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Diritto romano Istituzioni e Storia Eva

DIRITTO ROMANO, ISTITUZIONI E STORIA –
Eva Cantarella
I romani fecero del diritto una scienza, un sistema articolato di
principi, estratti dalle diverse norme che regolavano la loro vita
sociale. Esso, attraverso i secoli, è giunto sino ai nostri giorni,
influenzando in diversa misura il diritto di molte nazioni moderne. A
partire dall’anno 1000 circa, infatti il diritto romano, attraverso la
Compilazione giustinianea in cui era stato raccolto nel secolo VI d.C.,
ricominciò a essere studiato nelle scuole (grazie in primis a Irnerio
nella sua scuola di Bologna) e a essere utilizzato nella pratica in molti
paesi europei; solo l’Inghilterra non recepì il diritto romano e mantenne
la sua Common Law (influenzata comunque dal sistema romanistico).
Nacquero quindi due grandi famiglie di diritti di origine europea, quella
dei diritti derivati dalla Common Law (nei vari paesi anglosassoni), e i
diritti di tradizione romanistica (applicati in quasi tutti i paesi
europei i cui sistemi si basano sui principi affermati durante la seconda
vita del diritto romano).
Tra i secoli XI e XIII lo studio del diritto romano fu opera e appannaggio
della scuola dei glossatori (le glosse erano delle annotazioni che loro
facevano studiando i testi giustinianei), la cui opera più imponente è
quella di Accursio, composta di 96.000 glosse. Nei due secoli successivi
(XIV e XV) esso venne tradotto in principi risolutivi di questioni
scolastiche, nate nella pratica del commercio e della vita internazionale,
che valevano in quanto communis opinio doctorum (opinione comune tra gli
esperti). Il diritto romano ha lasciato tracce di sé anche quando ha
cessato di essere diritto vigente; questo accadde nel secolo XIX, a
partire dall’emanazione del Codice francese napoleonico del 1804 e quello
austriaco del 1811, cui fecero seguito, i codici degli Stati italiani
preunitari, i codici del Regno d’Italia del 1865 e, infine, nel 1900 il
Codice civile tedesco (BGB).
Tutt’oggi lo studio del diritto romano
fondamentale della formazione dei giuristi.
continua
a
essere
parte
Storicizzare il diritto
I sistemi giuridici che fiorirono nel mondo antico prima del diritto
romano furono molti. Il fatto che il diritto romano si sia sviluppato
acquistando un’importanza del tutto speciale non giustifica che esso sia
prospettato come un fenomeno isolato e solitario, nato fuori della storia
e degli influssi culturali dell’epoca. Esso non va studiato come fenomeno
isolato e solitario, ma va inserito e valutato nell’ambiente storico e
culturale in cui si sviluppò.
A. Premessa storica. La penisola prima di Roma
a) Il problema delle origini
Secondo Erodoto, gli etruschi sarebbero venuti dalla Lidia (Asia Minore)
tra il 1500 e il 1000 a.C., ma Dionigi di Alicarnasso sosteneva che gli
etruschi non fossero un popolo immigrato da terre straniere, ma bensì
indigeno; gli storici moderni tendono ad accettare questa seconda ipotesi,
non di rado collegando il sorgere della civiltà etrusca alle ultime
manifestazioni
di
quella
villanoviana.
Partendo
dall’insediamento
originario in Toscana, gli etruschi si espansero a Nord sino alla Pianura
Padana; a Sud, essi non solo dominarono Roma per una parte del secolo VI
a.C., ma giunsero a Cuma, Napoli e nel salernitano e tra i secoli VII­VI
a.C. avevano ormai conquistato il controllo del Mar Tirreno. Alla fine del
secolo, però, il potere etrusco cominciò a declinare; nel 510 i re
etruschi furono cacciati da Roma, ove venne instaurata la repubblica;
questa sconfitta, insieme a quella subita nel 474 a.C. ad opera dei greci
di Siracusa segnò per gli etruschi l’inizio della fine.
b) Le istituzioni politiche
Le città etrusche più importanti erano organizzate come città­stato, vale
a dire come entità politiche autonome, al pari delle poleis greche e di
Roma. Dodici di esse formavano una federazione i cui scopi erano
soprattutto economici e religiosi; politicamente invece la federazione
aveva scarsa importanza. In età arcaica le città etrusche erano governate
da un re detto “lucumone”, assistito da un consiglio degli anziani. Agli
inizi del secolo VI a.C., il re venne sostituito da magistrati eletti
annualmente e la monarchia venne sostituita da una repubblica di tipo
aristocratico.
La penisola italiana era in continuo contatto con le popolazioni
orientali, che tra l’altro frequentavano da lungo tempo le sue coste. Per
capire la storia di Roma bisogna tener conto non solo delle ricche e
composite esperienze delle diverse civiltà regionali, ma anche degli
influssi esterni e in particolare orientali che Roma subì sin dalle sue
origini.
B. Premessa teorica. Cos’è il diritto?
1. Diritto e prediritto
Secondo alcuni il diritto è un fenomeno che cambia e che abbia anche una
vita prenatale; secondo uno studioso francese, Gernet, nelle comunità la
cui organizzazione si basa su una serie di norme che non posseggono ancora
i caratteri della giuridicità, la vita dei consociati sarebbe regolata
dalle forze del prediritto. Gernet individuò alcuni ambiti nei quali
queste forze si manifestavano:
•
Il
primo
di
questi
ambiti
era
il
mondo
delle
relazioni
interfamiliari, regolato dallo scambio dei doni ospitali; nel mondo
greco precittadino i rapporti tra stranieri erano regolati dalla
legge dell’ospitalità in forza della quale chi accoglieva nel suo
gruppo familiare uno straniero gli offriva doni ospitali, e chi li
riceveva era obbligato, in futuro, a restituire ospitalità e doni a
tutti i membri del gruppo che lo aveva ospitato.
•
Un altro ambito in cui si manifestavano le forze del prediritto,
erano il mondo del pensiero magico­religioso. Secondo Gernet sarebbe
possibile stabilire una relazione tra la pratica giuridica e la
credenza negli effetti magici di determinate parole, oggetti,
comportamenti; i romani credevano nell’efficacia magica delle parole
e dei gesti. Di questa credenza rimase traccia, nelle XII Tavole, là
dove, ad esempio, queste prevedevano il ricorso a una pratica detta
obvagulatio, consistente nel canto di formule magiche dinanzi alla
porta del testimone che rifiutava di recarsi in giudizio; vi erano
numerosi esempi di queste formule e riti magici nelle XII Tavole
oltre all’esempio sopra descritto; a volte invece venivano previste
sanzioni per pratiche magiche utilizzate ad esempio per danneggiare
le messi del campo del vicino; il rapporto tra le tecniche magiche e
le pratiche giuridiche, a volte era quindi di continuità, mentre
altre volte era in antitesi, cioè quando la pratica magica veniva
criminalizzata.
•
Un altro campo d’azione privilegiato di passaggio dal prediritto al
diritto era rappresentato dai giochi. Gernet ha individuato nella
vittoria atletica il fatto che determinava il sorgere di un potere
individuale sul premio, che a suo giudizio era assolutamente
equivalente al diritto di proprietà, individuando i due elementi che
ne determinavano la nascita, ossia, la presa di possesso e la
ratifica del gruppo dinanzi al quale la procedura doveva aver luogo
così come doveva aver luogo il sorgere di un potere individuale
sulla cosa, cioè la spartizione del bottino di guerra.
2. La vendetta privata
Nelle società preletterate, vendicare i torti subiti non significava
solamente soddisfare un bisogno privato di reagire a un torto, ma un
dovere sociale, un atto non solo lodevole ma inevitabile; alla vendetta
privata veniva affidata la funzione di mantenere l’assetto sociale. In età
omerica il peso sociale di un individuo e di un gruppo erano legati
all’onore e chi subiva un torto senza reagire perdeva l’onore; questa era
la ragione per cui la vendetta era un dovere. In considerazione del fatto
che alla vendetta partecipavano, accanto all’offeso e all’offensore, i
rispettivi gruppi familiari, il sistema della vendetta rischiava di
portare con sé una lunga catena di guerre; per ovviare a ciò, la società
omerica aveva già sviluppato alcune regole fondamentali, considerate tra
le prime regole giuridiche greche. Era entrata nell’uso la prassi di
offrire all’offeso una compensazione in natura o in denaro detta poiné
(derivata nel latino poena e in italiano pena), che, se accettata, veniva
solennemente consegnata dall’offensore all’offeso alla presenza del
popolo, e che consentiva all’offeso di rinunziare onorevolmente alla
vendetta. Si affermò quindi la regola che l’accettazione della poiné fosse
alternativa alla vendetta, nel senso che chi aveva accettato una poiné non
poteva vendicarsi per lo stesso torto. Se chi aveva pagato una poiné
veniva minacciato o inseguito dall’offeso, che pretendeva ancora di
vendicarsi, la collettività interveniva attraverso il consiglio degli
anziani per accertare i fatti; se la poiné era stata effettivamente
pagata, chi rischiava di subire una vendetta illegittima, poteva fare uso
della forza fisica per respingere l’ingiusto attacco; se non era stata
pagata allora il gruppo dell’offeso poteva portare a compimento la
vendetta. Grazie a questa sentenza degli anziani, chi usava la forza non
agiva come vendicatore privato, ma come agente socialmente autorizzato.
Questo venne traslato anche nel diritto romano, dove nelle XII Tavole
esisteva una norma che prevedeva la legge del taglione come risposta a
determinati torti.
C.Premessa istituzionale. I gruppi sociali precittadini
1. La divisione in classi di età: i riti di passaggio
Una serie di indizi consente di cogliere le tracce di una società
organizzata sulla base delle divisione della popolazione in classi di età,
di una popolazione in cui la popolazione, a seconda che fosse maschile o
femminile, apparteneva a diversi gruppi di età e, passava dal gruppo
inferiore al gruppo superiore attraverso la celebrazione di solenni riti
cittadini, detti riti di passaggio; l’individuo doveva trascorrere un
periodo di segregazione in cui apprendeva da una o più persone delle
classe superiore le competenze e le virtù necessarie a far parte del nuovo
gruppo. In caso di maschio, nel passaggio del’età impubere a quella
pubere, il ragazzo doveva apprendere a cacciare e combattere; per la
ragazza ad esempio doveva imparare i compiti domestici.
A.Il quadro storico
1. Leggenda e realtà sulle origini
Roma, come altre città del Lazio, nacque a seguito di una lunga e lenta
evoluzione, che trasformò in città un insediamento, presente ai margini
della pianura laziale già nell’età del bronzo. Nel secolo X a.C. erano
sorte le prime capanne sul Palatino e alla fine del secolo VII a.C. questo
primo insediamento si era già trasformato in un borgo di agricoltori e di
pastori con i caratteri di una primitiva città. Il luogo dove poi sorse
Roma era da tempo il punto d’incontro tra due correnti di traffico, una
che si svolgeva tra le regioni a Nord e a Sud del Tevere e un’altra che si
svolgeva dalle montagne al mare.
Esposti agli attacchi di altre popolazioni, e in particolare degli
etruschi, durante i secoli VIII­VII i villaggi di pastori si unirono, a
scopi di difesa, in una lega definita settimonzio, in un nuovo spazio
urbano delimitato da mura, il cui nome deriva da saepti montes, ossia
monti cintati. Il septimontium si diede quindi un capo unico, detto rex.
Da questo momento Roma può essere considerata una vera e propria città,
alla cui originaria popolazione latina si aggiunsero sin dall’inizio
gruppi di popoli diversi, da cui la nota leggenda del ratto delle sabine;
per aumentare il numero di cittadini Romolo aprì un asilum dove dare
rifugio a tutti i fuoriusciti dalla regione, facendo aumentare il numero
delle componenti etniche trasformandola in una città aperta.
2. La crisi della Repubblica: quadro generale
Sul finire del II a.C. Roma dominava il Mediterraneo, ma le guerre avevano
creato molti squilibri economici, arricchendo alcuni ceti e riducendo alla
miseria altri.
3. L’Impero bizantino
Costantinopoli, circondata di mura possenti e difesa da un esercito
organizzatissimo, rimase per altri mille anni la capitale dell’Impero
d’Oriente, detto anche bizantino, e fu sede di una ricca e raffinata
civiltà; il commercio era fiorente, l’istruzione era diffusa e la cultura
fondeva felicemente elementi della tradizione greca, di quella romana e di
quella cristiana.
4. Giustiniano (527­565 d.C.)
Giustiniano era nato nel 482 a Tauresio, in Macedonia da una famiglia di
umilissime origini. Il suo nome originario era Pietro Sabbazio. Il nome
con cui è conosciuto deriva da quello dello zio materno Giustino, che lo
aveva adottato.
a) La riorganizzazione dello Stato e della giustizia
La prima preoccupazione di Giustiniano fu quella di riorganizzare
l’amministrazione dello Stato, decidendo di mettere ordine al sistema
delle norme giuridiche. Giustiniano selezionò i più esperti giuristi
dell’epoca, e li incaricò di raccogliere tutte le regole di diritto in
vigore in una compilazione poi chiamata Corpus Iuris Civilis.
B.Il quadro sociale e costituzionale
Nei primi secoli della sua vita Roma sperimentò due forme costituzionali,
la monarchia (753­509 a.C.) e poi la repubblica.
1. L’età regia
La prima forma costituzionale assunta da Roma fu quella dello Stato­città
governato da un re (rex); lo stato­città era una città libera e autonoma,
che si governava da sola, nella quale la sovranità non spettava ad una
sola persona, e nella quale non esistevano dei sudditi, ma dei cittadini
(cives) che delegavano a dei magistrati l’esercizio del potere sovrano.
Nella prima fase il potere era esercitato da un solo magistrato (il rex) e
quindi in questa fase Roma era una città­Stato monarchica.
2. La crisi della Repubblica
Quando alla metà del III secolo a.C. le istituzioni repubblicane entrarono
in crisi, questo portò alla nascita di un nuovo sistema, caratterizzato
dalla concentrazione del potere nelle mani di un solo personaggio,
princeps, a cui si deve il nome del sistema come principato; questo
sistema si diffuse rapidamente dandosi l’organizzazione interna sempre più
burocratica di un vero e proprio impero.
a) Le ragioni economiche e sociali della crisi delle istituzioni
Le continue conquiste avevano creato molti squilibri economici, facendo
arricchire alcuni ceti di persone e riducendone altre nella miseria più
disperata. I motivi più importanti sono:
 La scomparsa della piccola proprietà e la nascita del latifondo.
Non essendo in grado di competere con i prodotti provenienti dai territori
conquistati, i piccoli contadini erano andati in rovina, e le loro terre
erano state acquistate da coloro che si erano arricchiti durante le
guerre, i cavalieri; questo fece nascere il latifondo.
 L’aumento del numero degli schiavi, il mutamento nel rapporto servo­
padrone e lo sfruttamento della manodopera servile
Sempre a causa delle guerre si verificò un radicale mutamento nella
condizione servile, che fu causa di problemi e tensioni gravissime. In
principio gli schiavi, anche se erano oggetti di diritto (e non soggetti),
erano considerati persone di famiglia e trattati con umanità; ma sul
finire del II secolo a.C. cambiari i rapporti schiavo/padrone, anche in
considerazione dei circa 2 milioni di schiavi portati da Pompeo e
utilizzati come strumenti di produzioni e oggetti di sfruttamento
disumano.
 La nascita delle clientele politiche
Legata alla guerra vi fu l’inurbamento di enormi masse di contadini
ridotti in miseria; questi nelle città riuscivano a sopravvivere solo
grazie alla protezione delle grandi famiglie, di cui divenivano clientes;
questi ovviamente, alle assemblee votavano secondo i desideri dei loro
protettori, facendo, tra l’altro, degenerare la vita politica.
 La corruzione delle magistrature
Altro aspetto delle degenerazione della vita politica è rappresentato
dalla corruzione delle magistrature, che non venivano più considerate come
un onore, ma fatte per il solo scopo di trarne indebiti profitti
economici, immediati o futuri di carriera.
b) I problemi istituzionali
 L’organizzazione dei territori conquistati: le province
Dopo l’annessione della Sicilia con la nuova formula giuridica della
provincia, anche la Sardegna e la Corsica e un numero sempre maggiore di
territori fu annesso con tale formula, il cui sfruttamento contribuì al
benessere economico dei romani; lo sfruttamento era legato al loro statuto
giuridico; erano infatti governate da un proconsole o propretore che
tramite dei privati, i publicani, riscuotevano i tributi per Roma. Le
province oltre a fornire tributi, risolsero anche il problema politico
rappresentato dalla continua richiesta di terre da parte dei cittadini,
assegnandole ai romani.
 Una nuova figura: il suddito di Roma
La nascita delle province portò, come conseguenza, alla
nuova figura, il suddito di Roma, il cui rapporto con il
più simile alle popolazioni orientali con i loro sovrani;
pochi problemi in quanto nel territorio coesistevano
repubblicano e ordinamenti di fatto monarchici.
nascita di una
governatore era
questo creò non
un ordinamento
c) Le fasi della crisi
 La ricerca di soluzione all’interno delle istituzioni
In un primo momento, e in qualche misura i tentativi di risolvere la crisi
furono compiuti utilizzando le istituzioni, in modo peraltro assai
spregiudicato; basti pensare l’iterazione del tribunato di Caio Gracco, la
rielezione per ben sette volte di Mario al consolato, gli imperia
proconsularia conferiti per anni e anni a Cesare oppure gli strumenti cui
Silla ricorse per attuare le sue riforme istituzionali.
 Le riforme costituzionali di Silla
Caratteristica dell’azione politica di Silla fu il tentativo di collegare
gli ordinamenti provinciali con quello cittadino, valorizzando e
rafforzando il potere del Senato; egli aveva legalizzato il suo potere
facendosi nominare dai comizi dictator legibus scribundis et republicae
costituendae. Regolamentò il certus ordo magistratuum, con introduzione
del limite minimo di età per ogni carica; diede organizzazione alle
province con la lex de provinciis ordinandis e attuò la riforma sillana
del processo criminale
 Il nuovo processo criminale: le quaestiones perpetuae
Il processo criminale in uso all’inizio della Repubblica era il processo
comiziale, davanti ai comizi centuriati; questi giudicavano solo i
colpevoli dei crimini più gravi, e quindi la repressione della maggior
parte dei crimini restava sottoposta all’esercizio del potere di polizia
magistratuale (coercitio); l’enorme numero di giudici si prestava con
grande facilità ad essere manipolato da chi tentava e spesso riusciva a
orientare secondo le sue esigenze lo svolgimento del processo. Inoltre
l’enormità dei territori, a seguito delle vittorie militari, determinò una
crisi di fondo del sistema che non era più in grado di svolgere le sue
funzioni. Dopo la fine della seconda guerra punica (201 a.C.), i
governatori delle province iniziarono ad approfittare in maniera notevole
delle popolazioni locali e queste inviarono dei rappresentanti presso il
Senato, incaricati di denunciare i torti subiti e chiedere la nomina di
una commissione d’inchiesta (quaestio), per ottenere il denaro sottratto
(pecuniarum repetitio). Le quaestiones erano commissioni d’inchiesta
nominate extra ordinem, ossia in occasioni specifiche. Nel 149 a.C., però,
una lex Calpurnia de pecuniis repetundis, introdusse la prima quaestio
perpetua, che sedeva in permanenza e agiva come una vera e propria corte
criminale. Silla introdusse man mano poi una serie di commissioni in modo
da coprire la maggior parte dei crimini più gravi e organizzò in modo
definitivo il sistema penale. I comizi centuriati rimasero, sulla carta,
per i crimini con giudicati da quaestio, ma nella pratica la repressione
si perpetrò attraverso l’esercizio della coercitio magistratuale, in forma
pubblica dinanzi a contiones assembleari. Le quaestiones iniziavano i loro
lavori a seguito di un’accusa (quaestio) che poteva essere mossa da
qualunque cittadino, composte da 30 o più giudici senatoriali e presieduti
da un pretore; ogni quaestio risolveva un solo crimine o un gruppo di
crimini, che veniva giudicato in prima e ultima istanza. I giudici
accertavano che il crimine fosse di loro competenza e se lo riscontravano
applicavano la pena, di solito la aqua et igni interdictio, ossia
l’esilio. Le questioni gravissime erano il de repetundis (estorsioni
commesse dai governatori delle province), de maiestate (tradimento), de
sicariis et veneficiis (venivano puniti e sicari e gli avvelenatori), de
falsis (falsificare monete, pesi e documenti), de peculato (appropriazione
di denaro pubblico) e de ambitu. Col nuovo sistema, i cittadini da una
parte non erano più esposti all’arbitrio dei magistrati, ma dall’altro fu
cancellato il diritto di appello e quindi l’eventuale condanna non poteva
essere modificata.
 La concentrazione dei poteri
Le regole costituzionali vennero svuotate poco alla volta e si concentrò
il potere nelle mani di una sola persona; già evidente con Pompeo, questo
fenomeno si manifestò in modo ancor più clamoroso con Cesare, sotto il cui
governo, le istituzioni repubblicane esistevano solo formalmente. Cesare
nel 63 a.C. era già pontefice massimo, aveva assunto i titoli di imperator
e di padre della patria, poi si fece nominare dittatore a vita e si era
fatto attribuire l’inviolabilità tribunizia, divenendo come i tribuni,
sacrosanctus. Alla sua morte, Augusto si trovò una strada già tracciata
verso il potere pressoché assoluto, ma sapendo che i cittadini romani non
volevano essere sudditi, lasciò formalmente intatta la costituzione
repubblicana, ma accentrò in sé tutti i poteri che questa prevedeva.
3. Il principato di Augusto (PERIODO PRECLASSICO – 367 a.C.
/ 27 a.C.)
Nel 23 Augusto si fece attribuire i poteri dei tribuni della plebe
(tribunicia potestas) e quello dei governatori delle province (imperium
proconsolare maius et infinitum). La potestà tribunizia gli consentiva di
controllare la città, bloccando con un veto le deliberazioni del Senato e
le iniziative dei magistrati; il comando proconsolare gli consentiva di
controllare le province. Inoltre egli aveva il titolo di princeps senatus
(primo tra i senatori), che gli dava il diritto di aprire le sedute,
parlando per primo; egli si limitò a concentrare nelle sue mani tutti i
poteri consentiti dalla costituzione repubblicana; in considerazione del
fatto che fu chiamato Princeps, la forma di governo da lui organizzata
viene definita principato.
a) La politica interna
Grazie alla politica interna di Augusto le condizioni di vita generali
migliorarono sensibilmente. L’imponente rete stradale facilitava gli
scambi, le rotte marittime erano finalmente sicure, i contadini lavoravano
alacremente la terra.
b) La riorganizzazione dello Stato e la nascita della burocrazia
Augusto si preoccupò di ricostruire e riorganizzare la burocrazia; nominò
nuovi organi di governo sottoposti al suo personale controllo, i più
importanti tra questi erano i praefecti (prefetti), tra cui vanno
segnalati il praefectus urbi, cui veniva affidata la città, e i praefecti
praetorio comandanti della guardia del corpo dell’Imperatore. Le province
vennero
divise
in
due
categorie:
province
senatorie,
governate
personalmente da Augusto, e le province imperiali, controllate da Augusto
attraverso dei funzionari. I tributi delle province imperiali andava nella
cassa personale del principe, il fisco.
 I funzionari imperiali
I vari organi della Repubblica (formalmente ancora esistenti) non potevano
che agire secondo le direttive segnate dalla volontà del principe; sempre
un maggior numero di funzionari fu previsto, la cui posizione era
antitetica a quella della magistratura. I funzionari erano nominati dal
principe e restavano in carico il tempo da egli stabilito, ricevevano uno
stipendio e agivano per delega del princeps.
c) La politica culturale
Nella Roma di Augusto si concentrarono i migliori intellettuali e artisti
dell’epoca, tra cui vanno ricordati Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibullo e
Properzio. Sulle diverse opinioni politiche, Augusto si dimostrò
abbastanza tollerante, ma non altrettanto lo fece con Ovidio che propose
modelli e ideali di vita diversi da quelli esaltati dalla propaganda
augustea (moralizzare la vita familiare) e che fu esiliato a Tomi, sul Mar
Nero, dove vi morì senza ottenere il perdono.
4. Dal principato all’Impero. Il modello politico augusteo
si consolida
Augusto aveva creato un modello politico basato essenzialmente sul suo
potere personale; dopo la sua morte questo modello divenne stabile e si
consolidò e i suoi successori, che si facevano chiamare Cesari, riuscirono
nel complesso a gestire una situazione molto difficile, nel conciliare lo
stato formalmente di Repubblica con i poteri supremi che di fatto
godevano.
1. Equilibri di forze: l’imperatore, il Senato, i pretoriani, le
legioni, la plebe
Il principale nemico dell’Imperatore fu il Senato, da questi privato dei
suoi poteri e del suo prestigio; per governare l’imperatore aveva bisogno
della fedeltà assoluta delle sue guardie del corpo (i pretoriani) e delle
legioni, ed aveva inoltre il bisogno del sostegno della plebe, ed
l’imperatore dava al popolo panem et circenses.
2. Politiche in materia di cittadinanza
All’interno dell’Impero vivevano popoli che parlavano lingue diverse, con
storie e culture diverse, però Roma era riuscita nell’intento che queste
popolazioni si sentissero parte di un mondo comune; una delle mosse
politiche fu quella di concedere progressivamente alle popolazioni
sottomesse la cittadinanza romana. Questa politica non si affermò senza
tensioni e contrasti, ad esempio, quando nel 40 d.C. l’imperatore Claudio
propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e
senatori in Senato vi fu chi decisamente si oppose, sostenendo che Roma
non aveva bisogno degli stranieri al governo. La politica romana era molto
lungimirante e le consentiva di contare su un notevole numero di persone
che dalla concessione della cittadinanza traevano vantaggi.
3. L’elogio di Roma di un barbaro
Nel 143 d.C. il greco Elio Aristide scrive un Elogio di Roma; se si pensa
che sono pronunziate da un greco, e che sono rivolte alla potenza che
aveva privato la sua terra della libertà, queste parole non possono non
colpire profondamente. La politica di concessione della cittadinanza, fu,
certamente, una dimostrazione di grande intelligenza politica.
4. La romanizzazione e le sue conseguenze
Divenuti cittadini, i provinciali avevano acquistato un notevole peso nel
sistema imperiale; all’inizio del secolo II essi ricoprivano più della
metà dei posti in Senato. Da una parte questo segnò la fine del predominio
di Roma, intesa come città; con il tempo alcuni provinciali divennero
addirittura imperatore, come Traiano, Adriano, Filippo l’Arabo. La
romanizzazione non avvenne in maniera sempre pacifica, infatti chi non
voleva integrarsi veniva sterminato.
5. Vita da sudditi
La vita quotidiana dei sudditi imperiali era molto diversa a seconda che
appartenessero alla plebe o alla classe dirigente
 La plebe
La plebe affollava le città alla ricerca di qualche lavoro; però non ve
n’era in quanto svolto dagli schiavi. La vita della massa del popolo
dipendeva dalla liberalità degli imperatori. La plebe nelle città viveva
in abitazioni buie e malsane, le insulae, il cui primo piano era abitato
dai più ricchi. I servizi igienici esistevano solo al piano nobile. Il
massimo divertimento della plebe era assistere ai diversi giochi
organizzati dagli Imperatori.
 La classe dirigente: dall’”ozio” al “negozio”
Nei primi due secoli dell’Impero gli appartenenti alla classe dirigente
romana divennero funzionari del principe e la loro vita cambiò, in quanto
furono costretti ad abbandonare la loro abitudine all’otium, dedicando
tempo alla cura di se, ma furono costretti a impegnarsi in diverse
attività (la parola “negozio” deriva da nec otium, non ozio), in qualità
di funzionari.
 Cambia la forma politica, cambia la vita, cambia la mentalità
La classe dirigente aveva dovuto modificare i rapporti con il suo
prossimo. Per secoli il
prestigio di questa classe era dipeso dalla
capacità dei diversi patres di affermare il proprio potere sugli altri.
Ora erano costretti a trattare ogni giorno con altri funzionari, di pari
grado se non superiore al loro e questo li obbligò ad adattarsi a forme di
autocontrollo e moderazione.
6. Il cristianesimo e i suoi effetti sulla società e sul diritto
Lentamente nuove religioni e filosofie si sostituirono a quelle più
diffuse tra le classi colte, ossia la filosofia stoica e la religione
pagana. Tra le filosofie ebbe grande successo quella neoplatonica, mentre
tra le religioni il cristianesimo. La diffusione di questo verbo fu
tutt’altro che indolore; all’inizio vi fu diffidenza e sospetto,
soprattutto in quanto la Chiesa dava vita ad una comunità separata dentro
la comunità imperiale; inoltre i cristiani ritenevano che la loro fosse
l’unica e vera religione e di conseguenza non accettavano le altre e,
unito al fatto che vivevano in comunità isolate e chiuse, fece credere che
fossero ribelli e pericolose; questo fece si che loro fossero additati di
essere colpevoli, in caso di ribellioni e malcontenti, e di fungere da
capri espiatori. I cristiani, come aveva fatto Cristo, accettavano questo
ruolo e di morire tra atroci tormenti. Il cristianesimo inoltre diffondeva
valori di uguaglianza; questo migliorò le condizioni di vita dei poveri e
degli schiavi, visto che chi era cristiano doveva aiutare il suo prossimo
e doveva trattarlo con umanità. Questa fu una vera e propria rivoluzione
che col tempo si rifletté anche sulle regole giuridiche.
7. L’amministrazione della giustizia
Durante il Principato, pur senza negare agli abitanti delle città italiche
i privilegi che derivavano dall’essere cives Romani, il governo delle
regioni venne progressivamente separato da quello della città di Roma.
Nell’ultimo secolo della Repubblica, nelle colonie e nei municipi i
processi privati più
importanti spettavano al praetor urbanus e quelli
criminali venivano deferiti alle quaestiones perpetuae della capitale.
Solo la giurisdizione per i processi minori era rimasta alle magistrature
locali dei duoviri o dei quattroviri iure dicundo. Durante il Principato
la giurisdizione criminale venne affidata extra ordinem al praefectus urbi
entro 100 miglia da Roma e al praefectus praetorio oltre questo limite.
Più avanti nel tempo, Adriano istituì 4 consulares incaricati di giudicare
extra ordinem le cause civili.
5. La monarchia assoluta (PERIODO CLASSICO 27 a.C. / 284
d.C.)
Con il passare dei secoli, l’Imperatore divenne un monarca assoluto;
questo ebbe luogo per gradi, a partire dagli Antonini e con maggior
frequenza sotto i Severi; l’imperatore veniva sempre più spesso definito
dominus, non solo per i provinciali ma anche per gli italici; al Senato
venne sottratta la giurisdizione criminale che passo nelle mani
dell’Imperatore e dei suoi funzionari. L’imperatore divenne la fonte
principale di produzione del diritto. Questo cambiamento si manifestò
nella pienezza della sua portata e delle sue conseguenze sotto il governo
e con le riforme di Diocleziano; con egli il titolo di dominus, non era
solo onorifico ma anche di fatto.
a) Organi e funzioni
Della vecchia costituzione restavano in vita, tra le magistrature, il
consolato, la pretura e l’edilità; il consolato era ricoperto in genere da
personaggi di spicco sociale, nominati dall’Imperatore. Gli edili e i
pretori (di nomina imperiale) avevano l’unica funzione di organizzare
giochi e spettacoli pubblici; i magistrati non avevano alcun potere e lo
stesso dicasi del Senato (due, uno a Roma e uno a Costantinopoli) che
godeva di prestigio sociale ma sottomesso alla volontà imperiale. La
carica senatoriale era diventata ereditaria e il numero era deciso
dall’Imperatore; il Senato svolgeva il ruolo di consiglio municipale, come
le curiae. Il potere era nelle mani dei funzionari imperiali, a cui
spettavano vari titoli; ai più vicini all’imperatore spettava il titolo di
comites (compagni). Particolare rilievo era occupato dal quaestor sacri
palatii (ministro della giustizia), il magister officiorum (capo delle
cancellerie), il comes sacrarum largitionum (ministro delle finanze);
molto importanti erano anche gli agentes in rebus (polizia segreta e
servizio postale) e il praepositus sacri cubiculi. Altro ruolo importante
fu svolto dalle scholae palatinae, che avevano sostituito i pretoriani.
b) L’organizzazione territoriale
Con Diocleziano cambiò anche l’organizzazione territoriale dell’Impero.
Egli infatti istituì le diocesi, circoscrizioni che riunivano più province
e che erano a loro volta riunite in quattro prefetture, a capo di ciascuna
delle quali stava un praefectus praetorio, alle dipendenze dirette
dell’Imperatore.
c) Stato e Chiesa
La religione cristiana, dopo l’Editto di Costantino (313), divenne
rapidamente la religione dell’Impero; il diffondersi della nuova fede ebbe
indiscutibilmente effetti benefici su alcune categorie di persone ed ebbe
risonanza positiva anche nel campo del diritto privato. Nel 325 Costantino
riunì il Concilio di Nicea, e gli imperatori che vennero dopo di lui
continuarono (come Costantino) a intervenire nelle questioni che nascevano
attorno ai diversi dogmi, facendo pressioni sul clero perché venisse
accolta l’una o l’altra soluzione. Gli affari religiosi divennero affari
di Stato. Nel 364 furono vietati, da Valentiniano e Valente, i riti
pubblici pagani e nel 380, con l’Editto di Teodosio, il semplice fatto di
professare una fede diversa da quella cristiana divenne un illecito e
comportò limitazioni della capacità giuridica.
d) L’unicità dell’Impero
Fallito l’esperimento della tetrarchia diocleziana, l’Impero venne
nuovamente diviso in due parti (la pars Orientis e la pars Occidentis). Ma
questo non comportò la rinuncia all’idea che l’Impero fosse unico; tra i
due imperatori sarebbe rivissuto, mutatis mutandis, il vecchio principio
della collegialità delle magistrature. Il tardo Impero era quindi un vero
e proprio Regno.
3. Il diritto e le sue fonti
1. Significato di ius
La parola latina che corrisponde alla nostra parola “diritto” è ius; per
capire cosa intendessero i romani per diritto si potrebbe far ricorso alla
celebre definizione del diritto contenuta nel primo frammento del Digesto
tratto dalle Institutiones di Ulpiano, che scrive: “il diritto è così
chiamato da ‘giustizia’; infatti, come dice elegantemente Celso, il
diritto è l’ars del buon e del giusto”. Alcuni pensano che per Ulpiano e
Celso il termine ars indichi e che anziché diritto definissero la
giurisprudenza, indicando come i giurisperiti come coloro che posseggono
l’arte di individuare ciò che è bene ed è giusto; altri invece traducono
ars con “sistema” e ritengono che il passo definisca il diritto come
sistema del bene e del giusto. Non tutto ciò che è buono ed equo è diritto
e, non sempre il diritto è buono ed equo. I romani erano perfettamente
consapevoli di questo.
2. Diritto in senso soggettivo e diritto in senso oggettivo
La parola ius, come insieme delle norme a carattere giuridico che regolano
il comportamento dei romani e l’organizzazione della loro città, è intesa
in senso oggettivo. Ma essa ha anche un altro significato, un valore
soggettivo, quando indica le conseguenze che l’applicazione delle regole
del diritto oggettivo ha sui singoli individui, ossia le situazioni
giuridiche in cui questi vengono a trovarsi. Nelle XII Tavole si ritrova
l’espressione ricorrente di ita ius esto (così sia il diritto). Ad
esempio, la regola uti lingua nuncupassit, ita ius esto (come la lingua ha
pronunziato, così sia il diritto) significa che chi ha pronunziato
determinate parole, o la persona nei cui confronti sono state pronunziate
vengono a trovarsi nella situazione indicate dalle parole stesse.
B.Fonti di cognizione e fonti di produzione del diritto
Per fonte del diritto si allude al fatto o all’atto dal quale deriva la
sua esistenza una regola giuridica, quindi si parla di fonte di produzione
della regola, mentre l’espressione fonte di cognizione allude a qualunque
documento
o
reperto
dal
quale
siamo
informati,
direttamente
o
indirettamente, dell’esistenza di una regola.
