APPRODI DELL'UMANO - IL DIALOGARE MINORE – Edda Ducci PARTE PRIMA - PROPEDEUSI AL DIALOGARE PREMESSA Il tema dell'umano vive se il respiro è ampio, se può distendersi senza paure astratte. Se si trova nel campo dell'educativo, comporta anche dubbiosità, speranza e sensibilità. Spreco dell' umano è un modo di esprimersi che rischia la genericità; si può pensare allo sviluppo della parola, la si adopera per cose futili, distorcendone il grande potenziale. chi va alla ricerca di riflessioni sull' umano incontra posizioni diverse, espresse in modi differenti , ma accomunate da un'idea affermativa sull' uomo: lo si vede come sorgente di energia, originario di dinamiche irripetibili ,capace di cogliere il diverso da sé senza perdere l'identità , anzi bisognoso di ricevere, ma al fine di attuare potenzialità tutte sue. Alla responsabilità dell'educatore appartiene una singolare giustizia verso il soggetto che gli sta di fronte, appartiene anche il render l'altro interessato alla conoscenza e alla volontà di attuazione e di impiego del proprio potenziale, in questa cornice antropologica il senso per la parola ha modulazioni differenti. 1. I PROBLEMI MALEDETTI DELL'EDUCATIVO La realtà educativa è terreno pieno di numerosi problemi. Dal momento che non si è nell'anno zero è d'obbligo e di conforto prendere con se i risultati di scandagli, i vari punti di arrivo che la tradizione occidentale offre. Ma resta anche un altro obbligo se si vuole esser fedeli all'oggetto in questione: quello di non perdere la primitività, conservare la primitività è laborioso e delicato. Ci sono diversi motivi perché la primitività richieda l'accumulo oggettivo di dati e conoscenze: il primo è il disagio interiore connesso con essa (si è responsabili verso sé e verso gli altri quando si estrinseca questo percorso). Il secondo è il disagio esteriore (denunciare qualcosa senza un cospicuo apparato di note e citazioni appare poco scientifico. Della realtà educativa tutti hanno un'esperienza, positiva e negativa, legata al processo del vivere. Di essa perciò ogni essere umano dovrebbe avere un sentito reale e prezioso, che va custodito e salvaguardato. Esso facilita un avvertimento interiore, che può aiutare a discernere le ideologie dalle dottrine oggettivate. Ritornando all'idea di uomo, il soggetto raramente la esprime in termini oggettivi, esso attinge dal suo pensiero e resta perciò presente il vivaio delle motivazioni. Questa idea di uomo si compone di tanti tratti, un tratto nobile di essa è la risposta al quesito se l'uomo vada considerato un enigma o un mistero. L'uomo è enigmatico o misterioso? L'enigma si risolve, il mistero è inesauribile. Le soluzioni possono essere buone, ma sono parziali, non tutte razionalizzabili e lasciano aperto il dubbio riguardo alla loro giustezza. E' di chiara evidenza che quando si presenta una nuova idea-uomo, l'universo educativo interroga, si problematizza o forse anche si rivoluziona. Lo stesso accade quando affiora e sale di grado il disagio per un'educazione soffocante, ovviamente non proporzionata al potenziale umano e quindi repressiva anche se apparentemente liberale. Forse il problema maledetto è quello che conserva una realtà espressa in modi differenti negli autori che l'hanno avvertito. Vale a dire il problema di aiutare l'altro a diventare quel singolo che soltanto lui può essere, per permettergli di trovare il senso della propria vita, quel senso che ne dice l'unicità. L'educatore deve esserci e non esserci, essere presente e attivo, ma non lasciare segni della sua presenza; agire in senso proprio ma il segno di tale agire non deve segnare i prodotti dell'azione. Questa è un'antinomia grande appartenente all'educazione. Se la persona umana è oggetto di un'attenzione rispettosa, se nella considerazione di lei è assente ogni venatura di disprezzo, i termini della descrizione hanno un suono pieno. Ma ogni termine è avvertito sempre come povera cosa rispetto alla realtà che veicola. Paideia, disciplina, educazione, formazione, liberazione, emancipazione, umanazione sono alcuni tentativi per dire una realtà complessa. E' impossibile che un termine si faccia carico di tutto questo. Non soltanto chi è educatore per professione, ma tutti sono coinvolti in una realtà educativa. Perché volere l'educazione? Tante possono essere le risposte: perché ci si preoccupa dell'uomo, per un mestiere o una professione, perché ci si preoccupa per l'andamento della società, per motivi ideologici o confessionali. Penso che si debba volere indicazioni anche soltanto per riportare l'uomo perché se lo merita. La società attuale presenta una difficoltà legata all'individuazione dei bisogni, alla definizione di fini e scopi che servano da punti cardine per il discorso educativo. Gli interventi raccolti in una pubblicazione dell'UNESCO danno la sensazione di guardare il mondo da una certa altezza. E' bene che noi occidentali ci vediamo come una parte, non come il tutto. Non è retorico parlare di angoscia per chi si occupa dell'educativo in teoria o in pratica, a causa della difficoltà circa la distinzione tra bisogni naturali e bisogni indotti