uccisi. I più colpiti furono i cavalieri, che erano sempre stati ostili a Silla: ne furono uccisi 2.600 e i
loro beni, messi all'asta a prezzi irrisori, finirono nelle tasche dei Sillani. Il giovane Caio Giulio Cesare, come
genero di Cinna, fu costretto ad abbandonare precipitosamente la città, ma ebbe salva la vita grazie
all'intercessione di alcuni amici influenti. Silla annotò poi nelle proprie memorie di essersi pentito di averlo
risparmiato, viste le ben note ambizioni politiche del giovane.
Ormai virtualmente senza opposizioni, Silla attuò una serie di riforme tese a mettere il controllo dello
stato saldamente nelle mani del Senato, allargato per l'occasione da 300 a 600 senatori. La nomina a
senatore fu resa, inoltre, automatica al raggiungimento della carica di questore, mentre prima era
demandata alla scelta dei censori. Per evitare l'accumulo di poteri si stabilì un limite minimo di età per le
varie magistrature: trent'anni per i questori, quaranta per i pretori, ecc. Il potere dei tribuni della plebe fu
inoltre fortemente ridimensionato: le loro proposte dovevano essere approvate preventivamente dal Senato
e il loro diritto di veto limitato. Il potere giudiziario fu restituito al Senato, sia per i reati più gravi sia per le
cause di corruzione che la riforma graccana aveva demandato ai cavalieri. In definitiva tutte le sue azioni
erano animate dall'intento di restituire al partito aristocratico il controllo della città. Introdusse inoltre la legge
per cui i vincitori di riconoscimenti quali le corone militari di grado pari o superiore alla civica sarebbero stati
ammessi di diritto in senato indipendentemente dall'età, questo fu il motivo per cui Caio Giulio Cesare all'età
di vent'anni ebbe accesso al Senato.
Nella sua veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta nell'80 a.C.
Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un suo liberto fu denunciato in un
processo, e sconfitto grazie alle arringhe del giovane Marco Tullio Cicerone. Silla, sorprendendo tutti, l'anno
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successivo decise di abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con l'intento di
accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni.
I problemi politici e sociali che avevano portato alla guerra civile non erano però affatto risolti. Silla
aveva ristabilito l'ordine oligarchico in virtù della forza derivatagli dagli eserciti, al cui appoggio ricorreranno
sia i sostenitori che gli avversari del nuovo corso da lui instaurato. Da Silla in poi la vita politica e civile dello
Stato sarà condizionata dall'elemento militare: disporre di un esercito da usare contro gli avversari, e se il
caso contro le istituzioni, divenne l'obiettivo principale dei più ambiziosi capi politici che aspiravano al
potere. Il sistema costituzionale romano uscì distrutto dalla guerra civile. E l'esempio di Silla trovò presto un
imitatore d'eccezione proprio in un uomo che aveva idee opposte alle sue: Giulio Cesare.
Pompeo Magno
Pompeo Magno era figlio di Gneo Pompeo Strabone, un uomo estremamente ricco proveniente dal
Piceno. Questo ramo della famiglia dei Pompei era tradizionalmente rurale, il che lo sottoponeva
inevitabilmente ai pregiudizi della élite cittadina. La sua famiglia aveva raggiunto il consolato per la prima
volta solo 35 anni prima. Di conseguenza aveva un lignaggio rispettabile ma di recente nobiltà, un leggero
neo che lo segnò durante tutto la sua competizione politica con i più potenti patrizi di Roma.
Pompeo Strabone, era stato un importante generale ed il primo della famiglia a diventare senatore,
essendo stato eletto l'89 a.C.. Il figlio Pompeo crebbe negli accampamenti militari, coinvolto con l'esercito e
gli affari politici. Strabone aveva combattuto prima con Gaio Mario, poi con Lucio Cornelio Silla nelle guerre
civili dell'88-87 a.C.. A 17 anni, Pompeo era oramai completamente coinvolto nelle guerre di suo padre.
Inoltre aveva un suo protetto, un giovane ufficiale suo coetaneo, Marco Tullio Cicerone. Secondo Plutarco,
favorevole a Pompeo, era un giovane popolare, considerato un po' simile ad Alessandro Magno.
Strabone morì nei conflitti tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, lasciando al giovane Pompeo il
controllo dei suoi affari e della sua fortuna. Malgrado la sua gioventù, Pompeo fu al fianco di Silla dopo il
suo ritorno dalla seconda guerra mitridatica (83 a.C.). A Roma, Silla prevedeva difficoltà con Lucio Cornelio
Cinna e trovò assai utili tanto il giovane ventitreenne che le tre legioni di veterani del padre di questi.
Questa alleanza politica accelerò la carriera di Pompeo a Roma. Silla, ora dittatore, con il controllo assoluto
della città, forzò il divorzio dal marito di Emilia Scaura, la figliastra incinta per farle sposare il suo giovane
alleato. Pompeo. da parte sua, era semplicemente felice di divorziare da Antistia, una matrona di origine
plebea e di prendere la patrizia Emilia.
Il giovane Pompeo era ora in un'ottima posizione nei ranghi di Silla, nondimeno lontano dal suo
consiglio privato. Durante le campagne di Silla attraverso l'Italia, Pompeo incontrò due individui che
avrebbero entrambi modellato il futuro suo e di Roma: Marco Licinio Crasso e Gaio Giulio Cesare. Pompeo
venne a contatto con Crasso nell'esercito. Come Pompeo, era stato lasciato con una piccola fortuna e con
la forza militare di suo padre ed aveva parteggiato per Silla. I due avrebbero sviluppato una rivalità che
sarebbe durata negli anni a venire. Pompeo incontrò per la prima volta Cesare quando Silla portò Cesare
davanti a lui e chiese a Cesare di divorziare da sua moglie Cornelia, la figlia di Cinna. Quando Cesare
rifiutò, Silla lo perdonò. Quando Pompeo encomiò l'azione, Silla rispose dicendo che desiderava lasciare
alcuni nemici vivi per le avventure successive. Pompeo vide Cesare così non tanto come un nemico, ma
come un ostacolo rispettato.
Anche se la sua età giovane lo faceva essere privatus (un uomo che non deteneva una carica
politica del cursus honorum o connessa ad esso), Pompeo era un uomo molto ricco e un generale di talento
con il controllo di tre legioni di veterani. Inoltre, era ambizioso di gloria e potere. Felice di recepire i desideri
del genero e di riordinare la sua situazione come dittatore, Silla inviò Pompeo in Sicilia per recuperare dai
Mariani l'isola strategicamente molto importante, poiché produceva la maggior parte del grano per Roma;
senza di questo la popolazione dell'Urbe avrebbe sofferto la fame e ci sarebbero certamente state delle
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sommosse. Pompeo si occupò della resistenza con mano dura e i cittadini protestarono per i suoi metodi,
senza esito.
Scacciò le forze avversarie dalla Sicilia, mettendo a morte Gneo Carbone, e poi andò in Africa, in cui
continuò la sua serie ininterrotta di vittorie nel 82-81 a.C. Il suo sterminio spietato delle forze avversarie
generò un odio amaro fra i mariani sopravvissuti. Proclamato sul campo imperator dalle sue truppe in
Africa, Pompeo richiese un trionfo per le sue vittorie africane. Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni e si
presentò con la sua richiesta alle porte di Roma dove, sorprendentemente, Silla consentì ad assegnargli il
trionfo.
La reputazione di Pompeo genio militare, e gli occasionali giudizi negativi, continuarono quando
richiese l'imperium proconsulare (anche se non aveva ancora ricoperto la carica di console) per andare in
Spagna e combattere contro Sertorio, un generale mariano che continuava a governare la Spagna.
Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni fino a che la sua richiesta non fu accettata e si unì con Metello Pio
contro Sertorio. La campagna contro la brillante guerriglia del generale durò dal 76 a.C. al 71 a.C. È
significativo che la guerra infine fu vinta solo grazie all'assassinio di Sertorio e non perché Pompeo o
Metello Pio fossero stati in grado di ottenere una netta vittoria sul campo di battaglia.
Nei mesi successivi alla morte del Sertorio, tuttavia, Pompeo rivelò uno dei suoi talenti più
significativi: il genio per l'organizzazione e la gestione di una provincia conquistata. Sistemi di governo giusti
e generosi fecero estendere il suo controllo su tutta la Spagna e sulla Gallia meridionale. Fu quando Marco
Licinio Crasso si trovò in difficoltà contro Spartaco alla fine della rivolta degli schiavi del 71 a.C., che
Pompeo tornò in Italia con il suo esercito per mettere fine alla sommossa.
Gli avversari, specialmente Crasso, sostennero che Pompeo stava sviluppando azioni per arrivare
alla fine della campagna e raccogliere tutta la gloria per il successo ottenuto. Ciò avrebbe assicurato
l'inimicizia perenne tra Crasso e Pompeo, che durò per più di un decennio. Tornato a Roma, Pompeo
celebrò il suo secondo trionfo extralegale per le vittorie in Spagna. Gli ammiratori vedevano in Pompeo il
generale più brillante dell'epoca. Nel 71 a.C., a soli 35 anni, Pompeo fu eletto per la prima volta console,
per il 70 a.C. come partner più giovane di Crasso, grazie all'appoggio irresistibile della popolazione romana.
Nel 69 a.C., Pompeo era il beniamino delle masse romane anche se molti ottimati erano
profondamente sospettosi delle sue intenzioni. Il suo primato nello stato fu accresciuto da due incarichi
proconsolari straordinari, senza precedenti nella storia romana. Nel 67 a.C., due anni dopo il suo consolato,
Pompeo fu nominato comandante di una flotta speciale per condurre una campagna contro i pirati che
infestavano il Mar Mediterraneo. Questo incarico, come ogni cosa nella vita di Pompeo, fu circondato da
polemiche.
La fazione conservatrice del Senato era sospettosa sulle sue intenzioni ed impaurita dal suo potere.
Gli ottimati provarono con ogni mezzo ad evitarla. Significativamente, Cesare faceva parte di quella
manciata di senatori che sostennero il comando di Pompeo fin dall'inizio. La nomina allora fu avanzata dal
tribuno della plebe Aulo Gabinio che propose la Lex Gabinia, che assegnava a Pompeo il comando della
guerra contro i pirati del Mediterraneo, con un ampio potere che gli assicurava il controllo assoluto sul mare
ed anche sulle coste per 50 miglia all'interno, ponendolo al di sopra di ogni capo militare in oriente.
E mentre Lucio Licinio Lucullo era ancora impegnato con Mitridate e Tigrane II d'Armenia, Pompeo
riusciva a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, strappando loro l'isola di Creta, le coste della
Licia, della Panfilia e della Cilicia, dimostrando straordinaria precisione, disciplina ed abilità organizzativa
(nel 67 a.C.). La Cilicia vera e propria, che era stata covo di pirati per oltre quarant'anni, fu così
definitivamente sottomessa. In seguito a questi eventi la città di Tarso divenne la capitale dell'intera
provincia romana. Furono poi fondate ben 39 nuove città. La rapidità della campagna indicò che Pompeo
aveva avuto talento, come generale, anche in mare, con forti capacità logistiche.
Fu allora incaricato di condurre una nuova guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente (nel 66
a.C.), grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, ed appoggiata politicamente da
Cesare e Cicerone. Questo comando gli affidava essenzialmente la conquista e la riorganizzazione
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dell'intero Mediterraneo orientale, avendo il potere di proclamare quali fossero i popoli clienti e quelli nemici
con un potere illimitato mai prima d'allora conferito ad altri, ed attribuendogli tutte le forze militari al di là dei
confini dell'Italia romana. Tale incarico fu il secondo in cui Cesare si espresse a favore di Pompeo.
Le campagne di Pompeo durarono dal 66 a.C. al 62 a.C. con tale capacità militare ed amministrativa
che, Roma annesse gran parte dell'Asia sotto un saldo controllo. Pompeo non solo distrusse Mitridate, ma
sconfisse anche Tigrane il grande, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Conquistò la Siria,
allora sotto il dominio di Antioco XIII, e poi mosse verso Gerusalemme, che occupò in breve tempo.
