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Sciacca, F. (a cura di), Giustizia globale. Problemi e prospettive, Rubettino,
Soveria Mannelli, 2011, pp. 210, euro 18,00.
Questo volume collettivo, la cui pubblicazione è legata ai Seminari catanesi di
filosofia politica ed è frutto di ricerche comuni dei vari autori, si indirizza a fornire una
utile mappatura della questione della giustizia globale e dei concetti e temi cruciali che
ad essa si associano. Esso, quindi, tratta una serie di argomenti spesso ritenuti tra i più
importanti e influenti della filosofia politica contemporanea. Nel volume si ritrovano
interventi più generali di studiosi affermati, come soprattutto Kymlicka e Veca, e
contributi più settoriali di ricercatori più giovani.
Il testo si apre appunto con il saggio di Kymlicka dedicato ai diritti delle
minoranze, che negli ultimi anni hanno costituito un tema importante non solo per la
filosofia politica ma anche, molto concretamente, per il diritto internazionale. Kymlicka
coglie a tal proposito, attraverso una disamina puntuale, come “nuovi standard sui diritti
delle minoranze sono emersi all’interno del diritto internazionale allo stesso tempo che
nuove teorie sul multiculturalismo liberale sono emerse in filosofia politica” (p. 97). Il
punto è che però, secondo Kymlicka, esistono limiti all’ampiezza con la quale il diritto
internazionale può servire come veicolo per promuovere il multiculturalismo liberale:
gli standard del diritto internazionale e quelli del multiculturalismo, infatti, convergono
più strettamente nell’area dei diritti indigeni, mentre c’è una maggiore divergenza
rispetto ai diritti degli immigrati. In definitiva, le categorie principali usate nelle teorie
del multiculturalismo liberale sono radicate in particolari regioni del mondo e
potrebbero non funzionare bene su scala globale, anzi esacerbando contrasti etnici.
Se si tiene presente già questo iniziale discorso, pervenire a una teoria della
giustizia globale, è, secondo Veca, il cui contributo occupa il secondo capitolo del
volume, “il compito principale della filosofia politica” (p. 41). Veca argomenta le sue
tesi riallacciandosi ai contributi di Nagel e sottolineando la centralità delle istituzioni
politiche: in quest’ottica egli è portato a ritenere che il primo passo nella direzione di
una teoria della giustizia globale sarà quello di saggiare la legittimità delle istituzioni
internazionali che vi sono e anticipare la fattibilità delle istituzioni internazionali che
dovremmo poter desiderare per il futuro.
Da questi primi due saggi del volume, il lettore può iniziare a comprendere
come, evidentemente, quando si parla di giustizia globale, entri quasi inevitabilmente in
gioco il problema del pluralismo culturale e su questo nesso si impernia il terzo saggio
del libro, scritto da Alfieri, che declina l’argomento in particolare rispetto al dialogo
inter religioso. Da questo punto di vista, Alfieri ritiene esplicitamente che “pensare allo
stato come un’istanza superiore alle religioni, dotato di un proprio autonomo
fondamento di verità che è l’unico che possa valere per l’intera collettività, tutelando le
religioni unicamente nell’ambito della sfera privata, (…) equivale a commettere un
gigantesco errore di prospettiva”(p. 72). Quindi, per Alfieri, lo stato, in senso
autenticamente laico, deve dare la possibilità di cercare ragioni di vita confrontandoci
con l’infinito, non ossificarle dentro costituzioni legali. Laicità significa che lo stato
cede ugualmente il campo davanti a tutte le religioni, “non che si sforza di ridurle tutte
all’insignificanza di gusti personali”(p. 73).
Il discorso filosofico sulla giustizia globale si completa, nel quarto capitolo del
libro, con il contributo del curatore dello stesso, Fabrizio Sciacca, che ritiene pensabile
l’idea di giustizia globale solo se si mette fuori di scena dall’ordine internazionale il
significato tradizionale assegnato all’etica. Il nodo della sua argomentazione si può
rinvenire nella rinuncia a definire giusto l’ordine globale, “per carenza ontologica e
strutturale di materiale argomentativo (giusto rispetto a cosa?)” (p. 86). Dobbiamo,
dunque, secondo Sciacca, tornare a un ordine globale vincolato dal diritto
internazionale, con la sue debolezze e parzialità, “ma almeno formalmente sussunto da
regole giuridiche” (p. 87).
I capitoli successivi del volume, dopo queste prospettive più marcatamente
teoriche e concettuali, toccano punti più settoriali e specifici. Brudholm, così, si occupa
di crimini dell’odio (ossia quei crimini motivati dal pregiudizio o dall’odio dell’autore
verso certe identità di gruppo, sessuali o etniche, ecc.) rispetto ai diritti umani; Renzo
sviluppa una critica del principio del danno internazionale, concentrandosi sul tipo di
danno inflitto alle vittime anziché fare appello al fatto che le vittime vengono trattate in
base a caratteristiche che sono al di là del loro controllo, o al fatto che tali crimini
pongono rischi alla pace o alla sicurezza internazionale; Maimone si sofferma sul tema
delle appartenenze, difendendo il modello politico centrato sulla democrazia
deliberativa, ritenuto in grado di garantire il giusto grado di partecipazione e inclusione,
armonizzando le istanze interculturali; Spoto, da parte sua, analizza la rivolta come
prospettiva di analisi dell’immigrazione, invitando a sgombrare il capo da posizioni
ideologiche sul fenomeno dell’immigrazione, ridimensionando nel dibattito teorico
sull’immigrazione l’eccessiva importanza delle questioni culturali; e, infine, Russo,
considera i confini politici e simbolici dell’accesso globale alle cure, ponendo in luce il
problema di una concezione occidentale di cura probabilmente non sempre
armonizzabile con quella dei paesi poveri non occidentali.
Tutti i saggi proposti dal libro curato da Sciacca, che abbiamo qui cercato
necessariamente di sintetizzare nelle loro tesi fondamentali, contengono spunti per più
ampie e eterogenee riflessioni, contribuendo a dare una visione articolata del vasto
universo teorico che ruota attorno al dibattito sulla giustizia globale.
Francesco Giacomantonio
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