dalla superficialità delle mode. La tensione al realizzarsi tradotta in tensione al giusto relazionarsi avvia all'operatività anche se non è tutta chiara e forse lo diventa soltanto in itinere, non a fermo. Il problema bisogni si affronta meglio quando si impara a scavare in se negli altri e si accetta di aiutare gli altri a scavare. Sarebbe già molto anche il solo interrogarsi. Oggi si intravedeva una volontà intesa a riannodare i fili scioccamente spezzati, per esempio con la morale. È sempre utile rammentare che i fini giustificano, motivano, guidano, direzionano la prassi, per cui la domanda della fonte da cui dedurli è fondamentale. Così come non è trascurabile la domanda circa il terreno in cui possono nascere e rivelarsi. L'urgenza di fare educazione può convincere moduli oltremodo semplificati, troppo parsimoniosi nelle richieste da fare ai candidati. I motivi del decidere di essere educatori sono tanti: ci sono i professionisti, ci sono quelli a cui questo compito viene come conseguenza di una scelta di vita, quelli per cui si tratta di sbocco lavorativo, infine c'è quel margine in cui tutti si esercita un po' la funzione dell'educatore, si pensa o si presume di esercitarla. Le proporzioni tra modo di essere e professionalità e la connessione dell'una all'altra, mediante un certo ethos sono e sono stati oggetto costante di analisi. L'ultimo problema riguarda il linguaggio educativo, problema modesto all'apparenza ma nevralgico nella sostanza. Il dialogare si situa e si offre per il rilevamento di ciò che è più proprio dell'uomo, da ciò che si annida nella sua interiorità e può essere veicolato da una parola che è risposta. 2. IL LINGUAGGIO EDUCATIVO Esistono due tipi di linguaggio: il linguaggio pedagogico e il linguaggio educativo. Quanto concerne l'educazione è oggetto conoscibile, su cui si indaga e si studia, esso prevede e consente modalità di approccio, di comunicazione e di azione, propriamente sue. Ad esse rimanda e di esse si avvale il linguaggio pedagogico. Il linguaggio pedagogico ha molte convergenze con quello che va sotto il nome di linguaggio scientifico, in genere esso si adopera per conformarsi sempre di più a un archetipo linguaggio scientifico. Molti teorici hanno accennato a tale differenza, il vero educatore avverte sempre questa distinzione e si affatica verso una certa soluzione, forse senza proporselo espressamente, intende la messa in opera del secondo, cioè del linguaggio educativo, come un'adempienza propria dell'essere educatore. La valenza reale del linguaggio educativo è insidiata da una dimenticanza di cui Kierkegaard accusa il suo tempo, ma sembra sempre verificarsi: si dimentica cos'è "essere uomo". E allora si focalizza "linguaggio" e si sfoca "educativo" fino alla dissolvenza. Circa il linguaggio, poi, si hanno preoccupazioni conseguenti. 1. Ci si propone di trovare un veicolo oggettivo che non possa contenere tutto; 2. si riconosce valido soltanto quello razionalizzabile e razionalizzato secondo il parametro della verificabilità; 3. lo si rende distaccato dalla persona. Difficile dissolvere il linguaggio educativo, perché la vita associata continua a riproporlo e a volere una risposta. L'anthropine sophia è un trattato usato da Platone nel disegrare la figura socratica. Si trova nell'apologia di Socrate. L'accento viene posto su anthropine. Si possono operare tre approfondimenti successivi: 1. L'aggettivo con nota una Sophia che è contrapposta a quella divina, la Sophia a cui aspira l'uomo non è una Sophia "tutta", poiché il sapere che ricercato non sarà mai esaurito. 2.Anthropine può suggerire che si tratti di una Sophia che ha l'uomo per soggetto, ma anche come oggetto. È una Sophia intorno all' umano e alla realtà che lo circonda. E' dunque una Sophia preziosa per l'uomo, ma rara e non facile. 3. L'aggettivo allude ad una Sophia che innesca nell'uomo un effettivo processo di umanazione, così che il coltivarla è la strada giusta perché quel singolo uomo vada verso la piena realizzazione della propria umanità. L'anthropine sophia avvia l'ipotesi che l'aggettivazione educativo conferisca al linguaggio un senso molto forte. Dire linguaggio educativo è alludere ad una realtà di relazione, ma di relazione qualificata, che se si muove dalla direzione di relazione umana. Allude cioè a un modo di relazionarsi all'altro, di rivolgersi all'altro, di trovare e indicare strade per incontrarlo e per farsi incontrare. Un disegno parziale ma buono del linguaggio educativo lo si potrebbe avere con Ebner. Nella sua opera sembrano trovare posto il rimando dell'uomo all'avere la parola, il padroneggiamento amoroso della parola quale veicolo/legame tra il vero io e il vero tu. Questi pochi rilievi si esplicitano nella Paideia platonica. Si può individuare un rimando anche nel Fedro. Il linguaggio è paragonabile ai semi che l'agricoltore ritiene preziosi e sa capaci di portare frutto: semina e poi non ha alcuna fretta per il risultato, perché conosce quanto la resa può distendersi nel tempo. Per questo il seminare/parlare è il senso bello del suo vivere. L'altro tratto lo si trova nella settima lettera: qui il