Decise quindi di riorganizzare l'Oriente romano e le alleanze che vi gravitavano attorno. A Tigrane II
lasciò l'Armenia; a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane la Cappadocia ed alcuni territori limitrofi; ad Antioco
di Commagene aggiunse Seleucia e parti della Mesopotamia che aveva conquistato; a Deiotaro, tetrarca
della Galazia, aggiunse i territori dell'Armenia minore, confinanti con la Cappadocia; fece di Attalo il principe
di Paflagonia e di Aristarco quello della Colchide; nominò Archelao sacerdote della dea venerata a
Comana; ed infine fece di Castore di Phanagoria, un fedele alleato e amico del popolo romano.
Pompeo impose insomma una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali,
tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera
di Roma in oriente. Le ultime campagne militari avevano così ridotto il Ponto, la Cilicia campestre, la Siria
(Fenicia, Coele e Palestina) a nuove province romane, mentre Gerusalemme era stata conquistata.
La provincia d'Asia era stata a sue volta ampliata, sembra aggiungendo Frigia, parte della Misia
adiacente alla Frigia, in aggiunta Lidia, Caria e Ionia. Il Ponto fu quindi aggregato alla Bitinia, venendo così
a formare un'unica provincia di Ponto e Bitinia.
A ciò si aggiungeva un nuovo sistema di "clientele" che comprendevano dall'Armenia di Tigrane II, al
Bosforo di Farnace, alla Cappadocia, Commagene, Galazia, Paflagonia, fino alla Colchide.
Con l'inverno del 63-62 a.C. Pompeo distribuì donativa all'esercito pari a 1.500 dracme attiche per
ciascun soldato, ed in proporzione agli ufficiali, il tutto per un costo complessivo di 16.000 talenti. Poi si recò
ad Efeso, dove s'imbarcò per l'Italia e per Roma (autunno del 62 a.C.).
Sbarcato a Brindisi congedò i suoi soldati e li rimandò alle loro case. Mentre si avvicinava alla
capitale fu accolto da continue processioni di gente di ogni età, compresi i senatori, tutti ammirati per la sua
incredibile vittoria conseguita contro un nemico tanto temibile ed irriducibile come Mitridate, ed, allo stesso
tempo, avendo portato così tante nazioni ad essere poste sotto il controllo romano, estendendo i confini
repubblicani fino all'Eufrate. Per questi successi il Senato gli decretò il meritato trionfo il 29 settembre del 61
a.C.e fu acclamato da tutta l'assemblea con il nome di Magnus. Si trattava del suo terzo trionfo (celebrato il
giorno del quarantacinquesimo compleanno). Durò due interi giorni l'enorme parata di prede, prigionieri,
l'esercito e i vessilli che descrivevano scene di battaglia riempirono tutta la strada tra il Campo Marzio ed il
tempio di Giove Ottimo Massimo. Per completare i festeggiamenti, Pompeo offrì un banchetto trionfale e
fece parecchie donazioni al popolo di Roma, aumentando ulteriormente la sua popolarità.
Tornato a Roma, desiderava candidarsi per un secondo consolato. Le leggi romane dichiaravano
che un generale non poteva attraversare il pomerium senza perdere il diritto al trionfo, ma un candidato
doveva essere in città per presentarsi personalmente per l'elezione. Pompeo provò ad usare la diplomazia
e chiese al senato di posporre l'elezione consolare per il giorno dopo il trionfo. Gli ottimati, guidati da
Catone Uticense, si opposero fortemente e forzarono Pompeo a scegliere. Il generale scelse il trionfo, ma
non poté candidarsi per il consolato. Se non poteva essere scelto, almeno poteva corrompere gli elettori per
scegliere il suo candidato, Afranio. Secondo parecchie fonti, ci fu uno scandalo enorme con gli elettori che
si dirigevano in massa alla casa di Pompeo fuori del pomerium.
Pompeo era ormai all'apice del successo, ma durante i cinque anni di assenza da Roma era sorta
nell'Urbe una nuova stella. Occupato com'era in Asia durante i disordini seguiti alla congiura di Catilina, fu il
giovane Giulio Cesare ad opporre la sua volontà a quella del console Cicerone e del resto degli ottimati. Il
suo vecchio collega ed avversario, Crasso, aveva prestato fondi a Cesare per farlo emergere politicamente.
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Cicerone era in eclissi, perseguitato dalle cattive intenzioni di Publio Clodio e dalle sue bande. Nuove
alleanze erano state create e l'eroe delle conquiste asiatiche stava per essere messo fuori dai giochi.
Di nuovo a Roma, Pompeo abilmente allontanò i suoi eserciti, smentendo i timori che intendesse
passare dalle sue conquiste al dominio di Roma come dittatore. Tuttavia era pur sempre un sommo
stratega; cercò semplicemente nuovi alleati e tirò le fila dietro le scene politiche. Gli ottimati avevano
combattuto di nuovo per avere il controllo di gran parte del potere reale nel senato; nonostante i suoi sforzi,
Pompeo trovò che le loro azioni erano contro di lui. I suoi cospicui accordi in Oriente non furono ratificati
subito. Le terre pubbliche che aveva promesso ai suoi veterani non arrivavano. Pompeo, anche se aveva
fissato una linea prudente per evitare di offendere i conservatori, era sempre più sconcertato dalla riluttanza
degli ottimati a riconoscere i suoi solidi successi. La frustrazione e la costernazione lo avrebbero spinto ben
presto verso nuove e ineluttabili alleanze politiche.
Pompeo e Crasso non avevano stima e fiducia reciproche, ma nel periodo antecedente al 61 a.C. si
ritenevano entrambi ostacolati: una tassa proposta da Crasso era stata rigettata e i veterani di Pompeo
restavano ignorati. Cesare, di ritorno dal servizio in Spagna e pronto per candidarsi al consolato si inserì tra
i due uomini, riuscendo in qualche modo a creare un'alleanza politica sia con Pompeo che con Crasso (il
cosiddetto primo triumvirato). Pompeo e Crasso lo avrebbero aiutato ad essere eletto console e lui avrebbe
usato il proprio potere di console per favorire le loro leggi.
Il consolato tempestoso di Cesare del 59 a.C. portò a Pompeo non solo la terra e gli insediamenti
che desiderava, ma anche una nuova moglie: la giovane figlia di Cesare, Giulia. Dopo che Cesare si fu
assicurato il comando proconsolare in Gallia alla fine dell'anno consolare, a Pompeo fu dato il governo della
Hispania Ulterior, cosicché potesse restare a Roma.
Cesare stava accrescendo la sua fama di genio militare. Dal 56 a.C. i legami fra i tre uomini
cominciarono a sfilacciarsi; Cesare chiamò prima Crasso, poi Pompeo ad una riunione segreta a Lucca per
ripensare sia la strategia che le tattiche. Ormai Cesare non era più il socio sottoposto e silenzioso del trio. A
Lucca fu deciso che Pompeo e Crasso avrebbero di nuovo avuto il consolato nel 55 a.C. Alla loro elezione,
il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prolungato per altri cinque anni, mentre Crasso avrebbe
ricevuto il comando in Siria (da dove sarebbe potuto partire per conquistare la Partia ed estendere i propri
successi). Pompeo avrebbe continuato a governare la Spagna dopo il loro anno consolare. Questa volta,
tuttavia, l'opposizione ai tre uomini era al culmine; si ricorse alla corruzione su una scala senza precedenti
per assicurare l'elezione di Pompeo e di Crasso nel 55. I loro sostenitori ricevettero la maggior parte dei
restanti incarichi importanti.
Anche se all'inizio Pompeo aveva avuto la presunzione di poter sconfiggere Cesare ed arruolare
eserciti soltanto ponendo il suo piede sul suolo dell'Italia, nella primavera del 49 a.C., quando Cesare passò
il Rubicone e le sue legioni attraversavano la penisola, Pompeo ordinò di abbandonare Roma. Le sue
legioni fuggirono a sud verso Brundisium, dove Pompeo intendeva ritrovare nuovo vigore per intraprendere
la guerra contro Cesare in Oriente. Durante quegli eventi, quasi incredibilmente, né Pompeo né il Senato
pensarono a prelevare le ampie risorse dell'erario, che furono lasciate a disposizione di Cesare quando il
suo esercito entrò a Roma.
Essendo riuscito a sfuggire per poco a Cesare con la fuga a Brindisi, Pompeo riguadagnò sicurezza
nell'assedio di Dyrrhachium, dove Cesare si era trovato in grande difficoltà. Tuttavia, non riuscendo a
sfruttare il momento critico di Cesare, Pompeo perse la possibilità di distruggere le sue armate. Con Cesare
alle costole, i conservatori condotti da Pompeo fuggirono in Grecia. Gli eserciti si scontrarono nella battaglia
di Farsalo nel 48 a.C. Lo scontro fu duro per entrambi gli schieramenti ma alla fine le truppe del futuro
dittatore di Roma conquistarono la vittoria, segnando così l'inequivocabile sconfitta di Pompeo. Come tutti
gli altri conservatori, egli dovette fuggire per salvarsi la vita. Incontrò la moglie Cornelia e il figlio Sesto
Pompeo sull'isola di Lesbo. Ricongiuntosi con la propria famiglia Pompeo decise di rifugiarsi in Egitto.
Arrivato in Egitto, il destino di Pompeo fu deciso dai consiglieri del giovane re Tolomeo. Due vecchi
compagni d’armi prezzolati lo uccisero prima del suo incontro con Tolomeo. Gli fu tagliata la testa come
trofeo e il corpo fu sprezzantemente lasciato incustodito e nudo, sulla spiaggia, dove venne ritrovato dal
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suo liberto, Filippo, che organizzò un semplice funerale cremando il corpo su una pira ricavata dal fasciame
di una nave.
Cesare arrivò poco dopo. Come regalo di benvenuto ricevette la testa di Pompeo ed il suo anello in
un cesto. Cesare, però, non fu contento di vedere il suo nemico, una volta suo alleato e genero,
assassinato dai traditori. Depose Tolomeo ed elevò Cleopatra al trono dell'Egitto. Cesare diede le ceneri di
Pompeo e l'anello a Cornelia, che le portò indietro nelle sue proprietà in Italia.
Alla fine del 45 a.C., Pompeo fu deificato dal senato su richiesta di Cesare. Per ironia della sorte,
Cesare fu assassinato, alle Idi di marzo del 44 a.C., nel teatro di Pompeo, ai piedi della statua del suo
defunto rivale. Si dice che in punto di morte Cesare abbia rivolto preghiere al suo migliore amico, genero e
maggior avversario.
Pompeo fu l'uomo politico più in vista della Roma repubblicana, e parve impossibile che nonostante il
suo potere fosse stato abbattuto da Cesare. Forse per questo Pompeo venne idealizzato come eroe dal
tragico destino quasi immediatamente dopo Farsalo: Plutarco lo ha ritratto infatti come il vero Alessandro
romano, puro di cuore e di mente, distrutto dalle ciniche ambizioni della classe politica che lo attorniava
Giulio Cesare
Al pari di Pompeo Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar) fu tra i protagonisti della tarda età
repubblicana. Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo all’impero, del quale fu
ritenuto da molti il fondatore. Fu dictator di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica
decennale e dal 44 a.C. come dittatore perpetuo.
Con la conquista della Gallia estese il dominio della res publica romana fino all'oceano Atlantico e al
Reno; portò gli eserciti romani ad invadere per la prima volta la Britannia e la Germania e a combattere in
Spagna, Grecia, Egitto, Ponto e Africa.