Le fonti di cognizione
Le fonti di cognizione del diritto vengono abitualmente classificate in
fonti giuridiche e fonti extragiuridiche. Per fonti giuridiche s’intendono
le opere dei giuristi e i documenti che riportano direttamente regole
giuridiche o atti relativi all’applicazione di queste; per fonti
extragiuridiche s’intendono tutti gli altri documenti o reperti dai quali
possiamo indirettamente desumere informazioni di vario genere sul diritto.
Le fonti di produzione
La straordinaria articolazione ed elasticità delle fonti del diritto
romano, fu una della circostanze che consentirono a questo diritto di
adattarsi ai profondi mutamenti delle condizioni politiche, sociali ed
economiche verificatisi nei lunghi secoli della sua storia.
 Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.
a) La consuetudine
La fonte più antica di produzione del diritto furono le usanze che
lentamente si affermarono nella pratica dei rapporti interfamiliari, e che
con il tempo presero ad essere rispettate con la convinzione della loro
obbligatorietà. Queste antiche consuetudini, chiamate dai romani mores
maiorum, nascessero da una decisione giudiziale, una sentenza emessa dal
rex; queste decisioni venivano considerate dei precedenti che era
opportuno seguire e, quindi, una serie di pronunzie costanti dava vita a
un principio che la comunità riteneva una norma vincolante. Il ruolo
giocato dalla consuetudine rende dunque il sistema romano assai diverso
sia dagli altri diritti antichi sia da quelli dell’Europa continentale
dopo la Rivoluzione francese. Il peso attribuito alle consuetudini, rende
il sistema romano, simile ai sistemi di Common Law.
b) Le leges regiae
Sotto il nome di leges regiae è giunta una serie di disposizioni
attribuite ai diversi re di Roma. Parte della dottrina ha pensato che si
trattasse di norme consuetudinarie attribuite dalla tradizione ai re per
conferire loro maggior prestigio e autorità. Oggi si ritiene che si
trattasse di provvedimenti autoritativi di provenienza regale. E’ stato
ritrovato sotto il lapis Niger, nel Comitium, un cippo marmoreo con
un’iscrizione databile al primo quarto del secolo VI a.C. dalla quale si
leggono alcune parole che minacciano una sanzione a carico di chi avesse
violato i luoghi sacri, insomma, segno di una lex regia. La sanzione che
nella lingua arcaica dell’iscrizione suona sakros esed, corrisponde alla
sanzione che in età successiva verrà espressa con la formula sacer esto
(sia sacro); questa sanzione dimostra in modo evidente il carattere
sacrale del potere regale e quello religioso delle prime norme giuridiche.
Le leges regiae furono le prime norme autoritative della storia romana;
anche se vengono indicate come leges, esse non sono tali nel senso tecnico
che questo termine assumerà dal momento in cui verrà usato per indicare le
deliberazioni dei comizi centuriati.
c) L’interpretazione pontificale e l’interpretatio prudentium
Nel periodo più antico, quando le regole giuridiche avevano carattere
sacro, il compito di custodire e interpretare i mores era affidato ai
pontefici, all’interno del cui collegio veniva designato colui al quale
era deferito il compito di risolvere i problemi dei privati; i pontefici
oltre ad interpretare, creavano il diritto. Essi a volte operavano
valutazioni che li spingevano ad adeguare i mores a nuove esigenze; i
primi giuristi romani, furono dunque dei sacerdoti, che in un primo
momento detenevano il monopolio del sapere giuridico. A partire
dall’inizio del secolo V a.C., questo sapere cominciò a diffondersi e a
diventare patrimonio di un numero crescente di uomini di cultura laici.
d) Le XII Tavole e il ius legitimum vetus
La tradizione parla delle XII Tavole come di una lex emanata nel 451­450
a.C. da una magistratura straordinaria, composta in parte da patrizi e in
parte da plebei e nominata a seguito di una lotta della plebe per
sottrarre agli aristocratici l’esclusività dell’amministrazione della
giustizia. Il compito di questi magistrati (10, detti decemviri legibus
scribundis) era quello di mettere per iscritto un corpus di leggi che
stabilissero criteri di decisione, sottraendo la risoluzione delle
controversie al totale arbitrio dei giudici. Le norme raccolte nelle XII
Tavole erano le antiche consuetudini che i decemvriri si limitarono a
codificare, senza fare molte innovazioni e senza fare molte concessioni ai
plebei. Le XII Tavole rappresentano, comunque, una vittoria della plebe,
per il semplice fatto di essere state scritte, infatti i magistrati e i
pontefici non furono più liberi di individuare e interpretare i mores a
loro arbitrio; i giudici erano vincolati all’applicazione di alcuni
criteri, che portavano di necessità a una determinata soluzione della
controversia. Le XII Tavole erano una fonte anomala di diritto, in quanto,
i romani tendevano a non formulare per iscritto regole generali e astratte
e prima della compilazione giustinianea, le XII Tavole furono l’unico
corpus di leggi che potesse in qualche modo far pensare a un codice
moderno; esse costituirono il nucleo centro del ius legitimum.
e) La lex (legge comiziale) e il ius legitimum novum
La lex era una norma giuridica che esprimeva la volontà popolare; era una
deliberazione vincolante, approvata dal popolo, a questo scopo riunito nei
comizi centuriati da uno dei magistrati forniti del cosiddetto ius agendi
cum popolo (diritto di convocare un’assemblea popolare), i consoli ed i
pretori. Il diritto di avanzare proposte di legge (rogationes) spettava
esclusivamente ai magistrati, solo dopo essere state approvate dal Senato.
Di regola i comizi legiferavano in materia di diritto pubblico, su
questioni che riguardavano l’organizzazione e la struttura dello Stato
romano. Alcune leges pubblicae regolarono alcuni aspetti del ius civile
(ad esempio in caso di successione mortis causa, di matrimonio, di tutela
e manomissione degli schiavi). Anche le leges pubblicae furono attratte
nella sfera del ius e vennero a formare il cosiddetto ius legitimum novum,
in contrapposizione a quello basato sulle XII Tavole, che venne definito
ius legitimum vetus.
Formazione della legge
L’iter legis, ossia il cammino che portava all’approvazione della legge,
si iniziava con l’esposizione della proposta al pubblico. Questo atto era
detto promulgatio; il periodo che intercorreva tra la promulgatio e la
riunione dell’assemblea era detta trinundinum, in quanto era composto da
tre periodi di otto giorni ciascuno, detti nundinae. Durante questo
periodo il progetto veniva discusso dal magistrato proponente e dal popolo
in riunioni informali dette contiones, ma il magistrato non poteva più
modificarlo, al limite poteva ritirarlo e sostituirlo con un nuovo
progetto, che doveva ripercorrere tutto l’iter legis. Nel giorno fissato
per la votazione non era più ammessa alcuna discussione; il magistrato si
limitava a interrogare il popolo, che poteva approvare o respingere la
proposta. La formula per l’approvazione era uti rogas (come chiedi),
mentre quella per respingere era antiqua probo (preferisco le regole
antiche).
La composizione del corpo elettorale e il sistema di voto
La composizione del corpo elettorale romano, a prima vista, era molto
democratica; tutti i cittadini avevano diritto di voto, ma il sistema per
votare era tale che in realtà il voto di alcuni valeva meno di quello di
altri. I comizi centuriati riunivano la popolazione in base alla sua
appartenenza a una delle cinque classi di censo, e ciascuna di queste
classi era organizzata in centurie; visto che ogni centuria poteva
esprimere un solo voto e il numero totale di esse era 193, 98
appartenevano
alla
prima
classe,
che
sistematicamente
aveva
la
maggioranza.
f) I plebiscita
Nel 287 a.C. la Lex Hortensia stabilì che i plebisciti universum populum
tenerent (vincolassero l’intera popolazione). Prima di questa legge, i
plebisciti erano deliberazioni prese dalla plebe riunita in assemblea, che
regolavano la condotta dei plebei e dei loro organi. Dopo la lex Hortensia
questo cambiò; ai concili tributi partecipavano solamente i plebei e
giacché le loro deliberazioni vincolavano tutti, i patrizi si trovarono ad
essere vincolati da deliberazioni alle quali non avevano partecipato.
 Dal secolo III a.C. al secolo III d.C.
1. La giurisprudenza
A partire della metà del secolo II a.C. cominciarono ad operare a Roma
giuristi significatici come Publio Mucio Scevola. All’età di Augusto
nacquero e si svilupparono due grandi scuole di giuristi, detti sabiniani
e proculiani (dai rispettivi capi Masurio Sabino e Proculo). I sabiniani
(favorevoli alla politica di Augusto) erano i giuristi graditi agli
ambienti ufficiali, ma i proculiani (anche se politicamente più
conservatori) erano più innovativi dal punto di vista della teoria
giuridica. Nella prima metà del secolo II d.C. visse e operò Salvio
Giuliano, che ricevette dall’imperatore Adriano l’incarico di codificare
l’editto del pretore urbano, fissarlo per iscritto, in modo che così (dal
130 d.C.) nessuno pretore potesse apportarvi modifiche; questo determinò
la fine della funzione innovativa del diritto onorario, nato dall’editto
del pretore urbano. Tra i più importanti giuristi dell’epoca, che va da
Adriano agli Antonini, vanno inoltre ricordati Africano, Pomponio,
Marcello e Scevola; all’epoca dei Severi vissero Papiniano, Paolo e
Ulpiano, ed infine Marciano e Modestino.
Il valore dei responsa prudentium
I pareri che i giuristi fornivano nell’esercizio della loro funzione di
interpreti del diritto venivano detti responsa prudentium; dalle
Istituzioni di Gaio sappiamo che quando erano concordi questi pareri
avevano valore di legge; in realtà i pareri dei giuristi si limitavano ad
individuare una norma già esistente, chiarendo che nella specie era quella
la norma da applicare. Solo in età postclassica i pareri divennero
vincolanti e questo accadde perché alcuni imperatori davano ad alcuni
giuristi uno speciale diritto di dare pareri ex auctoritate principis,
ossia per conto e in nome del principe e poiché la sua volontà aveva
valore di legge, ne consegue che tale valore fosse riconosciuto anche ai
responsa prudentium; i giuristi forniti di questo diritto furono, tra i
vari, Modestino, Paolo, Ulpiano e Papiniano.
2. Gli editti dei magistrati
Nel 367 a.C. le leges Liciniae Sextiae avevano attribuito al praetor la
giurisdizione civile; a partire dal 242 a.C. venne istituito il praetor
peregrinus, incaricato della giurisdizione civile, in caso di controversie
tra stranieri o tra romani e stranieri e grazie a ciò cominciarono a venir
tutelate situazioni soggettive che sino a quel momento non godevano di
tutela. Questo avvenne grazie a degli interventi del pretore urbano, detti
interdicta (interdetti), che tutelavano interessi relativi al godimento
della terra o altri beni di proprietà del popolo romano; gli interventi
più significativi dei magistrati furono legati all’introduzione di un
nuovo di tipo di processo, fondato sul loro imperium (comando), che finì
per sostituire il vecchio processo per legis actiones. Questo processo
venne detto per formulas (formulare), perché basato su un documento
scritto, detto appunto formula. Grazie al nuovo processo, i magistrati
giusdiscenti superarono la rigidità del diritto più antico, tutelando
nuove situazioni, spesso ma non necessariamente nate nella pratica degli
affari tra romani e stranieri, creando nuove regole giuridiche. Il
complesso delle regole di introduzione magistratuale viene chiamato ius
honorarium o limitatamente a quello nato nel tribunale del pretore, ius
praetorium; come scrive il giurista Paolo, il ius honorarium, fu
introdotto per aiutare, per integrare o per correggere il diritto civile.
Le regole del ius civile non vennero modificate dal ius honorarium, ma
quest’ultimo affiancò il primo, che rimase sempre formalmente in vigore,
anche quando il diritto applicato era ormai regolarmente quello di
creazione pretoria. Ben presto i pretori, avvalendosi del ius edicendi
(potere di fare comunicazioni ai cittadini) compreso nel loro imperium,
all’inizio dell’anno di carica rendevano pubblico una specie di programma,
contenente le linee della politica giurisdizionale alla quale si sarebbe
attenuto. Questo programma veniva detto edictum perpetuum (editto
perpetuo) in quanto vincolava il magistrato per l’intero anno di carica.
Questo programma veniva esposto nel Foro su delle tavole dette tabulae
dealbatae.
3. I senatusconsulta
Il Senato, nonostante la sua importantissima funzione politica, non aveva,
formalmente, né il potere di emanare norme generali vincolanti per la
collettività, né quello di esprimere pareri che potessero vincolare gli
organi costituzionali ai quali venivano dati pareri che quest’organo dava
ai magistrati (da cui il termine senatus consulta, pareri del Senato). I
comizi popolari scomparvero, come organo legislativo, alla fine del I
secolo d.C., mentre il Senato acquistò potere tale da far pensare a volte
ad una diarchia, in cui il comando spettava a due organi, il principe e il
senato. Quest’ultimo cominciò ad intervenire dando pareri non solo in
materia di diritto pubblico, ma anche in quello privato, dando dapprima
pareri ai magistrati giusdicenti e, a partire dal I secolo d.C.,
introducendo nuove regole. I senatoconsulti divennero una fonte di
produzione del diritto e col tempo la più importante fonte autoritativa. A
partire dal secolo II d.C. le proposte di senatoconsulti vennero fatte
sempre più spesso (prima erano i consoli) dal princeps, che pronunziava in
Senato una oratio, la cui approvazione era divenuta pura e semplice
formalità.
4. Le costituzioni imperiali
Una volta conquistato il potere Augusto iniziò a pronunziare sentenze che
come è evidente avevano un valore del tutto particolare come precedenti,
ed iniziò anche a prendere provvedimenti ed emanare atti di contenuto
normativo. Ulpiano scrive: “quel che il principe ha deciso, ha valore di
legge”. Quanto al fondamento giuridico del potere normativo imperiale,
essa va individuato nella lex de imperio, con cui il popolo avrebbe
attribuito al principe il suo imperium e la sua potestas. I provvedimenti
imperiali, definiti constitutiones (costituzioni) si dividevano in edicta
(atti normativi a carattere generale e astratto), mandata (ordini e
direttive di carattere generale indirizzati ai governatori delle
province), rescripta (pareri vincolanti del principe su questioni
giuridiche sottoposte al suo giudizio) e decreta (sentenze emesse dal
principe sia in materia di diritto privato che di diritto penale).
5. La consuetudine
Anche senza avere l’importanza assunta nell’età arcaica, i mores
continuarono a contribuire alla formazione del diritto anche dopo la
pubblicazione delle XII Tavole. La consuetudine contribuì sensibilmente
anche alla creazione del ius gentium. A partire dalla metà del secolo II,
i giuristi e gli imperatori riconobbero più volte il suo valore. Salvo
Giuliano scrisse che in mancanza di leggi scritte si doveva tener conto di
ciò che era stato introdotto morbus ed consuetudine; l’imperatore Settimio
Severo stabilì che qualora vi fossero dubbi sul significato di una legge
si dovesse attribuire questo valore alla consuetudine.
 Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
1. Gli iura
Il periodo della grande giurisprudenza era finito; in questa situazione
non erano le singole opere a essere fonte del diritto, ma la communis
opinio, vale a dire l’opinione prevalente e generalmente condivisa. Ma
anche quando questa communis opinio si era formata, non era facile
determinare quale essa fosse. Gli imperatori per mettere ordine in questo
delicato settore della vita del diritto intervennero con una serie di
provvedimenti. Il più importante fu la costituzione emanata nel 426 d.C.
da Valentiniano III (legge delle citazioni); essa attribuiva alle opere di
Gaio lo stesso valore di fonte del diritto che già avevano le opere di
Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino. Questa costituzione stabiliva
inoltre che il giudice fosse tenuto ad attenersi al parere dei giuristi
solo se sulla questione a lui sottoposta vi fosse communis opinio; quando
vi era un numero pari di sostenitori di teorie opposte, era considerata
communis opinio l’opinione a favore della quale si era espresso Papiniano.
2. Le leges
In quest’epoca ebbero enorme importanza le diverse costituzioni imperiali
(edicta, mandata, rescripta e decreta), e in particolare, le c.d. leges
generales. Anche quando l’Impero venne diviso in due parti, la concezione
unitaria del potere imperiale non venne meno. In un primo momento, le
costituzioni emanate da un imperatore, vincolavano automaticamente anche i
sudditi dell’altra parte dell’Impero. Successivamente queste dovevano
essere trasmesse all’altro imperatore attraverso una costituzione detta
pragmatica sanctio, e in una terza fase si ritenne necessario che fossero
promulgate dall’imperatore che le aveva ricevute. La pragmatica sanctio
era considerata una forma intermedia tra una legge generale e un
rescritto.
3. Le collezioni ufficiali come fonte di produzione del diritto
Con il passare del tempo nel mondo romano vennero approntati dei “Codici”
aventi valore di legge, e furono:
a. In età pregiustinianea, il Codex Theodosianus (438). Teodosio II
nel 429 progettò di procedere ad una raccolta di leges che
comprendesse non solo le costituzioni imperiali, ma anche i
pareri dei giuristi aventi valore di legge, ma stante la vastità
delle opere, dovette ripiegare su un progetto minore di raccolta
di sole leges, che venne pubblicata nel 438 con il nome di Codex
Theodosianus; rimase in vigore fino a quando non fu sostituito
dal Codice di Giustiniano;
b. La compilazione giustinianea (Corpus Iuris Civilis). E’ una
raccolta di leges e iura, definita compilazione di Giustiniano,
considerata come l’opera giuridica più importante che sia mai
stata scritta, e alla quale lavorarono i migliori giuristi
dell’epoca sotto la direzione di Triboniano.
La ragione che indusse Giustiniano a procedere a quest’opera fu la
necessità sempre più forte di mettere ordine nel sistema delle norme
giuridiche; accanto alle decisioni imperiali (leges) bisognava tener conto
del parere dei giuristi, e anche all’interno di questi era sempre più
difficile capire quali tra i diversi principi formulati fossero validi e
quali fossero ormai superati. Giustiniano decise di procedere ad una
raccolta di tutte le costituzioni imperiali e di tutti i pareri dei
giuristi che dovevano essere considerati vincolanti, togliendo valore a
tutte le costituzioni e le opere della giurisprudenza che non erano state
ricomprese nella nuova opera. Da questo punto di vista, l’intero Corpus
Iuris civilis era un codice nel senso moderno del termine. Si compone di
quattro parti, ciascuna con un diverso carattere e funzione e sono il
Codice (Codex), il Digesto (Digesta seu Pandectae), le Istituzioni
(Institutiones) e le Novelle (Novellae). Il Codex è la raccolta delle
costituzioni imperiali, che venne pubblicata nel 534; la più antica era di
Adriano e la più recente era stata emanata dallo stesso Giustiniano, il 4
novembre 534, ed il Codex entrò in vigore il 29 novembre dello stesso
anno. I Digesta sono l’opera nella quale vennero riuniti i frammenti delle
opere dei giuristi che esprimevano regole e principi giuridici considerati
tuttora attuali; fu pubblicata nel 533; la commissione incaricata di
preparare
quest’opera
doveva
estrarre
dalle
diverse
opere
della
giurisprudenza le parti ancora utilizzabili; questi frammenti furono
raccolti per materia e ciascuno di essi venne riportato con un’annotazione
(inscriptio) che segnalava il nome dell’autore e dell’opera da cui era
stata estratto; il testo svolgeva un discorso organico e coerente e aveva
il valore di una legge emanata dall’imperatore. Le Institutiones furono
pubblicate nel 533, libro destinato agli studenti di giurisprudenza
contenente le nozioni fondamentali del diritto privato. Le Novellae
(Novellae Constitutiones, nuove costituzioni) sono la raccolta delle
costituzioni emanate da Giustiniano dopo il 534.
4. Le leggi romano­barbariche
Nel corso del V e del VI secolo d.C. alcune popolazioni barbariche
stanziate sul territorio occidentale dell’Impero costituirono dei veri e
propri Stati, come il regno dei visigoti, dei burgundi, dei vandali, dei
suebi, degli ostrogoti. I rapporti di queste popolazioni con l’Impero
furono diversi; in alcuni casi, i vandali, gli stati barbarici nacquero a
seguito di una vera e propria occupazione bellica. In altri casi, come i
visigoti e burgundi, essi stabilirono originariamente un rapporto
federativo con Roma; in altri casi infine, gli ostrogoti, si stabilì un
rapporto di dipendenza dall’Impero. In tutti questi Stati vivevano romani
e barbari, e di regola si era venuto a creare un doppio sistema di
diritto. I romani continuavano ad applicare il loro diritto e i barbari le
regole del loro diritto nazionale, per lo più basate sulle loro antiche
consuetudini. Anche presso queste popolazioni si venne affermando il
principio che l’unica fonte del diritto era lo Stato e di conseguenza si
procedette a delle compilazioni di regole giuridiche (c.d. leggi
barbariche); si sentì il bisogno di raccogliere le norme che dovevano
regolare la vita dei romani che vivevano in territorio barbarico e in
alcune situazioni ci si pose anche il problema di regolare i rapporti tra
romani e barbari. Tra le diverse compilazioni vanno ricordate:
a. la Lex Romana Wisigothorum (o Breviarum Alaricianum); è una
raccolta di regole del diritto romano, ordinata nel 506 dal re
visigoto Alarico II a uso dei suoi sudditi romani. Questa
raccolta toglieva vigore a tutte le regole che non vi erano state
inserite;
b. la Lex Romana Burgundionum, raccolta di leggi romane ordinata da
re dei burgundi, Gundobado, per uso dei romani che vivevano nel
suo territorio;
c. l’Edictum Theodorici, compilazione emanata nei primi anni del
secolo V da Teodorico, re degli ostrogoti in Italia; Teodorico
non procedette a quest’opera come sovrano, ma come titolare di un
potere conferitogli dall’Imperatore d’Oriente; egli agì come
funzionario, ed emanò un editto anziché una legge e si applicava
a tutti i suoi sudditi, ostrogoti e romani.
Le leggi barbariche
I capi dei regni barbarici emanarono anche leggi dirette a regolare
esclusivamente la vita dei loro sudditi. La prima codificazione di un
diritto nazionale barbarico fu la lex Visigothorum; il nucleo originario
di questa legge venne redatto verso la metà del secolo V per volontà del
re Teodorico, aggiornato poi verso la fine del secolo dal re Eurico ed
infine dal re Leovigildo verso la seconda metà del secolo VI. Verso la
seconda metà del secolo VII, re Recesvindo, stabilì che esso avesse
efficacia territoriale, applicabile quindi a tutti coloro che abitavano il
territorio visigoto, senza distinzioni. La lex Visigothorum divenne la
base del diritto nazionale spagnolo, e rappresenta il modello più
progredito e sistematico, e deve la sua raffinatezza alle molte influenze
del diritto romano. La lex Gundebada regolava la vita e i rapporti dei
burgundi e raccoglieva le regole del diritto nazionale burgundo.
5. La consuetudine
Le fonti postclassiche e giustinianee dedicano molta attenzione alla
consuetudine; fino al 212 d.C. il diritto romano si applicava in misura
limitata nei territori conquistati. I rapporti tra gli abitanti di questi
territori, infatti, continuavano ad essere regolati dai diritti nazionali.
Quando con il 212 la cittadinanza romana venne concessa a tutti i sudditi
dell’Impero, i vari diritti nazionali cessarono di avere vigore,
quantomeno in linea di principio, mentre nella pratica continuarono ad
essere applicati. Il sistema per conciliare le due esigenze venne trovato
nella concezione secondo la quale le regole localmente applicate erano
semplicemente comportamenti concreti, che con il loro consolidarsi nella
prassi e grazie al consenso di chi le applicava creava diritto
consuetudinario. Costantino emanò una costituzione secondo la quale la
consuetudine non poteva superare la legge o la ratio; non poteva valere
contra legem, e tantomeno abrogare una regola giuridica. Un’altra
costituzione inserita nel Codice giustinianeo però, equiparando la
consuetudine alle leggi, ammise anche la consuetudine contra legem e il
principio venne confermato nelle Istituzioni di Giustiniano, là dove si
definisce la consuetudine “costumi costanti, consolidati dal consenso dei
consociati”, e si dichiara questi costumi, legem imitantur (imitano la
legge). Anche se ogni consuetudine aveva valore in una determinata zona,
infatti, il principio che i costumi dei consociati avessero valore di
fonte del diritto era un principio valido in tutto l’Impero.
4. Le persone
Definizione di vita e sua rilevanza giuridica nel mondo
romano
Il presupposto di ogni discorso sulla capacità degli esseri umani era nel
mondo romano la loro esistenza in vita. Nel sistema romano la nascita
induce effetti nel mondo del diritto (in età augustea, ad esempio, la
nascita era importante in quanto le donne che partorivano un certo numero
di figli erano esonerate dalla tutela). Secondo le fonti del periodo
classico, era il momento in cui il feto si staccava completamente dal seno
materno (partus editus); in età augustea, i proculiani richiedevano che il
nuovo nato avesse emesso un vagito, mentre i sabiniani, la cui tesi
prevalse, ritenevano che qualunque segno di vita fosse sufficiente. Per i
romani non era da considerare nato il monstrum vel prodigium, ossia il
neonato così mostruosamente deforme da essere più simile ad un animale che
a un essere umano. Secondo una legge attribuita a Romolo, il padre che
abbandonava il figlio mostruoso non incorreva nelle pene previste per
l’abbandono dei neonati; l’importante era che cinque vicini accertassero
la mostruosità. In alcuni, invece, anche il nascituro veniva preso in
considerazione, quando ad esempio chi nasceva da iustae nuptiae che
seguiva la condizione del padre al momento del concepimento; oppure in
caso di divorzio quando il marito temeva che la moglie incinta abortisse,
ed in questo caso poteva chiedere che venisse nominato un curator ventris,
persona incaricata ad impedire che la donna privasse l’ex marito della
prole.
A. Percezione romana del problema della capacità giuridica e sue
soluzioni
1. La capacità giuridica
Con riferimento alla capacità giuridica, l’individuazione delle persone
alle quali era consentito essere punto di imputazione di situazioni
giuridiche soggettive era un problema di grande rilevanza, anche perché,
al pari delle altre popolazioni antiche, i romani non riconoscevano la
capacità giuridica in base al semplice fatto della nascita.
a) Le divisiones personarum
Quella che oggi chiamiamo capacità giuridica, nel mondo romano spettava
solo ad una minoranza di persone; dalle fonti del diritto si ritrovano le
divisiones personarum, cioè una serie di classificazioni delle personae in
diverse categorie, dall’appartenenza alle quali i romani facevano
discendere il riconoscimento della capacità.
Liberi e schiavi
La prima fondamentale classificazione degli essere umani è quella che
divide i liberi dagli schiavi (servi); le persone libere si distinguevano
in ingenui (nati liberi) e liberti (liberati dalla schiavitù).
Romani e peregrini (stranieri)
Questa distinzione riguardava solo le persone libere, distinte a seconda
che avessero la cittadinanza romana oppure no; lo status di cittadino
romano era condicio sine qua non per l’esercizio dei diritti politici e
per il godimento di una serie di privilegi. Tra gli stranieri, i latini
godevano di una posizione particolarmente privilegiata.
Sui iuris e alieni iuris
Coloro che avevano la cittadinanza romana si dividevano a loro volta in
sui iuris (di diritto proprio) e alieni iuris (di diritto altrui). Sui
iuris erano coloro che non avevano ascendenti maschi superstiti, o che
erano stati emancipati. Alieni iuris coloro che avevano un ascendente
maschio in vita o che non erano stati emancipati. A seconda del loro
rapporto con il paterfamilias, si distinguevano in persone in potestate,
in manu, in mancipio. Le persone che non rientravano nelle tre precedenti
categorie potevano essere in tutela o in curatione ovvero potevano non
essere sottoposte ad alcuno di questi poteri.
La posizione dell’individuo veniva indicato dai romani con il termine
status; lo status di un persona aveva rilevanza agli effetti del
riconoscimento di capacità. La piena capacità giuridica di diritto
privato, era riconosciuta solo a chi avesse lo status di persona libera,
civis romanus e sui iuris. La capacità di diritto pubblico era legata allo
status di cittadino e non di paterfamilias o filiusfamilias.
b) Capacità di diritto privato e capacità di diritto pubblico
La civitas nel momento in cui nacque, ai fini della gestione della res
publica, stabilì dei rapporti con tutti gli individui che componevano le
diverse familiae, che erano indipendenti dal fatto che questi fossero sui
iuris o alieni iuris; quel che interessava la civitas era il sesso delle
persone, la loro età, la loro appartenenza all’una o all’altra classe
sociale; erano queste le caratteristiche in base alle quali la civitas
stabiliva chi poteva partecipare alle assemblee e chi non poteva farlo,
chi aveva il diritto di partecipare ad alcune di esse e chi ad altre, e
così via dicendo. Chi non aveva i requisiti per partecipare alla vita
pubblica, cioè le donne, gli impuberi e gli schiavi, veniva preso in
considerazione come eventuale oggetto di punizioni, qualora si rendesse
colpevole di quei comportamenti che agli inizi della storia di Roma erano
considerati lesivi della collettività, e cioè la perduellio (alto
tradimento) e il parricidio (uccisione di un paterfamilias). Quindi un
filiusfamilias poteva diventare console, con il prestigio e potere che ne
derivava, ma come filius non aveva un suo patrimonio.
2. La capacità di agire
La capacità di agire era riconosciuta a chi fosse considerato capace di
intendere e di volere. Vi erano quindi persone che avevano la capacità
giuridica ma non quella di agire (gli impuberi sui iuris o i pazzi),
mentre vi erano persone che non avevano la capacità giuridica ma avevano
quella di agire (ad esempio gli schiavi puberi e sani di mente). Le
persone incapaci o limitatamente capaci erano gli impuberi, le donne
(tutta la vita), i furiosi (pazzi) e a partire dalle XII Tavole anche i
prodighi. Queste persone, non potendo amministrare autonomamente i loro
beni erano sottoposti ad un tutore, nei casi di impuberi e di donne, ed ad
un curatore, per quanto attiene ai furiosi e ai prodighi. Ovviamente il
problema della tutela si poneva solo nel caso di sui iuris, in quanto gli
alieni iuris non avevano patrimonio da amministrare.
a) La tutela
La tutela romana era un istituto potestativo, e non protettivo come oggi.
Qualora una persona ritenuta incapace di agire diventasse sui iuris, si
suoi familiari si preoccupavano di controllare questa persona per
salvaguardare le loro aspettative ereditarie. La trasformazione della
tutela in istituto protettivo avvenne con la lex Atilia (forse nel 210
a.C.) che stabilì che il pretore dovesse nominare un tutore a chi non lo
avesse; il tutor Atilianus, pur essendo titolare di un potere (potestas o
vis), esercitava anche un munus, una funzione che era suo dovere svolgere
nell’interesse del pupillo. Gli incapaci non potevano compiere atti di
rilevanza giuridica e perché avessero effetto, essi dovevano essere
rappresentati o assistiti dal tutore.
La tutela sugli impuberi
Erano considerate impuberi le persone che non avevano raggiunto la
maturità sessuale, che nel periodo arcaico veniva accertata con una
inspectio corporis. La tutela sugli impuberi, i pupilli, viene definita
come un potere attribuito dal ius civile su una persona di stato libero
che a causa dell’età non è in grado di difendere i suoi interessi. Il
tutore, era l’adgnatus proximus, vale a dire il parente più stretto in
linea maschile; se il pupillo era un liberto, la tutela spettava al suo
patrono, mentre se il pupillo era stato emancipato la tutela spettava al
parens manumissor; in mancanza di adgnati la tutela spettava ai gentiles.
In età antica e preclassica il tutore testamentario poteva rinunciare alla
tutela con una abdicatio; il tutore legittimo poteva trasferire il suo
potere ad altra persona, chiamata tutor cessicius. Il tutore aveva poteri
patrimoniali e poteri di tipo personale, relativi all’educazione del
pupillo; dopo il periodo delle XII Tavole, i poteri patrimoniali erano
diversi a seconda che il pupillo fosse ancora infans (infante, incapace di
parlare) o che avesse raggiunto quel minimo di maturità che gli permetteva
di esprimersi. Nel caso di infans, il tutore aveva la totale gestio
(gestione) del patrimonio pupillare, mentre nel caso di infans maior
(quando il pupillo avesse qualche capacità di ragionare), gli atti
compiuti dal pupillo non erano inesistenti, ma imperfetti e necessitavano
la ratifica da parte del tutore, compiendo la auctoritatis interpositio.
Senza l’intervento del tutore, gli atti compiuti da un infans o un infans
maior erano considerati nulli.
La tutela sulle donne
Alcuni ritengono che originariamente le donne non fossero considerate
capaci di avere un patrimonio; di conseguenza il patrimonio ereditato
sarebbe stato considerato di proprietà del loro tutore che avrebbe in
origine provveduto personalmente alla gestio dei beni, sotto il vincolo di
farlo nell’interesse della donna. All’età delle XII Tavole, le donne erano
già ammesse alla successione ereditaria, succedendo come heredes suae in
qualità di figlie, nipoti in linea maschile (se il padre era premorto) e
di mogli in manu, come loco filiae (in condizione di figlia) presso il
marito o il paterfamilias di questi. Come adgnatae le donne ereditavano in
qualità di sorelle e di nipoti ex fratre, se il padre era premorto; infine
come gentiles partecipavano alla successione insieme ai gentiles maschi.
Comunque le donne non avevano la capacità di agire e potevano amministrare
il loro patrimonio solo con l’assistenza del tutore; solo le vergini
Vestali erano esonerate dalla tutela.
Tipi di tutela sulle donne e modifiche dell’istituto
Le XII Tavole prevedevano due tipi di tutela sulle donne, la tutela
legitima (o adgnatitia) spettante per legge ai parenti più stretti in
linea maschile, e la tutela testamentaria stabilita per testamento
dell’avente potestà sulla donna. La nomina spetta al parente più stretto
in linea maschile (adgnatus proximus), e in mancanza di adgnati ai
gentiles. Gradualmente il potere dei tutori si attenuò e alle donne si
affiancavano tutori di loro gradimento; questo fenomeno è legato anche al
fatto che i poteri paterni, col tempo, subirono progressive limitazioni e
fu questa la circostanza che a un certo punto della loro storia, rese
difficile ai romani continuare a sostenere che le donne erano incapaci.
Le Vestali
Le sacerdotesse di Vesta servivano la dea per un periodo che in principio
era di 5 anni, ma che in epoca storica durava 30 anni; il Pontefice
Massimo acquisiva sulle Vestali un potere simile a quello del
paterfamilias, che lo perdeva nel momento in cui queste venivano
consacrate alla dea. Se la Vestale veniva meno al voto trentennale di
castità, il pontifex poteva metterla a morte. Le Vestali godevano di
grande prestigio e privilegi, tra i quali, importante, era quello
dell’esonero della tutela, grazie al quale erano capaci di fare testamento
senza bisogno di un’autorizzazione maschile.
Responsabilità del tutore
Il tutore che profittava della sua posizione era colpevole di violazione
della fides, sanzionato dalle XII Tavole, che prevedevano di agire in
giudizio contro il tutore legittimo e di farlo condannare al doppio del
denaro sottratto o illecitamente acquistato.
b) La cura
Erano sottoposti a cura i pazzi (furiosi) e i prodighi.
I furiosi
Erano considerati furiosi i pazzi che davano evidenti e clamorosi segni di
follia. Costoro erano sottoposti al potere dell’adgnatus proximus o, in
mancanza di adgnati, dei gentiles. Il curatore si chiamava curator
legitimus. Il furiosus era considerato totalmente incapace non solo di
compiere atti leciti giuridici, ma anche di compiere atti illeciti e
quindi i primi erano nulli, mentre per i secondi non veniva imputato. Il
curator aveva la gestio del suo patrimonio, ma non poteva compiere
emancipazione, testamento, manomissione o atti di liberalità, ma poteva
alienare i beni del furiosus.
I prodighi
Erano considerati prodighi coloro che dilapidavano il patrimonio familiare
con il loro comportamento inconsulto; le XII Tavole prevedevano che essi
potevano essere interdetti, e l’interdizione veniva pronunciata dal
magistrato (dal 367 a.C. il praetor urbanus) il quale per evitare di
mandare i fogli in povertà toglieva il potere al prodigo di disporre dei
suoi beni; il prodigo era sottoposto alla cura dell’adgnatus proximus, e
in mancanza di adgnati, dei gentiles.