linguaggio è linguaggio integrale del vivere, tutto partecipato, quello indicato dalla convivenza. Scrive Kierkegaard: "la comunicazione e l'istruzione propria rispetto all'etica e al momento epico religioso è educazione. Con l'educazione uno diventa ciò che è considerato essenzialmente di essere. Questo parlare di educazione come se ne parlava una volta fa riavvertire alcuni aspetti del problema che sono stati sordidamente dimenticati. L'Educazione presuppone ed esige due qualificazioni nel linguaggio che la concerne: essere sulla linea della comunicazione di potere contrapposta a quella di sapere, ed essere edificante. La comunicazione di potere: si può ricondurre "potere" tutto al nucleo originario della libertà, all'intendere io come una realtà fonte di energia e di energia qualificata. La comunicazione di potere è un modo per dire linguaggio educativo. Di solito Kierkegaard congiunge comunicazione di potere e primitività. Accenna anche al linguaggio edificante quando si parla di educazione. Il linguaggio educativo può e deve essere un linguaggio edificante. Il senso primario di realtà educativa è da ricercare nella legge elementare che l'umano punta alla perfezione, che è sua, mediante l'umano che trova fuori di lui. Il rapporto intersoggettivo però, si situa su di un'altra sfera. Edificazione è per Kierkegaard un termine che evoca la costruzione totale, dalle fondamenta. Il linguaggio edificante è l'aiuto dell'altro per diventare soggettivo. Platone intuisce chiaramente, anche in campo educativo, il mistero della partecipazione. Lo stato iniziale, o pre-educativo, è tratteggiato da Platone mediante la definizione di una condizione esterna e di un modo di essere interiore, conseguenza della condizione esterna. Questa ha avuto inizio con la nascita e qualora essi rimangano "nella caverna" si protrarrà per tutta la durata della vita. Il movimento iniziale della formazione umana non potrà essere spontaneo, ma dovrà essere portato all'atto mediante una forza esterna al soggetto. Questo stato, impedisce ai prigionieri di rendersi conto della loro situazione di verità e di disagio, adombra chiaramente la situazione interiore, di cui però, come nella prima, i prigionieri di vengono coscienti solo per l'intervento di una forza esterna. La costruzione della realtà esterna e della ignoranza interiore esigono una scossa. Questa assume proporzioni e caratteristiche proprie per ciascun uomo. Questa scossa interiore pone il soggetto in uno stato di insoddisfazione e disagio, prima rispetto alla realtà che permane e in seguito anche rispetto alla fenomenicità del mondo sensibile. Di conseguenza, il rapporto educativo si inscrive in una situazione di rischio, quello cioè di dirigere lo sguardo dell'animo e l'animo tutto alla contemplazione del trascendente. Il rischio del secondo momento, quello cioè di portare lo sguardo sul mondo fenomenico, richiederebbe la pianificazione non conseguita pienamente della tematica platonica. La scossa provocata dall'educatore non è da paragonarsi ad una immissione di contenuto, ma all'attuarsi di una capacità già presente nell'animo. Fondamentale è sottolineare la naturalità del processo educativo. La figura dell'educatore ha nel mito una trattazione indiretta, ma quanto mai significativa e pienamente aderente alle strutture di questa paideia. Come si è accennato precedentemente, la scossa viene provocata nell'animo solo da una forza che attira profondamente la sua interiorità, iniziando l'attuarsi della sua capacità di infinito mediante una peculiare maniera di presentazione, o meglio, di comunicazione dell'oggetto. La dialettica di questo rapporto interpersonale si fonda sulla maieutica. Colui che sa può portare l'altro al movimento richiesto, dalla liberazione di se stesso, alla scesa verso l' Essere-Bene. La scossa-costrizione si basa sullo sforzo: il soggetto deve infatti immettersi in una dialettica naturale, ardua e faticosa. Una conseguenza logica della paideia. La dialettica educativa ha autentico scopo di indirizzare la capacità infinita dell'anima all'oggetto che le è proprio, lo sforzo non può quindi essere altro che uno strumento, presente solo nello stadio iniziale. Perché l'educando si volti, capovolgendo così la sua mentalità, il suo modo di considerare la realtà e il suo inserimento in essa, il discorso dell' educatore deve essere forte di quel convincimento personale che all'educatore stesso viene dalla consapevolezza che la temporalità e la contingenza non sono che un aspetto della realtà. Il cambiamento di mentalità dell'educando esige, per compiersi, l'avvenuto cambiamento di mentalità dell'educatore. Come per la filosofia dell'essere, così per la pedagogia dell'essere si possono individuare e indicare i segnavia, capaci di inverarsi e arricchirsi in ogni situazione autentica. Esse sono: l'affermazione di una capacità insita in ogni soggetto di rapportarsi in maniera assoluta, di aprirsi ad un rapporto infinito. La necessità di una relazione interpersonale tale da svegliare questa capacità nel soggetto, ponendolo in uno stato di crisi e di rischio. 