Il primo triumvirato, l'accordo privato per la spartizione del potere con Gneo Pompeo Magno e Marco
Licinio Crasso, segnò l'inizio della sua ascesa. Dopo la morte di Crasso (Carre, 53 a.C.), Cesare si scontrò
con Pompeo e la fazione degli optimates per il controllo dello stato. Nel 49 a.C., di ritorno dalla Gallia, guidò
le sue legioni attraverso il Rubicone, pronunciando le celebri parole «Alea iacta est», e scatenò la guerra
civile, con la quale divenne capo indiscusso di Roma: sconfisse Pompeo a Farsalo (48 a.C.) e
successivamente gli altri optimates, tra cui Catone Uticense, in Africa e in Spagna. Con l'assunzione della
dittatura a vita diede inizio a un processo di radicale riforma della società e del governo, riorganizzando e
centralizzando la burocrazia repubblicana. Il suo operato provocò la reazione dei conservatori, finché un
gruppo di senatori, capeggiati da Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Bruto, cospirò contro
di lui uccidendolo, alle Idi di marzo del 44 a.C.(15 marzo 44) Nel 42 a.C., appena due anni dopo il suo
assassinio, il Senato lo deificò ufficialmente, elevandolo a divinità. L'eredità riformatrice e storica di Cesare
fu quindi raccolta da Ottaviano Augusto, suo pronipote e figlio adottivo.
Le campagne militari e le azioni politiche di Cesare sono da lui stesso dettagliatamente raccontate
nei Commentarii de bello Gallico e nei Commentarii de bello civili. Numerose notizie sulla sua vita sono
presenti negli scritti di diversi storici. Altre informazioni possono essere rintracciate nelle opere di autori suoi
contemporanei, come nelle lettere e nelle orazioni del suo rivale politico Cicerone, nelle poesie di Catullo e
negli scritti storici di Sallustio.
Cesare nacque a Roma il 13 luglio del 101 o, secondo altri, il 12 luglio del 100 a.C. da un'antica e
nota famiglia patrizia, la gens Iulia, che annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano,
Romolo, e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, secondo il mito figlio a sua volta
della dea Venere.
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Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà
romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera
politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche.
Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della
nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva
anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates.
Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio
Cesare, che era stato console nel 91 a.C., e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al
110 a.C. La madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi
consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre
di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo
testamento, e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia maggiore e di Azia minore, a
sua volta madre di Ottaviano.
La famiglia viveva in una modesta casa della popolare e malfamata Suburra, dove il giovane Giulio
Cesare fu educato da Marco Antonio Gnifone, un illustre grammatico nativo della Gallia. Cesare trascorse il
suo periodo di formazione in un'epoca tormentata da gravi disordini. La città di Roma era divisa in due
fazioni contrapposte: gli optimates, favorevoli al potere aristocratico, e i populares o democratici, che
sostenevano la possibilità di rivolgersi direttamente all'elettorato. Pur se di nobili origini, fin dall'inizio della
sua carriera Cesare si schierò dalla parte dei populares, scelta sicuramente condizionata dalle convinzioni
dello zio Gaio Mario, capo dei populares e rivale di Lucio Cornelio Silla, sostenuto da aristocrazia e Senato.
Nell'86 a.C. lo zio Gaio Mario morì, e nell'85 a.C., quando Cesare aveva solo sedici anni, morì il
padre Gaio Giulio Cesare il Vecchio. L'anno seguente Cesare ripudiò la sua promessa sposa Cossuzia per
sposare Cornelia Cinna Minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato e amico di Gaio Mario.
Il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con i popolari, oltre alla parentela con
Mario, causarono problemi non indifferenti al giovane Cesare negli anni della dittatura di Silla. Questi cercò
di ostacolarne in tutti i modi le ambizioni; la situazione poi si aggravò quando il dittatore, avuta la meglio su
Mitridate VI, rientrò in Italia e sconfisse i seguaci di Mario nella battaglia di Porta Collina, nell'82 a.C. .
Ormai capo indiscusso di Roma, Silla si autoproclamò dittatore perpetuo per la riforma delle leggi e la
restaurazione della repubblica, e iniziò ad eliminare i suoi avversari politici; ordinò a Cesare di divorziare da
Cornelia poiché non era patrizia, ma Cesare rifiutò. Silla meditò allora di farlo uccidere, ma dovette poi
desistere dopo i numerosi appelli rivoltigli da più parti
Cesare, temendo per la sua vita, lasciò comunque Roma, prima ritirandosi in Sabina e poi, raggiunta
la giusta età, partendo per il servizio militare in Asia, come legato del pretore Marco Minucio Termo. Fu
Minucio ad ordinare al giovane legato di recarsi presso la corte di Nicomede IV, sovrano del piccolo stato
della Bitinia. Di questa missione si parlò a lungo a Roma, ove si diffuse la voce che Cesare avesse avuto
una relazione amorosa con il sovrano, come testimoniano i canti intonati dai legionari dello stesso Cesare
oltre trentacinque anni dopo. In ogni modo, come legato di Minucio durante l'assedio di Mitilene, Cesare
partecipò per la prima volta ad uno scontro armato, distinguendosi per il suo coraggio, tanto che gli fu
conferita la corona civica, che veniva concessa a chi, in combattimento, avesse salvato la vita ad un
cittadino. In seguito alle riforme promulgate da Silla, a chi fosse stata conferita una corona militare sarebbe
stato garantito l'accesso al Senato.
Rientrato a Roma Minucio, Cesare rimase in Cilicia, partecipando come patrizio romano a diverse
operazioni militari che si svolsero in quella zona, come l'azione contro i pirati (che proprio in Cilicia avevano
il loro punto di forza) sotto il comando di Servilio Isaurico. In quanto di famiglia patrizia, lì fu associato con
alcuni incarichi a vari comandanti romani.
Dopo due anni di potere assoluto, Silla si dimise dalla carica di dittatore, ristabilendo il normale
governo consolare. Cesare rientrò a Roma solo quando ebbe notizia della morte di Silla (78 a.C.), e il suo
ritorno coincise con il tentativo di ribellione anti-sillana capeggiato da Marco Emilio Lepido e bloccato da
Gneo Pompeo. Cesare, non fidandosi delle capacità di Lepido, che pure lo aveva contattato, non partecipò
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alla ribellione, e iniziò invece a dedicarsi alla carriera forense come pubblico accusatore e a quella politica
come esponente dei popolari e nemico dichiarato degli ottimati. In questa fase, benché ancora
giovanissimo, egli dimostrò già una grandissima intelligenza politica, evitando di rimanere implicato in
un'insurrezione male organizzata e destinata a naufragare nell'insuccesso.
Cesare, che non si era apertamente schierato contro la politica sillana, evitando di partecipare
all'insurrezione di Lepido, decise di sostenere l'accusa di concussione contro Gneo Cornelio Dolabella, per
atti durante il suo mandato di governatore in Macedonia e quella di estorsione contro Gaio Antonio Ibrida.
Entrambi gli accusati erano membri influenti del partito degli ottimati e in entrambi i casi, anche se l'accusa
fu pronunciata con perizia, perse le cause: Dolabella, che probabilmente si era macchiato anche di vari
crimini durante le proscrizioni sillane, fu assolto dall'accusa di concussione grazie all'abilità oratoria dei suoi
avvocati. Benché l'esito del processo non compaia nell'opera di nessuno storico, è probabile che anche
Ibrida riuscì ad evitare la condanna. Cesare, che sapeva fin dal principio che le sue azioni legali non
avevano alcuna possibilità di riuscita, attraverso l'esordio nel mondo forense si accreditò come importante
rappresentante della fazione dei populares, anche se l'esito negativo dei processi lo convinse a lasciare
Roma una seconda volta per evitare le vendette della nobilitas sillana.
Egli decise allora, nel 74 a.C., di recarsi a Rodi, vera e propria meta di pellegrinaggio per i giovani
romani delle classi più alte, desiderosi di apprendere la cultura e la filosofia greca. Durante il viaggio fu però
rapito dai pirati, che lo portarono sull'isola di Farmacussa, una delle Sporadi meridionali a sud di Mileto.
Quando questi gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose che ne avrebbe consegnati cinquanta e
mandò i suoi compagni a Mileto perché ottenessero la somma di denaro con cui pagare il riscatto, mentre
lui sarebbe rimasto a Farmacussa con due schiavi ed il medico personale. Durante la permanenza
sull'isola, Cesare compose numerose poesie; più in generale, mantenne un comportamento piuttosto
particolare con i pirati, trattandoli sempre come se fosse lui ad avere in mano le loro vite e promettendo più
volte che una volta tornato libero li avrebbe fatti uccidere tutti. Quando i suoi compagni ritornarono,
portando con sé il denaro che le città avevano offerto loro per pagare il riscatto, Cesare si rifugiò nella
provincia d'Asia, governata dal propretore Marco Iunco. Giunto a Mileto, Cesare armò delle navi e tornò in
tutta fretta a Farmacussa, dove catturò senza difficoltà i pirati, li fece uccidere e poté anzi restituire i soldi
che i suoi compagni avevano dovuto richiedere per il riscatto.
Terminata la vicenda dei pirati, Cesare prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto,
combattendo nella provincia d'Asia ed arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre ancora si
trovava in Asia, fu eletto nel collegio dei pontefici, per compensare il fatto che avesse perso la carica del
flaminato per fuggire da Silla.
Tornato a Roma, fu eletto tribuno militare alle elezioni del 72 a.C. per l'anno seguente, risultando
addirittura il primo degli eletti. Si impegnò dunque nelle battaglie politiche sostenute dai populares, ovvero
l'approvazione della Lex Plotia (che avrebbe permesso il rientro in patria di coloro che erano stati esiliati
dopo aver partecipato all'insurrezione di Lepido) e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe, il cui diritto di
veto era stato notevolmente ridimensionato da Silla, per evitare colpi di mano da parte dei populares. Il
ripristino della tribunicia potestas fu però ottenuto soltanto nel 70 a.C., l'anno del consolato di Gneo
Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. Entrambi avevano acquisito un grande prestigio portando a
termine rispettivamente la guerra contro Quinto Sertorio in Spagna, e quella contro gli schiavi guidati da
Spartaco. Crasso in particolare era in stretti rapporti con Cesare (lo aveva aiutato infatti più volte
finanziandone le campagne elettorali) ma, per quanto incredibilmente ricco grazie alle proscrizioni sillane,
dovette far appoggio durante la sua campagna elettorale sul carisma del nascente leader popolare.
Cesare fu eletto questore per il 69 a.C.. Dopo il consolato di Pompeo e Crasso, il clima politico
romano si stava avviando al cambiamento, grazie al quasi totale smantellamento della costituzione sillana
che i due consoli avevano operato. Nel 69 a.C. Cesare pronunciò dai Rostri del Foro, secondo l'antico
costume, gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Lucio
Cornelio Cinna. Nel farlo, mostrò per la prima volta in pubblico dal periodo sillano le immagini di Gaio Mario
e del figlio Gaio Mario il giovane, e il popolo le accolse plaudente. Nell'elogio per Giulia,Cesare esaltava la
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discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, evidenziando come negli esponenti della gens
Iulia scorresse ora anche il sangue regale accanto a quello divino.
Sempre nel corso del 69 a.C., Cesare si recò nella Spagna Ulteriore, governata dal propretore
Antistio Vetere. Lì si dedicò ad un'intensa attività giudiziaria e grazie al suo grande impegno poté anche
accattivarsi le simpatie della popolazione, che liberò dai pesi fiscali che Metello aveva imposto.
Dopo aver votato per l'approvazione della Lex Gabinia e della Lex Manilia, Cesare fu eletto edile
curule (aedilis curulis) nel 65 a.C.. Grazie al suo comportamento poté consacrarsi definitivamente come
nuovo leader del movimento popolare, conquistandosi le simpatie di tutta la popolazione romana. Cesare si
propose come continuatore della politica antisillana: fece infatti rimettere in piedi i trofei ottenuti da Mario
per le vittorie contro Cimbri e Teutoni, e decise, quando fu a capo del tribunale, di considerare come omicidi
le uccisioni dei proscritti sotto Silla.