B.Le divisioni delle persone
1. Liberi e schiavi
a) La schiavitù
La schiavitù nel mondo antico era considerata un’istituzione naturale; il
fatto che gli essere umani non fossero tutti uguali, che non tutti
godessero degli stessi diritti e che alcuni di essi potessero essere
sfruttati da altri era cosa normalmente ammessa.
b) L’uguaglianza degli antichi e dei moderni
La moderna concezione dell’uguaglianza è espressa dall’articolo 3 della
nostra Costituzione, là dove afferma che tutti i cittadini sono uguali
senza distinzione di razza, di sesso o di religione. Nel mondo antico un
simile principio non esisteva; in quel mondo non ci poteva essere
uguaglianza tra diversi, gli uguali erano uguali fra loro all’interno
della cerchia ristretta di persone alla quale appartenevano e con i cui
esponenti condividevano caratteristiche comuni. Tutti quelli che per una
ragione o per l’altra erano diversi dagli uguali venivano da questi
trattati diversamente.
C.Schiavitù, cittadinanza, capacità
Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.
1. La schiavitù e le sue fonti
a) Le cause della schiavitù
Le prime cause di schiavitù furono la prigionia di guerra e la nascita da
madre schiava, oltre ad altre.
La prigionia di guerra (captivitas)
La causa originaria della schiavitù è stata, probabilmente, la prigionia
di guerra; nel Digesto, si parla dei servi che venivano così chiamati
perché coloro che in guerra li avevano fatti prigionieri, anziché
ucciderli, li vendevano ac per hoc servare (così salvandoli). Considerare
propri schiavi i prigionieri di guerra era un principio fondamentale del
mondo antico; a Roma l’applicazione di questo principio ebbe conseguenze
rilevanti, in quanto l’aumento delle conquiste fece aumentare il numero
degli schiavi. Quando un romano cadeva prigioniero dei nemici, i romani
ritenevano che la sua posizione fosse transitoria e se egli fosse riuscito
a rientrare in patria avrebbe riacquisito tutti i suoi poteri; l’istituto
che lo garantiva era il postliminium.
La nascita da madre schiava
I nati fuori dal matrimonio seguivano lo status della madre al momento
della nascita e poiché con la schiava non era possibile contrarre
matrimonio, ne risultava che i nati da schiava erano schiavi.
La deditio
Era la consegna ad uno Stato straniero di un individuo che aveva violato
le regole internazionali tra Roma e quello Stato; la deditio ricadeva
nell’ipotesi di captivitas.
La vendita trans Tiberim
Nelle XII Tavole era prevista per una serie di persona la vendita trans
Tiberim, al di là del Tevere, in territorio etrusco ove diventavano
schiavi e questo valeva per il debitore insolvente, chi si era sottratto
al servizio militare (infrequens), il disertore (fugitivus o disertor),
colui che si era sottratto al censimento (incensus).
La addictio del fur nocturnus al derubato
Secondo le XII Tavole il fur manifestus veniva addictus al derubato, a lui
assegnato in condizione di schiavitù; secondo alcuni invece il fur
manifestus veniva venduto trans Tiberim in quanto la sua addictio al
derubato avrebbe comportato la sua schiavitù in patria, cosa contraria ai
principi romani.
La vendita del filius da parte del paterfamilias
Il filiusfamilias venduto dal pater o consegnato ad altro paterfamilias ai
danni del quale il filius aveva commesso un illecito, si definiva in
mancipio; la condizione in cui veniva a trovarsi il filius in mancipio era
quella di una schiavo, infatti alla morte del pater cui era stato venduto
egli non acquistava la libertà, ma passava sotto il potere di un nuovo
pater, proprio come gli schiavi. Quando si ammise che potesse essere
liberato dal compratore, l’atto con cui veniva liberato era la manumissio,
lo stesso che dava la libertà agli schiavi.
b) Condizione degli schiavi e rilevanza sociale ed economica della
schiavitù nel periodo arcaico
Nel primo periodo della storia di Roma il numero degli schiavi era
limitato e il loro lavoro non aveva grande incidenza sull’economia; a Roma
in quel periodo erano i paterfamilias con i loro figli a coltivare i
piccoli appezzamenti di terra; anche se assai meno pesante di quella dei
secoli successivi, la condizione servile era comunque iniqua; gli schiavi
potevano essere venduti, puniti, messi a morte dal loro dominus. A questi
poteri erano sottoposti anche i membri liberi della familia; l’unica
differenza tra la sottoposizione del filius alla patria potestas, della
moglie e delle mogli dei figli alla manus e quella degli schiavi, con la
dominica potestas, era che per i primi due soggetti era transitoria,
mentre per gli schiavi era perenne e alla morte del dominus, diventavano
proprietà di uno degli eredi, in quanto parte del patrimonio. Gli atti
compiuti dallo schiavo producevano effetti giuridici a seconda del tipo;
se comportavano l’acquisto di un diritto, questo veniva acquisito
automaticamente dal dominus, mentre se comportava l’assunzione di un
obbligo, il dominus non ne rispondeva. I suoi atti producevano effetti
anche dal punto di vista penale, infatti se egli commetteva un delitto, la
vittima poteva agire giudizialmente contro il dominus; questi poteva
liberarsi di ogni responsabilità compiendo la noxae deditio (dazione a
nossa), ossia consegnando lo schiavo alla famiglia dell’offeso. Se invece
lo schiavo commetteva un crimine la cui pena non era pecuniaria, allora
poteva regolarmente essere processato e condannato, ma le pene erano
diverse dalle stesse a cui erano assoggettati gli uomini liberi.
c) Modi di liberazione dalla schiavitù
La schiavitù era una condizione perenne, che poteva cessare solo per un
atto di volontà del padrone, detto manomissione (manumissio); vi era tre
tipi di manumissio esistenti sin da un’epoca molto antica, ed erano la
manumissio testamento, la manumissio vindicta e la manumissio censu.
La manumissio testamento
Consisteva in una dichiarazione di ultima volontà del dominus, che nel
regolare la sorte del suo patrimonio per il momento successivo alla sua
morte donava solennemente la libertà allo schiavo.
La manumissio vindicta
Era un’applicazione del processo di libertà e si svolgeva dinanzi al
magistrato; essa prevedeva un accordo tra il dominus dello schiavo e una
persona di fiducia, detta adsertor libertatis, che compiva la vindicatio
in libertatem, vale a dire dichiarava dinanzi al magistrato che lo schiavo
era di condizione libera, toccandolo con una bacchetta (vindicta); il
padrone dello schiavo a questo punto taceva o si ritraeva (anziché
effettuare una controvindicatio); il magistrato ratificava la vindicatio
compiuta dall’adsertor con una addictio, dichiarando lo schiavo libero;
questa era un delle applicazioni della in iure cessio.
La manumissio censu
Consisteva nella richiesta, fatta dal padrone dello schiavo al censore, di
iscrivere lo schiavo nelle liste del censo, ma questa manomissione poteva
avvenire solo ogni 5 anni.
d) Libertà e cittadinanza
In origine, manomettere uno schiavo significava dargli oltre alla libertà,
anche la cittadinanza romana, in quanto questi due istituti erano legati
tra di loro a tal punto che non potevano non esistere simultaneamente; gli
schiavi manomessi anche se erano liberi e cittadini romani non erano
uguali agli ingenui (i nati liberi); essi erano definiti liberti e
continuavano ad essere legati all’ex dominus, detto ora patronus, da uno
speciale rapporto che li vincolava a determinate prestazioni e
comportamenti nei suoi confronti.
2. Romani e stranieri
a) Modi di acquisto della cittadinanza romana
Cittadini romani si poteva essere per nascita, per concessione della
libertà da parte del dominus e per concessione da parte della civitas.
La nascita
Era romano per nascita chi era figlio di un cittadino, o figlio naturale
di una cittadina; i figli nati da un matrimonio legittimo seguivano la
condizione del padre al momento del concepimento, quelli che nascevano
fuori del matrimonio seguivano, invece, la condizione della madre al
momento della nascita. Lo status di cittadino non comportava di per sé
l’esercizio dei diritti politici, infatti le donne non avevano capacità di
diritto pubblico; gli uomini l’acquistavano a 17 anni, età in cui venivano
arruolati come soldati.
La manomissione
Diventava romano lo schiavo liberato dal dominus.
Concessioni individuali e collettive da parte della civitas
Già durante l’età regia, il rex poteva concedere la cittadinanza a persone
di suo gradimento o a intere comunità di persone; in età repubblicana, la
concessione sia individuale che collettiva veniva fatta dai comizi, con
una legge comiziale.
Annessione di un territorio conquistato
Si poteva diventare cittadini romani anche in quanto appartenenti a una
comunità politica conquistata dai romani, mediante l’annessione.
Esercizio del ius migrandi da parte dei latini
Diritto di acquistare la cittadinanza romana trasferendosi a Roma.
b) La cittadinanza romana come privilegio
Essere cittadini romani portava con sé molti privilegi; in primis non
poter essere messi a morte dal magistrato senza un giudizio del popolo
riunito nei comizi centuriati, attraverso la provacatio ad populum; egli
non poteva inoltre essere sottoposto a tortura fisica e a fustigazione.
Uno dei motivi che permise ai romani di governare per lungo tempo e su di
un vasto territorio, fu proprio quello di dare la cittadinanza romana
anche agli stranieri.
c) Perdita della cittadinanza
La cittadinanza poteva essere persa per vari motivi e precisamente:
1. perdita della libertà; la sua perdita faceva perdere lo status di
cittadino romano;
2. acquisto di un’altra cittadinanza; chi si allontanava da Roma e
si stabiliva in un altro Stato perdeva la cittadinanza romana;
3. condanna penale; la perdita della cittadinanza veniva inflitta a
chi veniva condannato per sacertà e per aqua et igni interdictio,
cioè ai condannati a morte che erano riusciti a fuggire da Roma;
4. partecipazione a una colonia latina.
d) Gli stranieri
Nel mondo antico lo straniero era considerato diverso e guardato con
sospetto, ma questa diffidenza non era originaria, infatti a Roma, nei
suoi inizi, vi era una certa disposizione a integrare al suo interno
(grazie all’asylum) tutti coloro che erano stati costretti per qualunque
motivo ad abbandonare la patria; Roma fu una città aperta in quel periodo
la cui cultura si giovò di influenze etrusche e greche.
e) Gli stranieri privilegiati: i latini
I latini, tra gli stranieri, godevano di un trattamento particolare, che
risale al foedus Cassianum del 493 a.C.; i cittadini di queste città
(quelle della lega latina) venivano detti latini prisci, mentre quelli
delle città fondate nei territori conquistati dalla lega latina, venivano
detti latini colonia rii. In forza del ius Latii, i latini godevano di
vari privilegi:
 il ius migrandi, cioè il diritto
romana trasferendosi a Roma;
di
acquistare
la
cittadinanza
 il ius suffragii, cioè il diritto di votare qualora si trovassero a
Roma il giorno in cui si riunivano i comizi;
 il ius commercii (o commercium), cioè il diritto di compiere atti di
trasferimento con il negozio chiamato mancipatio, e di concludere
accordi nella forma del nexum; questi negozio, come la mancipatio,
era uno dei solenni negozi detti per aes et libram, in quanto il
loro compimento richiedeva l’uso di una stadera (libra), sulla quale
veniva dapprima realmente e poi simbolicamente pesato un pezzo di
bronzo (aes), in funzione di prezzo;
 il ius conubii (o conubium), cioè il diritto di sposare un cittadino
o una cittadina romana; il latino che sposava la romana non
acquisiva però su di lei il potere, detto manus.
f) Gli altri stranieri
I privilegi concessi ai latini potevano essere concessi anche ad altri
stranieri o ad altre comunità straniere, e quelli concessi erano il
commercium e il conubium.
g) Sui iuris e alini iuris
La divisione in sui iuris e alieni iuris atteneva alla posizione
all’interno della famiglia; erano sui iuris coloro che non avevano
ascendenti maschi, mentre erano alieni iuris coloro che erano sottoposti
al potere di un paterfamilias; questo potere poteva essere sia la patria
potestas sia la manus.
h) Soggetti diversi dalle persone fisiche
Nel nostro ordinamento si parla di persone giuridiche; nel diritto romano
s’iniziò a prendere in considerazione questo problema in età repubblicana,
in quanto in età monarchica le formazioni sociali di rilievo (familia,
gens, Stato) non venivano prese in considerazione come un insieme di
persone e interessi. La familia ad esempio s’identificava nella figura del
paterfamilias. In età repubblicana i gruppi di cittadini riuniti in
assemblee acquistarono per la prima volta una rilevanza anche esterna;
questo gruppo unitario, definito populus romanus, col tempo porterà alla
nascita del soggetto astratto di persona giuridica.
Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo III d.C.
1. Definizione di vita: vecchi e nuovi problemi
Secondo i principi del ius civile, il nascituro non aveva esistenza
autonoma; Ulpiano sosteneva che il pretore, nel suo editto, ritenne di dar
tutela oltre che ai figli che sono già venuti al mondo, anche a quelli non
ancora nati. Si pose poi il problema di considerare nato, l’essere che non
aveva possibilità di sopravvivenza e il monstrum vel prodigium; secondo la
giurisprudenza classica il figlio mostruoso doveva considerarsi come non
nato, in quanto, inoltre, segno dell’ira divina e quindi maledetto e
contaminante. Con riferimento all’individuazione del momento in cui la
vita cessava i giuristi si posero il problema di quando due persone
morissero nella stessa circostanza; la soluzione fu affidata in base
all’età, cioè in caso di commorienza (di genitore e figlio), si
considerava premorto il genitore se il figlio era pubere, e il figlio se
era impubere.
2. Le divisiones personarum
Le differenze di status che determinavano le differenze delle situazioni
personali, furono molto determinanti anche in quest’età.
a) Liberi e schiavi
In questo periodo il numero degli schiavi crebbe a dismisura e con esso
crebbe lo sfruttamento servile; vi era una minoranza di schiavi, però, che
godeva di condizioni migliori ed erano i famosi schiavi pedagoghi, quelli
che esercitavano la medicina o quelli nominati dal dominus per gestire
un’azienda. La condizione degli schiavi non cambiò di molto, vennero
inclusi nella categoria delle res mancipi, le cose di maggior importanza
sociale, il cui trasferimento richiedeva appositi negozi solenni del ius
civile. Si attenuò invece il potere del paterfamilias sui filiusfamilias.
I figli della schiava sono “frutti”?
In quest’epoca si sviluppò una questione in merito ai figli della schiava
data in usufrutto, e cioè se considerare i figli della schiava come frutti
e quindi spettanti all’usufruttuario, oppure se non erano da considerare
frutti e quindi erano di proprietà del dominus della schiava. La questione
si risolse nella seconda ipotesi e questo anche per motivi di natura
economica. Con riferimento alla prigionia di guerra, va ricordata
l’elaborazione di regole in materia di postliminium e sull’intenzione del
captivus di tornare in patria, considerata condizione essenziale per il
riacquisto dei diritti iure postliminii; la lex Cornelia de captivis
nell’80 a.C. stabilì che se un cittadino romano moriva in stato di
prigionia, si fingesse che egli fosse morto libero, così che il suo
testamento potesse essere considerato valido. Non rientravano nel campo di
applicazione del postliminium il matrimonio ed il possesso e quindi, al
termine della prigionia, queste situazioni di fatto produttive di effetti
giuridiche andavano ricostruite. In quest’epoca nacque il problema di
stabilire se la deditio fosse un atto unilaterale o bilaterale, cioè se la
schiavitù del deditus dipendesse semplicemente dalla consegna al nemico, o
se fosse necessaria l’accettazione da parte di questo. Non furono più
considerate causa di schiavitù la addictio del fur nocturnus al derubato o
la vendita del filiusfamilias da parte del pater, mentre vennero
considerate fonte di schiavitù iuris civilis alcune circostanze nuove:

un senatoconsulto Claudianum del 52 d.C. stabilì che la donna che
intratteneva rapporti sessuali con uno schiavo diventasse schiava
del padrone di questo, se, dopo 3 diffide del dominus continuasse
nella relazione; questa regola infrangeva il principio per cui non
si
poteva
essere
schiavi
in
patria,
in
considerazione
dell’importanza
dell’interesse
protetto,
ossia
un
interesse
patrimoniale del dominus dello schiavo;
 alcune condanne criminali, come la condanna ad metalla, cioè a
lavorare nelle miniere, rendevano il condannato servus poenae; era
considerata fonte di schiavitù la condanna a morte, in quanto il
condannato perdeva lo status libertatis;
 diventava schiavo il cittadino di età superiore ai 20 anni che si
fosse accordato per farsi vendere come schiavo, allo scopo di
dividere il prezzo del suo acquisto con il venditore.
Nuove forme di manomissione
Le sole manomissioni capaci di conferire al manomesso sia la libertà sia
lo stato di cittadino furono le vecchie manumissiones del ius civile;
l’unica che continuò ad essere praticata e che non subì modifiche fu
quella testamento; la manumissio censu scomparve durante il Principato e
quella vindicta era stata sensibilmente semplificata; perché essa avesse
valore, non era indispensabile compierla nel luogo in cui il magistrato
esercitava le sue funzioni (in iure), ma produceva effetto anche se
compiuta nel luogo in cui il magistrato occasionalmente si trovava ed
inoltre la procedura era stata snellita. Entrarono in uso forme nuove e
non
formali
di
manomissione,
all’interno
delle
quali
vennero
consolidandosi tre tipo, la manumissio inter amicos, la manumissio per
epistulam e la manumissio per mensam:
 la manumissio inter amicos aveva luogo ogniqualvolta il dominus
dichiarava esplicitamente dinanzi ad un gruppo di amici di voler
dare la libertà allo schiavo;
 la manumissio per epistulam aveva luogo quando il dominus inviava
allo schiavo una lettera nella quale dichiarava la sua intenzione di
liberarlo;
 la manumissio per mensam consisteva nell’ammettere lo schiavo a un
banchetto, in mezzo ai propri amici.
In un primo momento queste manomissioni non avevano effetti giuridici, ma
a difesa degli schiavi intervenne prima il pretore e poi la lex Iunia
Norbana, che riconobbe loro lo status di liberi e di latini coloniarii; la
libertà comunque aveva dei limiti, in quanto non prevedeva la capacità di
fare testamento, e di conseguenza alla loro morte i loro beni tornavano
all’ex padrone.
Leggi limitative delle manomissioni
In questo periodo ci furono due leggi in materia di manomissioni:
 la Lex Fufia Caninia (2 a.C.), che stabilì un rapporto tra il numero
degli schiavi appartenenti a una persona e quello degli schiavi che
questa persona poteva manomette; le manomissioni compiute in fraudem
legis erano nulle;
 la Lex Aelia Sentia (4.d.C.) stabiliva che fossero nulle le
manomissioni in frode ai creditori e stabiliva un limite minimo di
età sia per chi manometteva sia per chi veniva manomesso. Le
manomissioni compiute contro le disposizioni di questa legge non
erano nulle, ma conferivano ai manomessi lo status di latini Iuniani
o di peregrini dediticii.
Augusto, pur desiderando un aumento nel numero dei cittadini, voleva anche
evitare che Roma e la penisola fossero popolate da una massa sempre più
grande di ex schiavi.
Il trattamento degli schiavi: nuove regola giuridiche
In questo periodo vennero introdotte nuove regole sul trattamento degli
schiavi; alcune di esse peggiorarono la condizione servile, altre la
migliorarono. Sicuramente la peggiorò il senatusconsultum Silanianum del
10 d.C., laddove, qualora un dominus venisse ucciso, tutti gli schiavi di
casa, dopo essere stati sottoposti a tortura, dovevano essere messi a
morte; lo schiavo che rivelava il nome dell’assassino veniva risparmiato e
reso libero con decreto del pretore. Inoltre se uno schiavo commetteva un
crimine la pena era diversa rispetto ad un cittadino, infatti ai primi
toccavano sempre le morti più atroci. A favore degli schiavi ci furono poi
una serie di disposizioni, tra cui la lex Petronia, che vietava ai padroni
di far combattere i loro schiavi contro le belve e di venderli perché
fossero destinati a questa attività. Venne considerato come crimine
l’uccisione dello schiavo altrui (e non più solo come danneggiamento); si
decise che il dominus fosse punito per l’uccisione del proprio schiavo o
che abbandonasse lo schiavo malato. In quest’epoca iniziò ad essere
tutelata
la
condizione
delle
schiave
dall’essere
adibite
alla
prostituzione, con l’inserimento di una clausola che vietava di vendere o
acquistare una schiava per farla prostituire. Adriano stabilì che la
schiava acquistasse la libertà qualora il venditore, dopo aver apposto la
clausola, tollerasse che il compratore la prostituisse.
La capacità di agire degli schiavi, la regolamentazione del peculium e la
responsabilità patrimoniale del dominus
Gli sotto alcuni profili erano considerati oggetti, mentre sotto altri
erano persone; se erano puberi e sani di mente, gli veniva riconosciuta la
piena capacità di intendere e di volere e i dominus si servivano di loro,
incaricandoli di svolgere attività e affidando loro una somma di danaro o
di beni detti peculium, della quale il servus poteva liberamente disporre,
anche se la proprietà restava del dominus. Tutti gli acquisti compiuti
gestendo il peculium si producevano in capo al padrone, ma questo creava
problemi a terzi, in quanto il servus non aveva patrimonio e i creditori
non potevano rivalersi su di lui. Il pretore, per far si che ci si potesse
rivalere nei confronti del dominus, introdusse le actiones adiecticiae
qualitatis; queste azioni erano l’actio quod iussu, l’actio de peculio et
de in rem verso, l’actio institoria e l’actio exercitoria, nonché l’actio
tributoria. Con un espediente, nella intentio della formula veniva
indicato il nome del servus, mentre nella condemnatio quello del dominus,
e così facendo era costretto a rispondere con il suo patrimonio dei debiti
contratti dal servus, entro vari limiti in base all’actio usata. Nella
actio de peculio, il dominus rispondeva solo entro il limite del peculium;
la responsabilità poteva essere totale, quando aveva preposto il servus ad
un’attività commerciale terrestre (il servus come institor) o quando lo
schiavo, da lui incaricato di un’attività marittima, avesse agito come
armatore (exercitor); in questi casi nei confronti del dominus si esperiva
con la actio institoria (attività terrestre) o con la actio exercitoria
(marittima). Inoltre il dominus rispondeva per l’intero quando aveva
autorizzato lo schiavo a concludere un determinato atto giuridico,
attraverso la actio quod iussu. Per quanto riguarda invece i delitti del
ius civile commessi dallo schiavo, il dominus poteva continuare a
scegliere se difenderlo oppure farne la noxae deditio; quest’ultima poteva
essere fatta anche dopo la condanna, mentre prima solo all’inizio del
processo.
Tra liberi e schiavi: addicti e auctorati
Oltre agli schiavi, esistevano persone formalmente di stato libero, ma che
in sostanza erano in schiavitù; questi erano gli addicti; la addictio non
era fonte di schiavitù, ma coloro che la subivano venivano a trovarsi
fisicamente vincolati a colui al quale erano stati assegnati. Oltre al fur
manifestus, vi era il caso del debitore che aveva subito la manus
iniectio, fisicamente vincolato al suo creditore, che poteva tenerla
legato, rinchiuderlo nel carcere domestico, costringerlo a lavorare per
lui e sottoporlo a punizioni anche fisiche; gli addicti potevano pagare il
loro debito lavorando per il debitore, ma non esisteva una norma che
garantiva il rilascio dell’addictus, che dipendeva quindi dalla volontà
del creditore. Nella stessa posizione degli addicti si trovavano gli
auctorati, coloro che si vincolavano a una persona che si occupava di
organizzare le loro esibizioni come gladiatori.
Il leasing di gladiatori
Dopo essere stati addestrati in apposite scuole, i gladiatori venivano
mandati a combattere nelle arene. Il contratto che li costringeva a
combattere veniva concluso tra chi li aveva addestrati (o il dominus) e
chi organizzava lo spettacolo; l’accordo fu oggetto di una lunga
discussione, infatti alcuni ritenevano che i gladiatori venissero dati in
locazioni, altri che invece sostenevano la vendita. La conclusione fu la
stipula della locatio­conductio, per quelli che uscivano indenni dal
combattimento, mentre per chi era stato ucciso o sopravvissuto in
condizioni tali da compromettere la capacità di combattere era la vendita.
3. Cittadini e stranieri
In quest’epoca, grazie al ius gentium e al praetor peregrinus, agli
stranieri
venne
concessa
protezione
giuridica
anche
individuale,
indipendente dall’esistenza di accordi internazionali (come in età
arcaica); tra i vari espedienti vi era la fictio civitatis, ossia l’invito
al giudice a giudicare come se la parte che chiedeva tutela civis esset
(fosse cittadino); l’usucapione, però, era concessa solo ai romani e di
conseguenza i peregrini non potevano avere la proprietà peregrina. I
peregrini erano tutelati, inoltre, dal diritto della comunità cui
appartenevano; se questa era rimasta autonoma questo diritto veniva
applicato dai giudici della comunità stessa, mentre se invece la comunità
aveva resistito a oltranza alla conquista romana ed era stata infine
costretta ad arrendersi, a discrezione i suoi componenti (peregrini
dediticii) avevano capacità solo rispetto al ius gentium e agli istituti
pretori non riservati ai romani. I latini continuarono ad esistere, ma
mentre i prisci diminuivano man mano e scomparvero quando la cittadinanza
fu estesa a tutti gli italici, i latini coloniarii erano numerosi, sia per
l’alto numero di colonie dedotte, sia per l’equiparazione a questi latini
degli schiavi manomessi in base alle leggi Iunia Norbana e Aelia Sentia.
a) Acquisto e perdita della cittadinanza romana
Secondo le regole del ius civile il figlio nato da iustae nuptiae seguiva
la condizione del padre al momento del concepimento, mentre in mancanza di
iustae nuptiae seguiva la condizione della madre al momento della nascita;
quindi la cittadinanza si acquistava con la nascita da padre cittadino e
da madre a questi unita da iustae nuptiae; in età preclassica una lex
Minicia stabilì che il figlio nato da genitori che avevano un diverso
status civitatis avesse lo status del genitore in condizione più
sfavorevole, ma dopo la guerra sociale (91­89 a.C.) una serie di
provvedimenti facilitò il conseguimento della cittadinanza agli stranieri;
un senatoconsulto voluto da Adriano, nel II secolo, riconosceva la
cittadinanza al figlio di una cittadina romana e di un latino; un altro
senatoconsulto regolò la situazione dei romani che credendo di essere
peregrini avessero spostato una peregrina e dei peregrini che credendosi
romani avevano sposato una romana; in questi casi potevano dimostrare la
causa del proprio errore (erroris causae probatio), e in caso di riuscita,
ottenere la cittadinanza romana per il coniuge o per sé, e per il figlio.
Diventava ovviamente romano, il latino che esercitava il ius migrandi. La
perdita della cittadinanza romana, derivava dalla perdita della libertà,
dalla partecipazione a una colonia latina, dall’acquisto di cittadinanza
in un’altra comunità e di alcune condanne; tra quest’ultime vi era la aqua
et igni interdictio, la deportatio e la condanna ai lavori forzati
perpetui.
Concessioni collettive
A partire dalla guerra sociale, le concessioni collettive di cittadinanza
si susseguirono rapidamente; alla fine di questa guerra la cittadinanza
venne estesa a tutti gli italici, mentre dal 212 d.C. venne estesa, grazie
alla Constitutio Antoniana, a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione
dei dediticii.
4. Sui iuris e alieni iuris
a) La capacità di agire dei figli, il peculium e la responsabilità
patrimoniale del paterfamilias
Fatta salva la transitorietà della loro condizione, l’incapacità
patrimoniale dei figli era identica a quella degli schiavi e poneva gli
stessi problemi. Anche ai figli si usava concedere un peculium e anche per
i debiti contratti dai filii il pretore concedeva actiones adiecticiae
qualitatis, per consentire ai terzi di recuperare il dovuto. Con Augusto,
accanto al peculium concesso dal pater (profecticium) venne introdotto il
peculium castrense (militare), che comprendeva ciò che il figlio
acquistava durante il servizio militare, e quindi la paga, il bottino, e
anche eredità e legati ricevuti da compagni d’arme; quel che è più
importante a proposito di questo peculium, è il fatto che Augusto ammise
che il filiusfamilias potesse disporne in testamento; il peculium
castrense assunse la configurazione di un patrimonio autonomo, che tornava
al pater solo se il figlio moriva senza averlo disperso e senza averne
disposto mortis causa.
b) La capacità delle donne: la tutela muliebre
La tutela muliebre si indebolì nel tempo sino a scomparire in età
imperiale. L’alto numero di uomini morti in guerra, aveva reso molte donne
sui iuris ed economicamente indipendenti; e anche quelle soggette a
potestà, non lo erano comunque nei fatti; gli uomini, impegnati nelle
campagne e preoccupazioni belliche, avevano meno tempo per controllare le
donne.
c) I minori di 25 anni
Sul finire del secolo III a.C. una lex Laetoria o Plaetoria de
circumscriptione adulescentium stabilì una pena pecuniaria a carico di chi
avesse indotto una persona sui iuris minore di 25 anni a concludere un
negozio che pregiudicava i suoi interessi. Il pretore intervenne
concedendo una difesa (exceptio) al minore al quale veniva chiesto in via
giudiziale l’adempimento dell’impegno assunto; successivamente il pretore
intervenne
anche
qualora
il
minore
avesse
già
compiuto
l’atto
pregiudizievole,
concedendogli
una
restitutio
in
integrum.
In
considerazione che gli atti del minore di 25 anni rischiavano di essere
impugnati secondo il ius honorarium, vennero nominati dei curatori, che
divennero permanenti con Marco Aurelio.
5. Soggetti diversi dalla persona fisica
In questo periodo la “persona giuridica” non esisteva secondo l’accezione
moderna; tuttavia, da un punto di vista giuridico, il populus romanus era
la personificazione della collettività dei cittadini. Esso possedeva
l’ager publicus, e nello svolgimento delle diverse attività giuridiche era
rappresentato dai suoi magistrati; con il Principato, accanto al populus,
si
affianco
il
princeps,
che
se
pur
persona
fisica,
era
la
personificazione giuridica della comunità. Accanto al suo patrimonio
personale, il princeps possedeva il fiscus, patrimonio formato dai beni
che facevano capo a lui in forza della sua carica, e che al momento in cui
questa cessava non passavano ai suoi eredi personali, ma al nuovo
princeps. I municipia e le coloniae agivano come soggetti non solo nel
campo del diritto pubblico, ma anche in quello privato; vi erano inoltre
una serie di associazioni (collegia), che nacquero in questo periodo, come
i collegia fullonum (associazioni di lavandai), i collegia pistorum
(panettieri); ovviamente per queste associazioni non era possibile parlare
di persone giuridiche, nel senso moderno, ma il loro porsi nel diritto,
prefigurò con il tempo l’evolversi di questo concetto, cioè di persona
giuridica.
Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
1. Liberi e schiavi: declino e fine del mondo di produzione
schiavistico
In età postclassica il numero degli schiavi era fortemente diminuito e la
causa di ciò erano state in primo luogo la fine delle grandi guerre di
conquista e anche, in misura minore, la diffusione tra i cristiani della
pratica di manomettere i propri schiavi, facendo aumentare il prezzo
d’acquisto di questi. Era quindi diventato interesse del padrone non
diminuire il suo patrimonio sottoponendo i suoi schiavi a eccessive
fatiche. Il lavoro servile era diventato costoso e spesso i proprietari
terrieri utilizzarono frequentemente il lavoro salariato dei liberi,
economicamente più conveniente.
2. Mutamento della condizione servile: il cristianesimo e la
legislazione imperiale
A determinare il mutamento della condizione servile aveva sensibilmente
contribuito anche la dottrina cristiana, che oltre ad invitare a liberare
gli schiavi, esortava a trattarli con umanità, e questo, oltre alla
pratica sociale, influenzò anche la legislazione imperiale.
a) Tutela della vita, della famiglia e della dignità degli schiavi
Tra i provvedimenti più significativi in materia si può ricordare, in
primis, la costituzione di Costantino (319) che stabilì che il dominus che
uccideva il proprio schiavo fosse condannato come omicida; sempre
Costantino, nel 334, stabilì che qualora si facesse luogo a una divisione
ereditaria che comportava la divisione di appezzamenti di terra, questa
dovesse essere fatta in modo da non separare le famiglie degli schiavi e
dei coloni. Nelle Istituzioni di Giustiniano si legge inoltre che, “al
nostro tempo a nessun uomo che vive sotto il nostro impero è lecito
infierire sui suoi servi senza una causa stabilita dalla legge e oltre
misura”. In questo periodo si giunse a stabilire che qualunque cittadino
potesse rivendicare come libera la schiava costretta a prostituirsi, senza
dover affrontare alcuna spesa processuale. Anche con l’instaurarsi del
Cristianesimo come religione di Stato, non vi fu mai l’abolizione della
schiavitù, che continuava ad essere un istituto iuris gentium, ma si
riconobbe che essa era contraria al diritto naturale, in quanto all’inizio
tutti gli uomini nascevano liberi.
3. La capacità patrimoniale dei servi e il processo di libertà
Si affermò il principio secondo il quale la titolarità del peculium
spettava allo schiavo; dal 422, una volta assodato che lo schiavo non
avesse debiti verso il dominus, poteva essere esperita direttamente nei
suoi confronti un’actio utilis de peculio; questo principio venne recepito
nel diritto giustinianeo. A partire dal IV secolo gli schiavi potevano
difendersi da soli senza bisogno dell’adsertor libertatis. Nel 393 si
stabilì che chi venisse rivendicato come schiavo dopo aver vissuto come
libero per 20 anni, ovvero dopo aver ricoperto una carica pubblica senza
che il preteso dominus rivendicasse il suo diritto, potesse difendersi da
solo, e che se era in buona fede acquistasse la libertà. Giustiniano nel
528 abolì la figura dell’adsertor e consentì, a tutti coloro della cui
condizione servile si discuteva, di difendersi personalmente in giudizio.
4. Le fonti della schiavitù
Diminuito il flusso dei prigionieri di guerra, in età postclassica la
fonte della schiavitù più rilavante era la nascita da madre schiava. Si
affermò il principio secondo il quale il figlio nasceva libero se la madre
era libera al momento del concepimento, ovvero se era stata libera in
qualunque momento nel periodo decorso tra il concepimento e la nascita del
figlio. Nel 531­534 Giustiniano abrogò il senatoconsulto Claudianum, in
forza del quale la donna che contro il volere del padrone e contro i suoi
inviti a interromperla manteneva una relazione con uno schiavo altrui
poteva diventare schiava del dominus di questi; nel 535 stabilì che la
condanna ad metalla non comportasse più la perdita dello status
libertatis.
5. L’acquisto dello status libertatis
Vennero riconosciute numerose ipotesi di acquisto della libertà da parte
dello schiavo; ad esempio la libertà venne concessa agli schiavi come
premio per aver denunciato crimini particolarmente gravi, oppure, nel 531,
quando la schiava concubina del suo dominus in caso questi morisse senza
lasciare testamento, diventasse libera insieme ai figli nati dall’unione.
Diocleziano stabilì che lo schiavo che aveva vissuto 20 anni in buona fece
come libero, acquistasse la libertà; Costantino diede valore alla
manumissio in sacrosanctis ecclesiis, che si realizzava attraverso una
dichiarazione di volontà del dominus alla presenza del vescovo e dei
correligionari. Giustiniano inoltre abrogò una serie di provvedimenti
restrittivi, quali la lex Fufia Caninia, che imponeva limiti alle
manomissioni, disposizioni della lex Aelia Sentia, tranne per le
manomissioni in frode ai creditori, e la categoria dei latini Iuniani. A
questo punto qualunque manumissio aveva l’effetto di conferire libertà e
cittadinanza romana. Giustiniano, nel 535, stabilì che lo schiavo
abbandonato dal padrone, acquistasse automaticamente la libertà.