3.GLI AUCTORES Nessuno può pensare di dominare il sistema-uomo, non fosse altro che per il suo essere un sistema incompiuto. Nessuna pretesa di accennare a tutti gli auctores che hanno ragionato e detto dell'umano, in quella sua delicatissima porzione che è il dialogare, o di indicare esaustivamente quelli più significativi in senso assoluto. Mi riferisco oltre ai classici, di cui non si può non avere notizia, a quelli che ho conosciuto per prassi professionale, specialmente quelli che hanno rivelato di possedere un' impagabile attitudine ad avviare fruttuosamente verso un riflettere personale serio. La sensibilità per l'educativo ha come termine proprio la persona. Forse è fatta per non restare in chi la possiede ma per essere avvertita da chi ne è il destinatario. E' lei a far si che la preoccupazione per l'umano non si smarrisca. Gli auctores incrementano e salvaguardano la sensibilità per l'educativo nella misura in cui essi stessi ne sono ricchi. Per questo è bene fermarsi a rilevare quelle che si potrebbero indicare come le valenze che rendono un pensatore capace di armonizzarsi o essere armonizzato con l'educativo. Arano profondo nel terreno del umano. Significativa una tra le tante istanze in Feuerbach: l'uomo con l'uomo è Dio (Mensh mit Mensh ist Gott). Importante è la valenza del MIT (con) l'educatore impara a interrogarsi senza posa, pungolato da un pensatore davvero preoccupato dell'uomo. Non si può tacere di Kierkegaard, il suo annuncio della possibilità, che è di tutti, di diventare un singolo davanti a Dio. Niente può misurare l'uomo, niente può dire la misura dell'umano. Sono primitivi e inattuali, rifuggono dal convenzionale. Escono e fanno uscire dal quotidiano. Esistere nel quotidiano è da tutti, ma viverlo uscendone di tempo in tempo non è da tutti, ma è dei soli che hanno imparato a uscirne, non a mo' di fuga ma perché diretti alle mete belle dell'umano. Non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e a percorrerla. Si tratta dell'esperienza grande dell'esser reso libero, esperienza insostituibile per diventare educatori. Si tratta anche della dialettica dell'attrarre-respingere, così consueta al Socrate platonico e allo stesso Kierkegaard. Un'esperienza che diventa un modo autonomo di agire è anche il percorso indicato da Nietzsche quando, partendo da Schopenhauer educatore, arriva a Nietzsche educatore. L'excursus termina con i versi di Antonio Machado: "caminante non haj camino se hace camino al andar". " Viaggiatore non c'è il cammino. Il cammino si fa andando". Sembra prerogativa di tali auctores rendere amanti della parola che aderisce, evoca, risveglia, accende quando è il caso, non è vergognosa, sa coniugarsi e alternarsi a profondi silenzi. Un pensatore può avere anche una sola di queste valenze, o persino un pezzetto di una, ma se questa è fermento vivo basta per dire che l'accostarsi a lui fa crescere. Accennato alle valenze è bene spendere una parola circa il che cosa chiedere a quelli riconosciuti, o anche soltanto avvertirti personalmente, come auctores. Chi si preoccupa dell'educativo sa del grande bisogno di autorevolezza proprio in tale situazione e sa anche quanto costi acquisirla o riacquistarla. È sempre dannoso avere un dire vecchio, più dannoso è avere un orecchio vecchio. Occuparsi dell' educativo con una strumentazione verbale meschina e striminzita è un volersi muovere mancando. La povertà e la fissità verbale sono l'atrofia della sensibilità in genere. Diventa più urgente la volontà di affinare il linguaggio, di farlo più ricco e più aderente alla realtà intravista e apprezzata. Un'altra cosa da chiedere è l'esperienza di una forza capace di far voltare con tutta l'anima. L'umano deve prorompere dai portatori viventi, dall'uomo concreto, e sarà compito e effetto dell'educazione dare una vista adeguata.. PARTE SECONDA - DIALOGARE PREMESSA Di dialogo si parla da millenni. Un compito anomalo della filosofia dell'educazione, ritagliato sul versante del dialogo, può essere quello di rilevare e registrare l'impossibile rassegnazione dell'uomo all'isolamento. Il proposito è dire qualcosa di vero e reale perché si ha fede nel dialogo. Si parla del dialogo minore: quello che sostanzia il vivre, che può sostanziare il vivere di ognuno, che qualifica come educativa la prassi di trasmettere generazionale, anche quando è compiuta in maniera povera, e che resta quando cessano le circostanze eccezionali. 