Altro grandissimo successo fu per Cesare l'elezione nel 63 a.C. a pontefice massimo, dopo la morte
di Quinto Cecilio Metello Pio, che era stato nominato da Silla. Cesare, per quanto scettico, si era battuto
perché il pontificato tornasse ad essere, dopo la riforma sillana, una carica elettiva, e comprendeva
perfettamente quale aspetto avrebbe avuto la sua figura se insignita della carica di tutore del diritto e del
culto romano. A sfidarlo c'erano però rappresentanti della fazione degli optimates molto più anziani e già da
tempo giunti al culmine del cursus honorum. Cesare allora, aiutato anche da Marco Licinio Crasso, si
procurò grandi somme di denaro che usò per corrompere l'elettorato, e fu dunque costretto a pagare un
prezzo altissimo per la sua elezione: il giorno del voto, uscendo di casa, promise infatti alla madre che ella
lo avrebbe rivisto pontefice oppure esule. La nettissima vittoria di Cesare gettò nel panico gli optimates,
mentre costituì per il neoeletto pontefice una nuova acquisizione di prestigio, in grado di assicurargli la
nomina a pretore per l'anno seguente. Nel frattempo, per evidenziare l'importanza della sua carica cominciò
ad attuare una politica volta ad accattivarsi anche le simpatie di Pompeo Magno.
Nel 63 a.C. irruppe sulla scena politica Lucio Sergio Catilina. Nobile decaduto, egli tentò più volte di
impadronirsi del potere: organizzò una prima congiura nel 66 o nel 65 a.C., a cui Cesare prese
probabilmente parte. La congiura, che avrebbe portato all'elezione di Crasso come dittatore e dello stesso
Cesare come suo magister equitum, fallì per l'improvviso abbandono del progetto da parte di Crasso, o
forse perché Cesare si rifiutò di dare il segnale convenuto che avrebbe dovuto dare inizio al programmato
assalto al senato. Quando nel 63 la seconda congiura di Catilina fu scoperta da Marco Tullio Cicerone,
Lucio Vezio, amico di Catilina, fece i nomi di alcuni congiurati, includendo tra essi anche Cesare. Questi fu
scagionato dalle accuse grazie al tempestivo intervento di Cicerone, ma resta assai probabile che avesse
partecipato, almeno inizialmente, anche a questa seconda congiura. Ad avvalorare l'ipotesi è il discorso che
lo stesso Cesare pronunciò in senato in difesa dei congiurati Lentulo e Cetego: dopo la sua fuga, Catilina
aveva lasciato a loro le redini della congiura, ma i due erano stati scoperti grazie a un abile piano
congegnato da Cicerone, principale accusatore di Catilina e responsabile del fallimento della congiura.
Discutendo sulla pena cui condannare Lentulo e Cetego, molti senatori avevano proposto la condanna a
morte; Cesare, invitando tutti a non prendere decisioni avventate e dettate dalla paura, propose invece di
confinare i congiurati e di confiscare loro i beni. Il discorso di Cesare, che aveva convinto molti senatori, fu
però seguito da un altro, molto acceso, pronunciato da Marco Porcio Catone Uticense, che riuscì a
reindirizzare il senato verso la condanna a morte dei congiurati. Lentulo e Cetego furono quindi condannati
a morte senza che gli fosse concessa la provocatio ad populum. Il discorso di Cesare, grazie al quale egli si
presentò come un uomo saggio e poco vendicativo, fu molto gradito al popolo, che sperava nei benefici che
Catilina gli avrebbe concesso; è però probabile che con le sue parole il futuro dittatore tentasse anche di
salvare dalla morte degli amici e compagni politici con i quali aveva indubbiamente collaborato.
Dopo la morte della moglie Cornelia nel 68 a.C., Cesare sposò Pompea, nipote di Silla. Nel 62 a.C.,
tuttavia, a seguito di uno scandalo che aveva coinvolto la domma, Cesare la ripudiò. Eletto pretore, nel 61
a.C. fu poi governatore della provincia della Spagna ulteriore, dove condusse operazioni contro i Lusitani;
acclamato imperator, gli fu tributato il trionfo una volta tornato a Roma. Cesare fu tuttavia costretto a
rinunciarvi, in quanto per celebrare il trionfo avrebbe dovuto mantenere le sue vesti di militare e restare fuori
dalla città di Roma: il propretore chiese dunque al senato il permesso di candidarsi al consolato in absentia,
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attraverso i suoi legati, ma Catone l'Uticense fece in modo che la richiesta fosse respinta. Cesare, posto di
fronte ad una scelta particolarmente importante per la sua carriera futura, preferì dunque salire il gradino
successivo del cursus honorum e candidatosi nel 60 a.C. fu eletto console per l'anno 59 a.C.
Nel 60 a.C., Cesare stipulò un'alleanza strategica con due tra i maggiori capi politici dell'epoca:
Crasso e Pompeo. Questo accordo privato fu successivamente chiamato dagli storici primo triumvirato; non
si trattava di una vera magistratura, ma di un accordo tra privati che, data l'influenza dei firmatari, ebbe poi
notevolissime ripercussioni sulla vita politica, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Crasso era l'uomo
più ricco di Roma (aveva infatti finanziato la campagna elettorale di Cesare per il consolato) ed era un
esponente di spicco della classe dei cavalieri. Pompeo, dopo aver brillantemente risolto la guerra in Oriente
contro Mitridate ed i suoi alleati, era il generale con più successi alle spalle. Il rapporto tra Crasso e
Pompeo non era dei più idilliaci, ma Cesare con la sua fine abilità diplomatica seppe riappacificarli,
vedendo in un'alleanza tra i due l'unico modo in cui egli stesso avrebbe potuto raggiungere i vertici del
potere. Crasso serbava infatti verso Pompeo un certo rancore, da quando quegli aveva celebrato il trionfo
per la guerra contro Sertorio in Spagna e per la vittoria contro gli schiavi ribelli, che soffocata la rivolta di
Spartaco cercavano di fuggire dall'Italia per attraversare l'arco alpino: ogni merito era andato a Pompeo,
mentre Crasso, vero artefice della sofferta vittoria su Spartaco, aveva potuto celebrare soltanto
un'ovazione. Pompeo avrebbe dovuto sostenere la candidatura al consolato di Cesare, mentre Crasso
l'avrebbe dovuta finanziare. In cambio di quest'appoggio, Cesare avrebbe fatto in modo che ai veterani di
Pompeo venissero distribuite delle terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in
Oriente; al contempo, com'era desiderio di Crasso e dei cavalieri, fu ridotto di un terzo il canone d'appalto
delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente quanto previsto dal triumvirato, Pompeo
sposò Giulia, la figlia di Cesare.
Nel 59 a.C., l'anno del suo consolato, Cesare portò al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica
e il suo prestigio, e si adoperò per portare avanti le riforme concordate con gli altri triumviri. Nonostante la
forte opposizione del collega Marco Calpurnio Bibulo, che tentò in ogni modo di ostacolare le sue iniziative,
Cesare ottenne comunque la ridistribuzione degli appezzamenti di ager publicus per i veterani di Pompeo,
ma anche per alcuni dei cittadini meno abbienti. Bibulo, una volta accortosi del fallimento della sua sterile
politica volta esclusivamente alla conservazione dei privilegi da parte della nobilitas senatoriale, si ritirò
dalla vita politica: in questo modo pensava di frenare l'attività del collega, che invece poté attuare in tutta
tranquillità il suo rivoluzionario programma. Cesare infatti programmò la fondazione di nuove colonie in
Italia, e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis), facendo
approvare allo stesso tempo delle leggi che favorissero l'ordo equestris: con la lex de publicanis egli ridusse
di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività.
Fece infine promulgare una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta
senatus). In questo modo Cesare si assicurava l'appoggio di tutta la popolazione romana, ponendo le basi
per il suo futuro successo.
Durante il consolato, grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottenne con la Lex Vatinia il
proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito composto da
tre legioni. Poco dopo un senatoconsulto gli affidò anche la vicina provincia della Gallia Narbonense, il cui
proconsole era morto all'improvviso.
Il senato sperava con le sue mosse di allontanare il più possibile Cesare da Roma, proprio mentre
egli stava acquisendo una sempre maggiore popolarità. Cesare seppe comprendere le potenzialità che
l'incarico affidatogli presentava: in Gallia egli avrebbe potuto conquistare immensi bottini di guerra (con i
quali saldare i debiti contratti nelle campagne elettorali), e avrebbe acquisito il prestigio necessario per
attuare la sua riforma della res publica.
Prima di lasciare Roma, nel marzo del 58 a.C., Cesare incaricò il suo alleato politico Publio Clodio
Pulcro, tribuno della plebe, di fare in modo che Cicerone fosse costretto a lasciare Roma. Clodio fece allora
approvare una legge con valore retroattivo che puniva tutti coloro che avevano condannato a morte dei
cittadini romani senza concedere loro la provocatio ad populum: Cicerone fu quindi condannato per il suo
comportamento in occasione della congiura di Catilina, venne esiliato, e dovette lasciare Roma e la vita
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politica. In questo modo Cesare cercava di assicurarsi che, in sua assenza, il senato non prendesse
decisioni che compromettessero la realizzazione dei suoi piani. Allo stesso scopo, Cesare si liberò anche di
un altro esponente dell'aristocrazia senatoria, Marco Porcio Catone, che venne allontanato da Roma
inviandolo propretore a Cipro. Per evitare inoltre di divenire oggetto delle accuse legali dei suoi avversari, si
appellò alla lex Memmia, secondo la quale nessun uomo che si trovava fuori dall'Italia a servizio della res
publica poteva subire un processo giuridico.
Mentre si trovava ancora a Roma, Cesare venne a sapere che gli Elvezi, stanziati tra il lago di
Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi retiche, si accingevano ad attraversare il territorio della Gallia
Narbonense. C'era dunque il pericolo che essi, al loro passaggio sul territorio romano, compissero razzie e
incitassero alla rivolta il popolo che ivi risiedeva, gli Allobrogi; i territori che si sarebbero svuotati, potevano
poi divenire meta delle migrazioni di altri popoli germanici, che si sarebbero trovati a vivere al confine con lo
stato romano, dando origine a un pericolo da non sottovalutare.
Il 28 marzo Cesare, avuta notizia che gli Elvezi, bruciate le loro città, erano giunti sulle rive del
Rodano, fu costretto a precipitarsi in Gallia, dove giunse il 2 aprile, dopo pochissimi giorni di viaggio.
Disponendo solo di poche truppe insufficienti a contrastare il nemico fece distruggere il ponte sul Rodano
per impedire che gli Elvezi lo attraversassero, ed iniziò a reclutare in tutta la provincia forze ausiliarie,
disponendo, inoltre, la creazione di due nuove legioni nella Gallia Cisalpina e ordinando a quelle stanziate
ad Aquileia di raggiungerlo al più presto.
Il generale romano avanzò verso Ariovisto, che aveva attraversato il Reno e l'Ill e, dopo un ultimo
fallimentare negoziato, si decise a dare battaglia, presso l'odierna Mulhouse, ai piedi dei Vosgi. I Germani
furono duramente sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre tentavano di salvarsi attraversando
il fiume.
Con la vittoria su Ariovisto, Cesare, fermate le invasioni germaniche e posto il Reno come confine tra
la Gallia e la Germania stessa, salvò le popolazioni galliche dal pericolo dell'invasione, stabilendo così una
propria egemonia sul territorio.
Dopo aver svernato nella Gallia Cisalpina, nel 57 a.C., avvalendosi dell'aiuto degli alleati Edui e delle
due nuove legioni che aveva fatto arruolare, Cesare decise di portare la guerra nel nord della Gallia. Qui i
Belgi erano da tempo pronti all'attacco, consci del fatto che se Cesare si fosse completamente
impossessato della Gallia avrebbero perso la loro autonomia.
Il generale, radunate le forze, marciò allora verso il nord, dove i Belgi si erano radunati in un unico
esercito di oltre 300.000 uomini. Raggiuntili, diede battaglia e li sconfisse una prima volta vicino a Bibrax
presso il fiume Axona, provocando loro molte perdite.