6. Le nuove forme di assoggettamento personale: il colonato
Il ricorso al lavoro servile era diventato antieconomico e difficoltoso e
per questo i proprietari terrieri ricorsero alla manodopera salariata, ma
questo si scontrava con lo spopolamento delle campagne; in considerazione
di ciò, il fisco vide le sue entrate diminuire e questo indusse gli
imperatori a prendere provvedimenti tesi a limitare la libertà dei
lavoratori agricoli e questi istituti fortemente limitativi della libertà
personale configurarono il colonato. Nel 328 Costantino vietò a chi
alienava un fondo di separare da questo, spostandoli altrove, i coloni che
lo coltivavano; nel 365 una costituzione di Valentiniano e Valente stabilì
che i servi, i liberti e i coloni imperiali, nonché i figli e i nipoti di
questi che avessero tentato di abbandonare i fondi venissero restituiti al
patrimonio dell’imperatore. Il legame tra coloni e terra divenne tale che
sul finire del IV secolo, i coloni, anche se formalmente liberi, erano nei
fatti servi terrae (schiavi della terra). I coloni il cui nome veniva
iscritto nel registro fiscale accanto alla terra che coltivavano erano
detti adscripticii.
7. Fonti del colonato
Erano coloni coloro che nascevano da madre colona, anche se all’interno di
un matrimonio con persona che non aveva questo status; nacque un problema
in merito alla condizione dei figli di genitori coloni legati a fondi
diversi e questo fu risolto da Giustiniano nella Novella 162 del 539 che
stabilì, che qualora il figlio fosse unico esso spettasse al dominus della
madre; qualora i figli fossero due essi venivano assegnati l’uno ad un
dominus e l’altro a quello del padre, mentre in casi di figli dispari,
quello di più erano assegnato al dominus del fondo materno.
Si poteva
diventare coloni anche per altri motivi, tra cui l’essere denunziati di
mendicare, nonostante si avesse la forza e la capacità di lavorare,
oppure, sul finire del secolo V, coloro che avevano vissuto 30 anni in
condizione di coloni non potessero più lasciare il fondo e Giustiniano
estese questa regola anche ai discendenti.
8. Liberazione dallo status di colono
Anche se di fatto era molto difficile, teoricamente era
riacquistare la libertà e poteva avvenire nei seguenti modi:
possibile
1. l’atto con cui il dominus donava al colono la libertà, donandogli
nel contempo il fondo al quale era legato;
2. l’assunzione di determinate cariche ecclesiastiche o dello stato
monacale o aver esercitato per 30 anni la funzione di decurione o
essere stato membro per 30 anni di corpora o collegia;
3. l’usucapione dello stato di libertà, chi aveva vissuto
condizione di libero per 30 anni (o 20 per la colonia).
in
9. Altre condizioni personali limitative della libertà
Gli interessi che avevano portato alla limitazione della libertà personale
dei coloni determinarono la limitazione della libertà di altre categorie
di persone e tra di esse:
1. gli appartenenti ai collegia (o corpora), ossia coloro
esercitavano una determinata attività, il cui esercizio
considerato dallo Stato di pubblico interesse;
che
era
2. i decurioni (o curiales), ossia i membri del senato dei municipi,
delle colonie e delle diverse città. La posizione sociale dei
decurioni in principio era di privilegio, ma col tempo divenne
sempre più piena di doveri (munera), tra i quali la riscossione dei
tributi
con
l’obbligo
di
risponderne
personalmente;
in
considerazione del fatto che tanti volevano evitare di assumere
questa carica, furono introdotte varie regole che punivano chi si
rifiutava e limitavano la capacità dei decurioni di disporre dei
loro beni;
3. coloro che non erano di religione cristiana subirono varie
limitazioni, tra cui quella di fare e succedere ad un testamento; i
manichei, in particolare, erano incapaci di qualsiasi atto, sia
inter vivos sia mortis causa.
10.
Romani e peregrini
Con Caracalla dal 212 tutti i sudditi dell’Impero acquisirono la
cittadinanza romana, ad eccezione dei latini Iuniani, i latini Aeliani e i
dediticii. Con Giustiniano vennero abolite queste categorie e tutti gli
abitanti erano romani. Peregrini rimasero solo i barbari che vivevano al
di là dei confini imperiali.
11.
Acquisto e perdita della cittadinanza
Vi furono poche e limitate variazioni; ad esempio nel 320 si stabilì che
il figlio di una donna ingenua e di un servus del fisco avesse la
cittadinanza latina. Ma i latini, grazie a Giustiniano ottennero la
cittadinanza romana. La perdita della cittadinanza nel IV secolo divenne
una pena autonoma, a carico ad esempio delle persone di alto rango che
avessero fatto legittimare i figli nati dalla loro unione con donna di
bassa condizione sociale e con una schiava.
12.
Sui iuris e alieni iuris
In questi secoli l’istituto familiare subì forti mutamenti dovuti, tra
l’altro al venir meno del valore dei vincoli agnatizi in opposizione
all’aumento di quelli basati sulla cognatio.
a) I rapporti tra patres e filiifamilias
Tra l’età postclassica e quella giustinianea il ius vitae ac necis venne
abolito. Con Costantino tale diritto esisteva ancora, ma qualora il
rapporto padre­figlio venisse in considerazione sotto il profilo
criminale, gli imperatori cominciarono a punire extra ordinem i padri che
abusavano del loro potere e si giunse a stabilire che il padre che avesse
ucciso il figlio venisse punito con la poena cullei (quella prevista per i
parricidi). Col tempo venne introdotto il principio secondo il quale la
punizione delle infrazioni più gravi commesse dai figli doveva essere
affidata ad appositi funzionari imperiali. Una costituzione del 365
specificò che il potere di correzione sui figli minori non era
riconosciuto ai padri senza limiti (in immensum), infatti, se l’atrocità
del comportamento esorbitava dai limiti del diritto di correzione
familiare (ius domesticae emendationis) il potere di punire il figlio
spettava agli organi dello Stato. Nel diritto giustinianeo scomparve la
necis potestas.
b) Capacità patrimoniale del filiifamilias
In questo periodo si affermò la piena capacità patrimoniale dei
filiifamilias; le regole in merito al peculium castrense, nell’età
giustinianea venne estesa anche al peculium quasi castrense, durante il
servizio a corte. Con Costantino si stabilì che il paterfamilias non
potesse disporre né inter vivos né mortis causa dei beni che il
filiusfamilias avesse eredito dalla madre (i bona materna); rimaneva
comunque in vigore il principio dell’incapacità patrimoniale dei figli, ma
alla morte del pater, questi potevano entrare in possesso anche dei bona
materna; questo regime fu poi esteso anche ai beni lasciati dagli
ascendenti materni (bona materna generis) e la regola dell’incapacità
patrimoniale dei filiufamilias fu superata.
c) Acquisto ed estinzione della patria potestas
L’adoptio
La adoptio avveniva con ogni probabilità davanti alla curia della città
(ante curiam); sembra inoltre che nella parte orientale dell’impero fosse
in uso e assai diffusa l’adozione per semplice scrittura privata, peraltro
avversata ed esplicitamente vietata dalle costituzioni imperiali. Con
Giustiniano si stabilì che l’adoptio dovesse venire compiuta dinanzi a un
funzionario imperiale, alla presenza dell’adottato, oltre che del padre
originario e dell’adottante.
L’adrogatio
In questa epoca, l’adrogatio era consentita solo ex rescripto principali,
cioè per rescriptum principis. Diocleziano ammise che le donne sui iuris
potessero adrogare, ribadendo però la regola principale che le donne non
potevano essere titolari di patria potestas. Questa forma di adrogatio era
consentita per consolare le donna dalla perdita dei suoi figli, attraverso
la creazione di un legame di parentela.
L’emancipatio
Fino a Diocleziano, l’emancipatio era utilizzata nel suo antico e
complesso rituale, ma con Costantino si realizzava con una semplice
dichiarazione del paterfamilias alla presenza di un funzionario imperiale
e del filius; all’inizio del VI secolo venne introdotta l’emancipazione
per rescritto imperiale e nel 531 Giustiniano abolì l’antico rituale e nel
539 stabilì che il padre non potesse emancipare il figlio infantia maior
senza il consenso di questi.
d) La tutela: donne i impuberi
La tutela si trasformò da potestas in munus (dovere) a vantaggio della
persona che vi era sottoposta; tra la fine del III e l’inizio del IV
secolo scomparve la tutela muliebre, mentre perdurò la tutela legittima
sugli impuberi, ma prevalse il legame cognatizio rispetto a quello
agnatizio. I tutori non potevano alienare alcun bene di valore del pupillo
(le c.d. res mancipi) e Giustiniano stabilì che essi potessero riscuotere
i crediti del pupillo solo se autorizzati dal magistrato. In questo
periodo tanti atti compiuti dal tutore producevano effetti in capo al
pupillo e quindi, quando usciva di tutela, l’ex pupillo poteva esperire
delle actiones utiles nei confronti di terzi.
e) La curatela: i minori di 25 anni
La posizione dei minori di 25 anni venne equiparata a quella degli
impuberi, infatti alla sua incapacità di amministrare i suoi beni si
accompagnava oramai la presenza fissa del curatore che in pratica svolgeva
le stesse funzioni del tutore per gli impuberi. Giustiniano ribadì che il
minore di 25 anni andava sottoposto alla curatela, ma che il curatore
doveva essere di gradimento del minore.
f) La curatela: i pazzi e i prodighi
Secondo Giustiniano i furiosi erano sottoposti a curatela per tutta la
vita, eccezion fatta per i lucida intervalla, ossia i periodi in cui
riacquistavano le loro capacità mentali.
13.
Esistenza delle persone fisiche
Le regole più interessanti in materia riguardano l’individuazione del
momento della morte; nel diritto giustinianeo si stabilì quale fosse la
regola da applicare in casi di commorienza (di padre e figlio), e si agiva
in presunzione iuris tantum, considerando premorto il genitore se il
figlio era pubere, e premorto il figlio se questi era impubere.
14.
Soggetti diversi dalla persona fisica
Con il concentramento dei poteri nella figura del princeps e con la
trasformazione del principato in dominato, la figura del populus romanus
perse praticamente ogni significato, mentre importanza sempre maggiore
acquistava il fiscus, nel quale erano arrivate a confluire anche le
entrate che una volta facevano capo all’aerarium populi romani. In questo
periodo venne riconosciuta la capacità dei municipia, delle coloniae e
delle civitates, alle quali, nel 469, si riconobbe la capacità di essere
istituite eredi.
5.
Famiglia e parentela
A.Questioni di termini e questioni di sostanza
1. La familia. Diverse accezioni del termine
Nei primi secoli della sua storia, la cellula fondamentale della società
romana era la familia, un gruppo di persone la cui composizione era
diversa non solo da quella della gens, ma anche dalla famiglia attuale;
gli appartenenti alla familia, non vantavano ascendenti comuni come i
membri di una gens, mentre dall’altro non erano necessariamente unite da
vincoli di matrimonio o di sangue, come la famiglia attuale. Tutto ciò che
accomunava tutti i membri della familia era la comune sottoposizione a un
paterfamilias, che esercitava il suo potere, sia su quelli di stato
libero, sia su quelli in condizione servile; avere un paterfamilias non
era condizione necessaria per avere una familia; infatti chi non aveva
ascendenti maschi era capo di una famiglia, qualunque fosse la sua età, ad
eccezione delle donne. Riferendoci al ristretto gruppo familiare si parla
di familia proprio iure, mentre se la si estende ai parenti in linea
maschile (adgnati) si parla di familia communi iure, cioè quando alla
morte del pater, i figli formano varie familiae, ma il fatto che siano
stati sottoposti alla stessa potestas li considererà membri di una familia
communi iure. La familia communi iure non si estendeva all’infinito,
infatti agli effetti giuridici i vincoli di parentela avevano rilevanza
solo entro il sesto grado.
2. La parentela
La adgnatio era la sola parentela originariamente rilevante ai fini
giuridici; essa legava coloro che discendevano in linea maschile da un
capostipite maschio comune, vivo o morto, o che erano sottoposti in
condizione di discendenti, indipendentemente dai vincoli di sangue, e
quindi anche i figli adottivi o le mogli in manu. Poteva legare due
persone sia in linea retta che in linea collaterale; in linea retta univa
gli ascendenti ai discendenti (padre e figlio parenti di primo grado,
nonno e nipote di secondo ecc.); in linea collaterale il grado della
adgnatio si calcolava risalendo da uno dei due adgnati al capostipite
comune, per poi scendere sino all’altro adgnatus, contando un grado per
ogni passaggio sia in salita che in discesa (fratelli erano adgnati di 2°
grado, cugini di 4°, zio e nipote di 3°, figli dei cugini di 6°); il 6°
grado era il limite agnatizio di rilevanza giuridica. La parentela
agnatizia, oltre che per nascita da iustae nuptiae, nasceva da tutti gli
atti che facevano acquistare la patria potestas (adrogatio e adoptio) o la
manus (conventio in manum). Il legame di sangue, che non era civilis, si
definiva come cognatio e in età arcaica aveva poca rilevanza giuridica,
mentre fino all’intervento del pretore non aveva rilievo successorio.
3. La familia proprio iure. Struttura
La familia proprio iure appare come un’organizzazione patriarcale,
patrilineare e patrilocale; a capo di ciascun gruppo familiare vi era un
paterfamilias di cui i romani andavano fieri. La patria potestas romana
aveva un elemento unico caratterizzante, cioè durava finché il
paterfamilias era in vita; alla sua morte solo i discendenti immediati (i
figli) e i discendenti di questi se l’ascendente era premorto. Solo
costoro divenivano sui iuris, ossia soggetti di diritto, mentre tutti gli
altri, restando alieni iuris, passavano sotto la potestas di un nuovo
paterfamilias.
4. Capacità di diritto privato, capacità di diritto
pubblico
Essere sottoposto a un paterfamilias significava non essere titolare di
alcun diritto; il pater era il soggetto al quale facevano capo tutti gli
interessi del gruppo; i beni familiari erano di sua proprietà, i rapporti
giuridici nascevano in capo a lui; se un suo sottoposto acquistava un
bene, questo veniva acquistato per conto del pater, mentre se assumeva
obblighi verso terzi, questi atti non vincolavano il paterfamilias;
inoltre se un suo sottoposto commetteva un delitto, egli poteva liberarsi
di ogni responsabilità con la noxae deditio, cedendo quindi il sottoposto
in condizione di fatto di schiavitù alla parte lesa (ceduto in mancipio).
Oggi diremmo che solo il paterfamilias aveva la capacità giuridica.
L’unica differenza dei sottoposti era che quelli di stato libero avevano
un’aspettativa normale di capacità (alla morte del pater), mentre per gli
schiavi e le persone in causa mancipi, l’unico modo di essere liberi era
data dalla manumissio compiuta dal pater. Nel diritto pubblico, invece,
alla maggiore età (17 anni), i maschi acquistavano la capacità politica.
a) Il nome familiare
L’appartenenza alla familia era segnalata da un nome familiare detto
cognomen; per i maschi vi era un nome personale, praenomen (Marco, Caio),
inoltre i patrizi aveva anche un terzo nome, quello della gens, il nomen
(Tullio, Giulio); a volte vi poteva essere un quarto appellativo per
caratteristiche fisiche (Nasone, Barbato) o per gesta militari (Africano).
Questo definiva il sistema dei tria nomina (tre nomi), dal quale erano
escluse le donne. Esse venivano indicate con il nome della gens al
femminile (Tullia, Giulia) e se vi erano più donne nella stessa famiglia
si usava o Maior e Minor, oppure Prima, Secunda, Tertia, ecc. Secondo
alcuni il praenomen femminile non sarebbe esistito, mentre per altri non
poteva essere pronunciato per ragioni di pudicitia; ciò che è certo, era
che nominare una donna era un atto socialmente irrispettoso.
5. Unità e molteplicità dei poteri paterni
In età storica, i poteri paterni sui diversi componenti della famiglia
erano:
 patria potestas sui figli;
 manus sulla moglie e sulle mogli dei figli;
 dominica potestas sugli schiavi;
 dominium ex iure Quiritium sulle cose.
Si ritiene che questa differenziazione derivi dalla frantumazione di un
potere unico, detto mancipium.
B.Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.
1. La patria potestas
a) Contenuto
Il contenuto del potere paterno sui discendenti era ab origine illimitato,
e cominciava dal momento in cui il filiusfamilias nasceva; il primo potere
che il padre poteva esercitare su di lui era quello di decidere
autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo
ed esporlo, ossia abbandonarlo al suo destino. Questo gesto si compiva
dopo che i neonati venivano deposti ai suoi piedi e lui poteva o
sollevarli prendendoli nelle braccia o lasciarli per terra abbandonandoli.
Un primo limite a questo potere venne da una lex regia di Romolo che
stabilì una sanzione economica, per chi esponeva un figlio maschio o la
figlia primogenita, che equivaleva a metà del patrimonio. Sui figli
accolti nella familia il padre esercitava un potere tale che arrivava a
comprendere il famoso ius vitae ac necis e questo ultimo potere si
esercitava sui figli in relazione al sesso di questi. Sui maschi veniva
esercitato di norma quando si erano macchiati di crimini contro lo Stato,
tipo la perduellio (alto tradimento); per le femmine poteva essere
esercitato in caso di perdita della pudicitia o in caso di stuprum
(rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta al di fuori del
matrimonio). Un altro potere del pater era quello di poter vendere i figli
ad un altro paterfamilias, in una situazione di fatto diversa ma nella
sostanza simile alla schiavitù, e veniva definita col termine in mancipio.
Se dopo la vendita, il figlio veniva liberato dall’acquirente, questi
ritornava sotto la potestas del pater originario; per perdere la patria
potestas, bisognava vendere il figlio maschio per ben 3 volte; per le
femmine non servivano le 3 vendite.
b) Modi di acquisto
Secondo Ulpiano, alla familia si apparteneva perché sottoposti alla patria
potestas natura aut iure, cioè in base alla natura o al diritto.
La nascita
Il paterfamilias acquistava la patria potestas sui nati ex iustis nuptiis
all’interno del gruppo familiare; questo era il modo naturale di
acquistare la patria potestas.
L’adozione
Il modo di acquistare iure la patria potestas consisteva nel compimento di
un atto che chiamiamo adozione e che consentiva al pater di crearsi
artificialmente un figlio; le due forme previste erano l’adrogatio e
l’adoptio. La più antica era l’adrogatio e consisteva in una solenne
interrogazione con cui il paterfamilias adottante chiedeva a colui che
doveva essere adottato se accettava di entrare nella sua familia; questo
atto veniva compiuto innanzi ai comizi curiati; questa procedura solenne
era data dal fatto che chi veniva adottato era un paterfamilias, che
perdeva la posizione di sui iuris ed entrava nella familia dell’adottante
in condizione di filius, portando con sé i suoi sottoposti e il suo
patrimonio. Rinunciando con questo atto, al proprio culto familiare,
l’adottato compiva una solenne cerimonia religiosa detta detestatio
sacrorum, per placare i numi. L’adrogatio poteva essere compiuta solo dai
maschi sui iuris; per la mancanza di capacità comiziale non potevano
utilizzare questa forma né le donne né i maschi impuberi sui iuris. In età
classica si affermò il principio che l’adottante fosse più vecchio
dell’adottato. L’adoptio consisteva nel passaggio di un filiusfamilias da
una familia a un’altra; venne introdotta dopo le XII Tavole, grazie ad una
interpretazione giurisprudenziale, secondo il quale il padre che vendeva
il figlio per 3 volte perdeva la patria potestas. L’adoptio veniva
realizzata compiendo dapprima la emancipatio e quindi recandosi dinanzi al
pretore, ove l’adottante rivendicava l’adottando (che doveva essere
presente) come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi (in iure
cedebat);
il
pretore,
quindi,
riconoscendo
come
legittima
la
rivendicazione dell’adottante, pronunciava l’addictio, dichiarazione che
l’adottato era figlio dell’adottante. L’adoptio rompeva i vincoli agnatizi
tra l’adottato e la famiglia di origine, con conseguenze sul piano
ereditario; inoltre l’adoptio era accessibile, in veste di adottante, solo
ai cittadini maschi.
c) Cause di estinzione della patria potestas
La morte
Quando un paterfamilias moriva, i suoi discendenti immediati (figli e
figlie, moglie in manu e discendenti di grado ulteriore, se gli intermedi
erano premorti) diventano sui iuris; i discendenti di grado ulteriore
restavano sotto la potestà del discendente intermedio, che diventava il
nuovo paterfamilias.
La caduta in prigionia
Estingueva la patria potestas e valeva anche se in prigionia cadeva il
filius.
Il mutamento della cittadinanza
Essendo la patria potestas legata alla stato di libertà e alla
cittadinanza romana, se un pater cambiava cittadinanza (o il figlio),
questa si estingueva.
L’assunzione di carica sacerdotale
Altra causa di estinzione della patria potestas era l’assunzione della
carica di Flamen Dialis da parte del figlio o se la filia veniva accolta
tra le virgines Vestales.
L’emancipatio
L’emancipatio era un modo volontario di estinzione della patria potestas;
era il mezzo con cui un pater poteva rinunciare alla patria potestas,
rendendo un figlio/a sui iuris ed era legato al fatto che se un pater
vendeva il figlio per 3 volte perdeva la sua potestas. La procedura,
complessa, consisteva nel vendere il figlio (mancipatio) presso una
persona di fiducia in causa mancipi, che a sua volta manometteva il figlio
che ritornava al padre. Alla terza mancipatio, l’acquirente anziché
liberarlo lo vendeva al padre in causa mancipi, che a sua volta lo
manometteva, divenendo il suo parens manumissor e acquistando sul figlio
(ex ormai) il diritto di patronato. Per le figlie o i nipoti questa regola
non valeva e si liberavano dopo una sola mancipatio.
2. La manus
a) Modi di acquisto
La manus sulle mogli, propria e dei figli, veniva acquistata a seguito
della celebrazione del matrimonio, cerimonia nuziale, detta confarreatio.
La confarreatio
Solenne rito religioso riservato ai patrizi, che prendeva il nome da una
focaccia di farro che gli sposi dividevano come simbolo della futura vita
comune, rito effettuato davanti a dieci testimoni. Il rituale comprendeva
inoltre altre solennità, tra cui l’unione della mano destra degli sposti,
l’uso della pelle di pecora appositamente sacrificata per coprire il
sedile su cui gli sposi sedevano durante la cerimonia, i tre giri rituali
che dovevano compiere intorno all’altare andando verso destra, il velo
rosso (flammaeum) che copriva il capo della sposa; altri riti erano la
pronunzia da parte della sposa della celebre frase “Ubi tu Gaius ego
Gaia”. La confarreatio nel momento stesso in cui costituiva il vincolo
matrimoniale, operava un trasferimento di poteri personali, sottoponendo
la moglie alla manus del marito o del paterfamilias di questi. La
confarreatio cadde in desuetudine, ma l’inizio del matrimonio continuò ad
essere accompagnato da riti nuziali che non trasferivano la donna nella
familia del marito, ma vennero creati degli istituti appositi, quali la
coemptio e l’usus.
La coemptio
La coemptio era un’applicazione della mancipatio ed era una forma di
celebrazione del matrimonio per compera. In età storica, la coemptio aveva
perso questo carattere ed era diventata una compravendita fittizia, che
non faceva acquistare la donna, ma la manus su di lei. Visto che erano
esclusi dalla confarreatio, alla coemptio sicuramente facevano ricorso i
plebei e quando la prima cadde in disuso, la seconda venne utilizzata come
atto costitutivo della manus anche dai patrizi per risolvere il problema
sollevato dalla celebrazione di riti nuziali che non operavano la
conventio (trasferimento della moglie nella famiglia del marito).
L’usus
Era una forma speciale di usucapione, che era uno dei modi per acquistare
la proprietà su un bene, il cui termine era un anno per i beni mobili e
due per quelli immobili. Dopo un anno di convivenza, qualora non fosse
stata celebrata la coemptio, il marito usucapiva la manus sulla moglie.
b) Condizione della moglie in manu
Nella nuova famiglia la moglie si trovava in condizione di figlia presso
il marito, se questi era sui iuris, e quindi alla morte di questi
diventava sui iuris e concorreva alla sua eredità come erede legittima,
insieme ai propri figli; se il marito era alieni iuris la donna era in
manu del suocero, e quindi loco filiae presso di questi e loco sororis (in
condizione di sorella) nei confronti del marito.
c) I poteri del titolare della manus
Secondo una lex regia, al marito era concesso uccidere la moglie in caso
di adulterio o in caso ella avesse bevuto del vino. Questa norma era
dettata anche dal fatto che la famiglia di origine della donna voleva
evitare che il marito abusasse dei suoi poteri e quindi con una norma
autoritativa si stabilivano i casi in cui esercitare il ius vitae ac
necis.
d) Modi di estinzione della manus
La manus era un potere che si estingueva anche in caso di divorzio, ma ve
n’erano altri:
 nel caso di matrimonio confarreato, la manus si estingueva a
seguito di diffareatio, un divorzio celebrato con una cerimonia
solenne, uguale e contraria a quella che aveva stretto il vincolo
nuziale;
 nel caso di coemptio, per estinguere la manus era necessario che
il divorzio fosse affiancato da una remancipatio, ossia una
mancipatio uguale e contraria alla coemptio, con cui il marito o
il padre di lui trasferivano la manus al pater originario;
 se la donna fosse entrata in manus attraverso l’usus, il marito o
il padre di lui utilizzavano una procedura analoga a quella usata
per dare in adozione un figlio, cioè il titolare della manus
emancipava la moglie e dinanzi al magistrato il pater originario
ne rivendicava la patria potestas;
 la manus si estingueva per morte, caduta in schiavitù e mutamento
di cittadinanza del titolare; se il titolare era il marito, la
donna diventava sui iuris, mentre se era un ascendente del
marito, ella ricadeva sotto la potestà dell’ascendente superstite
più anziano o del suo stesso marito, se non vi erano ascendenti
intermedi.
3. I poteri del paterfamilias: la dominica potestas
Il potere del paterfamilias sui sottoposti di stato servile era detto
dominica potestas; il potere sullo schiavo si chiamava potestas,
esattamente come il potere che il paterfamilias vantava sui figli, e il
potere che il dominus vantava su di lui era avvicinato a un potere
personale; la potestas sullo schiavo non era patria, ma dominica, che si
avvicinava al dominium e sotto questo profilo lo schiavo si avvicinava ad
una cosa e il potere su di lui era patrimoniale e non personale.
C.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo
III d.C.
1. Le prospettive aperte dalla demografia sociale
I cittadini romani, quali che fosse la loro età, erano sottoposti alla
patria potestas sinché avevano un ascendente maschio vivente, e questa
sottoposizione comprendeva, tra l’altro, la totale dipendenza economica;
un filiusfamilias romano, anche se cinquantenne, era costretto a chiedere
al padre financo il danaro per comprarsi una gomma da masticare.
a) Effetti della patria potestas sui rapporti padre­figlio: la tesi
della tensione
Secondo parte della dottrina le caratteristiche di questa patria potestas
avrebbero influito, oltre che sul piano giuridico, anche su quello emotivo
tra padri e figli; questi ultimi erano sottomessi ai primi e la morte del
pater rappresentava la libertà; i figli romani vivevano ossessionati dal
parricidio, pratica che si realizzava alquanto spesso a Roma. I rapporti
tra i membri della famiglia romana improntati all’unione creata dalla
subordinazione al potere paterno, con le incapacità e le paure che ne
derivavano.
2. Regole giuridiche e realtà sociale a confronto
a) In materia di ius vitae ac necis
L’affermazione che il ius vitae ac necis venisse esercitato raramente
sembra essere contraddetto dalle fonti del diritto. Le norme della lex
Iulia de adulteriis che limitavano il diritto del padre di uccidere la
figlia adultera confermano che sino a quel momento, nella pratica, i padri
esercitavano questo diritto, quantomeno sulle femmine. E con riferimento
ai maschi, le attestazioni di casi in cui questo diritto venne esercitato
non solo esistono, ma sono significative. Il timore del giudizio paterno
era così forte da rendere insostenibile l’idea di affrontare a viso aperto
il momento della resa dei conti e della vergogna (suicidio dei figli).
Pensare, poi, che i padri esercitassero il ius vitae ac necis, non è
necessario immaginare che fossero crudeli e disumani con i figli; a Roma
il modello del potere pubblico si ispirava a quello del capofamiglia e
questo comportava che per un padre uccidere un figlio fosse, oltre che un
diritto, anche un obbligo. I padri romani, non erano per forza crudeli e
forse soffrivano a mandare a morte un figlio, ma questo non impediva loro
di fare quello che ritenevano giusto fare.
b) In materia di subordinazione economica dei figli
La prassi di dare ai figli un peculium e gli interventi pretori volti a
rendere i padri responsabili dei debiti assunti dai filiifamilias nacquero
per il problema dell’incapacità patrimoniale dei figli; la concessione del
peculium e le norme che lo regolavano, se da un lato andarono a vantaggio
dei figli, dall’altro svolgeva un ruolo tutt’altro che secondario a favore
dei patres, che grazie a queste regole potevano servirsi dei figli per
gestire il loro patrimonio.
c) In materia di matrimonio
Perché il matrimonio dei filiifamilias fosse valido era necessario anche
il consenso paterno; fino all’età degli Antonini, i patresfamilias
potevano anche interrompere il matrimonio dei figli indipendentemente
dalla volontà di questi; solo attorno al secolo II d.C. i figli
cominciarono a opporsi alla volontà dei padri. Contro i figli riluttanti
era concesso ai padri di far ricorso a un interdictum de liberis ducendis;
in un passo di Ulpiano si allude alla possibilità concessa al marito, di
opporre una exceptio al suocero che aveva fatto ricorso all’interdictum. A
Roma il matrimonio era una questione familiare dalle importanti
conseguenze economiche e sociali e l’ideale di amore coniugale era un
affetto ragionevole, non una passione (riservata alle amanti). Anche se la
propaganda nazionale esaltava il matrimonio unico, non v’è alcun dubbio
sul fatto che i divorzi quantomeno tra le classi abbienti fossero
frequenti. A Roma, quantomeno tra le classi alte, esistevano numerose
famiglie miste,
matrimoni.
composte
dai
coniugi
e
dai
figli
nati
da
successivi
3. La famiglia “mista”: passato e presente a confronto
Oggi in molte società occidentali non esiste un solo modello di famiglia;
anche dove resiste il modello della famiglia nucleare, accanto a queste
famiglie, esistono quelle con un solo genitore, quelle composte da coniugi
senza figli, quelle miste che uniscono figli di più matrimoni, e quelle di
fatto. Qualcosa di simile esisteva anche nel mondo romano. L’incertezza e
la mutevolezza dei contesti familiari in cui i figli crescevano, doveva
inevitabilmente influire su questi rapporti in modo diverso da quello in
cui influisce l’appartenenza a una famiglia nucleare.
4. Conclusioni
La teoria che drammatizza gli effetti della patria potestas appare più
convincente di quella che li minimizza. Nella realtà romana dell’età
preclassica e classica esistevano diversi modelli di famiglia:
 la famiglia patriarcale, che continuava a sussistere;
 la famiglia nucleare, che tendeva ad emergere sia
cristianesimo che per ragioni interne alla società pagana;
per
il
 la famiglia mista, tra le elites aristocratiche.
D.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
1. I cambiamenti e le loro premesse sociali ed etiche
In questi secoli l’etica dei romani era profondamente cambiata, in
conseguenza della progressiva cristianizzazione della società; la
concezione evangelica, dove non vi era differenza tra le persone, aveva
modificato profondamente i rapporti interpersonali e anche la concezione
del matrimonio e della famiglia, addolcendo anche i rapporti tra il
paterfamilias e i suoi sottoposti.
2. Metamorfosi della morale pagana o influsso cristiano?
Nella società pagana, all’incirca tra l’età di Cicerone e quella degli
Antonini, si era verificata una metamorfosi dei costumi sessuali del tutto
autonoma dall’influsso cristiano, i cui fattori furono principalmente due:
il passaggio da quella che viene definita un’aristocrazia concorrenziale a
un’aristocrazia di servizio e l’autorepressione reattiva dei plebei. La
vita della classe dirigente romana era cambiata. Per secoli i
patresfamilias avevano dominato incontrastati i gruppi familiari in
concorrenza reciproca, ma ora si ritrovavano ad essere sudditi del
principe e uguali fra loro e questo potere sovrastante del regnante li
portò a cambiare sia il loro stile di vita che la loro psicologia. La
tradizionale autoritarietà del cittadino romano aveva subito un duro
colpo; le persone con cui si trovava a trattare nella società, erano pari
a lui, ed egli era tenuto al rispetto e non poteva più dare ordini come
prima e questo portò a darsi una nuova regola, quella della
rispettabilità. I patres avevano preso, da un canto, a trattare con
maggior umanità gli schiavi, dall’altro, a rispettare la personalità, i
desideri e l’autonomia dei figli adulti. La mentalità e il costume erano
cambiati di conseguenza.
3. I nuovi limiti alla patria potestas
Nel IV secolo d.C., gli imperatori stabilirono dei limiti all’esercizio
dei poteri paterni; nel 323 Costantino affermò che il diritto di vita e di
morte
sui figli era ancora consentito, ma nel 395 fu stabilito che al
padre spettasse solo un potere correzionale, e che qualora le infrazioni
dei figli fossero di tal gravità da richiedere l’irrogazione di vere e
proprie pene, queste venissero irrogate dallo Stato; nel Codice
giustinianeo il ius vitae ac necis sparì. Sullo stesso filone vi furono
vari provvedimenti in merito all’esposizione dei neonati, stabilendo che
chi avesse esposto un figlio avrebbe perduto definitivamente la patria
potestas su questi; si riconobbe la liceità della vendita di neonati, ma
solo se conclusa a causa dell’insostenibile miseria.
4. La capacità patrimoniale dei filiifamilias
In questo periodo ai filiifamilias venne progressivamente riconosciuta la
piena capacità patrimoniale; due costituzioni di Costantino stabilirono
che le norme in materia di peculium castrense venissero applicate anche ai
beni poi definiti peculium quasi castrense e cioè ai beni acquisiti dai
filiifamilias
prestando
servizio
presso
la
corte
imperiale.
Una
costituzione di Costantino, nel 319, stabilì che qualora un filiusfamilias
avesse ereditato ab intestato dalla madre, il di lui pater, pur essendo
titolare dei beni ereditati dal figlio (detti bona materna), non poteva
disporne; 60 anni dopo questa regola venne estesa anche ai bona materna
generis, cioè i beni che il figlio ereditava dagli ascendenti materni.
Verso la metà del V secolo si affermò il principio che il padre avesse su
questi beni solo l’usufrutto; Giustiniano stabilì che a questo regime
fossero sottoposti tutti i beni che il filiufamilias avesse acquistato con
il proprio lavoro o per liberalità di persona diversa dal padre. Il
principio della piena e totale capacità dei figli non venne affermato
neppure nel diritto giustinianeo.
5. Agnatio e cognatio
Mentre diminuiva l’importanza dei rapporti familiari basati sull’agnatio,
vennero acquistando sempre maggior peso i legami fondati sulla cognatio,
sul sangue. L’adrogatio veniva ormai compiuta in forza di un rescritto
imperiale (rescriptum principis); nel 291 Diocleziano e Massimiano, pur
ribadendo che le donne non potevano esercitare la potestà personale sui
figli, consentirono a una donna, che aveva perso i suoi, di adrogarne uno,
per confortarsi della perdita subita. In quest’epoca si ammise anche che
una donna sui iuris potesse essere adrogata e si stabilì che l’adrogante
avesse l’usufrutto sui beni dell’adrogato. L’adoptio a partire dall’età di
Diocleziano avveniva nelle regioni occidentali dell’Impero davanti alla
curia della città (ante curiam) e in quelle orientali per semplice
scrittura privata. Nel 530 Giustiniano abolì le antiche formalità, ma
queste non erano in uso da secoli; nello stabilire che l’atto venisse
compiuto dinanzi a un funzionario, Giustiniano richiese che a esso
partecipasse,
oltre
all’adottante
e
al
pater
originario,
anche
l’adottando, del quale era necessario il consenso. L’emancipatio, fino a
Diocleziano, avveniva formalmente secondo le antiche formalità, ma di
fatto era ormai sufficiente una dichiarazione paterna, resa dinanzi a un
funzionario imperiale, alla presenza del figlio; l’imperatore Anastasio,
nel 502, ammise che si potessero emancipare per rescriptum principis i
figli assenti. Nel 531 Giustiniano abolì le antiche formalità, stabilendo
che fosse sufficiente una dichiarazione resa dal padre al competente
funzionario, e alcuni anni dopo affermò il principio secondo il quale alla
validità dell’atto era indispensabile il consenso del figlio.
6.
Il matrimonio
A. Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.