1.ANNOTAZIONI SUL DIALOGARE Il vivere umano è simile a un cammino, un camminare, un andare adesso. Non tutti e non sempre si ha certezza sulla strada, sul come percorrerla e sul dove porti. Le vie dell'uomo che le grandi religioni, le ideologie e le varie dottrine individuano e propongono sono tante. Oggi tutti ne hanno notizia, almeno di alcune. Trattare del dialogare è trovare il modo di non essere soli mai: né quando si sceglie né quando si percorre la strada scelta. Il dialogare come realtà umana totale è affermazione. Parlare di dialogo è un'impresa titanica: il tema attraversa l'intera storia dell'umanità, riguarda tutti senza eccezioni, non è una realtà parziale ma di quelle capaci di impressionare tutto l'essere. Il suo potere è stato individuato man mano nella forza massima della persuasione. Da sempre al dialogo tra gli uomini e con gli uomini si è aggiunto il dialogo con la natura, con la cultura, con le culture, e forse oggi si dovrà pensare al dialogo con i prodotti della tecnica. Il dialogare è un ambito conteso in cui non è facile avanzare diritti precisi. È dominio riconosciuto del filologo e del filosofo, in certi casi spetta al sociologo o allo psicologo. L'ambito pedagogico sembra possa rivendicare il solo momento applicativo. Un cenno all'aspetto negativo è d'obbligo. Riguardo al dialogo si danno fenomeni aberranti: il suo totale asservimento all'ideologia, invece del suo porsi al servizio dell'uomo; il suo impiego in contesti disumani; l'invadere lo spazio vitale dell'altro, quindi restringerlo fino a sopprimerlo; la sua umiliazione a strumento per conseguire cose effimere. Si ha anche il fenomeno dell'incapacità di dialogare. Molte possono esserne le cause: l'ignoranza, la mancata iniziazione efficace, l'egoismo, la voglia di sopraffare e di sfruttare come voglia dominante l'interiorità. Indubbiamente nel dialogare c'è una dimensione che sembra indebolire chi lo pratica e da cui pare giusto difendersi. È un problema eterno dell'uomo: sopraffazione e dialogo si toccano sempre pericolosamente alla tangente. I dialogisti contemporanei hanno fatto risaltare molte valenze del dialogare; alcune di queste sono valenze forti. Tra le più significative si annoverano l'insinuarsi del dialogare nel tessuto vivo dell'io: nel suo statuto ontologico esistenziale come bisogno primario, nella sua dialettica interiore, nel suo agire interiore. Un misterioso entrare che non riguarda tanto il contenuto quanto le energie interiori. Nel dialogare, nel comunicare in direzione educativa, si affaccia l'immagine bella, ma scomoda, del parlare vivo che adombra una quasi sicurezza di efficacia. I miti, le metafore, le immagini esterne rientrano in questo plesso e danno apporti validi al dialogare. Qualifica il dialogare la fisionomia dell'interlocutore. Il tu dei dialogisti è un plesso di realtà. L'interlocutore nel dialogo non è un nemico da vincere. Non è neanche un ingenuo da persuadere, né un ignorante da istruire. È il compagno di strada con cui si impara a sincronizzare il passo, questo richiede anzitutto che si impari ad essere attivi interiormente. L'incontro con l'interlocutore esige anche una capacità di ascolto singolare. Il dialogo è oggi impiegato in quasi tutti gli ambiti dell'umano. Moltissime professioni rimandano adesso (ambito etico, giuridico, propaganda, proselitismo istruzione). Il dialogo che si riallaccia all'uomo come mistero è quello che più volte ho chiamato dialogo minore. Si avverte il dovere di scavare nelle profondità del umano e così ritrovare la dimensione grande di un dialogare spesso ridotto a guscio vuoto. 2. L'UOMO DIALOGICO E' bene cominciare a disegnare la figura bella dell'uomo dialogico. Sostituisco alla definizione i tratti contenuti in tre testi non ignoti. Il primo è davvero classico. È il passo famoso del Gorgia Platonico. Così Socrate definisce uomo dialogico: "di che razza sono? Sono di quelli che si lasciano confutare volentieri se dico cosa non vera, e volentieri confuto chi dice cosa non vera?" Il secondo è nel diario di Ebner; l'uomo rimane sempre chiuso dentro le sue mura. L'io cerca il suo tu, non si accorge che questo tu non vive fuori di lui stesso, ma in lui. Il terzo testo è una pagina autobiografica di Martin Buber. Dice: "Un medesimo sogno mi ritorna in molte variazioni, io lo nomino il sogno del duplice richiamo. Il sogno inizia diversi modi con qualche avvenimento straordinario. Poi improvvisamente rallenta: rimango fermo e chiamo il mio grido di volta in volta è gioioso, spaventato, oppure allo stesso tempo doloroso e trionfante, secondo ciò che lo ha preceduto. In lontananza si risveglia e si dirige verso di me un richiamo. Quando la risposta è terminata, mi invade una certezza: ora è accaduto. Se dovessi cercare di spiegare questo fenomeno, direi che l'avvenimento generatore è veramente e indubbiamente accaduto soltanto ora, con la risposta. Nel testo di Gorgia sembra si anticipino analisi che oggi si conducono con la ricchezza dei mezzi accumulati, ma forse non con maggiore efficacia e acutezza. Vi sono rintracciabili esami eccepibili della perfezione tecnica, tenute però sempre sul piano dell'oggettività pura, esclusi i riferimenti e rimandi. La pagina platonica parla invece della convinzione che l'interlocutore è inoggettivabile. In ambedue i testi grandeggia l'intenzionalità di chi prende l'iniziativa, si avvia il rapporto e sa dove condurlo e dove vuole condurlo. Gorgia passa in rassegna i vari possibili rapporti tra i comunicanti e l'interlocutore nel mezzo della parola: il suo esame chiarifica in modo sconcertante la facilità di una tecnica che irrompe con forza nel mondo interiore dell'altro. Al potere smisurato di questo delicato e fragile strumento del rapporto umano(la parola) fa da contrasto il tratteggio sobrio, misurato e distaccato della figura di chi lo adopera. Indurre l'altro ad una qualsiasi