Cesare avanzò ancora, quando altri Belgi, in massima parte Nervi, decisero di unirsi nuovamente per
combattere l'esercito romano. Essi attaccarono di sorpresa l'esercito romano, ma Cesare seppure con
grandi difficoltà riuscì a respingerli e a contrattaccare, capovolgendo le sorti della battaglia: ottenne infatti la
vittoria, riuscendo a uccidere moltissimi nemici. Portate a termine altre brevi operazioni, Cesare poté dirsi
padrone dell'intera Gallia Belgica, e all'arrivo dell'inverno tornò nuovamente nella Gallia Cisalpina.
Nel 56 a.C. ad insorgere furono i popoli della costa atlantica, dopo che Cesare aveva mandato il
giovane Publio Crasso a esplorare le coste della Britannia, lasciando così intuire il suo progetto di
espansione verso nord-ovest. Per contrastare gli insorti, Cesare fece allestire una flotta di navi da guerra
sulla Loira e dopo aver inviato i propri uomini nei punti nevralgici della Gallia per evitare ulteriori ribellioni si
diresse verso la Bretagna, per combattere i Veneti. Dopo aver espugnato alcune città nemiche, egli decise
di attendere la flotta appena costruita, che giunse al comando di Decimo Giunio Bruto Albino. Con essa
poté facilmente avere la meglio sui Veneti e, dopo averli sconfitti, li fece uccidere o ridurre in schiavitù, per
punire la condotta incresciosa che avevano tenuto nei riguardi degli ambasciatori romani.
Nel 55 a.C. i popoli germanici degli Usipeti e dei Tencteri, che assieme costituivano una massa di
430 000 uomini, si spinsero fino al Reno e occuparono le terre dei Menapi. Cesare, allertato dalla possibilità
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di un'avanzata germanica in Gallia, si affrettò a raggiungere la Belgica, e impose loro di tornare oltre il
Reno. Quando questi si ribellarono agli accordi, Cesare ne fece imprigionare a tradimento gli ambasciatori
e ne assaltò a sorpresa gli accampamenti, uccidendo quasi 200 000 tra uomini, donne e bambini. L'azione,
particolarmente cruenta, suscitò la sdegnata reazione di Catone, che propose al senato di consegnare
Cesare ai Galli, in quanto colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori. Il senato, invece, proclamò
una lunghissima supplicatio di ringraziamento di ben quindici giorni. Subito Cesare, costruito in gran fretta
un ponte di legno sul Reno, condusse una breve spedizione in Germania per intimidire gli abitanti del luogo
e scoraggiare altri eventuali tentativi di invasione.
Nell'estate del 55 a.C., Cesare decise di invadere la ricca e misteriosa Britannia. Dopo alcune
operazioni preventive, salpò con ottanta navi e due legioni per sbarcare nei pressi di Dover, poco lontano
da dove lo attendeva l'esercito nemico. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono sconfitti e decisero di
sottomettersi a Cesare, ma tornarono quasi subito alla ribellione, non appena appresero che parte della
flotta romana era stata danneggiata dalle tempeste, che impedivano l'arrivo di rinforzi. Attaccati di nuovo i
Romani, i Britanni risultarono, però, nuovamente sconfitti, e furono costretti a chiedere la pace e a
consegnare numerosi ostaggi. Cesare tornò allora in Gallia, dove dislocò le legioni negli accampamenti
invernali; intanto, però, molti dei Britanni si rifiutarono di inviare gli ostaggi promessi, e Cesare cominciò a
programmare una nuova campagna.
Nel 54 a.C., assicuratosi la fedeltà della Gallia, il generale salpò nuovamente verso la Britannia con
ottocento navi e cinque legioni. Sbarcò senza incontrare nessuna resistenza, ma, non appena si fu
accampato, venne attaccato dai Britanni guidati da Cassivellauno, che sconfisse in due diverse battaglie.
Cesare decise allora di portare la guerra nelle terre dello stesso Cassivellauno, oltre il Tamigi, e attaccò
fulmineamente i nemici: dopo che ebbe riportato delle facili vittorie, molte tribù gli si sottomisero e
Cassivellauno, sconfitto, fu costretto ad avviare le trattative di pace, che stabilirono che egli avrebbe offerto
ogni anno un tributo e degli ostaggi a Roma. Cesare si ritirò allora dalla Britannia stabilendo numerosi
rapporti di clientela che posero la base per la conquista dell'isola nel 43 d.C.
Il proconsole dislocò le sue legioni negli hiberna, quando già in più zone si respirava aria di rivolta. Il
capo degli Eburoni Ambiorige, in particolare, decise di prendere d'assedio un accampamento e, convinti
con l'inganno i soldati ad uscire allo scoperto, li aggredì, massacrando quindici coorti. Spinto dal successo,
attaccò un altro accampamento, retto da Quinto Cicerone; questi si comportò in modo prudente, e attese
l'arrivo di Cesare, che mise in fuga l'esercito nemico di 60 000 uomini. Contemporaneamente, anche il
luogotenente di Cesare, Tito Labieno, fu attaccato dai Treviri ma, sebbene in svantaggio numerico, li
sconfisse, uccidendo anche il loro stesso capo.
All'inizio del 53 a.C., Cesare portò il numero delle sue legioni a dieci, arruolandone una ex novo e
ricevendone un'altra da Pompeo. Fermata una rivolta nella Belgica, marciò contro Treviri, Menapi ed
Eburoni, affidando parte delle truppe al luogotenente Tito Labieno. Lo stesso Cesare sottopose a crudeli
razzie le terre dei Menapi, che furono costretti a sottometterglisi, mentre Labieno, mediante vari
stratagemmi, poté avere facilmente la meglio sui Treviri e sugli Eburoni. Venuto a conoscenza delle vittorie
del suo luogotenente, Cesare decise di passare di nuovo il Reno, costruendovi un nuovo ponte, per punire i
Germani che avevano appoggiato la rivolta gallica ed evitare che dessero ospitalità ai promotori della rivolta
stessa. Accortosi del rischio che avrebbe corso inoltrandosi in territori a lui sconosciuti, decise di tornare
indietro lasciando in piedi il ponte (ad eccezione della parte terminale) come monito della potenza romana.
Decise dunque di condurre l'intero esercito contro gli Eburoni e il loro capo Ambiorige; i popoli limitrofi,
impauriti dall'entità delle forze dei Romani, accettarono di sottomettersi a Cesare, e Ambiorige si ritrovò così
isolato. Molti Galli, anzi, si unirono ai Romani e iniziarono a combattere gli Eburoni; questi, non senza
reagire, furono gradualmente sconfitti e massacrati, così che alla fine dell'estate Cesare poté ritenere
vendicate le sue quindici coorti.
Ultimo atto della guerra di Gallia fu la rivolta guidata dal capo degli Arverni Vercingetorige, attorno al
quale si strinsero tutti i popoli celti, inclusi gli "storici" alleati dei Romani, gli Edui.
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La rivolta ebbe inizio dalle azioni dei Carnuti, ma ben presto a prenderne il comando fu
Vercingetorige che, eletto re degli Arverni, si guadagnò l'alleanza di tutti i popoli limitrofi. Cesare, allertato,
si affrettò a tornare in Gallia, lasciando la Pianura Padana dove si trovava a svernare. Vercingetorige
decise di marciargli contro, ma il proconsole in risposta cinse d'assedio la città di Avarico: riuscì ad
espugnarla dopo quasi un mese con l'ausilio di imponenti opere di ingegneria militare, mentre il re degli
Arverni, benché potesse contare su di un esercito ben più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo
scontro. Fu quindi costretto ad assistere impotente al massacro di tutta la popolazione della città (oltre 40
000 persone), ma riuscì ad ottenere l'appoggio di altre popolazioni galliche.
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Le popolazioni della Gallia ai tempi delle guerre di Cesare
Affidato ai luogotenenti l'incarico di occuparsi del resto della Gallia, Cesare puntò su Gergovia,
capitale degli Arverni, dove Vercingetorige si era asserragliato. Sconfitto, anche se di misura, in uno
scontro, Cesare fu costretto a togliere l'assedio, preoccupato dalle voci che gli annunciavano una defezione
degli Edui, suoi storici alleati. Intanto Vercingetorige, che si vide confermare il comando della guerra
dall'assemblea pangallica, evitò nuovamente una vera battaglia in campo aperto, e decise di rinchiudersi
nella città di Alesia.
Lì Cesare lo raggiunse e fece costruire una doppia linea di fortificazione che si estendeva per oltre
17 chilometri: egli, infatti, si aspettava l'arrivo di un esercito di rinforzo, e temeva che i suoi 50 000 legionari
potessero rimanere schiacciati tra le forze nemiche. Di fatti, dopo oltre un mese, a sostegno dei 60 000
assediati giunsero altri 240 000 armati, che attaccarono le dieci legioni di Cesare: egli, guidando l'esercito in
prima persona assieme a Labieno, ottenne una decisiva vittoria e costrinse Vercingetorige a consegnarsi.
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La Gallia dopo le conquiste di Cesare
Finiva così la ribellione gallica, e Roma poteva dirsi ormai padrona di una nuova immensa
estensione territoriale. Tra il 51 e il 50 a.C., Cesare non ebbe infatti che da sedare alcune rivolte locali, e
poté riconciliarsi con le tribù che aveva combattuto: nel 50, infine, dichiarò la Gallia, ormai totalmente in suo
possesso, provincia romana, e nel 49 a.C. le sue legioni poterono finalmente tornare in Italia.
Dopo aspri dissensi con il senato, Cesare varcò in armi il fiume Rubicone, che segnava il confine
politico dell'Italia; il senato, di contro, si strinse attorno a Pompeo e, nel tentativo di difendere le istituzioni
repubblicane, decise di dichiarare guerra a Cesare (49 a.C.). Dopo alterne vicende, i due contendenti si
affrontarono a Farsalo, dove Cesare sconfisse irreparabilmente il rivale. Pompeo cercò quindi rifugio in
Egitto, ma lì fu ucciso (48 a.C.). Anche Cesare si recò perciò in Egitto, e lì rimase coinvolto nella contesa
dinastica scoppiata tra Cleopatra VII ed il fratello Tolomeo XIII: risolta la situazione, riprese la guerra, e
sconfisse il re del Ponto Farnace II a Zela (47 a.C.). Partì dunque per l'Africa, dove i pompeiani si erano
riorganizzati sotto il comando di Catone, e li sconfisse a Tapso (46 a.C.). I superstiti trovarono rifugio in
Spagna, dove Cesare li raggiunse e li sconfisse, questa volta definitivamente, a Munda (45 a.C.).
Il patto triumvirale, che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era ormai del tutto inesistente, da
quando Crasso, come era stato deciso nel 55 a.C. in un incontro tra i tre triumviri a Lucca (dove Cesare si
era visto prorogare per un altro quinquennio il proconsolato nelle Gallie), si era recato in Siria a combattere
i Parti ed era morto a Carre.
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Territori romani e stati indipendenti alla morte di Cesare
Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, nominandolo
consul sine collega nel 52 a.C., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Anche negli anni
seguenti il senato aveva fatto in modo che i consoli eletti fossero sempre appartenenti alla factio dei
pompeiani e che osteggiassero dunque le mosse del proconsole di Gallia; Cesare, di contro, aveva in
mente di ottenere il consolato per il 49 a.C., in modo da poter tornare a Roma senza divenire oggetto di
procedure penali e, una volta rientrato nell'Urbe, impadronirsi del potere. Per questo, nel 50 a.C., gestendo
le sue scelte politiche dalla Gallia Cisalpina, richiese al senato la possibilità di candidarsi al consolato in
absentia, ma se la vide nuovamente negare, come già era successo nel 61 a.C. Comprese le intenzioni del
senato, Cesare fece avanzare ai suoi tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione una
proposta che prevedeva che tanto lui quanto Pompeo avrebbero sciolto le loro legioni entro la fine
dell'anno. Il senato, invece, ingiunse a entrambi i generali di inviare una legione per la progettata spedizione
contro i Parti, mentre elesse consoli per il 49 a.C. Lucio Cornelio Lentulo Crure e Gaio Claudio Marcello,
feroci avversari di Cesare. Questi fu dunque costretto a lasciare andare una delle sue legioni, che si radunò
con quella offerta da Pompeo nel sud dell'Italia; gli uomini di Cesare, tuttavia, svolsero un importante lavoro
di disinformazione, convincendo Pompeo che il loro amato generale era in realtà odiato dai suoi soldati per
il suo comportamento dispotico. Cesare, intanto, ordinò ad Antonio e Curione di avanzare una nuova
proposta in senato, chiedendo di poter restare proconsole delle Gallie conservando solo due legioni e
candidandosi in absentia al consolato. Sebbene Cicerone fosse favorevole alla ricerca di un compromesso,
il senato, spinto da Catone, rifiutò la proposta di Cesare, ordinando anzi che sciogliesse le sue legioni entro
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la fine del 50 a.C. e tornasse a Roma da privato cittadino per evitare di divenire hostis publicus. Cesare
ordinò allora ai tribuni della plebe di osteggiare, tramite il diritto di veto, il senato, ma questi, al principio del
49 a.C., furono costretti a scappare da Roma. Cesare allora decise di varcare con le sue legioni il confine
politico della penisola italiana, il fiume Rubicone. Il 9 gennaio ordinò a cinque coorti di marciare fino alla riva
del fiume, ed il giorno successivo lo attraversò, pronunciando la storica frase "alea iacta est".