1. La capacità matrimoniale (conubium)
Per poter contrarre un matrimonio legittimo (iustum matrimonium) gli sposi
dovevano avere la capacità matrimoniale, il conubium; questa capacità era
legata in primis allo stato di persone libere, mentre in caso di unione
con o tra schiavi si parlava di contubernium; salvo eccezioni (stranieri)
il conubium era anche legato alla cittadinanza romana; inoltre fino al 445
era vietato anche il matrimonio tra patrizi e plebei, quando un plebiscito
concesse il reciproco conubium. Essere sui iuris o alieni iuris non
inficiava il matrimonio, ma nel secondo caso era necessario il consenso
dell’avente potestà. Infine il conubium era legato al raggiungimento della
pubertà, che in un primo momento veniva accertata con una inspectio
corporis, effettuata come rito collettivo nei santuari extra moenia (fuori
dalle mura); successivamente questa certificazione divenne un fatto
privato.
a) Diritto e prassi
Si pensa che le ragazze contraevano matrimonio in età giovanissima; alla
pratica di accertare la pubertà si sostituì il regime di presunzione
legata al compimento di una determinata età, i dodici anni.
2. Il fidanzamento (sponsalia)
Il matrimonio era di norma preceduto da un periodo di fidanzamento,
chiamato sponsalia; consisteva in una promessa di matrimonio fatta nella
forma della sponsio, un solenne impegno verbale preso dal padre della
futura sposa, su richiesta del futuro sposo o del padre di questi. Sembra
che a Roma il fidanzamento era vincolante e che avrebbe mantenuto i suoi
effetti obbligatori per alcuni secoli; anche quando perse carattere
vincolante, il fidanzamento rimase un atto di grande valore sociale; per
quanto riguarda l’età del fidanzamento, non vi era una norma di diritto
che ciò normasse, ma posto che i futuri sposi dovevano capire quel che
fanno, essi non dovevano avere meno di sette anni; in caso di alieni
iuris, ovviamente erano i pater a decidere per loro.
3. I riti nuziali
L’ipotesi che la confarreatio fosse l’unico rito nuziale che aveva
rilevanza
giuridica
agli
effetti
della
costituzione
del
vincolo
matrimoniale era legata alla convinzione che essa fosse l’unica cerimonia
religiosa propria della religione nazione dei romani; sappiamo che nei
secoli V­IV i riti nuziali che a Roma appaiono come riti privati erano
originariamente dei riti pubblici e questo induce a pensare che la loro
privatizzazione si sia verificata a seguito del trasferimento alle
famiglie del potere­dovere di certificare la pubertà, dapprima spettante
al santuario. Quel che è certo è che solo la confarreatio trasferiva la
donna nella famiglia del marito.
4. Doveri della moglie, poteri del marito
I poteri del marito sulla moglie in manu erano analoghi a quelli paterni;
se ella veniva meno ai suoi doveri, il marito aveva un potere che si
estendeva fino al ius vitae ac necis, con la sola differenza che il marito
poteva uccidere la moglie solo in due casi, ossia l’adulterio ovvero se la
moglie avesse bevuto; sul primo caso i motivi sono ovvi, l’adulterio era
colpa imperdonabile e lesiva dell’onore; per quanto riguarda il secondo
caso si può immaginare che la donna bevendo del vino poteva perdere il
controllo di sé e commettere più facilmente adulterio e comportarsi in
modo disdicevole.
a) Diritto e prassi
A prescindere dell’esistenza di regole ferree di controllo sulle donne,
quello che ci chiede è se poi queste regole venivano applicate alla
lettera o vi fosse una certa tolleranza. Tipico è il caso di Ignazio
Mecennio che uccise a bastonate la moglie che aveva bevuto, ma nonostante
ciò non fu ritenuto colpevole di omicidio. Egli non compì un atto
socialmente riprovato, ma sbagliò esecuzione, che nel caso delle donne
sarebbe consistito nel farla morire di inedia nel carcere domestico. Egli
però bastonò la moglie ed il caso fu sottoposto a Romolo che comunque lo
assolse.
5. La nascita del matrimonio sine manu
Il progressivo diradarsi del ricorso all’usus provocò il fenomeno della
nascita del matrimonio sine manu, che ha origini molto antiche; una norma
delle XII Tavole, infatti, stabilì che la moglie potesse evitare di
passare in manu del marito allontanandosi ogni anno per tre notti dalla
casa coniugale, prima che scadesse il termine dell’usus, e quindi
impedendo che il termine dell’usucapione si compisse. Grazie a questo
istituto, detto trinoctium o trinoctis usurpatio, la donna restava sotto
la patria potestas paterna, ancorché regolarmente coniugata.
6. Lo scioglimento del matrimonio
Il matrimonio si scioglieva per morte
di ragioni dipendenti o indipendenti
erano la perdita della libertà o della
venir meno della volontà di questi e
iuris, il venir meno della volontà del
di uno dei coniugi e per una serie
dalla loro volontà. Queste ragioni
cittadinanza di uno dei coniugi, il
infine, se gli sposi erano alieni
loro paterfamilias.
a) Il divorzio per volontà del marito
Il divorzio era una causa di scioglimento dovuto al venir meno della
volontà, di uno dei coniugi ovvero del paterfamilias di uno di questi; va
precisato che in età arcaica la possibilità di divorziare era concessa
solo al marito, che poteva chiederlo liberamente solo in alcuni casi
espressamente previsti, e cioè, l’avvelenamento della prole (aborto
volontario),
la
sottrazione
delle
chiavi
(della
cantina=vino)
e
l’adulterio; in caso mancasse un valido motivo, metà del patrimonio andava
alla moglie e l’altra metà consacrata a Cerere. Le XII indicavano che il
marito pronunziasse una frase, tua res tibi abeto (prenditi le tue cose);
questa frase invitava la moglie a prendersi i propri oggetti personali.
Questa formula non aveva effetti sulla manus, in quanto l’unico divorzio
che produceva la sua estinzione era quello che scioglieva le nozze
confarreate.
b) Il divorzio per volontà del paterfamilias
Anche il venir meno del consenso dei genitori portava allo scioglimento
del matrimonio.
7. Rapporti patrimoniali fra coniugi
In entrambi i casi di matrimonio, cum manu o sine manu, di norma si
accompagnava lo spostamento di una certa quantità di beni, che il
paterfamilias della donna trasferiva al marito, o al paterfamilias di
questi; questi beni erano detti dote (dos), e contribuivano ad onera
matrimonii ferenda, ossia a sostenere i pesi economici del matrimonio;
nell’ipotesi di un matrimonio cum manu di una donna sui iuris, tutto il
suo patrimonio passava al marito a titolo di dote. Questa dote andava
restituita al momento dello scioglimento del matrimonio e per tutelare le
donne da abbandoni ingiustificati si richiese che il marito facesse una
solenne promessa al momento del matrimonio, con la quale si impegnava a
restituire la dote in caso di divorzio ingiustificato; la dote serviva
anche a garantire la sopravvivenza della donna divorziata, e venne
chiamata res uxoria, le promessa cautio rei uxoriae.
8. Il concubinato
Là dove esiste il matrimonio esiste anche il concubinato, che altro non è
che un’unione tra un uomo e una donna, che non può essere riconosciuta
come matrimonio o per mancanza dei requisiti di capacità o perché non è
stato formalizzato come matrimonio attraverso la celebrazione di un rito
nuziale; a volte non solo è tollerato, ma anche considerato un matrimonio
di seconda classe. A Roma il concubinaggio e la posizione della concubina
variò sensibilmente nel tempo; nell’età arcaica, il concubinato non era
colpito da una particolare riprovazione e l’unica sanzione a carico della
concubina era legata a una regola di carattere religioso, che le faceva
divieto di accostarsi all’altare di Giunone (protettrice del matrimonio).
B.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo
III d.C.
1. Il matrimonio
a) Struttura giuridica
A partire dal secolo II a.C. il matrimonio cum manu cadde in disuso; cadde
in disuso oltre alla confarreatio, anche la coemptio e il matrimonio si
contraeva sempre più spesso senza alcuna formalità costitutiva; l’inizio
della convivenza non avveniva informalmente, ma continuava ad essere
accompagnata da cerimonie solenni. Il costume prevedeva che, dopo che
erano stati presi gli auspicii e che erano stati compiuti i sacrifici,
nella casa della sposa venisse offerto un banchetto; la sposa veniva
accompagnata in processione nella casa del marito (in domo deductio);
giunta nella futura casa, la sposa ne varcava la soglia sulle braccia del
marito e offriva agli dèi acqua e fuoco. Nessuna di queste celebrazioni
aveva valore costitutivo, ma solo solennità sociali che consentivano di
distinguere un matrimonio da un concubinato o in caso di contestazione
della legittimità dei figli nati dall’unione; avevano dunque valore
probatorio ma non costitutivo dell’unione. Altre prove dell’esistenza del
matrimonio erano il fatto che la donna accompagnasse il marito in
determinate occasioni dove solo le moglie erano ammesse. Il matrimonio
esisteva quando due persone dotate di conubium, stabilivano una convivenza
accompagnata dalla maritalis affectio, ossia l’intenzione di essere marito
e moglie.
b) Il problema del consenso
Il matrimonio era ormai libero, nel senso che non richiedeva forme
costitutive, ma era bastante la convivenza di due persone dotate di
conubium accompagnata dalla affectio maritalis. Se gli sposi erano alieni
iuris, era necessario la volontà dei loro paterfamilias, che iniziava a
manifestarsi dalla sponsalia con la manifestazione della volontà. Se un
filiusfamilias è obbligato dal padre a sposarsi il suo matrimonio è
valido; il consenso filiale era previsto, ma era un consenso passivo, che
non necessariamente comportava il desiderio di sposarsi o di sposare
quella determinata persona. L’intenzione di considerare matrimonio la
propria convivenza con persona di altro sesso nulla aveva a che fare con
il rapporto affettivo con il coniuge; il matrimonio era liberamente scelto
dai coniugi e basato esclusivamente sul solo consenso solo nel caso che
questi fossero entrambi sui iuris.
Amore e matrimonio
A Roma amore e matrimonio erano due cose distinte; i romani infatti si
sposavano per convenienza sociale o per dovere civico e il celibato era
diffuso e celebre risulta un discorso del 131 a.C. del censore Metello
Macedonico: “Se noi, o Quiriti, potessimo vivere senza mogli, nessuno di
noi, certamente, accetterebbe le noie del matrimonio. Ma poiché la natura
ha voluto da un canto che non si possa vivere con le mogli senza avere
delle noie, e dall’altro che non si possa vivere senza di loro, è
necessario preoccuparsi della tranquillità perpetua, invece che del
piacere di breve durata”. L’unico argomento, quindi, che poteva convincere
gli uomini a sposarsi era la necessità dello Stato.
2. La condizione femminile
a) La posizione successoria e il ius honorarium
La posizione successoria delle donne con il passare del tempo era
migliorata grazie agli interventi dei pretori, che avevano modificato le
regole del ius civile, dando vita ad una successione ereditaria detta
bonorum possessio; avevano inoltre ammesso alla successione ab intestato
una serie di persone che non avevano diritto di parteciparvi iure civili;
questo aveva fatto si che le donne in manu si trovassero a poter ereditare
contemporaneamente da due famiglie; si era ammesso, inoltre, che la moglie
anche non in manu potesse succedere al marito. Nel nuovo regime
matrimoniale la moglie, rimanendo nella famiglia di origine, diventava
indipendente assai prima di quanto accadeva nel vecchio regime, in cui
diventava sui iuris solo al momento della morte del marito. Se
appartenevano a una famiglia agiata, le donne entravano in possesso di un
loro patrimonio personale in età relativamente giovane; alle ricchezze
ereditate dal padre, inoltre, aggiungevano quelle che potevano ereditare
da altri parenti, oltre che dal marito; se poi aggiungiamo le continue
guerre, con perdita di popolazione maschile, risulta chiaro che molti
patrimoni finissero in mani femminili. Alla donna inoltre in materia di
tutela era stata riconosciuta una capacità maggiore di prima e questo
aveva reso molte donne indipendenti.
b) La ricchezza femminile: la lex Oppia e la lex Voconia
Questa ricchezza femminile iniziò ad essere contrastata, in particolare
con la lex Oppia, del 215 a.C., che stabiliva che nessuna donna potesse
avere più di mezza oncia d’ora; lo stile di vita di molte donne a Roma
destava preoccupazioni e anche riprovazione negli uomini; quando nel 195 i
tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio proposero l’abrogazione
della lex Oppia, si oppose loro Catone sostenendo che la parità fosse una
cosa inaudita. Comunque nel 169 a.C. si approvò la lex Voconia, anch’essa
mirante a limitare questa situazione, che stabiliva che nessuna donna
appartenente alla prima classe del censo potesse essere istituita come
erede (patrimonio superiore ai 200.000 assi); la giurisprudenza stabilì
che le sole adgnatae ammesse alla successione fossero quelle entro il
secondo grado, cioè le sorelle.
3. La crisi del matrimonio
Sul finire della Repubblica gli uomini erano spesso lontani,in guerra, in
esilio, per ragioni politiche, o nelle province per governare; le mogli di
norma restavano a Roma per gestire il patrimonio, per intrattenere i
rapporti sociali e politici necessari, ma questa assenza era fonte di
libertà per loro. Aggiungendo anche la crisi demografica, si cercò di
incolpare di questa situazione le donne che desideravano essere più
emancipate; ma al di là delle responsabilità, è certo che la famiglia era
in crisi.
a) La legislazione augustea sul matrimonio
Augusto tentò di risolvere la crisi con interventi normativi, la lex Iulia
de maritandis ordini bus, la lex Iulia de adulteriis e la lex Papia
Poppea. La prima e la terza stabilirono che tutti gli uomini tra i 25 e i
60 anni e le donne tra i 20 e i 50 anni dovessero contrarre matrimonio;
chi non lo faceva era considerato caelebs e come tale punito con la
perdita di alcune capacità patrimoniali, ossia quella di ricevere eredità
e legati. La legge stabilì inoltre che coloro che erano sposati ma senza
figli (orbi) potessero ricevere per testamento solo la metà di quanto era
stato loro destinato. Venne poi concessa l’esenzione della tutela iure
libero rum (per diritto di figli) alle donne che avessero partorito tre
figli, se nate libere, o quattro se liberte.
b) La legislazione augustea sull’adulterio
L’adulterio, con la lex Iulia de adulteriis, venne inteso come crimen e
comprendeva tutte le relazioni extramatrimoniali intrattenute da una donna
(eccezion fatta per il concubinato o se la donna era prostituta); la lex
mirava a moralizzare verso i reati sessuali. Questi reati da reati puniti
in forma privata, divenendo crimen, erano passati a reato pubblico,
giudicato da un apposito tribunale (quaestio de adulteriis) e perseguibile
su iniziativa non solo del marito o dei familiari interessati, ma di
qualunque cittadino prendesse l’iniziativa di denunciare l’adultera. Il
marito e il padre della donna avevano 60 giorni per denunciarla,
intentando una accusatio adulterii; il marito che non lo facesse e che non
ripudiasse la moglie poteva essere denunciato per lenocinio; scaduto il
termine dei 60 giorni il diritto di accusa passava agli estranei, che
potevano esercitarlo nel termine di 4 mesi; la pena era la relegatio
insulam, sia per la donna che per il complice, accompagnata da pesanti
sanzioni patrimoniali. In caso di flagranza all’interno delle mura
domestiche la legge aveva stabilito che il madre e il marito potessero
continuare a esercitare il ius occidendi solo in alcune circostanze. Il
padre poteva uccidere la figlia e il complice, solo se li sorprendeva in
casa sua o del genero e solo se li uccideva contemporaneamente; se avesse
ucciso solo il complice, sarebbe stato accusato di omicidio. Il marito
invece non poteva più uccidere la moglie adultera, ma solo il complice, a
patto di sorprenderli in flagranza nelle mura domestiche e solo se questi
appartenesse ad alcune categorie sociali meno nobili, come gli schiavi e i
liberti o un infamis.
4. Inefficacia delle leggi augustee
Le leggi augustee non produssero gli effetti desiderati; nel 42­43 d.C. la
società viene descritta da Seneca come irrimediabilmente depravata e tra
le prove di questa depravazione vi è l’abitudine delle donne di ricorrere
a pratiche abortive. Giovenale sostiene che la lussuria è vizio di tutte,
schiave e padrone. La lex Iulia sembra non venisse applicata, in quanto
l’adulterio era una faccenda privata troppo radicata perché i romani
accettassero un’intrusione dello Stato nelle loro questioni familiari; non
accettavano che lo Stato stabilisse le regole della loro vita privata.
5. La nascita della nuova morale di coppia: regime politico
e vita privata
La soluzione della crisi della famiglia fu la conseguenza dei profondi
mutamenti sociali e psicologici legati al cambiamento di regime politico;
con il passaggio dalla repubblica al principato, il paterfamilias si trovò
a essere nella società e nei confronti dell’autorità imperiale
semplicemente uno dei tanti sudditi­funzionari; ora la sua immagine doveva
essere quella del marito fedele, rispettoso, che non considerava la moglie
una cosa di sua proprietà; ella doveva essere, ora, una compagna, un
sostegno, una persona da rispettare e con la quale presentarsi in società.
Alla fine del II secolo d.C. si era affermata, nel mondo pagano, una
morale di coppia, simile a quella cristiana, grazie a due fattori, il
primo è il passaggio da un’aristocrazia concorrenziale ad un’aristocrazia
di servizio e il secondo è l’autorepressione reattiva dei plebei.
6. Etica matrimoniale e classi sociali
La morale di coppia, nata tra le classi alte, non rimase però un fatto
limitato ai più ricchi e potente, ma si diffuse anche tra i plebei; le
classi più basse avrebbero visto nell’autorepressione, capace di rendere
il loro comportamento simile a quello dei potenti, lo strumento del loro
riscatto morale e sociale. Dimostrandosi capaci di autodeterminarsi essi
confermavano il loro status di cittadini e di essere liberi.
a) Regime politico, filosofia ed etica sessuale
A rafforzare la nuova etica sessuale contribuì un altro non trascurabile
fattore; tra i secoli I­II d.C. il sesso era visto come un serio pericolo
per la salute; i medici dell’epoca venivano interpellati dai pazienti che
accusavano sintomi preoccupanti, quali un affaticamento continuo, uno
stato generale di disagio, un imprecisato malessere; le
cause erano
legate al cambiamento dello stile di vita dovuto al nuovo corso politico,
in quanto la vita del funzionario era stressante, malsana. Inoltre i
nobili romani erano abituati a vivere all’aria aperta, a prendersi cura
della propria persona, cosa che ora veniva limitata tantissimo. I medici
tentavano di risolvere questo problema consigliando di ridurre gli eccessi
sessuali, diciamo che era la nuova regola sanitaria. L’aspirazione alla
continenza, non nacque con il cristianesimo, ma era già presente nella
società pagana. Nel secolo I, Musonio Rufo, insegnava che il sesso era
riprovevole anche nel matrimonio, se non finalizzato alla riproduzione. La
contrapposizione tra corpo e spirito, tra impulsi e ragione, non fu
un’idea cristiana, ma era già presente nella società pagana, ed era regola
di vita.
7. Lo scioglimento del matrimonio
Il matrimonio poteva essere sciolto per volontà dei coniugi o per ragioni
indipendenti dalla loro volontà.
a) Scioglimento per volontà dei coniugi
Data la nuova struttura del matrimonio, perché esso venisse sciolto,
bastava che, venuta meno l’intenzione di essere marito e moglie, i coniugi
cessassero di convivere. La libertà di divorzio, era ormai totale. Per gli
uomini, sia dal punto di vista formale che sostanziale, mentre per le
donne, con maggiori difficoltà concrete e con molti condizionamenti
sociali ed economici.
b) Scioglimento per ragioni diverse dalla volontà dei coniugi
Le ragioni diverse dalla volontà dei coniugi che potevano portare allo
scioglimento del matrimonio erano legate da un canto alla volontà del
paterfamilias e dall’altro dal verificarsi di circostanze che portavano al
venir meno del conubium.
Volontà del paterfamilias
Il venir meno di questa volontà continuava a portare allo scioglimento del
matrimonio; con il passare del tempo lo sgretolarsi della patria potestas
e la nuova concezione dei rapporti familiari fece sì che l’esercizio di
questo diritto cominciasse a essere visto come un sopruso. L’idea che il
matrimonio potesse essere sciolto dalla volontà di un terzo veniva
considerata sempre più inaccettabile. Nella prassi giudiziaria, però, la
volontà dei coniugi se in contrasto con quella paterna aveva la prevalenza
su questa. A partire dall’età degli Antonini la volontà paterna cessò di
essere una delle possibili cause di scioglimento del matrimonio.
Venir meno del conubium
Posto che uno dei requisiti per la validità del matrimonio era l’esistenza
del conubium, se questa capacità veniva meno il matrimonio era sciolto;
ciò avveniva in varie circostanze:
 se uno dei coniugi perdeva lo status libertatis (capitis deminutio
maxima); questo si verificava come conseguenza della prigionia di
guerra, oppure la servitus poenae, cioè la perdita della libertà a
seguito di condanna penale;
 se uno dei coniugi perdeva la cittadinanza romana (capitis deminutio
media), a meno che non avesse acquistato la cittadinanza in una
comunità cui era stato concesso il conubium.
C.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
Valorizzando il consenso dei coniugi come essenziale alla costituzione del
vincolo, il cristianesimo si era incontrato con la tendenza interna al
mondo pagano a limitare l’invadenza della patria potestas. Anche se i
romani ritenevano che fosse loro dovere impegnarsi nel matrimonio,
indipendentemente dalla loro religione, se erano pagani non potevano
accettare l’idea che il consenso inizialmente dato fosse irrevocabile,
come voleva la dottrina cristiana; una simile concezione era profondamente
in contrasto con un principio di libertà al quale erano da troppo tempo e
troppo profondamente legati. La politica legislativa imperiale tentò di
affermare i principi cristiani senza contrastare troppo clamorosamente la
mentalità romana.
1. Scioglimento del matrimonio
In questo periodo una serie di disposizioni
materia di scioglimento del matrimonio.
stabilì
nuove regole
in
a) Il divorzio
Il tentativo di limitare il numero dei divorzi venne fatto in due
direzioni; da un canto gli imperatori fecero del divorzio un atto formale,
dapprima statuendo la necessità che chi intendeva divorziare inviasse al
coniuge un libellus repudii e quindi, con Giustiniano, richiedendo la
presenza di sette testimoni; dall’altro stabilendo una serie di
circostanze in presenza delle quali il divorzio era sottoposto a delle
penalità. I divorzi vennero così classificati:
 Ex iusta causa erano i divorzi che avevano luogo per iniziativa di
uno solo dei coniugi, in casi tassativamente previsti dalla legge; i
comportamenti considerati colpa erano diversi da maschio a femmina.
Era colpa del marito l’aver tentato di prostituire la moglie, o il
tenere notoriamente una concubina; colpa della moglie erano
comportamenti come l’essersi recata ai banchetti o ai bagni senza il
consenso del marito. La sanzione per l’adulterio era la reclusione
della moglie adultera in convento; qualora queste circostanze
mancassero, il ripudiante era sanzionato sia pecuniariamente con la
perdita della dote e della donatio propter nuptias, sia con la
statuizione della sua incapacità di contrarre un nuovo matrimonio
prima di un certo lasso di tempo.
 Sine ulla causa erano i divorzi per iniziativa di una sola parte, al
di fuori dei casi previsti dalla legge, e come i precedenti erano
variamente puniti.
 Communi consensu erano i divorzi decisi concordemente dalle parti,
senza giusto motivo; ma le sanzioni stabilite nel 542 a carico di
divorziava communi consensu furono accolte con tale disfavore che di
lì a pochi anni l’imperatore Giustino, successore di Giustiniano, si
vide costretto a revocarle.
b) Lo scioglimento per ragioni diverse dalla volontà dei coniugi
A partire dal secolo III gli imperatori intervennero per eliminare
un’antica causa di scioglimento per ragioni diverse dalla volontà dei
coniugi, la perdita dello status libertatis e dello status civitatis. Con
Giustiniano, pur confermando che la captivitas non consentiva il permanere
del vincolo, Giustiniano cercò infatti di impedire che essa producesse
immediatamente i suoi effetti, stabilendo che i matrimoni rimanessero in
vita, e che il coniuge rimasto libero non potesse contrarre un nuovo
matrimonio fino a che non si avesse avuto notizia certa della morte del
captivus, ovvero per un periodo di cinque anni. Chi non rispettava questa
regola veniva sottoposto a sanzioni pecuniarie, mentre per chi avesse
rispettato, il matrimonio veniva sciolto bona gratia. Nel diritto
giustinianeo si stabilì che i condannati ai lavori forzati (ad metalla)
mantenessero lo status libertatis. Per quanto riguarda la cittadinanza,
invece, la deportatio non scioglieva più il matrimonio. Sempre con
riferimento alla perdita del conubium, venne regolato anche il caso
dell’incestum superveniens, che si verificava se tra il marito e la
moglie, successivamente al matrimonio, veniva a instaurarsi un rapporto di
parentela; l’espediente fu ad esempio quello del suocero che emancipava il
figlio prima di adottare la nuora.
2. L’adulterio
Divenuto crimine con la lex Iulia, l’adulterio in età classica era stato
punito con la relegatio in insulam dei colpevoli; quando la concezione
cristiana di peccato venne tradotta dagli imperatori, la sanzione penale
divenne, formalmente, di eccezionale crudeltà. Nel 339 si sostituì la
relegatio in insulam con la pena di morte, eseguita bruciando al rogo gli
adulteri o sottoponendoli alla poena cullei. Antonino Pio, pur tenendo
fermo il principio che l’uccisione della moglie non era legittima, stabilì
che il marito omicida venisse punito con una pena più lieve di quella
prevista per questo reato. Marco Aurelio e Commodo confermarono questa
disposizione e stabilirono che il marito che avesse ucciso il complice
della moglie in assenza delle condizioni di tempo, luogo, e di persona
previste dalla lex Iulia come requisito della sua impunità venisse a sua
volta sottoposto a una pena più lieve di quella prevista per l’omicidio.
Alessandro Severo stabilì che questa dovesse essere l’esilio. La lex
Burgundionum, concesse al marito l’impunità sia per l’uccisione della
moglie che del complice, mentre nella lex Wisogothorum il marito poteva
uccidere la moglie se la scopriva in flagrante nelle mura domestiche. La
violazione della fedeltà coniugale continuava a essere punita solo qualora
a violarla fosse la moglie; il complice della moglie veniva punito per
aver leso il diritto di un altro cittadino all’esclusività sessuale sulla
propria moglie. Qualora un uomo sposato avesse rapporti sessuali con
un’altra donna che non era tenuta alla fedeltà coniugale (prostituta o
schiava), nei suoi confronti continuava a non essere prevista alcuna
sanzione. Nonostante la predicazione cristiana, gli imperatori cristiani,
nell’aggravare le pene per l’adulterio, continuarono dunque ad adeguarsi
ai criteri della vecchia morale. Tutto quello che rischiava un marito,
tradendo la moglie, era la perdita delle dilazioni di restituzione della
dote e alcuni vantaggi patrimoniali legati al matrimonio. Nel 556
Giustiniano stabilì che all’adultera fosse evitata la morte, ma la pena
consisteva nel chiuderla in un monastero, dal quale poteva uscire solo se
il marito la perdonava entro due anni; se il perdono non arrivava o se il
marito moriva prima della scadenza, ella era condannata alla reclusione
per il resto della vita; l’adulterio fu il primo reato con una sanzione
paragonabile all’ergastolo. Giustiniano ristabilì il principio che al
marito poteva essere concessa l’impunità solo per l’uccisione del complice
della moglie, e non anche per l’uccisione di questa; l’uccisione del
complice richiedeva il rispetto di norme precise: il marito, venuto a
sapere della relazione, doveva inviare all’amante della moglie tre
successive diffide scritte, firmate da testimoni fededegni; solo dopo aver
adempiuto a questa formalità, poteva ucciderlo impunemente, a condizione
che lo avesse sorpreso in flagrante in casa propria, in casa della moglie,
in una taberna o in una casa dei sobborghi.
a) L’ironia dei dottori
Questa regola giustinianea, trovò scarso riscontro, e nel De meleficiis
dell’Aretino, viene ampiamente ridicolizzata.
3. L’omicidio per causa d’onore: dalla lex Iulia al Codice
Rocco
Al di là del ridicolo suscitato dalla richiesta delle tre diffide, la
critica dei dottori alle disposizioni giustinianee non era infondata; la
formalità burocratica delle tre diffide, mal si conciliava con quella che,
quantomeno nella lex Iulia, avrebbe dovuto essere la ragione per cui, del
tutto eccezionalmente, un omicidio non veniva punito, cioè lo stato d’ira,
il moto incontrollabile dell’animo nel momento in cui il marito scopriva
l’infedeltà della moglie. Dopo le tre diffide, la sorpresa non era certo
più tale; quello che ora giustificava il suo gesto era qualcosa d’altro,
la necessità di difendere il suo onore. Non è difficile cogliere la
mentalità che porterà alla formulazione di un concetto giuridico nuovo e
alla nascita di una figura di reato che è restata nei nostri codici fino
al 1981, il c.d. delitto d’onore, normato all’art. 587 del Codice Rocco.
7.
Atti e fatti giuridici. Il
negozio giuridico
1. Gli atti e i fatti giuridici
Le situazioni di vantaggio e di svantaggio nascono quando si comincia a
ritenere che alcuni fatti o atti producano determinate conseguenze; i
fatti e gli atti produttivi di queste conseguenze vengono chiamati fatti e
atti giuridici. I fatti giuridici (factum) sono accadimenti naturali, che
l’ordinamento prende in considerazione perché ritenuti produttivi di
determinati
effetti
giuridici.
Gli
atti
giuridici
(actum)
sono
comportamenti umani consapevoli, produttivi di effetti giuridici; sono
atti sia le azioni che le omissioni. Esempi di fatti giuridici sono la
nascita, la morte e il decorso del tempo. La nascita è il presupposto di
tipo naturalistico che determina il sorgere in capo al padre del potere
sul figlio (patria potestas), ma per sorgere il diritto occorre che il
figlio sia nato da iustum matrimonium e questo non è un fatto, ma un atto.
La morte è un fatto che attribuisce ai discendenti immediati del pater
defunto la condizione di sui iuris e la successione nel patrimonio
paterno; se il padre avesse fatto testamento, al fatto della morte si
aggiunge l’atto del testamento. Il decorso del tempo può determinare il
sorgere o l’estinguersi di diritti, capacità o poteri personali. Ad
esempio, il trascorrere di un anno era il tempo necessario perché il
marito o il paterfamilias di questi acquistasse la manus sulla nupta in
forza dell’usus; al compimento del 12° e 14° anno donne e uomini
raggiungevano la pubertà, acquistando la capacità di agire.
2. Il negozio giuridico
Gli atti giuridici vengono chiamati “negozi giuridici”, che sono al tempo
stesso manifestazione di volontà e atto di autonomia privata, con cui uno
o più soggetti pongono in essere un’attività che l’ordinamento riconosce
idonea a determinare la nascita, la modificazione o l’estinzione di
situazioni giuridiche; i negozi giuridici esistevano già nel mondo romano.
3. La giurisprudenza romana e i negozi
I giuristi romani non elaborarono mai la categoria generale del negozio,
in quanto esso ha un significato diverso e deriva da nec e otium, ossia
negazione dell’ozio; visto che l’ozio per i romani non era un vizio ma il
tempo da dedicare allo spirito e a se stessi, ne deriva che negozio
significa “attività” e dunque qualcosa cui una parte della popolazione era
costretta a dedicarsi per poter sopravvivere. In età classica, i romani
presero in considerazione gli atti che oggi definiamo con questo termine,
individuandoli come una specifica categoria all’interno degli atti
giuridici.
4. Classificazione dei negozi giuridici
Una prima distinzione viene effettuata in relazione
soggettiva, cioè in base al numero delle parti coinvolte:
alla
struttura
•
negozio unilaterale, con manifestazione
parte, ad esempio il testamento;
•
negozio bilaterale, con negozio concluso tra due parti, il cui
esempio tipico è il contratto (1321 c.c.);
•
negozio plurilaterale, quando si hanno più parti che manifestano la
loro volontà, ad esempio il contratto di società.
di
volontà
di
una
sola
Parte non va confusa con persona, e deve intendersi come centro di
interessi; può accadere che una parte sia formata di più persone
portatrici di interessi identici. In relazione alla loro funzione tipica
(o causa) i negozi si distinguono in:
•
mortis causa, finalizzati a produrre
dichiarante, come il testamento;
•
inter vivos, più numerosi, prevedono un risultato da realizzarsi
durante la vita della parte o delle parti.
effetti
Sempre in relazione alla funzione si distinguono in:
dopo
la
morte
del
•
negozi a titolo oneroso, sempre almeno bilaterali, si hanno quanto
una parte, per acquisire un diritto, un vantaggio o un beneficio
accetta un correlativo sacrificio, come ad esempio la compravendita
(emptio­venditio);
•
negozi a titolo gratuito, dove una parte consegue un vantaggio senza
alcun corrispettivo, esempio il comodato.
In relazione agli effetti avremo negozi:
•
a effetti reali, idonei a trasferire la proprietà e a costituire o
estinguere diritti reali minori (servitù e usufrutto); per questi
negozi la tutela è un’actio in rem;
•
a
effetti
obbligatori,
idonei
a
costituire
o
estinguere
obbligazioni; la tutela per questi negozi è un’actio in personam.
I negozi si distinguono anche in causali o astratti in relazione al
concetto di causa, oppure in formali e non formali in relazione alla
forma.
5. Presupposti del negozio
Perché un negozio sia valido sono necessari
capacità di agire e la legittimazione.
alcuni
presupposti,
la
a) La capacità di agire
La capacità di agire spettava agli adulti maschi sani di mente; i minori,
le donne, i pazzi e i prodighi dovevano essere assistiti.
b) La legittimazione
La legittimazione a compiere un negozio spettava ai titolari degli
interessi da esso regolati; nel diritto romano, di norma, non si poteva
dare ad altri il potere di concludere un negozio giuridico al proprio
posto, mentre si poteva conferire ad altri il potere di concludere negozi
per proprio conto.
La rappresentanza
Vi è la distinzione tra rappresentanza diretta e indiretta; nel primo
caso gli effetti di quanto compiuto dal rappresentante si producono
direttamente nella sfera giuridica del rappresentato; in quella indiretta,
il rappresentante diviene personalmente titolare di rapporti che, in forza
di un rapporto interno, sarà successivamente tenuto a trasferire al
rappresentato. Il diritto romano, anche se contrario, l’ammise in alcuni
casi. Accadeva quando, ad esempio, si preponeva un soggetto alla gestione
di tutto il patrimonio
(procurator omnium bonorum) o si concludeva con
lui un contratto di mandato (mandatum), che conferiva questo potere con
riferimento a singoli negozi. Altre figure di rappresentanti erano il
tutor impuberis, il curator prodigi o furiosi, il curator adulescentis
(minori di 25 anni). Vi era inoltre il potere di concludere negozi per
proprio conto da parte del paterfamilias che conferiva ad un servus o un
filius la gestione di attività commerciali, terrestri o marittime; pur non
avendo la capacità giuridica, queste persone avevano la capacità di agire
e dunque l’ordinamento riconosceva la validità dei negozi da loro
compiuti. Quanto agli effetti dei negozi compiuti la situazione era
diversa a seconda che si trattasse di acquisto di diritto o assunzione di
obblighi. Nel primo caso, la titolarità di questi spettava automaticamente
al loro avente potestà; l’acquisto si produceva indipendentemente dal
fatto che l’avente potestà volesse la conclusione del negozio, o ne fosse
a conoscenza; l’autorizzazione paterna (iussum) era richiesta solo per
l’acquisto di un’eredità o del possesso. Se dal negozio, invece, nascevano
obbligazioni, il paterfamilias non veniva da esse vincolato; secondo il
ius civile i sottoposti al pater non potevano peggiorare la sua situazione
patrimoniale; il pretore, invece, fece si che il pater ne rispondesse, con
la concessione delle adiecticiae qualitatis.