azione comporta l'aver stimolato e coordinato, sempre forzosamente, potenzialità dell'animo verso l'unità. Gorgia è maestro nel sollecitare stati psicologici mediante parole. La pagina platonica è sobria, la serenità del procedere promette elementi nuovi nel disegno di questo dimensionato aspetto della realtà dialogica. La scelta e l'uso delle tecniche arriverà nel secondo momento e sarà una conseguenza necessaria e naturale. L'accostarsi all'altro è operato con timore e tremore: il dire si avvale molto della metafora e dell'immagine. Il dire di Gorgia si basa sul verbo persuadere, le ripetizioni di esso sono magistralmente nascoste. Se la rassicurazione è trattata in termini pedagogici si presenta così: persuasore (= chi guida) è chi deduce oggettivamente le potenzialità e i bisogni umani appellandosi alla retorica. L'educatore-persuasore, uomo non dialogico, è una possibilità non databile. L'altra parte del dittico è costituito dal discorso di Socrate che denuncia il martellare mascherato di "persuadere" quasi facendone la caricatura. Persuadere all'attivo accennerebbe la vittoria al persuasore scaltro. Ma Socrate intende servirsene per fare il proprio ritratto interiore: è di lui che si parla. Così mediante l'uso del passivo rivoluziona il senso immediato del verbo. Con l'uso del verbo al passivo si ha il passaggio da persuasore a dialogico. Una circostanza ovvia, quando si tratta del dialogo, è quella che vede l'uomo porsi di fronte alla verità. Il termine verità è connesso con un verbo di azione. La verità indubbiamente grandeggia nella realtà dialogo. L'uomo o spontaneamente dialogico, lo diviene per il semplice fatto che lo desidera, o deve invece allenarsi nei modi e nei tempi giusti e proporzionati? L'uomo dialogico ha i tratti sofferti perchè porta i segni di tanta opposizione che l'uomo ha trovato nello scorrere dei tempi e delle situazioni. Accanto ad esso non si può tralasciare un cenno all'uomo non dialogico. Si pensi anche soltanto all'uomo del teatro di Sartre e di Camus: attraversato da una tensione spasmodica al dialogo, ma una sensazione vana; forze interiori ed esteriori senza numero sembrano opporsi con successo. Per Ebner, un modo per affermare quali si ritiene siano la natura e il valore dell'uomo e indicarne il problema vero è primario. L'uomo è natura dialogica, in una situazione di disagio nella quale senza fughe o surrogati deve arrivare al concretarsi vero della sua natura: la relazione giusta. Persuadere all'attivo accennerebbe la vittoria al persuasore scaltro. Ma Socrate intende servirsene per fare il proprio ritratto interiore: è di lui che si parla. Così mediante l'uso del passivo rivoluziona il senso immediato del verbo. Con l'uso del verbo al passivo si ha il passaggio da persuasore a dialogico. Una circostanza ovvia, quando si tratta del dialogo, è quella che vede l'uomo porsi di fronte alla verità. Il termine verità è connesso con un verbo di azione. La verità indubbiamente grandeggia nella realtà dialogo. L'uomo o spontaneamente dialogico, lo diviene per il semplice fatto che lo desidera, o deve invece allenarsi nei modi e nei tempi giusti e proporzionati? L'uomo dialogico ha i tratti sofferti perchè porta i segni di tanta opposizione che l'uomo ha trovato nello scorrere dei tempi e delle situazioni. Accanto ad esso non si può tralasciare un cenno all'uomo non dialogico. Si pensi anche soltanto all'uomo del teatro di Sartre e di Camus: attraversato da una tensione spasmodica al dialogo, ma una sensazione vana; forze interiori ed esteriori senza numero sembrano opporsi con successo. Per Ebner, un modo per affermare quali si ritiene siano la natura e il valore dell'uomo e indicarne il problema vero è primario. L'uomo è natura dialogica, in una situazione di disagio nella quale senza fughe o surrogati deve arrivare al concretarsi vero della sua natura: la relazione giusta. L'io e il tu, intesi non come pronome ma come l'esserci immediato della persona stessa, esistono sempre nella reciproca relazione. Nell'uomo c'è obiettivamente impulso verso la lingua, e questo impulso va letto come la manifestazione dell'essere presenti nello Spirito in lui nella relazione al tu. Il dialogare e il non dialogare, come già l'analisi prometteva, sono radicati nelle fibre inferiori dell'io. Si parla dunque, a buon diritto, di uomo dialogico e di uomo non dialogico, non di un uomo che pratica o padroneggia le leggi oggettive del dialogo. 