Con quest'atto Cesare dichiarò ufficialmente guerra al senato ed alla res publica, divenendo nemico
dello stato romano. Si diresse verso sud spostandosi lungo la costa adriatica, nella speranza di poter
raggiungere Pompeo prima che lasciasse l'Italia, per tentare di riconciliarsi con lui; Pompeo, al contrario,
allarmato, si rifugiò in Puglia, con l'obbiettivo di raggiungere assieme alla sua flotta la penisola balcanica.
L'inseguimento da parte dello stesso Cesare fu inutile, in quanto Pompeo riuscì a scappare assieme ai
consoli in carica e a gran parte dei senatori a lui fedeli, e a mettersi in salvo a Durazzo. Cesare allora,
rientrato a Roma dopo anni di assenza, si impossessò delle ricchezze contenute nell'erario e decise poi di
marciare contro la Spagna (che gli accordi di Lucca avevano assegnato a Pompeo); giunto in Provenza,
lasciò tre legioni al comando di Decimo Bruto e Gaio Trebonio con l'incarico di assediare Marsiglia, che
cadde in mano ai cesariani solo dopo mesi di assedio. Egli invece proseguì verso la penisola iberica, dove
combatté contro i tre legati di Pompeo che amministravano la regione: dopo mesi di scontri riuscì ad avere
la meglio e poté tornare in Italia. Assunta per pochi giorni la dittatura e ottenuta l'elezione al consolato per il
48 a.C., Cesare decise di attaccare Pompeo nella penisola balcanica, salpando da Brindisi nel gennaio del
48 a.C. assieme al suo luogotenente Marco Antonio. Il primo scontro contro i pompeiani si ebbe a Durazzo,
dove Cesare subì una pericolosa sconfitta di cui Pompeo non seppe approfittare. Si arrivò allo scontro in
campo aperto, però, solo il 9 agosto, presso Farsalo: qui le forze di Pompeo, ben più numerose, furono
sconfitte, e i pompeiani furono costretti a consegnarsi a Cesare, sperando nella sua clemenza, o a fuggire.
Pompeo cercò rifugio in Egitto, presso il faraone Tolomeo XIII, suo vassallo, ma il 28 settembre, per
ordine dello stesso faraone, fu ucciso. Cesare, che si era lanciato all'inseguimento del rivale, se ne vide
presentare pochi giorni dopo la testa imbalsamata.
In Egitto era in corso una contesa dinastica tra lo stesso Tolomeo XIII e la sorella Cleopatra VII.
Cesare, nell'intento di punire il faraone per l'uccisione di Pompeo, decise di riconoscere come sovrana del
paese Cleopatra, con la quale intrattenne una relazione amorosa e generò un figlio, Tolomeo XV, meglio
noto come Cesarione. La scelta di Cesare non fu ben accolta dalla popolazione di Alessandria d'Egitto, che
lo costrinse a rinchiudersi con Cleopatra nel palazzo reale; qui il generale romano, disponendo di
pochissimi soldati, fu costretto a costruire opere di fortificazione, e a rimanere bloccato nel palazzo fino
all'arrivo dei rinforzi. Tentò più volte di rompere l'assedio usando le poche navi che aveva a disposizione,
ma fu sempre respinto. Temendo che il generale alessandrino si potesse impossessare delle poche navi
rimaste le fece incendiare, nell'incendio andò distrutta la famosa Biblioteca D'Alessandria che conteneva
testi unici e di inestimabile valore. Dopo mesi di assedio, Cesare fu liberato e poté riprendere attivamente la
guerra contro i Pompeiani, che si erano ormai riorganizzati: il re del Ponto Farnace II, a suo tempo alleato di
Pompeo, aveva attaccato i possedimenti romani, mentre molti esponenti della nobilitas senatoriale si erano
rifugiati, sotto il comando di Catone l'Uticense, in Africa.
Cesare decise di recarsi in Siria per combattere Farnace, che aveva sconfitto le scarne guarnigioni
romane: dopo alcuni fallimentari tentativi di trattativa, Cesare mosse contro Farnace a Zela, dove lo
sconfisse senza nessuna fatica, costringendolo a ritirarsi verso nord. Qui Farnace tentò di riorganizzarsi
reclutando nuove truppe, ma fu sconfitto e ucciso da un suo ex collaboratore.
Ristabilita la pace in Oriente, nel 46 a.C. Cesare tornò a Roma, dove alcune legioni al comando di
Marco Antonio si stavano ribellando, in attesa della somma di denaro che lo stesso Cesare aveva
promesso loro prima della battaglia di Farsalo. Con un'abile mossa, Cesare fece leva sull'orgoglio dei
legionari e sull'attaccamento che provavano verso di lui per convincerli a rimanere al suo servizio, e con
essi partì per l'Africa.
Qui i pompeiani, che erano sotto la guida di Catone, avevano radunato un grande esercito, affidato a
Tito Labieno e Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, e avevano stretto alleanza con il re di Numidia
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Giuba I. Dopo alcune scaramucce, Cesare diede battaglia presso Tapso, dove sconfisse l'esercito
avversario. Metello e Giuba morirono in battaglia, mentre Catone, che era a capo della rivolta, venuto a
sapere della sconfitta, si suicidò a Utica. Labieno e i due giovani figli di Pompeo, Gneo e Sesto, riuscirono
invece ad evitare la cattura e a rifugiarsi in Spagna.
Pacificata l'Africa, Cesare poté tornare a Roma nel corso del 46 a.C., dove fu gioiosamente accolto
dalla popolazione: la pace sembrava essere tornata, e l'Italia non aveva dovuto essere il teatro di nuove
violenze, come lo era stata durante le precedenti guerre civili. Di Cesare, anzi, si lodava la clemenza, che lo
aveva spinto a risparmiare ed accogliere presso di sé tutti i pompeiani che gli si erano presentati dopo
Farsalo, e ad evitare nuovi eccidi come le proscrizioni sillane, di cui aveva rischiato di rimanere vittima nella
giovinezza. Giunto a Roma, inoltre, poté annunciare l'annessione delle Gallie e della Numidia e la conferma
del protettorato sull'Egitto, assicurando così all'Urbe un migliore rifornimento di generi alimentari (tra cui il
grano e l'olio), che allontanava il pericolo di carestie ed altri eventuali problemi di approvvigionamento.
Tra l'agosto e il settembre del 46 a.C., celebrò quattro volte il trionfo, per tutte le campagne militari
che aveva con successo portato a termine: quella di Gallia, quella in Egitto, quella in Siria contro Farnace e
quella in Africa. In ogni occasione Cesare, vestito di abiti di porpora, percorse sul carro trionfale la via
Sacra, mentre dietro di lui scorrevano i legionari, il bottino e i prigionieri.
Ad ornare il corteo, in quell'occasione, ci fu Vercingetorige che, catturato da Cesare ad Alesia, era da
cinque anni rinchiuso in prigione; terminata la celebrazione fu subito strangolato.
In occasione dei suoi trionfi, Cesare offrì agli abitanti di Roma rappresentazioni teatrali, corse, giochi
di atletica, lotte tra gladiatori e ricostruzioni di combattimenti terrestri e navali (si trattò delle prime
naumachie mai rappresentate a Roma), e organizzò dei banchetti ai quali presero parte oltre duecentomila
persone. Utilizzando i bottini delle varie campagne, che ammontavano a oltre 600 000 sesterzi, poté
finalmente elargire le somme di denaro che aveva da tempo promesso al popolo e ai legionari: ogni
abitante dell'Urbe beneficiò di 75 denari, a cui se ne andarono ad aggiungere altri 25 come indennizzo per il
ritardo nella consegna dei denari stessi; ogni legionario, invece, ricevette 24 000 sesterzi e un lotto di terra.
Cesare, infine, annullò le pigioni che ammontavano, a Roma, a meno di 1000 sesterzi, e quelle che
ammontavano, in tutto il resto dell'Italia, a meno di 500.
Contemporaneamente, Cesare poté soddisfare le rivendicazioni dei populares, avviando la
riorganizzazione del mondo romano. Ordinò un censimento degli abitanti di Roma in modo da poter
migliorare la gestione cittadina, e fondò nuove colonie nelle province dove fece insediare oltre 80 000 tra
esponenti del sottoproletariato urbano di Roma e soldati in congedo: in questo modo poté rifondare città
come Cartagine e Corinto, distrutte in guerra quasi centocinquant'anni prima.
La pace ristabilita dopo Tapso si rivelò quanto mai precaria, e già sul finire del 46 a.C. Cesare fu
costretto a recarsi in Spagna, dove i pompeiani si erano ancora una volta riorganizzati sotto il comando dei
superstiti della guerra d'Africa, i due figli di Pompeo e Tito Labieno. Si trattò della più difficile e sanguinosa
di tutte le campagne della lunga guerra civile, dove l'abituale clemenza lasciò il passo ad efferate crudeltà
da ambo le parti. La guerra si concluse con la battaglia di Munda, nell'aprile del 45 a.C., dove Cesare
affrontò finalmente i suoi avversari sul campo, e li sconfisse irreparabilmente. Si trattò, comunque, della più
pericolosa delle battaglie combattute da Cesare, che arrivò persino a disperare della vittoria e a pensare di
darsi la morte. Tito Labieno cadde sul campo, mentre Gneo Pompeo fu ucciso poco tempo dopo; solo
Sesto riuscì a salvarsi, rifugiandosi in Sicilia. Alla vittoria contribuì, seppure in minima parte, il giovane
pronipote dello stesso Cesare, Ottavio, che, giunto in Spagna dopo un lungo periodo di malattia, diede
prova del suo valore, spingendo lo zio ad adottarlo nel testamento.
Tornato a Roma nell'ottobre, Cesare, eliminato finalmente ogni oppositore, celebrò il trionfo sui figli di
Pompeo che aveva appena sconfitto nella campagna ispanica: si trattava di un qualcosa che non era affatto
contemplato dalla tradizione romana, che permetteva la celebrazione di un trionfo solo su genti esterne e
non su cittadini romani. Anche Silla, che pure aveva riformato la res publica secondo il suo volere, non
aveva celebrato alcun trionfo per le vittorie nella guerra civile contro i populares. Il comportamento di
Cesare, che apparve anche ai suoi contemporanei come un pericoloso errore politico, turbò profondamente
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il popolo romano, che vide così festeggiare le distruzione della stirpe del più forte e più sventurato tra i
Romani.
Alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49 a.C., Cesare prese il potere a Roma come dictator,
titolo che mantenne fino alla morte nel 44 a.C., e ottenne il consolato per l'anno successivo. Dopo esser
stato nominato dictator con carica decennale nel 47 a.C., e detenendo anche il titolo di imperator, fu
ripetutamente eletto console nel 46, nel 45 e nel 44 a.C., quando, il 14 febbraio, ottenne anche la carica di
dittatore a vita, che sancì definitivamente il suo totale controllo su Roma.