L’idoneità dell’oggetto
Perché il negozio sia valido, il bene o l’interesse oggetto del negozio
deve
avere
taluni
requisiti,
ossia
esistere
in
natura,
essere
suscettibile di ricevere il regolamento di interessi predisposto con il
negozio. Deve trattarsi, quindi, di un bene in commercio, essere cioè
suscettibile di rapporti di scambio ed economicamente valutabile; non
sono scambiabili le res divini iuris, beni destinati al culto, le res
comune omnium, beni che per loro natura sono di tutti, e le res publicae
che sono di proprietà dello stato e destinate all’uso pubblico. L’oggetto
deve essere infine determinato o determinabile mediante criteri che le
parti hanno convenzionalmente stabilito.
6. Elementi essenziali
Gli elementi essenziali, o costitutivi, si distinguono in generali o
speciali a seconda che si riferiscano ad ogni tipo di negozio o siano
necessari
solo
per
alcuni
negozi;
sono
elementi
essenziali
la
manifestazione di volontà, la causa e il contenuto.
a) La manifestazione o dichiarazione di volontà
Poiché il negozio giuridico viene definito come manifestazione di volontà
diretta a raggiungere determinati fini che l’ordinamento riconosce come
leciti e quindi tutela, ne deriva che elemento centrale è proprio la
volontà, che può essere espressa a parole ovvero in qualunque altro modo
idoneo a comunicarla. Per buona parte del periodo classico si tendeva a
ritenere che nei negozi formali la mancata corrispondenza tra volontà e
manifestazione non dovesse pregiudicare che aveva fatto affidamento
sull’esteriorità della manifestazione. Il problema della coerenza tra la
volontà e la manifestazione di questa cominciò a porsi con riferimento ai
negozi informali e in quelli del ius gentium. Secondo Celso, anche se il
pensiero di chi parla è più importante e più forte della sua voce,
tuttavia non si può ritenere che uno abbia detto qualcosa senza voce.
Paolo sosteneva che, colui che dice una cosa diversa da quella che vuole,
non dice né quel che la voce ha espresso, perché non lo vuole, né quel che
vuole, perché non lo ha detto. Vi era differenza tra manifestazione di
volontà e dichiarazione di volontà, in quanto la dichiarazione era solo
uno degli aspetti esteriori che la manifestazione di volontà poteva
assumere; quest’ultima poteva infatti consistere in un comportamento da
cui si deduceva chiaramente la volontà del soggetto. La manifestazione di
volontà può consistere anche in una dichiarazione (manifestazione
espressa). Anche il silenzio valeva come manifestazione di volontà, ma
solo eccezionalmente, come nel caso dell’alienante che di fronte alla
dichiarazione
dell’acquirente
di
essere
proprietario
taceva.
La
dichiarazione di volontà poteva essere recettizia o non recettizia; la
prima era quando la sua efficacia era subordinata al fatto che il
destinatario ne venisse a conoscenza, non lo era in caso contrario.
Interpretazione della volontà negoziale
Il problema della coerenza tra la volontà e la sua manifestazione cominciò
a porsi con riferimento ai negozi informali e a quelli del ius gentium;
una
volta
entrata
in
uso
per
questi
negozi,
l’indagine
sulla
corrispondenza tra volontà e manifestazione si estese anche ad altri
negozi. Prima non vi era spazio per la ricerca di una volontà negoziale
diversa da quella che la formula esprimeva; si aveva quindi esclusivamente
riguardo al valore tipico della dichiarazione e non alla volontà
soggettiva
eventualmente
diversa.
Veniva
in
genere
preferito
un
significato che salvasse l’asso rispetto a uno che ne avrebbe comportato
la nullità, soprattutto in materia testamentaria. Altri criteri di
interpretazione della volontà negoziale erano quelli che facevano
riferimento alla buona fede e all’equità. Vi erano poi criteri specifici
di
alcuni
negozi,
così
in
materia
di
manomissioni
prevaleva
l’interpretazione che comportava l’acquisto della libertà.
b) La causa
La causa di un negozio è la funziona sociale obiettiva, ovvero lo scopo
pratico tipico di quel negozio, l’obiettivo ultimo e determinante di esso;
essa è da tenere distinta dai motivi, che molto spesso non vengono
estrinsecati
dalle
parti
e
generalmente
sono
irrilevanti
per
l’ordinamento. L’unico caso in cui rilevano è l’ipotesi in cui questi
siano illeciti e comuni alle parti e in questo caso la causa è nulla e ciò
comporta la nullità dell’intero negozio (se compro un oggetto la causa è
lo scambiare bene con denaro). Nel diritto romano il sistema negoziale era
tipico,
cioè
l’ordinamento
ricollegava
effetti
giuridici
solo
a
determinati negozi specificamente previsti; l’individuazione di questi
negozi avveniva attraverso la specificazione della forma o della causa.
Con riferimento, appunto, alla causa i negozi sono causali o astratti;
nel primo caso la causa influisce sulla struttura stessa del negozio ed
essi sono destinati ad avere effetti rispondenti a una funzione sociale ed
economica riconosciuta dall’ordinamento; nel secondo caso la causa, pur
presente, non emerge dalla struttura del negozio e può variare secondo le
circostanze. Tipico caso di negozio astratto era la mancipatio, che
trasferiva la proprietà di un bene a prescindere dalla causa per cui ciò
avveniva.
c) Il contenuto
La particolarità del negozio giuridico, rispetto agli altri atti leciti,
sta nel fatto che esso contiene un regolamento di interessi che
l’ordinamento riconosce come valido e a cui pertanto collega gli effetti
voluti dalle parti; questo regolamento di interessi è il contenuto del
negozio giuridico e si concretizza nelle prestazioni cui le parti si
obbligano. Per oggetto si intende il bene materiale di cui attraverso il
negozio si dispone o più in generale gli interessi che con il negozio
giuridico vengono regolati.
7. Elementi essenziali speciali
a) La forma
In alcuni negozi (quelli formali) la manifestazione di volontà deve
rivestire una determinata forma; quando è prescritto l’uso di una forma
determinata perché il negozio sia efficace, si parla di forma costitutiva
o ad substantiam; nei casi in cui la forma è prescritta solo per svolgere
una funzione probatoria, si parla di forma ad probationem. Nel diritto
romani i negozi erano in gran parte formali; l’antico ius civile conosceva
solo forme costitutive tipiche, costitutive perché necessarie per
l’esistenza e la validità dell’atto, tipiche perché a determinati tipi di
negozi corrispondeva una determinata forma a quelli soli applicabile.
Accanto alle forme tipiche si diffonde una forma generica, suscettibile di
essere applicata a diversi negozi giuridici, la scrittura; questa forma,
tranne nel caso del nomen transcripticium, non ha carattere costitutivo ma
meramente probatorio.
8. Elementi accidentali
Con l’espressione elementi accidentali del negozio giuridico si indicano
delle clausole che non sono essenziali alla sua esistenza ma che, se
vengono inserite per decisione delle parti, hanno influenza sulla sua
efficacia. Queste clausole sono condizione, temine e modo.
a) La condizione (condicio)
La condizione è una clausola negoziale con la quale le parti subordinano
l’efficacia del negozio giuridico al verificarsi di un evento futuro e
obiettivamente incerto; se dipende dal verificarsi di un evento la
condizione è detta positiva, se invece dipende dal suo non verificarsi è
detta negativa. Quando dall’evento futuro e incerto discende il sorgere
degli effetti del negozio la condizione è detta sospensiva, mentre quando
da esso discende il cessare di questi effetti la condizione è risolutiva.
I romani conoscevano bene quelle sospensive. Nel diritto romano la
condizione non poteva essere imposta a tutti i negozi; a causa del
formalismo imposto alla dichiarazione o manifestazione della volontà, essa
non poteva essere apposta ad alcuni negozi dello ius civile, detti actus
legitimi. Tra questi negozi vi è la mancipatio, la in iure cessio, la
confarreatio, la acceptilatio e la expensilatio. L’eventuale inserzione di
una condizione in questo tipo di negozi avrebbe comportato la loro
nullità. Il motivo per cui la condizione non poteva essere apposta agli
actus legitimi è duplice e dipende dal tipo di atto; alcuni di essi, ad
esempio la hereditatis actio, avevano effetti immediati; altri, quali la
mancipatio
e
la
in
iure
cessio,
richiedevano
la
dichiarazione
dell’esistenza attuale di una certa circostanza.
Le condiciones iuris
A volte il verificarsi degli effetti di un negozio era subordinato a un
evento futuro e incerto previsto dal diritto; ad esempio l’acquisto di un
legato era subordinato all’acquisto dell’eredità da parte degli eredi
testamentari, e la costituzione di dote era subordinata al matrimonio; in
questi casi si parlava di condicio iuris.
Caratteristiche degli eventi previsti dalla condizione
Perché la condizione fosse validamente apposta essa doveva avere alcune
caratteristiche; in primis doveva essere obiettivamente incerta, ossia non
poteva e non può essere definita condizione la clausola con cui gli
effetti negoziali vengono subordinati a una circostanza di fatto presente
o passata, ma ignorata da chi compie il negozio. Questo non significava
però che la condizione dovesse dipendere solo dal caso; accanto alle
condizioni che dipendevano solo da questo (dette causali) erano ammesse
anche quelle che dipendevano parzialmente dalla volontà delle parti
(chiamate dall’era postclassica ad oggi, potestative). Non era ammessa
però la condizione meramente potestativa, dipendente dalla mera volontà
della parte obbligata, pena la nullità del negozio. Le condizioni potevano
infine dipendere sia dal caso che dalla volontà delle parti (condizioni
miste). La condizione, poi, doveva essere realizzabile, l’evento non
doveva essere impossibile; la mancanza di una seria volontà negoziale
rendeva il negozio nullo; secondo i sabiniani, la condizione impossibile
apposta a un testamento si considerava non apposta e questa regola venne
poi estesa a tutti i negozi mortis causa. Infine, la condizione doveva
essere lecita e non doveva essere contraria al buon costume (contra bonos
mores); l’apposizione di questo tipo di condizioni rendeva nulli i negozi
inter vivos e veniva considerata non apposta nei negozi mortis causa.
Le condizioni sospensive
Quando un negozio è sottoposto a una condizione sospensiva esso produce i
suoi effetti solo se e nel momento in cui l’evento previsto come
condizione si verifica (condizione positiva) o non si verifica (condizione
negativa). Quando non si sapeva se l’evento si sarebbe verificato i romani
dicevano che condicio pendet (la condizione pende), quando l’evento si
verificava allora condicio exstat (la condizione esiste) e quando, infine,
vi era la certezza che l’evento non si sarebbe verificato si diceva
condicio deficit (la condizione manca). La parte non aveva un diritto, ma
un’aspettativa di acquisto del diritto, una spes (speranza). Un problema
particolare sorse con riferimento alle condizioni negative, di regola
apposte ai negozi mortis causa, e in particolare ai legati. Tra i secoli
II­I a.C., si ammise che il legato avesse subito effetti, se il legatario
si impegnava con stipulatio a restituire la cosa ricevuta in legato
qualora si fosse verificato l’evento previsto nella condizione; essendo
stata suggerita dal giurista Mucio Scevola, questa stipulatio venne
chiamata cautio Muciana. Quando la condizione si realizzava, il negozio
produceva i suoi effetti, di regola a partire da quel momento; in altre
parole l’efficacia del negozio non era retroattiva.
Gli espedienti per produrre gli effetti della condizione risolutiva
Il diritto romano non conosceva a pieno la condizione risolutiva, al cui
verificarsi cessavano gli effetti del negozio. I giuristi classici
elaborarono un sistema per raggiungere indirettamente gli stessi effetti;
essi configurarono il negozio come puro, ma accompagnato da un patto
risolutivo sottoposto a condizione sospensiva. In pendenza della
condizione sospensiva questo negozio produceva i suoi effetti, ma
all’avverarsi di questa si producevano gli effetti del patto risolutivo.
Caso tipico è la compravendita con lex commissoria, quando il venditore si
riserva di recedere dal contratto se il compratore non gli paga il prezzo.
Dies cedens e dies veniens
Escogitare un rimedio che agiva di fatto come una condizione risolutiva,
fu quello dei legati sottoposti alla condicio iuris dell’acquisto
dell’eredità da parte degli eredi testamentari. Il legato veniva
acquistato al momento dell’apertura della successione (dies legati cedit);
i diritti che ne nascevano tuttavia non potevano essere esercitati sino al
momento dell’accettazione (dies legati venit); la mancata accettazione
dell’eredità diventava una condizione risolutiva.
b) Il termine
Il termine è un evento futuro ma certo, dal quale, si fa decorrere
l’inizio o la fine degli effetti del negozio; si distingue perciò un
termine sospensivo o meglio iniziale dal quale si fanno decorrere gli
effetti del negozio da un termine risolutivo o meglio finale dal quale si
fanno cessare gli effetti del negozio. Il termine può essere fissato in
modo del tutto certo e si parlerà di dies certuna an, certus quando (è
certo sia che l’evento si realizzerà sia il momento in cui si realizzerà);
al contrario può essere fissato con riferimento ad un evento certo e
futuro ma non cronologicamente precisabile e si parla quindi di dies
certus an, incertus quando (è certo che l’evento si verificherà, ma non si
sa quando). Per quanto riguarda la disciplina del negozio in pendenza dei
termini, bisogna tener presente che nel caso del dies, è certo che
l’evento si verifichi; di conseguenza anche prima della scadenza del
termine il rapporto è trasmissibile agli eredi sia dal lato attivo che da
quello passivo.
c) Il modo (modus)
È una clausola, chiamata modus solo in età giustinianea, apponibile solo
ai negozi di liberalità sia inter vivos che mortis causa; essa consiste in
un peso o in un onere che il disponente pone a carico del beneficiario,
quest’ultimo, tenuto a destinare tutto o parte del lascito a uno scopo
particolare, quale per esempio erigere un monumento, o festeggiare una
determinata ricorrenza, ma per il diritto classico era solo un obbligo
morale e non giuridico. Si pose il problema di come costringere l’onerato
ad adempiere; la giurisprudenza escogitò vari mezzi, di cui uno dei più
diffusi consisteva nell’imporre al beneficiario del negozio di impegnarsi
ad adempiere il modus con una cautio. Per rendere vincolante il modus, si
imponeva al donatario di pagare una somma di denaro a titolo di pena se
l’adempimento non fosse portato a compimento.
9. Invalidità, inesistenza e inefficacia del negozio
giuridico. Principi generali
E’ inefficace il negozio giuridico che per qualsiasi motivo non produce i
suoi effetti tipici; l’inefficacia può essere momentanea, come nel caso di
negozio sottoposto a termine iniziale, o definitiva, come nel caso di
negozio nullo. Inesistente invece è l’atto negoziale che non può neppure
essere considerato un negozio in quanto privo dei requisiti minimi
necessari per rientrare in questa categoria. Invalido è il negozio che
presenta dei vizi; dall’invalidità discendono due categorie, la nullità e
l’annullabilità; la prima è un’invalidità più grave dovuta alla mancanza
di un elemento costitutivo del negozio ed è considerato incapace di
produrre i suoi effetti tipici e può produrre solo effetti di altro
ordine. L’annullabilità è un’invalidità meno grave e si verifica quando
uno degli elementi del negozio è viziato; resta comunque idoneo a produrre
i suoi effetti, ma le parti possono intervenire o per impedire la loro
realizzazione o al contrario per sanare i vizi e convalidare il negozio.
Nel diritto romano il ius civile conosceva solo due possibilità; un
negozio o era perfetto, in quanto dotato di tutti gli elementi essenziali,
o era nullo perché privo di un elemento essenziale o perché contrario ad
una norma dell’ordinamento. Gli eventuali vizi rilevavano nell’ambito del
ius honorarium, infatti il pretore poteva paralizzare gli effetti del
negozio attraverso istituti quali l’exceptio o la restitutio in integrum.
La
nullità
corrisponderebbe
all’invalidità
iure
civili,
mentre
l’annullabilità all’invalidità iure praetorio.
10.
Anomalie della volontà
Può accadere che manchi completamente una volontà negoziale giuridicamente
apprezzabile, come nel caso di negozio posto in essere dall’impubere o dal
furioso, ed in questi casi l’ordinamento romano riteneva nullo il negozio.
Può accadere inoltre che la volontà negoziale sia viziata nel procedimento
di formazione; è il caso dei vizi della volontà che iure civili non
influivano sulla validità del negozio, ma rilevavano iure honorario.
Infine, vi è il caso dell’accordo simulatorio nel quale vi è contrasto tra
la dichiarazione e l’effettiva volontà dei dichiaranti; si ha un negozio
simulato quando due parti di comune accordo, dichiarano di porre in essere
un negozio, ma in realtà vogliono che si realizzi un negozio diverso da
quello dichiarato. Si parla di negozio dissimulato, invece, quando è
effettivamente voluto e risultante dall’accordo fra le parti. I giuristi
romani non giunsero a formulare una teoria generale della simulazione, ma
negarono valore al negozio simulato; tuttavia, si posero caso per caso il
problema del negozio dissimulato, analizzando se in esso sussistessero gli
elementi essenziali alla sua validità; ad esempio un negozio che
dissimulava una donazione fra coniugi era nullo per illiceità della causa.
11.
Cause di invalidità
Le cause di invalidità possono riguardare sia i presupposti del negozio
giuridico sia gli elementi costitutivi e possono comportare sia la nullità
sia l’annullabilità del negozio; qualora mancasse uno dei presupposti
(capacità di agire o legittimazione ad agire) il negozio era nullo iure
civili; la nullità si verifica per mancanza assoluta di volontà negoziale.
Se la volontà era stata viziata da inganno o violenza, gli effetti
negoziali si realizzavano per il ius civile, ma si poteva chiedere al
pretore l’annullamento del negozio.
12.
Vizi della volontà
I vizi della volontà sono errore, violenza e dolo e influiscono sul
processo di formazione della volontà o sulla dichiarazione.
a) L’errore
Si tratta di una deviazione dal vero inconsapevole e spontanea che può
dipendere da svista, incomprensione o ignoranza su una circostanza
inerente il negozio. I giuristi romani si occuparono dell’errore
negoziale; il problema principale consisteva nello stabilire come tutelare
da un canto la volontà individuale di colui che aveva posto in essere il
negozio e dall’altro il valore tipico ed oggettivo della dichiarazione;
l’errore era considerato rilevante e conseguentemente il negozio
inefficace quando l’errore cadeva sul tipo di negozio che le parti
intendevano compiere nonché in caso di negozi in cui l’indicazione della
persona aveva rilevanza particolare. Era considerato rilevante l’errore
che riguardava l’oggetto del negozio, sia l’identità fisica del ben (error
in corpore) sia le sue qualità essenziali (error in substantia); non era
considerato
rilevante
l’errore
che
cadeva
sull’esistenza
o
sull’interpretazione di norme giuridiche (error iuris), tranne che si
trattasse di persone gravemente ignoranti, donne, minori di 25 anni e i
militari.
b) La violenza (METUS)
Il timore generato dall’altrui violenza era definito metus; nel diritto
romano la violenza fisica (vis absoluta) probabilmente comportava la
nullità del negozio mancando in questi casi non solo la volontà ma anche
una sua vera manifestazione. Molto numerosi i casi di ipotesi in merito
alla violenza morale (metus), cui si poteva porre rimedio ricorrendo ai
mezzi di tutela introdotti dal pretore, quali l’actio metus, la integrum
restitutio e l’exceptio metus. Se il negozio era stato eseguito, il
contraente vittima della violenza poteva agire intentando l’actio metus,
che comportava una pena pari al quadruplo del pregiudizio arrecato se
intentato entro l’anno oppure pari al simplum se intentata dopo l’anno;
l’actio metus era azione arbitraria e poteva essere esperita sia contro
l’autore della violenza sia contro terzi che avessero tratto vantaggio
dalla violenza. Nel caso in cui il negozio non fosse stato ancora
eseguito, colui che veniva convenuto per il suo adempimento, qualora
avesse concluso un negozio per effetto di violenza, poteva opporre una
exceptio metus all’azione che gli veniva intentata. Si poteva far ricorso
solo qualora la minaccia fosse grave, seria e ingiusta; se il male
minacciato era carente di questi requisisti, la violenza non veniva
considerata rilevante.
c) Il dolo
Il dolo in ambito negoziale indica gli artifici e i raggiri posti in
essere nel corso delle trattative per indurre una parte in errore così che
questa compia un negozio per le svantaggioso; dal dolo negoziale, dolus
malus, bisogna distinguere l’ipotesi in cui siano state utilizzate le
usuali astuzie tollerate dal costume, considerate dolus bonus. Dal punto
di vista del ius civile, in caso di dolo, il negozio era valido ed
efficace, e la repressione era affidata al pretore. Per tutelare la
vittima del raggiro furono introdotte un’actio de dolo e un’exceptio
dolis; la prima poteva essere esperita quando il negozio era già stato
eseguito, la seconda era opponibile dalla vittima dei raggiri citata in
giudizio per l’adempimento. L’actio de dolo era pena e prevedeva a carico
dell’autore del dolo una condanna in simplum commisurata al danno dubito
dall’attore; essa comportava l’infamia del condannato, quest’ultima,
concessa solo in mancanza di altri mezzi di tutela.
8.
Difesa ed esercizio dei diritti
A. Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.
1. Il processo, nozioni generali
Perché un soggetto possa soddisfare gli interessi che l’ordinamento gli
riconosce è necessaria la cooperazione degli altri consociati. È
necessario cioè, che questi riconoscano la sua situazione di vantaggio, e
che si comportino di conseguenza. La comunità politica, sin dal momento
della sua nascita, si assume il compito di accertare l’effettiva
titolarità dei diritti e la possibilità che essi vengano esercitati dal
loro titolare. L’insieme dei mezzi organizzati a questo scopo viene detto
processo; se lo scopo del processo è quello di superare l’incertezza sulla
esistenza o la titolarità di un diritto esso viene definito processo di
cognizione; se l’obiettivo è quello di superare la resistenza opposta
all’attuazione di un diritto il processo è detto di esecuzione.
2. Processo privato e processo pubblico
Nel diritto romano, il tipo di processo privato volto a regolare interessi
privati, l’iniziativa spettava ai titolari degli interessi; colui che
prendeva questa iniziativa veniva chiamato actor (attore), colui nei cui
confronti
essa
veniva
presa
era
chiamato
reus
(convenuto).
In
contrapposizione al processo privato, il processo rivolto a difendere
interessi di tutta la collettività veniva chiamato pubblico e a esso si
faceva
ricorso
di
fronte
a
comportamenti,
detti
crimina,
che
rappresentavano un pericolo per la sopravvivenza stessa della vita
associata. Lo scopo del processo pubblico era quello di infliggere una
poena a chi aveva violato una norma giuridica il cui rispetto era
considerato necessario per il bene comune; in origine la pena era la
morte. L’impulso alla celebrazione di un processo pubblico doveva
provenire da un organo dello Stato. Nel nostro diritto odierno il processo
privato corrisponde all’incirca al processo civile, e quello pubblico al
processo penale; i romani ritenevano che alcuni illeciti penali (delicta,
delitti), in quanto lesivi di interessi esclusivamente privati, fossero
perseguibili a iniziativa di parte nelle forme del processo privato, la
cui pena consisteva sempre in una somma di danaro per l’attore.
3. Le origini del processo: la regolamentazione
precittadina dell’autodifesa
Prima della nascita della civitas, la convivenza sociale era regolata da
due sistemi di norme. Le prime riguardavano i rapporti interni ai diversi
gruppi di tipo familiare e prevedevano la soggezione assoluta dei
componenti del gruppo all’autorità del suo capo, il paterfamilias; qualora
uno dei componenti del gruppo non rispettasse le regole interne, il
paterfamilias esercitava nei suoi confronti un potere disciplinare che
comprendeva anche il ius vitae ac necis. Il secondo sistema di regole
riguardava i rapporti tra appartenenti a gruppi diversi e prevedeva che
chi riteneva di avere subito un torto da persona appartenente ad altro
gruppo ricorresse alla forza privata per farsi vendetta; chi si riteneva
offeso era tenuto socialmente a reagire e se non lo avesse fatto, la
considerazione di cui egli godeva sarebbe diminuita, così come quella del
gruppo familiare cui apparteneva. Unica alternativa alla vendetta era una
compensazione in beni o in danaro che consentiva all’offeso di rinunciare
onorevolmente a usare la forza. L’uso della forza in funzione vendicativa
venne sottoposto a un controllo sociale, teso a evitare o comunque a
minimizzarne gli effetti negativi; una di queste regole fu la c.d. legge
del taglione, che stabiliva che colui che ricorreva alla forza doveva
infliggere all’offensore lo stesso male che questi gli aveva inflitto;
nelle XII Tavole si legge “si membrum rupsit ni cum eo pacit talio esto”
(se è stato rotto un membro, e le parti non siano addivenute a un accordo,
si faccia luogo al taglione); da questa regola si evince che vietava la
vendetta quando tra le parti si era raggiunto un accordo, con una
compensazione, dapprima in beni e poi in denaro. Altre volte la
collettività imponeva limiti di tipo diverso, come nel caso del fur
manifestus, dove viene precisato che il ladro poteva essere ucciso solo se
era di notte o se si difendeva con le armi. Inoltre chi usava la forza
doveva farlo seguendo un rituale ben preciso, pronunziando parole e
compiendo gesti prestabiliti, che non potevano in alcun modo essere
modificati.
4. L’intervento della civitas
La civitas intervenne sia sulle norme che regolavano i rapporti interni ai
gruppi familiari sia su quelle interfamiliari e lo fece in modi diversi. I
poteri dei patresfamilias sui sottoposti rimasero sostanzialmente
immutati, ma vi furono alcune limitazioni, tra cui il divieto del padre di
esporre i figli maschi e le primogenite oppure quello che limitò le
ipotesi in cui il marito poteva uccidere impunemente la moglie. Diversi e
assai più significativi furono gli interventi in materia di rapporti
inferfamiliari; la civitas individuò i comportamenti che autorizzavano
l’uso della forza e non come prima che la valutazione dei comportamenti
lesivi di un interesse dipendeva esclusivamente da chi li subiva; inoltre
la civitas nel ribadire la necessitò delle formule verbali e dei gesti già
in uso stabilì che queste formalità venissero compiute dinanzi al
magistrato cittadino (rex) e presero il nome di legis actiones.
a) La teoria arbitrale
Secondo una teoria, le origini del processo andrebbero ricercate nella
pratica di ricorrere spontaneamente a un arbitro imparziale, accettando di
sottomettersi alla sua decisione; con il passare del tempo il ricorso
all’arbitrato privato sarebbe stato sempre più favorito e reso
obbligatorio; contro questa teoria esistono numeri argomenti, tra i quali,
la considerazione che proprio nell’epoca più antica, accanto al giudice
unico, il magistrato (cioè il rex) esistevano dei collegi giudicanti
stabili (i centumviri e i decemviri), che difficilmente potevano trarre le
loro origini e i loro poteri da un’investitura privata.
5. Prime forme processuali: LE LEGIS ACTIONES
Il diritto romano conobbe tre formule di processo, il più antico in uso
sino al II secolo a.C. era quello detto per legis actiones, il secondo,
nato nel tribunale del magistrato giusdicente era quello per formulas;
infine il terzo nato in età classica ma affermatosi in età imperiale sino
a sostituire quello formulare fu la cognitio extra ordinem. Legis actio
significa “modo di agire secondo la legge”; anche se le origini sono
certamente consuetudinarie la loro evoluzione fu infatti in gran parte
risultato di interventi autoritativi, a partire dalle XII Tavole. Le legis
actiones erano esperibili solo dai patresfamilias e solo per la tutela di
rapporti previsti dal ius civile, ed erano cinque e tipiche; ciascuna di
esse aveva una sua struttura formale e serviva a tutelare una determinata
situazione.
a) Legis actiones con funzione di cognizione
Le legis actiones con funzione di cognizione era tre, la legis actio
sacramento nelle due forme in rem e in personam, la legis actio per
iudicis arbitrive postulationem e la legis actio per condictionem.
La legis actio sacramento ACTIO GENERALIS
Fu la forma più antica di processo di cognizione e a seconda del diritto
che con essa s’intendeva far valere, poteva essere esperita nella forma in
rem o in quella in personam.
La legis actio sacramento in rem (REI VINDICATIO)
Poteva essere utilizzata per far valere il diritto di proprietà nonché
potestà o signorie relative a rapporti di tipo familiare o ereditario;
essa serviva anche ad accertare lo stato di una persona, quando qualcuno
sosteneva che si trattava di persona libera e altri invece sosteneva che
era di stato servile e di sua proprietà; venne poi usata anche a tutela
delle servitù prediali e dell’usufrutto. La procedura aveva inizio dopo
che l’attore aveva portato in ius, davanti al rex, la persona o la cosa su
cui avanzava una pretesa; in un primo momento, se questa persona o questa
cosa si trovavano in possesso di altri, l’attore se ne impossessava; se
nessuno contestava la pretesa dell’attore, il magistrato lo autorizzava a
portare con sé la persona o la cosa. In un momento successivo, si stabilì
che ambedue i contendenti dovessero essere presenti; colui che prendeva
l’iniziativa di lege agere, doveva vocare in ius (chiamare in giudizio)
colui nei cui confronti voleva agire; l’atto era chiamato ius vocatio
(chiamata in giudizio) ed era regolato dalle XII Tavole, che imponevano al
vocatus l’obbligo di seguire in ius l’attore e in caso di rifiuto,
l’attore, dopo aver chiamato dei testimoni, poteva trascinarlo con la
forza dinanzi al magistrato. Il vocatus poteva evitare di seguire
immediatamente l’attore presentando un vindex, che garantiva che egli si
sarebbe presentato in un giorno stabilito, e in mancanza ne subiva
personalmente le conseguenze. Se ad esempio si contestava la proprietà di
uno schiavo, l’attore davanti al magistrato (rex e poi il pretore),
toccando con una bacchetta, vindicta, lo schiavo dichiarando di esserne il
proprietario e pronunciando una frase solenne; se nessuno contestava
questa dichiarazione il magistrato autorizzava l’attore a portarsi via lo
schiavo, altrimenti il convenuto avrebbe fatto una controvindicatio,
affermando con analoghi gesti e parole che lo schiavo era suo; a questo
punto le parti simulavano un inizio di lotta interrotta dall’ordine del
magistrato e dopo essersi chieste e date spiegazioni rituali dei loro
comportamenti, le parti si sfidavano a prestare un sacramentum, un solenne
giuramento in nome della divinità; in principio il sacramentum era un
giudizio divino e per paura di questo giudizio chi ammetteva il falso,
desisteva; con il tempo però il carattere religioso si perse e le parti
depositavano un certo numero di animali, sostituiti poi dalla lex Aternia
Tarpeia con una somma di denaro di 50 o 500 assi. Nel momento in cui il
sacramentum veniva prestato, il magistrato assegnava il possesso
interinale della cosa a colui che sembrava avere ragioni più convincenti e
imponeva a costui di presentare dei garanti (praedes litis et
vindiciarum); infine il magistrato decideva la lite stabilendo quale tra i
due sacramenta fosse iustum e quale iniustum; la decisione era indiretta
in quanto non riguardava direttamente la situazione giuridica controversa,
ma la verità del giuramento; colui che aveva giurato il vero riprendeva il
suo denaro, l’altro lo perdeva e veniva usato per scopi religiosi; in età
repubblicana la somma del perdente veniva versata all’erario. Se il
sacramentum di chi aveva il possesso interinale della cosa risultava
iniustum e se la cosa non veniva consegnata al vincitore, questi, dopo
aver agito contro i praedes litis et vindiciarum per la sua valutazione,
procedeva nei loro confronti all’esecuzione nella forma della manus
iniectio. In età repubblicana, il giudizio sul sacramentum venne affidato
a persona diversa dal magistrato, uno iudex; il processo si svolgeva in
due fasi, la prima detta in iure davanti al magistrato, la seconda, apud
iudicem davanti al giudice privato. La fase in iure, dopo l’indicazione
della persona o delle persone incaricate di giudicare, terminava con un
atto chiamato litis contestatio; nel processo per legis actiones esso
consisteva nell’invito fatto dalle parti ai presenti di essere testimoni
di quello cui avevano assistito; la formula rituale era testes estote
(siate testimoni). Il giudizio sulla lite aveva valore solo tra le parti e
quindi una terza persona poteva esperire nei confronti del vincitore una
nuova legis actio sacramento, nella stessa forma.
La legis actio sacramento in personam
In questa legis actio, a differenza che in quella in rem, colui che
esperiva l’azione avanzava una pretesa in danaro nei confronti della
controparte; l’actor affermava la sua ragione, pronunziando una formula
solenne “affermo che tu mi devi dare”, seguita dall’indicazione di una
somma di danaro; questa dichiarazione veniva chiamata intentio ed in
principio la somma richiesta era la poena prevista per un delitto, mentre
in seguito fu il debito nato da un accordo; questa legis actio veniva
usata per tutti i debiti per cui non era prevista un’altra specifica legis
actio. Se il convenuto riconosceva il debito, la sua confessione
(confessio in iure) era equiparata a un iudicatum, una pronunzia del
giudice; se invece negava, l’attore lo sfidava al sacramentum; se infine
non riconosceva, ma neppure negava, rimanendo in silenzio, l’attore
continuava
il
rito
pronunciando
un’intimazione
e
successivamente
esercitava la manus iniectio. Se il sacramentum veniva dichiarato iustum,
il magistrato autorizzava la ductio del convenuto, che veniva portato
nella prigione domestica dell’attore; se necessario, alla ductio seguiva
un nuovo processo per stabilire l’ammontare del debito, e quindi
l’esecuzione nella forma della manus iniectio.
La legis actio per iudicis arbitrive postulationem
Questa legis actio nacque per far valere alcune ragioni tassativamente
previste; per le XII Tavole, veniva utilizzata per la tutela dei crediti
nascenti da sponsio e per celebrare i giudizi relativi alla divisione
d’eredità fra coeredi (actio familiae erciscundae); poi una lex Licinia
stabilì che l’applicabilità della legis actio per iudicis arbitrive
postulationem ai giudizi divisori fra condomini (actio communi dividundo).
Il rito, riferendoci al credito da sponsio, iniziava con l’attore che
affermava che il convenuto doveva dargli una somma di danaro in base alla
sponsio; se il convenuto negava, l’attore, sempre con formule rituali,
chiedeva al pretore di nominare un giudice; nei giudizi divisori, anziché
un giudice, le parti chiedevano di nominare un arbitro (arbiter), cioè un
tecnico in grado di operare la divisione; infine la pronunzia della
sentenza spettava al giudice o all’arbitro. La legis actio per iudicis
arbitrive postulationem si distingueva dalla legis actio sacramento per
una maggior snellezza, per la sua totale laicità e per la mancanza del
rischio economico connesso al sacramentum.
La legis actio per condictionem
Questa legis actio fu introdotta nella seconda metà del secolo III a.C. da
una lex Silia; essa fu istituita per tutelare i crediti di somme
determinate di danaro (certa pecunia), e di lì a poco fu estesa da una lex
Calpurnia ai crediti di cose determinate (certa res). Il vantaggio offerto
dalla nuova legis actio era in primo luogo quello di non costringere a
prestare il sacramentum, ed inoltre la legis actio per condictionem non
prevedeva che l’attore facesse riferimento al fatto giuridico da cui il
suo credito era sorto, e questo eliminava la possibilità di errori. La
procedura della legis actio per condictionem iniziava con l’attore che
affermava il suo credito e chiedeva al convenuto se lo riconosceva o
negava; se il convenuto ammetteva , la sua confessio in iure aveva
l’effetto di una condanna, mentre in caso di negazione, l’attore gli
rivolgeva un solenne invito in questi termini: “poiché neghi ti invito a
presentarti dinanzi al magistrato entro trenta giorni per ricevere un
giudice”; l’invito era detto condictio e successivamente la causa veniva
decisa dal giudice o da un arbitro.
b) Le legis actiones esecutive
Le legis actiones esecutive erano due, la manus iniectio (sulla persona) e
la pignoris capio (sui beni).
La legis actio per manus iniectionem
Descritta dalle XII Tavole e da Gaio, essa era consentita nei confronti di
colui che era stato condannato al termine di una legis actiones di
cognizione (iudicatus) e nei confronti di colui che nel corso di una di
queste legis actiones non aveva contrastato la pretesa avversaria
(confessus); a costoro si aggiunsero poi coloro nei cui confronti la legis
actio per manus iniectionem era esperita pro iudicato, ossia nei confronti
di coloro che per legge erano equiparati a un iudicatus o a un confessus.