3.L'ARTE DEL DIALOGARE Un forte bisogno di comunicazione è presente nelle "Diatribe" di Epitteto:"... Ed ecco, ora io sono il vostro insegnante e voi siete istruiti da me. Questo è il mio progetto, rendervi del tutto affrancati da ogni impedimento, dalla necessità, dagli ostacoli, liberi, prosperi, felici, con lo sguardo levato a Dio in ogni circostanza piccola o grande". Agostino d'Ippona e Caterina da Siena sono tra coloro che annoverano tra i loro scritti un numero ragguardevole di Lettere. Per loro il destinatario è sempre interlocutore di un dialogo voluto o meglio perseguito con tenacia. L'interlocutore è una persona concreta, ma soprattutto è il destinatario di una preoccupazione che non ha niente di fittizio. Non è un antagonista, non è un nemico da vincere, né un ingenuo da persuadere. Non tutti gli epistolari sono dialoghi. Alcuni sono monologhi: per esempio "Lettere a Felice" di Kafka. In molti di questi epistolari l'interlocutore è soltanto un'occasione per parlare con se stessi. Questo può avere un senso negativo, ma anche positivo. Nell'epistolario di Caterina stupisce la capacità di percepire la domanda dell'altro, la capacità di percepire è acutizzata dalla volontà ferma di portare l'interlocutore stesso a percepire la sua domanda, presente nella sua interiorità, a percepirla però senza sentimenti di tristezza o preoccupazione. Il mezzo principale per sortire questo grande effetto lo si può individuare nell'uso forte e materno dell'io che avvia il dialogo affacciandosi subito al tu: scrivo a te. Gli interlocutori rappresentano tutte le sfaccettature della condizione umana di quel tempo. Talora lo scritto lascia intravedere il senso dell'essere responsabili dell'altro. Sempre per la profonda conoscenza della condizione umana non le sfugge l'insidia e la presunzione del giudicare. È un atteggiamento mortifero per il rapporto interpersonale. L'esserci del dialogare e molta della sua efficacia dipendono dall'arte di parlare la lingua che l'orecchio interiore dell'altro capisce e apprezza. Caterina lo fa in maniera squisita, uno stile tutto a misura dell'interlocutore, affina la mente per conoscere segreti sovente tanto estranei al suo concreto esperire. Questo dialogare nobile è raro e si avvale di un termine secco, martellato non in ogni lettera ma in ogni pagina: "voglio". Questo voglio, è sempre abbinato a desiderio: l'effettivo realizzarsi dell'altro è voluto con la medesima intensità con cui è voluto il proprio. È un voler rendere palpabile il senso ultimo del rompere l'egoismo, nel demolire la muraglia di una povera sufficienza, del infrangere la chiusa del mondo individualistico dove non c'è posto per gli altri. C'è un problema oggi particolarmente doloroso che par convogliare in sé i temi più vivi e mettere a dura prova la forza del dialogare: la solidarietà interiore, la preponderanza in sé dell'uomo non dialogico. Il termine solidarietà, un po' inusitato, è utilizzato come riferimento convenzionale alla solitudine negativa, perché come è noto, esiste anche la solitudine positiva. Le conseguenze di tale solitarietà, possono essere tante. Esse dipendono da una parte da come e quanto viene avvertito e tollerato questo stato, e dall'altra dalle possibili fughe di cui si viene a conoscenza o che si trovano a portata di mano, e dalla più o meno formata capacità di resistere alla lusinga della fuga. Un aspetto forte del problema è costituito dal come impedire il formarsi di tale solitarietà, e poi dal come infrangerla, una volta che si è formata. L'uomo dialogico deve avere la meglio sull'uomo non dialogico. Ebner afferma che alla solitarietà incombono la pazzia e il suicidio. La parola di cui parla Ebner è una parola che ha recuperato, e costantemente recupera, il suo spessore, riscattandosi dal distacco oggettivante, dalla riduzione a vocaboli, dagli innumerevoli abusi che di essa fa la stampa, dalla chiacchiera, dal rapporto bugiardo, dalla mancanza di ascolto, dal giocare alla persuasione. Il fatto che emerge, a tutta prima, è l'appartenenza essenziale della parola allo spirituale dell'uomo, alla dimensione spirituale. Impossibile non avvertire il legame tra parola e spirito nell'uomo. Chiaramente, non si escludono le altre dinamiche che compongono l'uomo, ma la precedenza e la prevalenza è data alla dinamica spirituale che è per Ebner sinonimo di relazionalità qualificata: "... tutta la nostra vita spirituale comincia con la parola e con il significato della parola". Il cuore del problema è sempre il significato di parola. Per cui è utile insistere su tale direzione non perdendo di vista che il fine è l'impiego della parola come possibile forza risanante dalla solitarietà, permanendo nell'orizzonte del possibile aiuto che l'educatore può dare al giovane, e al genere umano, affetto da tale malanno. La parola è strumento determinante per il costituirsi dell'io. Non però dell'io astratto, ma di quell'io vitale che ognuno sperimenta in sè, ma che sperimenta soltanto è sempre in relazione alla percezione del tu. Una forza invisibile è contenuta nella parola, una forza che non è soltanto un richiamo, ma è la strada impareggiabile per provocare il risvegliarsi dell'io. L'azione dell'accendere, dell' infiammare, chiede un'ulteriore pausa di riflessione. L'accendersi dell'amore è il vero risanamento, in quanto apre la relazionalità e la qualifica come relazione al tu, e in tal modo, anche rende l'io cosciente di sè, motivato è pronto per la responsabilizzazione. Nessuna situazione è estranea all'uomo dialogico, e in nessuna situazione lui è estraneo. 