Assunta la dittatura, Cesare continuò l'attuazione di alcune di quelle riforme che erano state portate
avanti da Silla quasi cinquant'anni prima. Decise di estendere la cittadinanza romana agli abitanti della
Gallia Cisalpina, e portò a novecento il numero dei senatori, inserendo nell'assemblea degli uomini a lui
fedeli. Intese, inoltre, rafforzare le assemblee popolari a detrimento del senato stesso, che avrebbe dovuto
gradualmente perdere la propria autonomia decisionale. Fu il primo, poi, a tentare di adattare la burocrazia
della res publica alle nuove esigenze che essa mostrava di avere: dopo la conquista della Gallia e
l'espansione ad Oriente c'era bisogno di una migliore gestione del potere e di un apparato statale più
efficiente. Egli, perciò, con il duplice obiettivo di risolvere i neonati problemi e di offrire cariche ai suoi
sostenitori politici:
a) aumentò il numero dei magistrati: i questori passarono da venti a quaranta, i pretori da otto a
sedici, gli edili furono sei. I consoli rimasero due, con l'aggiunta di altri due magistrati che, seppure privi di
qualsiasi imperium consolare, potevano poi svolgere le funzioni dei proconsoli;
b) si fece attribuire il diritto di nominare metà dei magistrati, e poteva comunque raccomandarne altri
e fare in modo che venissero eletti ugualmente;
c) mise mano alla composizione del senato: per supplire alle numerose perdite dovute alla guerra
civile, immise nel senato molti nuovi membri a lui fedeli, portando fino a ottocento o novecento il numero dei
membri dell'assemblea, fissato in precedenza da Silla a seicento, e ammettendovi anche uomini originari
delle province spagnole e galliche.
Rinnovò l'organizzazione dei municipi italiani e, per quanto riguarda l'amministrazione provinciale,
decise di limitare la durata degli incarichi dei governatori (che, per i proconsoli, poteva raggiungere i cinque
anni) a un anno per i propretori e due anni per i proconsoli. Tutti questi provvedimenti rimasero in vigore
anche dopo la morte di Cesare grazie ad un accordo tra il leader del senato Cicerone e quello cesariano
Antonio che, in cambio, dovette accettare la concessione di un'amnistia ai cesaricidi.
Più volte nel corso della sua lunga carriera politica Cesare favorì la nascita di nuove opere
architettoniche, sempre con l'obiettivo di stupire la plebe ed acquisire così una popolarità sempre maggiore.
Cesare lanciò un vasto programma di opere pubbliche che prevedeva la costruzione di un nuovo foro
presso l'Argileto. Con la dittatura, raggiunto il culmine del potere, Cesare poté adoperare ogni mezzo per la
costruzione di opere sempre più grandiose: con il pretesto della celebrazione dei giochi per il suo trionfo,
fece ingrandire il circo costruendovi nuovi settori di scalinate, in modo che vi potessero prendere posto più
persone; ordinò la realizzazione di uno stadio per i lottatori nel Campo Marzio e fece scavare sulla riva del
Tevere un bacino che ospitasse naumachie. Cercò anche di rinnovare il vecchio foro, programmando la
costruzione di una nuova curia, in quanto la Curia Hostilia era stata distrutta nel 52 a.C. da un incendio.
Cesare diede il via alla costruzione di una nuova struttura, la Curia Iulia, la cui realizzazione si
interruppe durante il lungo periodo delle guerre civili per essere poi ripresa da Augusto e completata nel 29
a.C. Quando fu portato a termine il grande bacino per le naumachie, Cesare progettò anche la costruzione
di un tempio di Marte, che doveva essere più grande di qualsiasi altro, di una nuova basilica che doveva
sorgere nell'area della vecchia basilica Sempronia, e di un nuovo immenso teatro stabile in pietra, ai piedi
del monte Tarpeo. Cesare non poté vedere realizzati i suoi progetti a causa della sua prematura morte, ma
essi furono portati a termine da Augusto, che costruì, infatti, il tempio di Marte Ultore, la basilica Giulia e il
teatro di Marcello. Non fu invece mai realizzata la biblioteca che Cesare intendeva costruire per raccogliervi
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le opere in lingua latina e greca, per la cui realizzazione si stava già adoperando, prima della morte del
dittatore, Marco Terenzio Varrone.
Per decongestionare la città di Roma, che con il continuo arrivo di nuovi abitanti che andavano ad
ingrossare le file del sottoproletariato urbano era ormai decisamente sovrappopolata, Cesare decise di
modificarne i confini amministrativi, allargando il perimetro del pomerium ad un miglio romano (1480 metri)
dalle antiche mura. Questa misura fu appena sufficiente, tanto che Augusto, pochi anni più tardi, dovette
rimettere mano all'organizzazione dell'Urbe allargandone il perimetro e stabilendone la suddivisione in
quattordici rioni (regiones).
Per migliorare la gestione cittadina, Cesare decise di censirne la popolazione, escogitando per
questo un metodo innovativo, che soppiantasse il vecchio procedimento che prevedeva il passaggio dei
cittadini, divisi per tribù, presso gli "uffici" di coloro che si occupavano del censimento. Cesare dispose che il
censimento fosse organizzato nei singoli quartieri, e che se ne dovessero occupare i proprietari degli
immobili che ospitavano le case. Il metodo dovette essere efficace, perché anche Augusto lo adottò per
censire la popolazione, una volta preso il potere. Svetonio, senza riferire il risultato di questo censimento,
dice che esso permise di abbassare da 320 000 a 150 000 il numero di coloro che, in quanto nullatenenti,
beneficiavano delle assegnazioni di grano da parte dello stato. Inoltre, per evitare che si creasse occasione
di malcontento, Cesare decise che, anno per anno, i pretori avrebbero tirato a sorte i nomi di coloro che,
morto un beneficiario delle assegnazioni, ne avrebbero preso il posto.
Un ultimo progetto, che Cesare attuò con l'obiettivo di migliorare quanto più possibile la circolazione
in una città dalle strade strette e spesso ingombre, fu quello di vietare durante il giorno la circolazione a tutti
i veicoli a ruote, ad eccezione dei carri per le processioni e di quelli adoperati per il trasporto di materiali da
costruzione nei cantieri. Questa legge fu votata e approvata soltanto dopo la morte di Cesare, ma restò in
vigore per molti secoli, dimostrando quindi che la necessità di migliorare la circolazione per le vie di Roma
continuò a lungo a farsi sentire.
Le guerre civili che Cesare condusse suscitarono forti difficoltà economiche: c'era, per esempio, il
bisogno di stipendiare tutti i legionari dislocati nei luoghi delle diverse spedizioni. A partire dal 49 a.C.,
allora, Cesare si dotò di una propria zecca personale, che lo seguiva sul teatro di ogni sua operazione e
coniava le monete di cui c'era un bisogno sempre crescente. Non si trattava di una pratica nuova: il senato,
infatti, l'aveva autorizzata già in precedenza per i grandi corpi di spedizione di Lucio Licinio Lucullo o di
Pompeo Magno in Oriente, ma Cesare prese l'iniziativa spontaneamente, impossessandosi, senza alcuna
autorizzazione, delle riserve auree contenute nell'erario.
Egli apportò, comunque, due grandi innovazioni alla monetazione, che furono poi riprese da
Ottaviano e Marco Antonio per divenire d'uso comune in tutta l'epoca imperiale. Cesare per primo, infatti
ordinò la coniazione di monete in oro; in più fece imprimere il proprio ritratto sulle monete.
A Roma non erano mai state emesse monete in oro se non temporaneamente e in momenti di
grandissimo pericolo (come le fasi cruciali della seconda guerra punica) dietro la decisione del senato.
L'emissione dell'aureus, dunque, si ricollegava all'idea di attingere alle riserve d'oro per salvare la res
publica in pericolo; inoltre, l'elevato valore della moneta (un aureus valeva 25 denari o 100 sesterzi)
facilitava l'assegnazione di gratifiche ai soldati. I soggetti rappresentati sulle facce delle monete, infine,
avevano un forte valore propagandistico.
Una volta divenuto unico padrone di Roma, Cesare, sebbene avesse ormai raggiunto un'età
venerabile, era deciso ad attuare nuove campagne di espansione, sempre sull'esempio dell'uomo che ne
aveva ispirato le imprese militari, Alessandro Magno. Intendeva quindi vendicare la sconfitta di Crasso a
Carre contro i Parti e sottomettere l'intera Europa continentale, attuando una campagna nella zona
danubiana contro i Daci di Burebista, una in Dalmazia ed un'altra contro le popolazioni della Germania
libera, che troppo spesso avevano interferito nel corso della difficile conquista della Gallia.
A causa della sua morte violenta e prematura, Cesare non poté attuare nessuna delle campagne che
aveva programmato. Benché fossero già stati nominati coloro che avrebbero condotto la campagna contro i
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Parti, della cui organizzazione si stava occupando anche il giovane Ottaviano, e fossero già stati incaricati i
magistrati che avrebbero retto lo stato durante l'assenza di Cesare, essa non fu mai realmente portata a
termine, tanto che la zona orientale dell'impero rimase sempre una delle più instabili. Tuttavia, più tardi, nel
20 a.C., Augusto si accordò con i Parti ed ottenne la restituzione delle insegne sottratte a Crasso a Carre.
Le altre imprese che Cesare preparava furono invece portate a termine in tempi successivi: la
Dalmazia fu completamente assoggettata da Augusto dopo la rivolta dalmato-pannonica del 6-9; la
Germania fu occupata solo per un ventennio sotto Augusto, ed i confini romani rimasero a dove li aveva
lasciati Cesare, sul Reno; la Dacia, infine, fu conquistata da Traiano nel 106, dopo due campagne militari.
A Cesare va comunque il merito di aver sottomesso il mondo celtico, che costituiva uno dei principali
pericoli per l'espansione romana in Europa: sebbene si trattasse di civiltà meno complesse di quella di
Roma, la loro forza militare, riposta soprattutto nella cavalleria, era notevole, e la loro presenza ai confini
dell'Italia causava una situazione di costante pericolo. Per contro i Galli, una volta entrati a far parte dello
stato romano, furono tra le prime popolazioni provinciali a ricevere la cittadinanza, accettando di buon
grado il processo di romanizzazione.
Giulio Cesare è considerato, tanto dagli autori moderni quanto dai suoi contemporanei, il più grande
genio militare della storia romana. Egli seppe stabilire con i suoi soldati un rapporto tale di stima e
devozione appassionata, da poter mantenere la disciplina evitando sempre il ricorso alla violenza contro i
suoi stessi uomini. Nel corso della campagna di Gallia, Cesare non vietò mai ai suoi soldati di far bottino,
ma il legionario doveva aver sempre ben chiaro l'obiettivo finale, e le sue azioni non dovevano in nessun
modo condizionare i piani operativi della campagna del suo comandante. Conscio della situazione disagiata
dei soldati, che venivano di solito ricompensati al congedo con una concessione di ager publicus ma che
fino a quel momento erano costretti a vivere con poco, di sua iniziativa, tra il 51 e il 50 a.C. decise di
raddoppiarne la paga, che passò da 5 a 10 assi al giorno (pari a 225 denarii annui). La riforma fu così ben
accolta che la paga del legionario rimase invariata fino a quando l'imperatore Domiziano (81-96) prese
nuovi provvedimenti.
Egli fu, inoltre, il primo a comprendere che una dislocazione di parte delle forze militari repubblicane
(legioni e truppe ausiliarie) doveva costituire la base per un nuovo sistema strategico di difesa globale lungo
tutti i confini, ed in particolare in quelle aree "a rischio". Durante la campagna di Gallia, infatti, negli inverni
posizionava le sue legioni in aree strategiche, in modo che la situazione rimanesse tranquilla nei momenti
in cui non ci fosse la possibilità di intervenire prontamente in caso di necessità.