Il iudicatus aveva a sua disposizione trenta giorni detti giusti per
adempiere l’obbligo impostogli dalla sentenza; scaduto quel termine,
l’attore poteva trascinarlo in ius, e qui imponeva su di lui le mani
pronunziando una frase solenne. Il convenuto non poteva allontanare da sé
le mani e difendersi personalmente con la legis actio, ma poteva farlo in
suo favore un vindex, che però prendeva il suo posto; in mancanza di
questo intervento il magistrato autorizzava l’attore a condurre con sé il
convenuto, che veniva rinchiuso nel carcere domestico, ove veniva tenuto
in catene. Nel corso di 60 giorni, il debitore veniva condotto davanti al
pretore nel comitium, dove per tre mercati successivi veniva esposto, con
l’indicazione della somma da lui dovuta; se qualcuno pagava questa somma
egli diventava suo schiavo, ma parenti e amici potevano riscattarlo
restituendogli la libertà; se dopo tre mercati nessuno lo aveva riscattato
o comprato, il debitore poteva essere venduto trans Tiberim, oppure poteva
essere ucciso; se esistevano più creditore, questi potevano smembrare il
cadavere e spartirsene i pezzi.
La pignoris capio (o legis actio per pignoris capionem)
A differenza della manus iniectio, questa esecuzione aveva luogo sui beni
del debitore. Essa poteva essere compiuta ovunque, senza bisogno della
presenza del magistrato; la pignoris capio era una legis actio, in quanto
prevedeva la pronunzia di parole solenni, previste dalla legge; ad essa si
faceva ricorso in casi stabiliti, previsti dalla legge o dai mores;
secondo questi ultimi potevano farvi ricorso i soldati che non avevano
ricevuto il pagamento dell’aes militare, vale a dire del loro stipendio, e
i cavalieri che volevano ottenere il danaro necessario per acquistare il
cavallo (aes equestre) e l’orzo che serviva ad alimentarlo (aes
hordiarum); potevano far ricorso alla pignoris capio i publicani nei
confronti dei debitori d’imposta. Le situazioni tutelate avevano un
fondamento amministrativo e sacrale e non un vincolo di diritto privato.
La pignoris capio consentiva di impossessarsi di beni di un’altra persona,
per indurre quest’ultima a eseguire una prestazione il cui adempimento non
poteva essere richiesto giudizialmente; se questa prestazione non veniva
eseguita, allo scadere del termine per l’usucapione chi aveva fatto la
pignoris capio acquistata la proprietà della cosa.
B.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo
III d.C.
1. Crisi delle legis actiones
Le ragioni che determinarono la crisi del processo per legis actiones
furono più d’una; sicuramente l’eccessivo formalismo, in quanto sbagliare
una parola corrispondeva a perdere la lite; queste actiones potevano
essere esperite solo a tutela dei rapporti nascenti dal ius civile e di
conseguenza i nuovi rapporti basati sulla bona fides, sorti in seguito
all’accrescersi del commercio restavano esclusi dal loro campo di
applicazione; inoltre, essendo le legis actiones riservati ai soli
cittadini romani, non erano applicabili ai rapporti sempre più frequenti
con stranieri; il processo che superò questi problemi fu quello formulare.
2. Caratteri e linee del processo formulare
Emerge chiaramente che il processo per legis actiones e quello per
formulas si differenziavano in primis per la diversità del potere sul
quale si fondavano, in quanto mentre le legis actiones trovavano
fondamento nei mores o nella legge, il processo formulare si fondava
sull’imperium magistratuale. Altra importante novità era la possibilità di
litigare per concepta verba; rispetto alle formule delle legis actiones,
qui esse erano flessibili e venivano composte di volta in volta,
utilizzando una serie di schemi ampiamente modificabili e adattabili alle
diverse situazioni, in modo da riflettere le posizioni delle parti; grazie
a queste caratteristiche la formula consentì di tutelare nuove situazioni
ed il pretore, insieme alle parti, componeva una formula adatta al caso,
che veniva poi utilizzata in casi analoghi. Con il passare del tempo si
venne dunque un repertorio di formule, che il pretore rendeva pubbliche
all’inizio del suo anno di carica, inserendole nell’editto; egli
prometteva che, se si fossero presentate determinate situazioni degne di
tutele, avrebbe concesso di agire in giudizio servendosi di una
determinata formula, di cui pubblicava il testo; se nel corso dell’anno si
presentavano situazioni nuove, il pretore poteva concedere formule non
previste dall’editto, dette actiones ex decreto o ex edicto, o anche
decretales. Altra caratteristica fondamentale del processo formula è la
pecuniarietà della condanna, anche nel caso in cui li processo vertesse
sull’esistenza di un diritto reale; in caso di rei vindicatio (rivendica
della proprietà), il convenuto non veniva condannato alla restituzione,
bensì al pagamento del valore della cosa; questa particolarità, che
impediva al proprietario di soddisfare il suo interesse a riavere la cosa,
è legata a diverse circostanze; la prima è che il praetor peregrinus non
aveva né il potere di ordinare la restituzione di un bene, né quello di
attribuirne la proprietà, ma poteva cercare di indurre chi la deteneva
illegittimamente a restituirla, imponendogli, se non lo avesse fatto, il
pagamento di una forte somma di danaro, derivante da una litis aestimatio.
I rapporti dedotti in giudizio a seguito di sponsio avevano un contenuto
patrimoniale.
3. La formula e le sue parti
La formula determinava il compito e i poteri del giudice; si passò da una
situazione in cui le formule venivano predisposte caso per caso a una
situazione in cui i magistrati avevano a loro disposizione un certo numero
di formule, che si tramandavano di editto in editto. Le partes formularum
(struttura della formula) sono la demonstratio, la intentio, la
adiudicatio, e la condemnatio. Nella sua espressione più semplice, la
formula conteneva la intentio e la condemnatio.
• Intentio
La intentio era la parte della formula in cui l’attore esprime la sua
pretesa; viene indicata la ragione fatta valere dall’attore e viene
formulata come un’ipotesi, la cui veridicità dovrà poi essere verificata
dal giudice.
Classificazioni delle intentiones
Le intentiones venivano classificate in certae, incertae, in factum e in
ius.
Intentiones certae e incertae
Quelle certae si riferivano ad una determinata somma di denaro o
determinata cosa, mentre le altre no; esempi di intentio certa sono quelli
ove l’oggetto del rapporto è individuato in una determinata somma di
denaro che l’attore sostiene essergli dovuta dal convenuto ovvero in un
determinato schiavo che l’attore afferma essere suo; esempi di intentio
incerta è quello ove non risulta determinato ciò che l’attore pretende
dalla controparte.
Intentiones in factum e in ius
Erano in factum (factum conceptae, concepite in fatto) le formule più
antiche, concesse dal pretore a tutela dei rapporti non ancora tutelati
dal ius civile e si faceva riferimento a situazioni di fatto. Erano in ius
le intentiones in cui si faceva riferimento a un rapporto tutelato dal ius
civile, cioè, quelle in cui si faceva riferimento a un diritto soggettivo
dell’attore ovvero a un obbligo giuridico del convenuto, indicato dal
verbo tecnico oportere; esse vennero concesse, oltre che per i rapporti
tutelati ab antiquo dal ius civile (ad esempio il mutuo), anche per quelli
che avevano trovato tutela di fatto nel tribunale del pretore, e ai quali
poi il diritto civile aveva riconosciuto effetti giuridici.
• Demonstratio
È quella parte della formula che viene inserita perché venga indicata la
questione per la quale si agisce (ad esempio “posto che Aulo Agerio ha
venduto uno schiavo a Numerio Negidio”); questa pars formulae serviva
dunque a indicare i fatti da cui era nata la pretesa dedotta in giudizio,
nei casi in cui l’intentio non dava al giudice elementi sufficienti per
giudicare nella fondatezza della pretesa, ed era presente solo quanto
l’intentio era incerta o quando la formula era, praticamente, priva di
intentio, ossia nei giudizi divisori e nel caso dell’actio iniuriarum.
•
Condemnatio
La condemnatio è quella parte della formula in cui si attribuisce al
giudice il potere di condannare o di assolvere; anche la condemnatio può
essere certa o incerta; nel primo caso segue una intentio certa, nella
quale oggetto del rapporto dedotto in giudizio è una determinata somma di
danaro, mentre è incerta quando spetta al giudice procedere alla
determinazione dell’ammontare della condanna; la condemnatio si limita in
questo caso a fornire il criterio in base al quale si dovrà procedere alla
stima in danaro dell’oggetto della controversia (litis aestimatio). La
condemnatio può essere inoltre cum taxatione o infinita a seconda che
preveda o meno un ammontare massimo, fissato in una somma determinata di
danaro, entro il quale il giudice può determinare concretamente la
condanna; taxatio si ha, ad esempio, nell’actio iniuriarum, de peculio e
de in rem verso. La condanna ovviamente era sempre pecuniaria e il potere
di fare ciò veniva attribuito al giudice dal magistrato, e non dalle
parti, che si erano limitate a consentire alla sua nomina al momento della
litis contestatio. Vi erano inoltre formule composte solo da intentio, i
c.d. praeiudicia, azioni di mero accertamento quali ad esempio quelle
volte ad accertare lo status di una persona ovvero l’ammontare di una
dote.
Esempi di formule composte di sola intentio e condemnatio:
•
Formula dell’actio certae creditae pecuniae (a tutela del mutuo):
Tizio sia giudice. Se risulta che Numerio Negidio deve dare
diecimila sesterzi ad Aulo Augerio, tu giudice condanna Numerio
Negidio a dare diecimila sesterzi ad Aulo Augerio. Se non risulta
assolvilo;
•
Formula della rei vindicatio (a tutela della proprietà): Tizio sia
giudice. Se risulta che il fondo Capenate, di cui si tratta,
appartiene ad Aulo Agerio in base al diritto dei Quiriti e questo
fondo non sarà restituito a Aulo Agerio, a quanto sarà il valore di
quella cosa, a tanto tu giudice condanna Numerio Negidio nei
confronti di Aulo Agerio. Se non risulta assolvilo. In questo caso
le parole “quanto sarà il valore della cosa” alludono alla stima
(aestimatio) in base alla quale verrà determinato il valore della
res litigiosa (il bene per cui si discute).
Le altri parti della formula sono la demonstratio e la adiudicatio che non
sono presenti in tutte le formule.
• Adiudicatio
È quella parte della formula con la quale si permette al giudice di
aggiudicare la cosa a uno fra i litiganti; essa è presente solo nei
giudizi divisori (familiae erciscundae, communi dividundo, finium
regundorum – per la regolazione dei confini ­); l’attività di aggiudicare
consisteva dunque nel convertire in proprietà solitaria una quota di beni
comuni. Infine l’actio finium regundorum viene elencata insieme alle
azioni divisorie perché per i romani non serviva solo a tracciare dei
confini già esistenti, ma a determinare il luogo in cui questi passavano.
4. Altre parti della formula (PARTI ACCESSORIE)
La formula poteva contenere anche altre clausole, quali la exceptio
(eventualmente seguita da replicatio, duplicatio, triplicatio), la
praescriptio e l’artbitratus de restituendo.
a) Praescriptio
Questa clausola era premessa alla formula e conteneva una precisazione dei
limiti della controversia, e serviva a evitare che venissero dedotte in
giudizio pretese che non si voleva venissero dedotte (ad esempio, “questa
azione riguardi ciò di cui il termine è scaduto”). Oltre a questo tipo di
praescriptiones, che data la loro funzione venivano chiamate pro actore (a
favore dell’attore), esistevano anticamente anche delle praescriptiones
pro reo, che ponevano dei limiti a vantaggio del convenuto; con il tempo
queste praescriptiones si sono trasformate in eccezioni.
b) Exceptio
Era una clausola che veniva inserita tra la intentio e la condemnatio su
richiesta del convenuto, quando costui, pur non negando le circostanze
dalle quali nasceva la pretesa dell’attore, sosteneva l’esistenza di altre
circostanze in conseguenza delle quali una sua condanna sarebbe stata
iniqua. La exceptio si presentava come una condizione negativa alla
condanna del convenuto, che si aggiungeva a quella positiva espressa nella
intentio; la sua inserzione nella formula era resa necessaria dal fatto
che, essendo i poteri del giudice delimitati dalla formula stessa, in
mancanza di exceptio egli non avrebbe potuto tener conto delle circostanze
in essa dedotte.
c) Arbitratus de restituendo (clausola arbitraria)
Questa clausola era un espediente che ovviava alla pecuniarietà della
condanna, consentendo di ottenere la restituzione della cosa controversa;
essa veniva inserita soprattutto nelle azioni in rem, e dal punto di vista
formale si poneva come una condizione negativa della condemnatio;
l’arbitratus de restituendo, infatti, subordinava la condanna del
convenuto alla mancata restituzione della cosa. Le formule che contenevano
un arbitratus de restituendo vengono definite arbitrariae, e alcune fonti
definiscono arbitraria i iudicia (processi) imperniati sui simili
formulae, accostandoli ai giudizi di buona fede; questo demandava al
giudice il potere di stabilire quale comportamento del convenuto poteva
essere considerato una restitutio.
5. Le azioni nel processo formulare e loro classificazione
Nell’espressione legis actiones la parola actio indicava uno dei cinque
modelli processuali composti di atti e di parole, previsti a tutela di una
serie di rapporti giuridici; nel processo formulare invece il numero delle
actiones era assai più vasto, e coincideva con quello delle formule, vi
era quindi un’azione per ogni situazione tutelata dal pretore.
6. Azioni civiles (civili) e azioni honorariae (onorarie)
Erano civiles le azioni basate su una norma del diritto civile, honorariae
quelle basate su diritto pretorio; le azioni onorarie si distinguevano in
azioni con formula in factum e actiones utiles, quest’ultime azioni civili
adattate dal pretore a fini diversi da quelli per cui erano previste.
Queste azioni appartenevano a loro volta a due tipi diversi, le azioni con
farmulae ficticiae e quelle con trasposizione di soggetti.
7. Azioni con formule ficticiae
La formula di queste azioni era caratterizzata da una finzione (fictio)
con la quale si affermava esistente un elemento di fatto inesistente,
ovvero inesistente uno esistente; grazie a queste azioni il pretore
tutelava situazioni analoghe a quelle tutelate dal ius civile, salvo,
appunto, la mancanza o la presenza dell’elemento di fatto che si fingeva a
seconda dei casi esistente o non esistente. Un esempio è l’actio
Publiciana; se una res mancipi, dopo essere stata venduta, era stata
consegnata con una semplice traditio e non con mancipatio o in iure
cessio, il compratore non ne acquistava la proprietà ex iure Quiritium, se
non dopo il tempo necessario all’usucapione; se prima che si compisse
questo termine una terza persona si impossessava della cosa, il compratore
non poteva esperire una rei vindicatio, poiché questa era l’azione tipica
a difesa della proprietà quiritaria. Ritenendo che ciò fosse iniquo, il
pretore concesse in questi casi un’actio ficticia, appunto l’actio
Publiciana, che altro non era se non una rei vindicatio nella cui intentio
si invitava il giudice a giudicare come se fosse già decorso il tempo
dell’usucapione.
8. Azioni con formula con trasposizione di soggetti
In queste azioni il pretore, d’accordo con le parti, inseriva nella
condemnatio il nome di una persona diversa da quella nominata nella
intentio e di conseguenza se accertava che il rapporto dedotto nella
intentio era esistente in relazione alla persona ivi indicata, condannava
la persona indicata nella condemnatio. Questo espediente fu utilizzato ad
esempio nella responsabilità adiettizia. Quando una persona era sostituita
in giudizio da un cognitor o un procurator, così come quando un minore sui
iuris era rappresentato dal tutore, la formula portava nella intentio il
nome dell’interessato, e nella condemnatio quello del sostituto; gli
effetti che si producevano in capo al sostituto venivano poi trasferiti in
capo all’interessato. Quando un filiusfamilias o uno schiavo contraeva un
debito, il creditore non aveva alcuna tutela iure civili; poiché peraltro
i filiifamilias e gli schiavi svolgevano spesso attività economica per
conto dell’avente potestà, il pretore in alcuni casi rese costui
responsabile dei loro debiti concedendo una formula in cui nella intentio
si faceva riferimento al filius o al servo, e nella condemnatio al loro
avente potestà.
9. Azioni stricti iuris (azioni di rigore) e azioni bonae
fidei (di buona fede)
Questa distinzione riguarda l’entità dei poteri che la formula conferiva
al giudice; quando la formula faceva riferimento alla bona fides il
giudice aveva una maggior discrezionalità, dovendo egli basare la sua
decisione sulla valutazione complessiva della correttezza dei rapporti tra
le parti relativamente alla questione dedotta in giudizio; egli poteva
tener conto del dolus e del metus senza bisogno di exceptio doli o metus;
poteva tener conto dei patti intercorsi fra le parti dopo il sorgere del
rapporto dedotto in giudizio, e delle eventuali compensazioni legate a un
credito del convenuto verso l’attore ex aedem re (nascente dalla stessa
causa). Le azioni di buona fede erano l’actio empii et venditi, locati
conducti, negotiorum gestorum, mandati, depositi, fiduciae, pro socio,
tutelae, rei uxoriae, commodati, pigneraticia, familiae erciscundae e
communi dividundo. Nelle actiones stricti iuris invece il giudice era
strettamente vincolato dalla formula ed un tipico esempio è l’actio certae
creditae pecuniae, nella cui formula era già determinato l’ammontare della
condanna;
il
giudice
non
poteva
tener
conto
delle
circostanze
eventualmente fatte valere dal convenuto, se queste non erano state
dedotte in una exceptio.
a) Azioni in personam e azioni in rem
Le azioni in personam tutelavano un diritto di credito, quelle in rem
invece i diritti reali; il carattere in personam o in rem di un’azione
risulta alla lettura della sua intentio. Essendo l’actio in personam a
tutela di un diritto di credito, il vincolo corrispondente grava sin
dall’inizio su una o più persone predeterminate, il cui nome compare nella
intentio, insieme all’indicazione del comportamento cui questa o queste
persone sono tenute nei confronti dell’attore; questo comportamento è
indicato da tre verbi, dare, facere, praestare. Dare e facere indicavano
dare e fare, mentre praestare, significava in origine garantire, ma poi
indicò qualunque azione diversa dal dare o dal fare. Nelle actiones in
rem, il nome della persona nei cui confronti il diritto viene fatto valere
non compare nella intentio e dipende dal fatto che nei diritti reali, la
controparte non è predeterminata sin dal momento in cui nasce il diritto,
ma viene individuata solo nel momento in cui quivis de populo (una
qualunque persona) tiene un comportamento contrario al pacifico esercizio
del diritto difeso dall’actio; il nome della controparte compare solo
nella condemnatio.
a) Azioni poenales (penali) e azioni reipersecutoriae (reipesecutorie)
Le azioni penali venivano intentate contro chi aveva commesso un illecito
privato (delictum) civile o pretorio, ed erano volte a infliggere una
poena, che spettava all’attore a titolo di riparazione del torto. Le
azioni reipersecutorie erano invece rivolte a reintegrare un interesse
leso. Le actiones in rem, quelle in personam nascenti da atti leciti, e
quelle nascenti da delitti o da illeciti pretori, erano esperite per
ottenere non una poena, ma la reintegrazione dell’interesse leso. Le
azioni penali e reipersecutorie potevano anche essere cumulabili. Vi erano
poi le azioni con cui rem et poenam persequimur (si reintegrava
l’interesse leso e si infliggeva una pena); erano le azioni in cui la pena
era in simplum, ma se il convenuto negava e veniva condannato, la condanna
era in duplum ed in questo caso, il duplum punisce il comportamento
processuale scorretto. Vi erano poi le azioni penali che rei persecutionem
continent (contengono la rei persecutio), cioè ottenevano anche il
risultato di risarcire il danno; era il caso dell’actio legis Aquiliae
(per il damnum iniuria datum) con cui non concorreva alcuna azione
reipersecutoria.
10.
Azioni con formula in bonum et aequum
Queste azioni erano caratterizzate nella condemnatio dalla clausola quod
aequius melius esse videbitur, in base al quale il giudice era invitato a
stabilire
l’ammontare
della
condanna
tenendo
presente
i
criteri
dell’equità; non conferiva al giudice poteri discrezionali sull’intero
rapporto dedotto in giudizio, ma gli lasciare un potere illimitato di
valutare equamente l’ammontare della condanna, che poteva essere così
irrilevante da essere sostanzialmente un’assoluzione.
11.
Svolgimento del processo. La fase in iure
a) Adempimenti preliminari. Editio actionis (stragiudiziale), in ius
vocatio e vadimonium
Chi voleva esperire un’azione giudiziaria, doveva in primo luogo
comunicare all’avversario la sua intenzione; questo avveniva con un atto
detto editio actionis, consistente nel condurre l’avversario dinanzi
all’albo ove era esposto l’editto del pretore, e indicargli la formula che
si intendeva chiedere al magistrato. Altro modo di compiere la editio
actionis era quello di scrivere la formula cui si intendeva far ricorso su
un libellus (biglietto) che si consegnava all’avversario, e bisognava
anche consegnare copia dei documenti (instrumenta) su cui si basava la
pretesa. Dopodiché l’attore doveva vocare in ius il convenuto, quindi in
pubblico, invitarlo a seguirlo davanti al magistrato; se l’attore non
riusciva a effettuare la in ius vocatio il pretore autorizzava
l’immissione dell’attore nel possesso del patrimonio della controparte
(missio in bona) cui poteva seguire la vendita dei beni. Il vocatus era
tenuto a seguire immediatamente l’attore in ius; questa comparizione
poteva essere evitata da un vindex che garantisse la comparizione del
convenuto nel giorno successivamente fissato dal pretore; in caso di sua
mancata presentazione poteva essere esperita un’azione pretoria, con
conseguente condanna a pagare una cifra equiparata. Il vocatus che
rifiutava di seguire l’attore e non presentava un vindex poteva essere
trascinato in ius con la forza. Tra le persone di stato sociale più
elevato in luogo della in ius vocatio si preferiva far ricorso la
vadimonium; richiamava l’antica pratica di presentare dei vades che
garantivano la presenza del convenuto a una seconda udienza, se il
processo non si era risolta in una sola seduta; esso consisteva in un
invito a comparire all’ora prefissata di un certo giorno, accompagnato da
stipulatio, con cui veniva invitato a presentarsi in ius si impegnava a
pagare una certa somma di danaro, detta summa vadimonii, qualora non si
fosse presentato.
b) La editio actionis giudiziale e la postulatio actionis
Giunto in iure, l’attore dopo aver ripetuto la editio, chiedeva al
magistrato di concedergli l’actio desiderata (postulatio actionis); il
convenuto poteva quindi ammettere la fondatezza di questa pretesa con una
confessio in iure, che, nel caso la pretesa riguardasse una somma di
danaro, equivaleva sin dal tempo delle XII Tavole a una condanna; nel caso
invece di confessio riguardante un oggetto diverso da una somma di danaro,
era necessario proseguire l’azione per valutare la cosa. Poteva anche
accadere che il convenuto si limitasse a non difendersi (indefensio),
senza assentire o negare; se si trattava di actio in rem il magistrato
garantiva all’attore l’esercizio di fatto della pretesa vantata; se invece
si trattava di actio in personam, il magistrato autorizzava l’esecuzione
concedendo all’attore l’immissione nel possesso di tutti i beni del
convenuto (missio in bona indefensi) cui poteva seguire la vendita degli
stessi (bonorum venditio). Infine poteva accadere che il convenuto
contestasse in fatto le affermazioni dell’attore o in diritto la
fondatezza della sua pretesa, chiedendo al magistrato di non accordare
l’azione (denegatio actionis), ovvero di apportare modifiche alla formula
richiesta dall’attore. Alcune persone non potevano compiere la postulatio
actionis, e più in generale non potevano postulare; essi erano i minori di
17 anni e i sordi, le cui postulationes venivano avanzate da un advocatus,
persone capaci di postulare pro aliis, ossia fare domande in iure per
conto degli altri.
c) Il divieto di postulare pro aliis
Il divieto di postulare per omosessuali e donne, ha una spiegazione; per
gli omosessuali si fa presente che era considerata riprovevole solo
l’omosessualità passiva, mentre per quanto riguarda le donne è legato al
fatto che presentarsi in tribunale era contrario al dovere femminile della
pudicitia.
d) I rappresentanti processuali
Le persone fisiche dotate di capacità giuridica e di agire potevano farsi
sostituire da un cognitor o da un procurator omnium bonorum ovvero
procurator ad litem. Il cognitor, che era un rappresentante diretto,
doveva essere nominato con una dichiarazione formale diretta alla parte
avversa. Il procurator era un rappresentante indiretto e poteva essere
nominato senza alcuna formalità; poteva essere costituito con semplice
mandato e all’insaputa dell’avversario; all’inizio della lite doveva
fornire le garanzie (cautiones) in merito alla non riproposizione
dell’azione e all’adempimento di quanto statuito nella sentenza.
e) La causae cognitio, la dazione della formula (datio iudicii) e la
dazione del giudice (datio iudicis)
Dopo aver ricevuto la postulatio actionis il magistrato compiva una causae
cognitio, una somma valutazione sulla base della quale il magistrato
decideva se concedere o negare l’azione. Se l’azione veniva concessa, le
parti discutevano il testo della formula con il magistrato, che, valutava
se e quali eccezioni ed eventuali altre clausole inserire, e sceglieva la
persona o le persone che avrebbero deciso la lite. L’organo giudicante
poteva essere un giudice singolo (iudex unus) o un collegio di
recuperatores, questi ultimi nominati nei processi di maggior importanza
pubblica. Tanto il iudex unus che i recuperatores erano scelti da liste
ufficiali ed erano sempre e solo senatori, ovvero anche cavalieri; gli
arbitri, invece, venivano scelti su indicazioni delle parti. La
concessione della formula nella configurazione assunta nel caso concreto e
la nomina del giudice avvenivano con due decreti, rispettivamente chiamati
dare iudicium e dare iudicem.
f) La litis contestatio e i suoi effetti
La fase in iure terminava con la litis contestatio, che si compiva nel
momento in cui l’attore leggeva al convenuto la formula concessa dal
magistrato (dictare iudicium) e il convenuto l’accettava (accipere o
suscipere iudicium). La litis contestatio era un negozio giuridico, la cui
conclusione era necessaria perché la clausola venisse differita all’organo
giudicante e produceva una serie di effetti:
 Rem in iudicium deducere, che comportava che i termini della
controversia su cui il giudice doveva esprimersi non potessero più
essere modificati e che gli eventi successivi non potessero più
essere presi in considerazione;
 Impedire che sulla res in iudicium deducta si instaurasse un nuovo
processo; agiva in modo diverso nei diversi tipi di azione; nelle
actiones in personam con formula in ius fatte valere in iudicium
legitimum essa agiva in forma del diritto civile; nella actiones in
personam con formula in factum, nonché in tutti i iudicia imperio
contentia la regola agiva ope exceptionis, agiva solo in forza di
una exceptio.
12.
La fase apud iudiciem
Questa fase aveva inizio quando le parti erano invitate a comparire
dinanzi al giudice il dopodomani; se una delle parti non si presentava, il
giudice, nel corso della prima udienza, decideva la causa a favore di
quella presente; il iudicium doveva concludersi entro 18 mesi se era
ligitimum ed entro il periodo di carica del magistrato se imperio
continens. L’attività più importante del giudice era, in questo periodo,
l’assunzione delle prove; all’attore toccava provare i fatti costitutivi
del rapporto e al convenuto toccare provare i fatto che lo avevano estinto
ovvero che rendevano iniqua la pretesa di farlo valere.
a) Tipi di prove
Le prove erano distinte in due categorie, le probationes artificiales e le
probationes inartificiales; le prime dipendevano dall’arte dell’oratore,
le altre esistevano indipendentemente da questa e comprendevano le regole
giuridiche. Tra le probationes inartificiales, si possono ricordare la
testimonianza e i documenti scritti e le testimonianze erano orali o date
per iscritto (per tabulas); quelle scritte avevano meno efficacia di
quelle orali.
b) La pluris petitio
Non era possibile condannare il convenuto nel caso in cui la pretesa
dell’attore, enunciata nell’intentio, fosse maggiore di quella cui aveva
effettivamente diritto; l’attore perdeva la lite e non poteva riproporla
una seconda volta. Esistevano quattro tipi di pluris petitio ed erano re,
tempore, loco, causa, a seconda che si chiedesse materialmente più di
quanto effettivamente spettasse, o prima del termine, o in luogo diverso
da quello in cui era dovuta la prestazione, o privando il convenuto di una
scelta che gli sarebbe spettata; la pluris petitio era possibile solo
nelle formule con intentio certa. Se vi era una pretesa diversa si poteva
riproporre la pretesa corretta.
13.
La sentenza e i suoi effetti
Si trattava di un provvedimento conciso, modellato sul testo della
formula, seguito dalla valutazione sulla fondatezza o meno della pretesa e
a volte da una breve motivazione. Le sentenze erano orali e l’effetto di
esse erano quello di decidere la lite in modo definitivo, in quanto nel
processo formulare non esisteva appello; se qualcuno riproponeva la lite,
il convenuto poteva opporre la exceptio rei iudicatae vel in iudicium
deductae. Ulteriore effetto della sentenza, se pronunziata in un iudicium
legitimum, era quello di obbligare il condannato a eseguire il giudicato.
14.
L’esecuzione
La sentenza di condanna non aveva efficacia esecutiva, ma nasceva solo un
obbligo a eseguire il provvedimento in capo al condannato, cui il
magistrato intimava solennemente di pagare entro trenta giorni. Scaduto il
termine l’attore poteva esperire un’actio iudicati secondo il normale
iter, cioè tramite edictio actionis stragiudiziale e in ius vocatio; colui
contro cui veniva esperita quest’azione poteva confessare il iudicatum
ovvero resistere ed in quest’ultima ipotesi in caso di soccombenza era
condannato in duplum. L’esecuzione a questo punto poteva avvenire in due
forme, o sulla persona o sui beni.
a) L’esecuzione sulla persona (ductio)
L’esecuzione sulla persona esperibile al termine di un processo formulare
era la ductio iussu praetoris, che aveva luogo a seguito di
un’autorizzazione del magistrato, al quale l’attore chiedeva di potere
condurre con sé il condannato; pur restando giuridicamente libero, questi
veniva sottoposto al potere dell’attore, che era tenuto a provvedere al
suo mantenimento. L’attore poteva trattarlo e servirsene come se fosse uno
schiavo.
b) L’esecuzione sul patrimonio (bonorum venditio)
A partire dall’ultimo secolo della Repubblica il pretore introdusse una
forma di esecuzione sul patrimonio, nata per risolvere il problema che si
presentava quando un debitore moriva senza lasciare eredi; il primo
intervento del magistrato era un provvedimento che autorizza il
richiedente a prendere possesso del patrimonio del condannato (missio in
bona); se il condannato tentava di ostacolare l’attore, questi poteva
esperire nei suoi confronti un’actio in factum che portava a una condanna
pecuniaria. Trascorsi trenta giorni, l’attore doveva comunicare l’avvenuto
immissione nel possesso dei beni con un atto detto proscriptio bonorum.
Questo consentiva agli altri creditori di chiedere a loro volta la
immissione nel possesso dei beni e di partecipare alla successiva
procedura di vendita del patrimonio (bonorum venditio); la bonorum
venditio aveva dunque carattere concorsuale. In attesa della vendita il
magistrato nominava curator bonorum uno dei creditori e alla vendita
provvedeva un magister scelto dai creditori e approvato dal magistrato, il
cui primo atto consisteva nello stabilire le condizioni della vendita con
una lex venditionis. I creditori privilegiati erano detti privilegium
exigendi, mentre gli altri erano chiamati creditori chirographarii (in età
postclassica). La vendita avveniva tramite un’asta. Sul debitore cadeva
l’infamia, ma per evitarla, poteva abbandonare volontariamente il suo
patrimonio ai creditori (cessio bonorum), prima dell’asta. Chi acquistava
i beni era un successore pretorio, e quindi non poteva esperire le azioni
spettanti contro eventuali creditori del debitore insolvente e viceversa,
ma per ovviare a questo problema, il pretore predispose due formule,
Serviana e Rutiliana; la prima cui si ricorreva se il debitore era morto,
era una formula ficticia in cui si fingeva che il bonorum emptor fosse
erede del debitore; nel secondo caso si ricorreva quando il debitore era
vivo, e conteneva una trasposizione di soggetti, nella intentio vi era il
nome del debitore, nella condemnatio quello del bonorum emptor.
c) Il pignus in causa iudicati captum
Accanto alla bonorum venditio, che investiva l’intero patrimonio, vi era
il pignus in causa iudicati captum, che consisteva nella presa di possesso
a titolo di pegni di singoli beni del debitore, dietro autorizzazione del
magistrato. La vendita la eseguiva direttamente l’attore e divenne
applicazione generale nel processo della cognitio extra ordinem.
15.
Altri provvedimenti dei magistrati
Tra i provvedimenti che il magistrato poteva prendere per tutelare
situazioni che egli riteneva meritevoli, vanno ricordate le restitutiones
in integrum, le missiones in possessionem, le stipulationes praetoriae e
gli interdicta.
a) Gli interdicta
L’interdictum era un ordine del magistrato che imponeva ad una parte di
tenere un determinato comportamento; gli interdetti vennero introdotti nel
periodo in cui il processo ordinario erano le legis actiones, e
presumibilmente in un primo momento il pretore costringeva il destinatario
a rispettare la sua ingiunzione, erano quindi esecutivi, ma quando
successivamente divennero astratti, persero la loro esecutività. Il
pretore che li emanava in forza della sua iurisdictio, non ricorreva più
al suo imperium per farli rispettare; se il destinatario non rispettava
l’ordine, l’attore doveva intentare un’azione (actio ex interdicto)
destinata ad accertare l’esistenza dei presupposti di fatto che
giustificavano l’interdetto stesso e l’inottemperanza all’ordine in esso
contenuto. Gli interdictum erano distinti in proibitori, restitutori ed
esibitori. Gli interdetti a tutela del possesso, si dividevano in
adipiscendae
(accertare),
retinendae
(conservare)
e
reciperandae
(recuperare)
possessionis;
i
primi
erano
proibitori,
gli
altri
restitutori.
a) IN INTEGRUM RESTITUTIO
Era un provvedimento che ripristinava una situazione modificata da un
fatto, un atto o un negozio giuridico secondo il ius civile, ma che
secondo il pretore aveva creato uno stato di fatto ingiusto. La
concessione avveniva dietro causa cognitio, cioè dopo che il pretore aveva
valutato tutte le circostanze necessarie per giudicare sull’opportunità
del provvedimento. Tra i mezzi usati vi era l’actio rescissoria, in cui si
fingeva che non si fosse verificato il fatto che aveva recato pregiudizio
all’attore (ad esempio rescissione atti compiuti dai minori di 25 anni,
che avessero recato loro pregiudizio).
b) CAUTIONES O STIPULATIONES PRETORIE
Era una stipulatio imposta con decreto dal magistrato e con essa una
persona prometteva di dare una determinata somma o di tenere un
determinato comportamento. Gli edili curuli, che avevano competenza sui
mercati, potevano imporre al venditore di prestare una stipulatio habere
licere, con cui questi si obbligava a risarcire il compratore qualora il
pacifico godimento della cosa venisse turbato; funzione analoga aveva la
stipulatio duplae, con cui il venditore, in caso di evizione, si obbligava
a versare al compratore il doppio del prezzo da questi pagato. Se erano
garantite da terzi sponsores, le stipulazioni pretorie erano chiamate
satisdationes, se non erano garantite erano dette repromissiones;
cautiones invece quando venivano documentate.
b) Le missiones in possessionem
La missio in possessionem era un decretum con cui il magistrato
autorizzava chi ne aveva fatto richiesta a prendere possesso di beni
altrui; se riguardava l’intero patrimonio si parlava di missio in bona, di
singoli beni invece missio in rem; questi provvedimenti potevano avere
funzione cautelare ovvero coercitiva.
16.
LA COGNITIO EXTRA ORDINEM
Il processo formulare fu sostituito dal quello definito cognitio extra
ordinem.
a) Le cognitiones provinciali
La procedura formulare non veniva applicata in tutte le province e anche
là dove veniva applicata subiva profonde trasformazioni; prima che questo
accadesse a Roma e in Italia, nelle province entrò in uso un tipo di
processo che si svolgeva interamente dinanzi al magistrato o al
funzionario imperiale cui la questione veniva sottoposta. Questo processo
consisteva in una cognizione (cognitio) della causa da parte del
magistrato o funzionario, che al termine di questa cognitio poteva
emettere personalmente la sentenza. Nel processo per cognitiones le parti
non si accordavano sui termini della lite e non partecipavano in alcun
modo alla scelta del giudice e alla definizione dei suoi compiti.
b) Le cognitiones extra ordinem a Roma
Già all’inizio del principato, per tutelare gli istituti introdotti dal
principe o dal Senato si faceva ricorso alle cognitiones anche a Roma.