4. CERCATORE INQUIETO (E NOSTALGICO) Per diventare dialogico non si richiede l'uomo né un'erudizione fuori dal normale né una speciale padronanza di tecniche. Cose esigite dal dialogare ufficiale, da quello retorico. Nel dialogare minore, sintesi tra le più belle delle attività proprie dell'uomo, si offre al potenziale umano di espandersi e attuarsi senza preclusioni. È un modo di essere né individualistico né privatizzante. Il dialogare come modo di essere è uno strumento piccolo, ma atto a prestazioni meravigliose perché vitali. Sono ben pesanti gli ostacoli del dialogo-modo-di-essere, perché questo non conduce l'uomo allo stato placido e imbelle, lo rende inquieto e realmente attivo. Gli ostacoli sono interni, non esterni al dialogare stesso. La loro soluzione non è mai definitiva. L'ostacolo più noto va ricondotto alla antinomia irrisolvibile propria della persona umana: lo statuto relazionale indissolubilmente legato al l'incomunicabilità del nucleo ultimo della persona stessa. L'altro ostacolo è originato dalla compresenza di contrari. La vita dialogica rappresenta il sentimento progrediente della realizzazione di sé, del giusto possesso delle proprie energie interiori. Ma c'è anche il polo contrario. La finitezza con il suo peso, le irragionevolezze e le incoerenze di questo irrompere (es. mito caverna). La grande maestria dialogica lascerà Socrate, che l'ha esercitata lungo tutta la vita, senza difesa nel processo. Socrate ammette che non ha voluto usare gli espedienti retorici e le sottigliezze eleganti. Sa dire soltanto verità scarne e prive di orpelli. È un rischio essere dialogici, perché grande è la speranza: quella di essere giusti e cooperare a che molti lo divengano. L'uomo non dialogico è abile a vincere l'avversario. Per questo diviene servile, abile nell'ingraziarsi anime meschine e tracotanti. Si vuota di ogni sentimento. L'uomo dialogico invece non è mai un servo di discorsi. I suoi pensieri, liberi da padroni, indagano che cosa sia uomo e che cosa convenga a questa natura. La scelta del dialogare minore è una presa di posizione circa l'entità e l'impiego del proprio potenziale interiore, del proprio situarsi nel cosmo e nella compagine umana. Vanno sapute affrontare tutte le conseguenze in bene e in male. Dialogare è un approdo, un uscire da un preciso tipo di insicurezza. L'uomo dialogico è qui un uomo che anela a qualcosa di reale che invita e spinge a proseguire, che asseconda il rifiuto di restare chiusi dal tempo e dalla fintezza e colma il bisogno di ascolto e di riconoscimento. È dunque un uomo appagato e inquieto, vuole uscire dalla situazione del limite, ma ha la sicurezza che il suo esserci è stato liberamente e amorosamente voluto, si sente non completamente a casa e per questo è nostalgico. Per Ebner, S.Agostino è un grosso rimando: "Dio è il vero tu dell'io nell'uomo", è la frase che viene ripresa dal filosofo nell'opera di S.Agostino. Il rapporto Ebner-Agostino si comprende meglio alla luce della visione kierkegaardiana che conferisce spessore a problemi che possono non venire accolti nella loro portata e incisività. Kierkegaard ripensa e ripropone la tematica del binomio io-Dio in termini Agostiniani, facendo avanzare la posizione in cui esplicita tutta la modernità. Chi sa tutta la faticosità di Ebner ricercare modalità, ritmi e movenze di un dialogo, e i tentativi per dirlo in maniera persuasiva, non sottovaluta certamente la portata del rinvenimento di un "Protokol" in cui si parla della massima esistenzialità del vivere interiore. In tale proposta Ebner percepisce tutto il senso di approdo della ricerca inquieta e anelante di Agostino. Si rende necessario superare il livello psicologico dell'inquietudine fino a toccare il livello ontologico esistenziale, quel livello che consente di intravedere al di là della trama del fenomeno, la compagine azione naturale dell'io. Inquietudine rimovibile, inquietudine di superficie, inquietudine indotta: l'indagine di Agostino è tutta tesa a scansare queste inquietudini. Penso di poter avanzare l'ipotesi che l'inquietudine agostiniana sia sinonimo della nostalgia ebneriana. Il testo più esplicito credo sia un' annotazione: " in ogni esperienza l'uomo crede di poter fuggire dalla prigione del suo io, ma rimane sempre nuovamente chiuso dietro le sue mura. Nostalgico lio cerca il suo tu". L'io si trova prigioniero dentro le mura di se stesso. La sua solitarietà è la sua prigione. Difficile trovare la direzione giusta per l'evasione che peraltro è sinonimo di possibilità di vita. Intuire il rapporto tra l'essere stato chiamato e l'incontro con la realtà chiamante è soprattutto intuire che tale realtà non si trova fuori, vuol dire essere liberato. La nostalgia è dunque rivelatrice del momento in cui l'io diventa un vero io nell'incontro reale con il vero tu. Non si può dunque a mettere una comunicazione fatta di opinioni inutili. Da qui il compito di sensibilizzare, perché si percepisca il concreto e di esso si parli. La posta reale è grande: l'uomo dialogico è libero, padrone di sè, aperto e atto a giuste relazioni. Dunque forte. Lo statuto relazionale umano ha come nucleo vivo l'aver la parola e la capacità di amare. Educare al dialogo, invogliare a questa attività felicemente umana è non restare estranei in questo oceano di dolore. Ma anche ben di più: collaborare efficacemente a dissigilare energie benefiche.