Creò un cursus honorum per il centurionato, che si basava sui meriti del singolo individuo, tanto che
a seguito di gesti particolari di eroismo, alcuni soldati potevano essere promossi ai primi ordines, dove al
vertice si trovava il primus pilus o primipilare di legione. Inoltre, poteva anche avvenire che un primus pilus
venisse promosso a tribunus militum. Si andava indebolendo, pertanto, la discriminazione tra ufficiali e
sottufficiali, e si rafforzava lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità.
Egli, contrariamente a quanto avevano fatto molti dei suoi predecessori, che fornivano alle truppe
donativi occasionali, reputò fosse necessario dare continuità al servizio che i soldati prestavano, e istituì il
diritto ad un premio per il congedo: era da tempo in uso la consuetudine di donare appezzamenti di terreno
ai veterani, ma si trattava di qualcosa che, almeno fino ad allora, era sempre avvenuto a discrezione dei
generali e del senato.
Cesare nominò consoli per il 44 a.C. se stesso e il fidato Marco Antonio, e attribuì invece la pretura a
Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino. Quest'ultimo, spinto anche dalla delusione causatagli dal non
aver ottenuto il consolato, si fece interprete dell'insofferenza di ampia parte della nobilitas, e incominciò ad
organizzare una congiura anticesariana. Trovò l'appoggio di molti uomini, tra cui molti dei pompeiani passati
dalla parte di Cesare, e anche alcuni tra coloro che erano sempre stati al fianco dello stesso Cesare a
partire dalla guerra di Gallia, come Gaio Trebonio, Decimo Giunio Bruto Albino, Lucio Minucio Basilo e
Servio Sulpicio Galba.
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I congiurati, e primo tra loro lo stesso Cassio, decisero di cercare l'appoggio di Marco Bruto: egli era
infatti un lontanissimo discendente di quel Lucio Giunio Bruto che nel 509 a.C. aveva scacciato il re
Tarquinio il Superbo e istituito la repubblica, e poteva rappresentare il capo ideale per una congiura che si
proponeva di uccidere un nuovo tiranno. Bruto era inoltre nipote e grande ammiratore di Catone Uticense, e
poteva infine trovare nella propria filosofia, a metà tra lo stoicismo e la dottrina accademica, le convinzioni
per combattere Cesare, al quale era comunque legato.
Il più influente tra i personaggi romani a non aderire alla congiura fu Cicerone, che, pur essendo
amico di Bruto e sperando nell'eliminazione del tiranno Cesare, decise di tenersi fuori dal complotto; egli
tuttavia, auspicò che assieme a Cesare fosse ucciso anche Marco Antonio che, non a torto, vedeva come
un possibile successore del dittatore.
Secondo la tradizione, la morte di Cesare fu preceduta da un incredibile numero di presagi il cui
valore era radicato nella cultura romana.
Il giorno delle Idi di marzo, cioè il 15, Calpurnia pregò dunque Cesare di restare in casa, ma quegli,
che la sera prima aveva detto, a casa di Lepido, che avrebbe preferito una morte improvvisa allo sfinimento
della vecchiaia, sebbene si sentisse poco bene, fu convinto dal congiurato Decimo Bruto Albino a recarsi
comunque in senato, in quanto sarebbe sembrato sconveniente che non salutasse neppure tutti i senatori
che si erano riuniti per nominarlo, proprio quel giorno, re. Cesare, che poco più di un mese prima aveva
imprudentemente deciso di congedare la scorta che sempre lo accompagnava, uscì dunque in strada,
Entrato in senato, si andò a sedere ignaro al suo seggio, dove fu subito attorniato dai congiurati che
finsero di dovergli chiedere grazie e favori. Mentre Decimo Bruto intratteneva il possente Antonio fuori dalla
Curia, per evitare che prestasse soccorso, al segnale convenuto, Publio Servilio Casca Longo sfoderò il
pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla
indebolito, cercò di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore dicendo
"Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma questa è violenza!" Casca, allora, chiese aiuto al fratello e
tutti i congiurati che si erano fatti attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo:
Cesare tentò inutilmente di schivare le pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e
vide anche Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si coprisse il capo con la toga
prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate. Cadde ai piedi della statua di Pompeo, pronunciando ultime
parole che sono state riferite in vario modo: "Anche tu Bruto, figlio mio!")
Come erede principale a cui spettavano i tre quarti delle sue ricchezze, Cesare lasciò il giovane
pronipote diciottenne Ottavio, che si trovava nell'Illirico, ad Apollonia, poiché doveva sovraintendere
all'organizzazione dei preparativi per le due grandi spedizioni che Cesare aveva intenzione di intraprendere:
quella contro i Daci di Burebista e l'altra contro i Parti, in Oriente. Ottavio, una volta informato dell'uccisione
del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare.
Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario e Quinto Pedio, a cui spettò il restante quarto del
patrimonio di Cesare; solo Ottavio, però, poté prendere, in quanto suo figlio adottivo, il nome del defunto,
divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare lasciò inoltre agli abitanti di Roma trecento sesterzi
ciascuno e i suoi giardini sulle rive del Tevere.
Il 20 marzo il corpo di Cesare fu cremato nel foro: i cesaricidi avevano inizialmente pensato di
buttarlo nel Tevere subito dopo l'assassinio, ma il proposito era rimasto incompiuto in quanto molti senatori,
spaventati da quanto era successo, avevano subito lasciato il senato. Marco Antonio, che era divenuto il
nuovo leader cesariano (Ottaviano era ancora in Illirico), fece costruire la pira nel campo Marzio, in
prossimità della tomba della figlia di Cesare, Giulia, e fece collocare nel foro, vicino ai Rostri, un'edicola
dove fece esporre la toga insanguinata che Cesare indossava al momento della morte. Innumerevoli
persone sfilarono nel campo Marzio per portare doni e si celebrarono dei ludi in memoria del defunto.
Antonio, lesse poi, come laudatio funebris, il decreto con cui il senato aveva conferito a Cesare tutti gli onori
umani e divini e con cui gli stessi senatori si erano impegnati a proteggere Cesare. Decise, poi, di far
trasportare il corpo del defunto per il foro, portato a braccio da magistrati su di un lenzuolo, in modo che
fossero ben visibili le pugnalate che egli aveva ricevuto.
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Nessun diritto di successione poté mai reclamare Cesarione, figlio naturale di Cesare, concepito con
la regina d'Egitto, Cleopatra VII, durante il suo soggiorno del 48 a.C. La regina egiziana rimase famosa per
essere stata non solo l'amante di Marco Antonio dopo la morte del dittatore, ma soprattutto per aver
collaborato con lui al fine di creare un nuovo impero in Oriente che potesse contrastare il crescente potere
di Ottaviano in Occidente. Il dissenso nato così tra Antonio e Ottaviano determinò una nuova guerra civile
che culminò con la morte degli stessi Antonio e Cleopatra nel 30 a.C. e la trasformazione, attuata da
Ottaviano, della Repubblica romana in impero.
Si dice che nel 42 a.C., quando gli eserciti di Marco Antonio e Ottaviano si apprestavano ad
attaccare quelli dei cesaricidi Bruto e Cassio a Filippi, la figura di un uomo di incredibile grandezza e
d'aspetto spaventoso fosse apparsa nella tenda di Bruto. Questi, riconosciuta la figura di Cesare, chiese
all'ombra chi fosse. Essa rispose: "Il tuo cattivo demone, Bruto. Mi rivedrai a Filippi", e Bruto
coraggiosamente rispose a sua volta: "Ti vedrò". Pochi giorni dopo, a Filippi, quando la vittoria dei cesariani
era ormai certa, Cassio si suicidò con il pugnale con cui aveva trafitto Cesare, e poco dopo anche lo stesso
Bruto, per non cadere in mano nemica, si diede la morte. Così, a due anni dall'assassinio di Cesare, tutti
coloro che avevano preso parte alla congiura avevano perso la vita, e la vendetta del divus era compiuta.
L’ opera di Cesare come scrittore - racchiusa principalmente nei suoi commentari sulla guerra in
Gallia (De bello Gallico) e sulla guerra civile contro Pompeo e il senato (De bello civili) - pone Giulio Cesare
tra i più grandi maestri di stile della prosa latina.
Le narrazioni, apparentemente semplici ed in stile diretto, sono di fatto un annuncio molto sofisticato
del suo programma politico, in modo particolare per i lettori di media cultura e per la piccola aristocrazia
d'Italia e delle province dell'Impero.
Le sue principali opere letterarie giunte sino a noi sono i commentari sulle campagne per
sottomettere i Galli, fra il 58 e il 52 a.C. (Commentarii de bello Gallico). L'opera consta di sette libri, più un
libro ottavo, composto probabilmente dal luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, per completare il resoconto
della campagna e coprire il lasso di tempo che separa la guerra di Gallia da quella civile: si tratta di
un'opera che presenta interessanti riferimenti etnografici sulle popolazioni incontrate durante il viaggio.
Cesare, per aumentare l'obiettività dell'opera, usa la terza persona, anche se si tratta chiaramente di un
metodo per esaltare la sua figura personale e per metterla in rilievo nella narrazione e nelle vicende
descritte. Le descrizioni sono comunque fredde e asettiche, prive di enfasi retorica e partecipazione
emotiva: anche le scelte più terribili, come quelle di sterminare migliaia di persone, appaiono così non solo
necessarie, ma addirittura prive di un'alternativa. Il De bello Gallico risulta così essere un'apologetica opera
di propaganda della campagna di Gallia.
Oltre a quest’opera sono sicuramente di Cesare Commentarii de bello civili, cioè i CC contro le forze
di Pompeo e del senato:. in tre libri Cesare vi spiega e racconta la guerra civile del 49 a.C. ed il suo rifiuto di
ubbidire al senato;
Di Cesare è anche un epigramma in versi su Terenzio, del quale sono giunti a noi solo alcuni
frammenti.
Le opere perdute includono diverse orazioni (in una di esse - l'elogio funebre della zia Giulia - si
affermava la discendenza della gens Iulia da Iulo e quindi da Enea e Venere); un trattato in due libri su
problemi di lingua e stile (De analogia), terminato nell'estate del 54; vari componimenti poetici giovanili; una
raccolta di detti memorabili; un poema sulla spedizione in Spagna nel 45; un pamphlet in due libri, intitolato
Anticato o Anticatones, contro la memoria di Catone Uticense, scritto in polemica con l'elogio di Catone
composto da Cicerone su richiesta di Bruto.
Infine, opere spurie sono, oltre al libro ottavo del De bello Gallico, tre opere del cosiddetto Corpus
Caesarianum:
• il Bellum Hispaniense, sulla guerra in Spagna
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• il Bellum Africum, sulla guerra in Africa
• il Bellum Alexandrinum, sulla guerra in Medio Oriente ed Egitto
Gli autori di queste opere erano probabilmente dei luogotenenti molto fedeli a Cesare, tra i quali
figurano Gaio Oppio e, forse nella redazione del Bellum Alexandrinum, lo stesso Aulo Irzio.
Cesare fu, oltre che grande protagonista politico delle vicende del suo tempo, anche importante
oratore. Le sue orazioni sono andate perdute: esiste un rifacimento dello storico Sallustio di quella
pronunziata il 5 dicembre del 63, mentre di altre orazioni è rimasta solo notizia. I giudizi degli antichi
sull'eloquenza di Cesare erano concordemente positivi.
Giulio Cesare non ebbe mai il titolo di "principe del senato" o di "augusto" come Ottaviano. Tuttavia
fu dittatore dal 49 a.C. al 44 a.C., come non era mai successo in precedenza, e il titolo di imperatore nel
suo significato moderno corrispose al titolo di Caesar (Cesare) nella storia di Roma almeno fino all'inizio
della tetrarchia. Lo storico Svetonio infatti, nelle sue Vite dei dodici Cesari (De vita Caesarum), chiama per
l'appunto Cesari (Caesares) i dodici imperatori di cui tratta, ed inizia la sua narrazione proprio a partire da
Giulio Cesare.
Il nome "Cesare" rimane in molte lingue come sinonimo di "comandante", "leader"; il tedesco Kaiser,
il russo Zar ed il persiano Scià hanno la stessa radice del nome di Cesare, e ci furono in tempi successivi
molti imperatori con quel nome.
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