L’origine di questo processo a Roma, viene fatto risalire ad Augusto che
aveva iniziato ad attribuirsi nel 30 a.C. il potere, tramite una legge,
che lo autorizzava a giudicare su richiesta di una parte e questi poteri
si estero dal 23 a.C. in forza della tribunicia potestas e dell’imperium
proconsolare maius et infinitum, esercitandoli personalmente o delegandoli
al pretore o ai consoli. Alla fine del secolo I d.C. entrò in uso tra i
giudici la prassi di chiedere al principe un parere, che veniva dato con
un rescriptum che in quella specifica causa era vincolante.
C.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
1. La fine del processo formulare
Nonostante il progressivo affermarsi delle cognitiones, la procedura
formulare continuò ad essere applicata fino a verso la metà del secolo III
d.C.; essa aveva tuttavia perduto molti dei suoi caratteri. L’abolizione
di questa procedura avvenne nel 342, quando una costituzione di
Costantino, Costanzo e Costante vietò il ricorso alle formule, definite
mezzi insidiosi, che potevano indurre le parti in errore.
2. Generalizzazione delle cognitiones, i caratteri della
cognitio postclassica
Agli inizi del secolo IV, tutti i processi privati sia in provincia si a
Roma venivano celebrati nella forma della cognitio, che ormai si svolgeva
secondo un modello sostanzialmente uniforme; i principali aspetti
innovativi di questa cognitio erano la citazione in giudizio, processo
contumaciale, potere discrezionale del giudice, condanna in forma
specifica, appello.
a) La procedura
Il processo veniva promosso da chi, affermando di esserne il titolare,
chiedeva l’accertamento e la tutela di un diritto soggettivo.
b) La citazione in giudizio
A partire dalla fine del secolo III, l’atto introduttivo del processo,
ossia la litis denuntiatio, consisteva in un atto scritto detto libellus
notificato dall’attore al convenuto e contenente l’invito a comparire
dinanzi al funzionario o al giudice da questi delegato. Una volta
notificato il libellus, il convenuto poteva inviare un libello di replica
(contradictionis) e le parti dovevano comparire dinanzi al giudice entro
il termine di quattro mesi. Il dibattimento che seguiva, nel corso del
quale aveva luogo l’assunzione delle prove, conduceva alla pronunzia di
una sentenza che poteva essere anche contumaciale. La litis denuntiatio
cadde in disuso, sostituita da un libelllus conventionis, che veniva
inviato non dall’attore, ma dal funzionario, tramite un executor, al
convenuto. Il termine per la presentazioni delle parti venne ridotto a 10
giorni, elevati a 20 da Giustiniano, entro i quali il convenuto poteva
presentare il libellus contradictionis; al convenuto fu fatto obbligo di
prestare una cautio iudicio sisti, garantita da un fideiussor ed in caso
di rifiuto, l’executor poteva arrestarlo e trattenerlo a disposizione del
giudice fino a che il processo non era giunto a termine.
c) La nascita del processo contumaciale
Il magistrato invitata il convenuto a presentarsi, tramite l’evocatio o
denutiatio ex auctoritate; se questi non si presentava, il magistrato
emanava tre edicta successivi, cui faceva seguito, se necessario, un
quarto editto detto edictum perentorium, con cui rendeva noto al convenuto
che avrebbe emesso la sentenza in sua assenza. Il convenuto che non si
presentava nonostante questi editti veniva detto contumax; in questo
processo, la cognitio si svolgeva anche in contumacia, e il giudice era
tenuto a valutare pure gli eventuali elementi in favore del contumace.
d) Il dibattimento
Se compariva in giudizio, il convenuto poteva ammettere le ragioni
dell’attore ovvero contestarle, ma mentre nei processi antecedenti, una
confessio poneva fine al processo, nella cognitio era prova, in forza
della quale il giudice condannava il convenuto. Se invece il convenuto
intendeva contestare la pretesa dell’attore, dopo aver presentato il
libellus contradictionis, si impegnava nella fase del processo denominata
initium; in questa fase il convenuto poteva opporre le sue exceptiones, in
quest’epoca dette praescriptiones (exceptio era l’affermazione da parte
del convenuto di fatti o atti che potevano sostenere le sue ragioni).
e) La litis contestatio
Si riteneva in quest’epoca che la litis contestatio fosse avvenuto quando
l’attore aveva fatto la sua narratio e il convenuto la sua contradictio,
fissando i termini della lite.
f) I poteri discrezionali del giudice e le nuove regole sul valore
degli atti processuali
L’introduzione
di
nuove
regole,
limitarono
fortemente
i
poteri
discrezionali del giudice, soprattutto in materia di assunzione e
valutazione delle prove; in età postclassica il regime delle prove
attrasse i giuristi, che sottoposero l’argomento a una regolamentazione
volta innanzitutto a stabilire all’interno di esse una precisa gerarchia
di valori; la prova documentale venne considerata superiore a quella
testimoniale, invertendo così una tendenza che sino a quel momento aveva
dato la prevalenza alla prova testimoniale; rimase in vigore l’onore della
prova a carico di chi aveva interesse a dimostrarne l’esistenza.
g) La sentenza. La nascita della esecuzione in ipsam rem
Il giudice, emanando la sentenza al termine della cognitio, poteva
liberamente stabilire l’ammontare della condanna, e a partire dal secolo
III poteva pronunziare anche condanne non pecuniarie, cioè, oltre che a un
dare, poteva condannare a un facere; le fonti cominciarono a parlare di
un’esecuzione in ipsam rem.
h) La nascita del secondo grado di giudizio (appello)
Il moltiplicarsi delle cognitiones da parte di giudici diversi dal
principe portò alla nascita di un istituto importantissimo, sino a quel
momento sconosciuto al diritto romano, ove tutti i processi si erano
sempre svolti in un unico grado di giudizio; questo istituto fu l’appello
al principe, cui spettava il secondo grado di giudizio; successivamente
questo appello fu delegato dall’imperatore al praefectus urbi, a quello
praetorio o ad altri funzionari.
9.
I rapporti giuridici e le
obbligazioni
Origini delle obbligazioni
Le obbligazioni venivano da atto lecito o illecito; vi è un vincolo
materiale da atto illecito (è il soggetto che compie un atto illecito) e
la soluzione era la vendetta, l’applicazione della c.d. Legge del
Taglione, che non poteva non passare attraverso il momento della presa di
possesso della persona responsabile, però il creditore poteva accettare
una compensazione pecuniaria, cioè il pagamento di una sanzione
pecuniaria. Successivamente l’ordinamento intervenne affermando che era
possibile solo la sanzione pecuniaria , in questa fase l’obbligazione
viene intesa come vincolo potenziale.
A. CONSIDERAZIONI STORICHE
1. Prima del vincolo giuridico: il VINCOLO MATERIALE
Alle origini la pena è ero uno strumento che serviva per evitare il
riscatto personale. Il vincolo materiale può derivare da atto illecito o
da atto lecito. I vincoli materiali da atto lecito potevano derivare da
accordi spontaneamente conclusi per regolare interessi privati (es. il
paterfamilias si faceva prestare una derrata ­prodotto della terra di
largo consumo, come cereali­ da un altro paterfamilias); a chi aveva
interesse che l’impegno preso venisse rispettato si attribuì un potere
materiale su colui che lo aveva assunto e questi si trovò ad essere
assoggettato a un vincolo materiale, questo vincolo in alcuni casi era
attuale, in altri era eventuale. Originariamente non nasceva un vincolo
giuridico, ma un vincolo materiale, in forza del quale, colui al quale
altri si aspettavano un determinato risultato veniva fisicamente
assoggettato al potere di altra persona. Si cominciò a formare una sorta
di catalogo di comportamenti delittuosi, il cui vincolo materiale nasceva
da un comportamento illecito. Si riconobbe alla vittima un potere su chi
aveva tenuto il comportamento delittuoso, autorizzandola a infliggere
all’offensore il male che la civitas riteneva che costui avesse meritato e
la vittima non agiva più come privato vendicatore ma come un “agente
socialmente autorizzato”; i poteri erano, infliggere all’offensore un male
proporzionato al delitto commesso, tenerlo presso di sé, in condizione di
fatto di schiavitù e ucciderlo. Le XII Tavole prevedevano che venisse
messo a morte:
 ladro che agiva di notte;
 ladro che agiva di giorno se faceva uso di armi;
 ladro sorpreso in flagrante quando era uno schiavo;
 colui che di notte aveva tagliato l’altrui raccolto;
 chi si era
magici;
impossessato/danneggiato
l’altrui
raccolto
con
mezzi
 chi aveva spaventato o gettato il malocchio le messi del vicino con
canti magici;
 chi aveva trasportato nel proprio campo le messi già raccolte del
vicino;
 chi aveva incendiato un edificio e il covone di frumento a questo
appoggiato.
Alternativa alla morte: la pactio
Le XII Tavole stabilirono che l’uccisione del ladro fosse legittima ma non
obbligatoria; chi sorprendeva un ladro poteva accettare la compensazione
che questi eventualmente gli offrisse al fine si aver salva la vita. Tutto
quello che interessava era controllare la vendetta privata, affermando il
suo diritto esclusivo di stabilire quali fossero i comportamenti che
meritavano la morte; stabilito ciò la civitas non aveva ragione di vietare
alle parti interessate di valutare se e a quali condizioni l’offesa poteva
essere lavata evitando lo spargimento di sangue.
Il potere di infliggere un male fisico diverso dalla morte
Di fronte
a comportamenti delittuosi considerati di minor gravità la
civitas autorizzava la vittima a reagire infliggendo all’offensore un male
fisico, diverso dalla morte, di cui ella stessa stabiliva inderogabilmente
la misura (previsto anche nelle XII Tavole là dove regolano un’ipotesi di
lesioni personali denominata rottura di un membro).
Il potere di rendere proprio schiavo un delinquente
Altre volte il potere conferito alla vittima consisteva nella possibilità
di trattenere il delinquente presso di sé, in condizioni di schiavo ed
erano:
 ladro di stato libero sorpreso in flagrante;
 colui a casa del quale era stata trovata la refurtiva, a seguito di
perquisizione lance licioque.
La nascita della pena privata
Le
tappe
fondamentali
del
cammino
percorso
dalla
civitas,
che
progressivamente sottopose a controllo l’uso della forza privata, furono
quelle che stabilirono nell’ordine:
 Solo a lei spettava stabilire quali
legittimavano una reazione fisica.
erano
i
comportamenti
che
 Il potere di determinare la misura della reazione non spettava più
alla parte lesa, la quale poteva reagire solo nella misura stabilita
dalla civitas stessa.
 Coloro che accettavano una composizione pecuniaria – a seguito di
una pactio ­ non erano più sottoposti al potere della parte lesa di
infliggere loro un male fisico o di privarli della libertà.
 La composizione pecuniaria era obbligatoria, di conseguenza le parti
lese non potevano più usare la forza fisica.
Sacer esto
Di fronte ad alcuni comportamenti considerati un illecito religioso la
civitas non conferì alla vittima un potere sul delinquente, bensì la
dichiarazione di sacertà di questi, la consacrazione agli dèi (sacratio).
A seguito della dichiarazione di sacertà il delinquente (homo sacer)
poteva essere ucciso impunemente da chiunque decidesse di farlo.
1. PRESTAZIONE: REQUISITI
La prestazione è il comportamento che il debitore deve tenere nei
confronti del creditore in forza del rapporto obbligatorio che esiste tra
loro. Requisiti perché l’obbligazione sia valida:
 Prestazione deve essere possibile: deve avere a oggetto una cosa
esistente in natura (possibilità fisica o naturale) e rientrare
nella categoria delle res in commercio (possibilità giuridica).
 Prestazione deve essere lecita: non contraria alle norme del diritto
o del buon costume.
 Prestazione deve essere determinata (parti precisano il contenuto
della prestazione) o determinabile (per stabilire contenuto della
prestazione si fa riferimento a elementi esterni al negozio).
 Prestazione deve essere valutabile economicamente; questo dipende
dalla necessità di sostituire la prestazione non adempiuta con il
suo equivalente in danaro, secondo il principio per cui la condanna
deve essere sempre pecuniaria.
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
a) I contratti reali
Sono il mutuo e la indebiti solutio; Gaio riteneva che un contratto
venisse concluso re solo quando la dazione della cosa comportava il
trasferimento della proprietà di questa.
Il mutuo
 Nel momento in cui il danaro o le cose venivano prestati si
confondevano con il patrimonio di chi li riceveva, diventando di sua
proprietà.
 La
nascita
dell’obbligazione
discendeva
dall’accordo,
dal
trasferimento della proprietà della cosa e dal riconoscimento della
utilità della funzione economico sociale del negozio.
 Totale autonomia rispetto alle esigenze sociali: enorme diffusione
del prestito a interessi, anche se rimase sempre gratuito.
 Accanto al mutuo le parti concludevano un secondo contratto, una
stipulatio (accessibile anche agli stranieri) con la quale il
debitore si impegnava a pagare gli interessi; se al momento della
restituzione del capitale il mutuatario non pagava gli interessi il
mutuante per ottenerli poteva agire nei suoi confronti con un’actio
ex stipulatu. Rimase in uso prevalentemente nei casi in cui il
prestito era veramente gratuito.
 Dal mutuo nascevano obbligazioni a carico solo di una parte, esso
era infatti un contratto unilaterale.
 Tutelato con l’actio certae creditae pecuniae.
Il foenus nauticum o pecunia traiecticia
È un contratto autonomo diverso dal mutuo, grazie al quale era consentito
prevedere il pagamento di interessi (considerato spesso un tipo
particolare di mutuo). Grazie ad esso chi si dedicava al commercio
marittimo poteva ottenere del denaro a credito ed era tenuto a restituirlo
solo nel caso che il viaggio fosse andato a buon fine. Il rischio della
navigazione
era
a
carico
del
creditore,
il
quale,
in
cambio
dell’assunzione di tale rischio aveva diritto al pagamento di interessi
elevati. La nascita di questo istituto in Grecia e la sua ricezione a Roma
sono legate ai problemi creati alla navigazione dalla presenza di bande di
pirati che rendevano le intraprese marittime pericolosissime.
Il deposito (CONTRATTO REALE)
È un contratto gratuito che si realizzava quando una persona – deponente ­
consegnava una cosa mobile a un’altra persona – depositario ­ e questa si
impegnava a restituirla allo scadere di un certo termine o a richiesta del
deponente; non si trasferiva né la proprietà né il possesso della cosa, il
depositario era solo un detentore, non poteva usare la cosa, e se la usava
commetteva il delitto di furto d’uso, tutelata con l’actio furti oltre che
con l’actio depositi. È un contratto “imperfettamente” bilaterale: le
obbligazioni sorgevano solo in capo al depositario (conservare la cosa,
non usarla, restituirla non deteriorata, con frutti e accessioni), mentre
il deponente poteva essere obbligato solo in determinate circostanze, solo
quando il depositario avesse dovuto sostenere delle spese necessarie alla
conservazione della cosa o avesse ricevuto danni dalla cosa depositata e
il depositario poteva esercitare un’actio depositi contraria. In capo al
depositario non nasceva l’obbligo della custodia in quanto il contratto
era concluso nell’interesse esclusivo del deponente; l’obbligo nasceva se
il contratto veniva concluso nell’interesse esclusivo di chi riceveva la
cosa, e doveva rispondere per furto, perimento, danneggiamento anche se
non determinati da un suo comportamento negligente.
Il deposito “necessario” o “miserabile”
Si ricorreva in occasioni di gravi calamità naturali, politiche o private.
Se depositario profittava della situazione miserevole in cui si trovava il
deponente, l’azione nei suoi confronti portava a condanna pari al doppio
del valore della cosa. Vi era responsabilità per mancata restituzione solo
in caso di dolo.
Il sequestro
È il caso della cosa di cui era incerto chi fosse il proprietario,
consegnata a persona incaricata di conservarla in attesa che la questione
della proprietà venisse chiarita. Il depositario non era tenuto a
restituire la cosa a richiesta, ma solo quando la lite fosse risolta o
l’esito della scommessa verificato; egli non era un semplice detentore ma
era possessore della cosa.
Il deposito irregolare
È un contratto con cui una parte depositava presso l’altra una quantità di
cose fungibili (di regola danaro) con l’accordo che il depositario ne
restituisse a richiesta l’equivalente (tantundem eiusdem generis). Il
depositario acquistava la proprietà delle cose consegnatigli; egli non era
persona che ne aveva fatto richiesta per sua necessità, bensì persona che
maneggiava grandi capitali, investendoli e facendoli fruttare, inserendo
anche gli interessi nell’accordo. La restituzione aveva luogo quando
deponente la richiedeva, non si stabiliva un termine.
Il comodato
È il contratto di prestito d’uso (diverso da mutuo che è prestito di
consumo). Si realizzava quando una parte – comodante ­ trasferiva
all’altra – comodatario ­ una cosa inconsumabile affinché questi la usasse
e la restituisse nelle stesse condizioni in cui l’aveva ricevuta. Non
comporta il passaggio né della proprietà né nel possesso della cosa. Il
vincolo nasceva dalla consegna della cosa. Era un contratto gratuito e
imperfettamente bilaterale: le obbligazioni sorgevano solo a carico del
comodatario, ma qualora egli avesse dovuto sostenere delle spese di
straordinaria manutenzione o avesse subito dei danni dalla cosa comodata
sorgeva
l’obbligo
del
comodante
di
risarcirlo.
Veniva
concluso
nell’interesse del comodatario, che poteva così usare per un certo tempo
una cosa non sua. La tutela concessa era un’azione in factum e quindi
un’azione di buona fede in ius.
Il pegno
In età classica era un diritto reale su cosa altrui, in funzione di
garanzia. Veniva costituito mediante il trasferimento del possesso di una
cosa corporale, a garanzia di un debito proprio o altrui; da questa
consegna nasceva l’obbligo, in chi riceveva la cosa di custodirla e
restituirla nel momento in cui il suo credito fosse soddisfatto, o si
fosse comunque estinto. Qualora il credito non venisse soddisfatto, il
creditore pignoratizio aveva il diritto di vender la cosa, di trattenere
l’equivalente del suo credito e di restituire l’eccesso. Era un contratto
reale e imperfettamente bilaterale: la possibilità che sorgessero
obbligazioni a carico di chi aveva dato la cosa in pegno era legata
all’eventualità che il creditore pignoratizio avesse sostenuto spese o
subito danni. La tutela per il creditore pignoratizio era l’actio
pigneraticia in personam.
La fiducia
In età classica le ragioni per le quali si ricorreva a questo istituto
erano:
 fiducia cum amico: i beni venivano trasferiti a un amico in caso di
guerra, tumulti sociali o altri eventi che impedivano di vegliare
sul proprio patrimonio;
 fiducia cum creditore: il trasferimento di beni fatto da un debitore
al suo creditore con l’accordo che i beni sarebbero stati
ritrasferiti al debitore nel momento in cui questi avesse
soddisfatto il debito; garantiva quindi il creditore da eventuali
inadempienze.
La fiducia divenne un contratto che le parti concludevano compiendo una
mancipatio nel cui formulario venivano inserite alcune parole solenni,
legate alla natura fiduciaria dell’atto.
CONTRATTI VERBALI
Secondo Gaio erano contratte verbis le obbligazioni che nascevano ex
interrogatione et responsione, e in effetti in un’interrogazione e in una
congrua risposta consisteva ai suoi tempi la stipulatio. Esistevano anche
obbligazioni (la dotis dictio e la promissio iurata liberti) la cui
nascita dipendeva dalla pronunzia di parole solenni che non consistevano
in una domanda e una risposta.
La stipulatio/SPONSIO
La struttura originaria rimase immutata, e perché nascesse un’obbligazione
si continuò a chiedere che a una domanda del creditore il debitore desse
una risposta congrua e immediata. Con il passare del tempo all’interno di
questo schema si ammise che, oltre a verbo spondere (riservato ai
cittadini romani), venissero utilmente usati anche altri verbi. Il fatto
che l’obbligazione nascesse dalla pronunzia dei verba faceva sì che anche
in epoca classica il negozio fosse astratto, che la causa del negozio non
avesse rilevanza. In età repubblicana nacque l’abitudine di redigere un
documento scritto nel quale venivano indicati i termini dell’accordo:
semplificava la conclusione del contratto, consentendo a chi interrogava
di limitarsi a far riferimento a quanto in esso scritto. Ci si poteva
obbligare a qualunque tipo di prestazione e dare tutela a varie operazioni
commerciali ed economiche. A tutela delle stipulationes certi veniva
concessa un’actio certae pecuniae; per quelle incerti, invece vi era
l’actio incerti ex stipulatu.
La dotis dictio
Era il modo in cui poteva essere costituita una dote, attraverso una
promessa unilaterale da parte della donna che andava a nozze, del suo
paterfamilias o anche di un debitore della donna, da lei delegato a far
questo. La promessa era rivolta al futuro marito e prevedeva la pronunzia
delle parole: dotem tibi dico o dotem tibi erit e seguite dalla menzione
delle cose che andavano a far parte della dote stessa, facendo nascere
così un credito del marito.
La promissio iurata o ius iurandum liberti
Era una solenne promessa, fatta dallo schiavo manomesso che si obbligava a
compiere al dominus che lo aveva liberato determinati servigi. Questa
promessa veniva fatta precedere da un giuramento avente analogo contenuto
che lo schiavo prestava prima della manomissione. Il giuramento aveva la
funzione di impegnare lo schiavo evitando che dopo la manomissione egli
deludesse le aspettative del padrone. A tutela del patrono – se le
promesse non avevano carattere vessatorio­ il pretore concesse un’actio
operarum.
CONTRATTI CONSENSUALI
Erano contratti informali che si basavano solo sul consenso dei due
soggetti che stipulano che il contratto. Non viene meno il carattere della
tipicità contrattuale, ma la tipicità è insita nella causa del contratto.
La compravendita (emptio­venditio)
È il più importante accordo in forza del quale il venditore si obbliga a
trasferire il pacifico godimento di una cosa e il compratore si obbliga a
versargli il denaro. Nel nostro ordinamento all’art. 1470, il c.c.
sancisce che “La vendita è il contratto che ha per oggetto il
trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro
diritto verso il corrispettivo di un prezzo”; nel diritto romano è
diverso, in quanto c’è solo l’obbligo di trasferire il pacifico godimento
di una cosa e non vi è trasferimento di proprietà. La compravendita nasce
per regolare i rapporti tra romani e stranieri: gli stranieri non potevano
acquistare la proprietà in quanto era un diritto solo dei romani, così le
vendite tra romani e stranieri avvenivano tramite contratti consensuali
perché c’era solo il trasferimento del pacifico godimento e non della
proprietà. Gli oggetti della compravendita erano la merce (merx) e il
prezzo (pretium). La cosa che si vende deve avere un prezzo certo e
determinabile in denaro e deve essere in commercio. La compravendita
poteva avere ad oggetto qualunque cosa corporale o incorporale che avesse
un
valore
economico
(anche
diritti
soggettivi
aventi
contenuto
patrimoniale). Il compratore deve trasferire la proprietà del danaro
individuato come prezzo e il venditore deve trasferire il pacifico
godimento, e ha l’obbligo di consegnare la cosa ed il suo possesso. La
tutela era rappresentata dalla actio empti se intentata dal venditore, e
dalla actio venditi se promossa dal compratore. Il trasferimento di res
mancipi, avviene ovviamente tramite mancipatio. Il compratore che aveva
ricevuto una res mancipi con semplice traditio, poteva esercitare l’actio
Publiciana, che altri non è che un adattamento della rei vindicatio. Il
venditore doveva fornire due garanzie:
 per evizione: è il caso in cui un compratore fosse stato citato in
giudizio da un terzo che assumesse di essere lui il proprietario,
prima che si compisse il termine per l'usucapione e di fronte alla
rei vindicatio del terzo fosse rimasto soccombente o evitto (con la
conseguenza di dovergli restituire la cosa).
Il venditore doveva
rispondere di questa evizione e rimborsare il compratore che ha
subito l’evizione; la tutela era fornita prima dalla satisdatio
secundum mancipium (obbligo del venditore tramite stipulatio), poi
sostituita da una stipulatio habere licere (obbligo del venditore a
pagare il valore della cosa), per finire poi con la stipulatio
duplae, dove il venditore si obbligava a pagare in duplum.
 per vizi occulti: se un venditore vendeva una cosa con vizi senza
dichiararlo veniva considerato un comportamento non corretto.
All’inizio non si poteva far nulla, poi grazie agli edili curuli la
garanzia era prevista come obbligatoria e implicita, essi emanarono
due editti (relativi l’uno alla compravendita di schiavi e l’altro a
quella di animali da sella e soma, poi esteso a buoi e altri
quadrupedi domestici) i quali obbligavano il venditore a indicare a
voce o su cartelli i difetti della merce offerta in vendita. In
mancanza, il compratore poteva esperire entro 6 mesi un’actio
redhibitoria (restituire) con la quale, restituendo la merce,
otteneva la restituzione del prezzo; ovvero, in alternativa,
un’actio aestimatoria o quanti minoris (fare stima della cosa),
esperibile entro 1 anno, con la quale poteva ottenere la
rivalutazione del prezzo e cioè il rimborso di quanto pagato in
eccesso.
Clausole che accompagnavano la compravendita:
 lex commissoria: prevedeva che la cosa tornasse di proprietà del
venditore qualora il compratore non pagasse il prezzo entro un
termine pattuito;
 in diem addictio: prevedeva che il contratto avesse efficacia solo
se il venditore non avesse ricevuto un’offerta migliore entro un
termine stabilito;
 pactum displicentiae: dava al compratore la possibilità di rendere
la merce che non fosse stata di suo gradimento, ricevendo in cambio
la restituzione del prezzo.
La locazione (locatio­conductio)
Il locatore deve trasferire al conduttore una cosa per un certo periodo di
tempo. Nella locatio­conductio a pagare la mercede non è sempre chi riceve
la cosa. La tutela era l’actio locati e l’actio conducti. Le varie forme
di locatio­conductio sono:
 locatio conductio rei: un soggetto dà una cosa ad un altro soggetto,
e questo ultimo è colui che paga. Il locatore deve consegnare la
cosa e metterla a disposizione per un periodo temporaneo (diverso da
compravendita per la quale è per un periodo eterno);
 locatio conductio operis: il locatore trasferisce al conduttore una
cosa, affinché egli svolga un’attività lavorativa per raggiungere un
risultato (oggi contratto d’appalto, art. 1675 e seg. c.c.), la
mercede è pagata al conduttore dal locatore, in quanto il conduttore
deve consegnare la cosa ed eseguire il lavoro;
 locatio conductio operarum: il locatore (mercenarius) si obbliga a
mettere a disposizione di altra persona (il conduttore) la propria
attività lavorativa (opere) per un certo periodo di tempo in cambio
di una mercede (normalmente somma di danaro). Nelle prestazioni
intellettuali la mercede è detta honorarium.
 Lex Rhodia: è un caso particolare di locatio­conductio e si
applicava ai trasporti marittimi; in questo caso il rischio si
ripartiva proporzionalmente tra tutti i locatori che avevano
imbarcato le merci; i locatori delle merci perdute avrebbero agito
con l’actio locali contro il trasportatore, e costui a sua volta
avrebbe agito con l’actio conducti in via di rivalsa contro i
locatori delle merci che si erano salvate.
La società (societas)
Il contratto consensuale di società nacque nel ius gentium, come strumento
del commercio internazionale e fu tutelata verso la metà del II sec. a.C.
nel tribunale del pretore peregrino. Consisteva nell’impegno, assunto da
due o più persone, di mettere in comune dei beni per raggiungere un
risultato vantaggioso. Il consortium ercto non cito (comproprietà di una
cosa) era usato nell’età più antica, dove due persone avevano in
comproprietà (proprietà comune) dei beni e se ci fossero state delle
perdite venivano divise tra i soci e i guadagni venivano divisi a seconda
di quanto fosse stato conferito dal singolo socio. La società leonina
rappresenta un punto limite in quanto prevede che un socio abbia solo
vantaggi e mai svantaggi, è quindi nulla. E’ possibile una società per un
solo negozio o affare, terminato il quale, la società cessa di esistere.
La società romana è un accordo tra i soci; la società non ha rilevanza ma
è fonte di obbligazioni a carico di più soggetti – i soci ­, ed il
soggetto agisce come persona singola, i contratti conclusi devono dare
vantaggi da suddividere tra tutti i soci; la società moderna è diversa, in
quanto essa è soggetto di diritto, ha personalità giuridica e
responsabilità patrimoniale. Le obbligazioni che nascevano dall’attività
svolta nel comune interesse sorgevano per intero in capo a chi aveva
agito; colui che aveva agito per incarico degli altri poteva agire con
l’actio mandati, mentre se l’incarico non era stato esplicito, con l’actio
negotiorum gestorum.
La società si estingueva per:
 recesso unilaterale di uno dei soci ed aveva effetto nel momento in
cui altri gli soci ne venivano a conoscenza;
 morte di
rapporto;
uno
dei
soci
e
gli
eredi
non
succedevano
in
questo
 capitis deminutio di uno dei soci;
 bonorum venditio, con conseguente vendita all’asta del patrimonio di
uno dei soci a causa della sua insolvenza.
Il mandato (mandatum)
Era un contratto gratuito nella sua essenza, il mandante incaricava il
mandatario di eseguire un’attività ed egli si impegnava a compierla
gratuitamente. Il mandato è diverso dalla locatio operis in quanto deve
essere stipulato nell’interesse del mandante o di un terzo, ma mai
nell’interesse del mandatario. Se il mandatario voleva essere pagato il
contratto era di locatio operis. Il mandato è fonte di obbligazioni in
quanto il mandatario ha l’obbligo di trasferire gli effetti giuridici da
lui compiuti al mandante; il contratto è imperfettamente bilaterale e la
rappresentanza non è diretta. Il mandato si estingueva naturalmente per
espletamento dell’incarico e, posto che si fondava sulla fiducia, si
estingueva per rinunzia o revoca del mandatario (se l’esecuzione del
mandato non aveva avuto inizio) e per morte o per capitis deminutio di una
delle parti (se il mandatario non aveva già dato inizio all’esecuzione).
1. Estinzione delle obbligazioni
La prestazione è il contenuto dell’obbligazione, e vi sono varie
tipologie, quelle del “dare” e quelle del “fare”; la prestazione deve
avere un valore economico in danaro, se non vi è questa valutazione
(interesse) il contratto è nullo; deve essere possibile, lecita,
determinata o determinabile. Lo scioglimento di un vincolo giuridico
potenziale si identifica con il termine solutio. E’ importante il luogo
(domicilio del debitore) e il tempo, se non c’è termine si presume
immediatamente (prestazione immediata).
a) Gli atti estintivi
Atti estintivi secondo il ius civile che agivano ipso iure.
•
Adempimento: ad adempiere poteva essere il debitore o qualunque
terzo; in caso di obligatio da stipulatio, il pagamento poteva
essere fatto a due personaggi, l’adiectus solutionis causa e
l’adstipulator; il primo era quello il cui nome erano previsto nella
formula della stipulatio, mentre il secondo era una persona di
fiducia del creditore principale. Si poteva adempiere anche con una
datio in solutum, ossia una prestazione diversa da quella dovuta, ma
in caso di contestazione si doveva opporre exceptio in quanto da la
datio, da sola, non estingueva l’obbligazione.
•
Acceptilatio: : atto (estintivo) composto da una domanda e dalla
rispettiva risposta attraverso cui il debitore chiedeva al creditore
se avesse ricevuto quello che aveva promesso, e quest'ultimo
rispondeva affermativamente. Si trattava di un istituto simmetrico e
contrario alla sponsio e stipulatio in quanto veniva utilizzato per
estinguere le obbligazioni sorte da questi contratti. In età
classica veniva usato come modo di estinzione delle obbligazioni
anche se debitore non aveva adempiuto.
•
Stipulatio Aquiliana: si fondevano tutti i debiti di una persona
verso l’altra in una sola obbligazione da stipulatio.
•
Solutio per aes et libram: atto formale con cui il debitore
dichiarava solennemente di liberarsi dal potere del creditore in
presenza di 5 testimoni, gettando sulla bilancia il bronzo; quando
venne abolito il nexum divenne un modo per distinguere formalmente
le obbligazioni. Utilizzata in questa epoca per estinguere il legato
per damnationem.
•
Novatio (novazione): trasferimento e trasfusione di un precedente
debito in un’altra obbligazione, con la necessità che vi fosse un
qualcosa di nuovo, ad esempio il mutamento dei soggetti; fenomeno
analogo era il nomen transcripticium.
•
Litis contestatio.
•
Impossibilità oggettiva della prestazione: quando la prestazione
diventava impossibile per cause non imputabili al debitore,
l’obbligazione era estinta; nulla però poteva rendere impossibile la
prestazione quando si trattava di beni fungibili o denaro.
Atti estintivi secondo il ius praetorium agenti ope exceptionis.
•
Acceptilatio
expensilatio.
•
Pactum de non petendo: patto nel quale il creditore si impegna a non
richiedere più l’adempimento del debitore. Nel caso in cui il
creditore avesse richiesto lo stesso l’adempimento, il debitore
avrebbe opposto l’exceptio pacti conventi. Potevano essere in rem,
quando il creditore o il concreditore assumeva l'impegno che la
prestazione non sarebbe stata richiesta, oppure in personam, quando
il concreditore assumeva l'impegno che la prestazione non sarebbe
stata richiesta al singolo condebitore con il quale stringeva il
patto.
•
Morte : la morte del debitore estingueva le obbligazioni da delitto
e anche quelle dello sponsor e del fidepromissor; la morte di uno
dei contraenti estingueva società e mandati.
•
Capitis
letterale:
deminutio:
quella
serviva
maxima
a
sciogliere
estingueva
il
tutti
vincolo
i
rapporti
da
e
quindi anche le obbligazioni.
•
Con cursus causarum: quando un creditore che poteva pretendere una
determinata cosa in forza di un rapporto giuridico, si ritrovava ad
aver ricevuto quella cosa ad altro titolo.
•
Compensazione: compensazione giudiziale in quanto la sanzione era
sempre pecuniaria; stabilita da Giustiniano, era l'imputazione in
pagamento di ciò che il creditore deve a sua volta al debitore; si
poteva opporre solo da parte dei banchieri (argentarii) e del
bonorum emptor (colui che aveva comprato qualcosa dal debitore);
comportava altresì la cessazione della mora, della decorrenza degli
interessi e di tutte le altre obbligazioni accessorie. Requisito
indispensabile era l'omogeneità degli oggetti: le due prestazioni
dovevano avere per oggetto cose fungibili della stessa specie. Non
si poteva opporre la compensazione contro i crediti del fisco, i
mutui e i legati a favore dei municipia, i crediti nascenti da
deposito, violenza, furto. Oggi la compensazione legale è automatica
se debiti o crediti hanno come oggetto somme di denaro.
•
Confusione: concentrazione nella stessa persona della qualità di
creditore e debitore, dovuta ad un evento giuridico; l'ipotesi più
ricorrente era la confusio per successione nel credito, sia mortis
causa che inter vivos. Si legge infatti nelle fonti che «se l'erede
continuasse ad essere credito verso il debitore e in seguito lo
stesso creditore morisse, il legato sarebbe estinto: e ciò è vero,
poiché l'obbligazione si estingue allo stesso modo per confusione e
per solutio»; la confusione operava quindi ipso iure l'estinzione
dell'obbligazione, senza ulteriori formalità.
•
Contrarius consensus: mutuo dissenso, solo per contratti consensuali
e solo se non ha avuto inizio la prestazione.
•
Decorso del tempo: : se il debitore non richiede la prestazione per
un determinato lasso di tempo subentra la prescrizione; nel diritto
romano esisteva solo per le azioni penali e il periodo di tempo era
di 1 anno, le azioni civili sono rimaste imprescrittibili fino al V
sec. quando Teodosio introdusse la prescrizione per 30 anni (nel
nostro ordinamento: 5 o 10 anni).