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Raccolta Testi Italiano per l'Esame di Stato

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ALLEGATO 3
Estratto dal programma di Lingua e Letteratura Italiana
Esame di Stato 2019-2020
Testi per il colloquio
1 “L’infinito” (G. Leopardi)
2 “La sera del dì di festa” (G. Leopardi)
3 “A Silvia” (G. Leopardi)
4 “La quiete dopo la tempesta” (G. Leopardi)
5 “Il sabato del villaggio” (G. Leopardi)
6 “Il passero solitario” (G. Leopardi)
7 “A se stesso” (G. Leopardi)
8 “Rosso Malpelo” (G. Verga)
9 “La Lupa” (G. Verga)
10 e 11 “Come le dita della mano”, dal cap. I de “I Malavoglia” (G. Verga)
12 “La conclusione del romanzo: l’addio al mondo pre-moderno”, dal cap. XV de “I
Malavoglia” (G. Verga)
13 “La Morte di Mastro don Gesualdo” dal libro IV di “Mastro don Gesualdo” (G.
Verga)
14 “Il conte Andrea Sperelli” dal cap. I, libro II de “Il piacere” (G. D’Annunzio)
15 “La prosa notturna” dal “Notturno” (G. D’Annunzio)
16 “La pioggia nel pineto” (G. D’Annunzio)
17 “Qui giacciono i miei cani” (G. D’Annunzio)
18 “Arano” (G. Pascoli)
19 “Novembre” (G. Pascoli)
20 “Temporale” (G. Pascoli)
21 “Il lampo” (G. Pascoli)
22 “X agosto” (G. Pascoli)
23 “L’assiuolo” (G. Pascoli)
24 “Italy” (cap.III, vv. 1-25; cap. IV, vv. 17-25) (G. Pascoli)
25 “Italy” (cap. VI, vv. 1-25; VII 7-25; VIII 7-18 ) (G. Pascoli)
26 “Il gelsomino notturno” (G. Pascoli)
27 “Prefazione” e “Preambolo” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
28 “La morte del padre” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
29 “La salute “malata” di Augusta” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
30 “La profezia di un’apocalisse cosmica” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
31 “Ciàula scopre la luna” (L. Pirandello)
32 “La costruzione della nuova identità e la sua crisi”, dai capp. VIII e IX de “Il Fu
Mattia Pascal” (L. Pirandello)
33 “Non mi saprei proprio dire ch’io mi sia” dal cap. XVIII de “Il fu Mattia Pascal” (L.
Pirandello)
34 “Veglia” (G. Ungaretti)
35 “San Martino del Carso” (G. Ungaretti)
36 “Viatico” (C. Rebora)
37 “Voce di vedetta morta” (C. Rebora)
38 “Mio padre è stato per me l’assassino” (U. Saba)
39 “La confessione alla madre” da “Ernesto” (U. Saba)
40 “Meriggiare pallido e assorto “(E. Montale)
41 “Spesso il male di vivere ho incontrato” (E. Montale)
1- “L’infinito” (G. Leopardi)
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
2- “La sera del dì di festa” (G. Leopardi)
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
3- “A Silvia” (G. Leopardi)
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
4- “La quiete dopo la tempesta” (G. Leopardi)
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.
5- “Il sabato del villaggio” (G. Leopardi)
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E' come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
6- “Il passero solitario” (G. Leopardi)
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
7- “A se stesso” (G. Leopardi)
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
8- “Rosso Malpelo” (G. Verga)
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di
birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino
sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo
nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con
quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere
che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella
maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e
in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno
avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso,
e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra,
e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello
fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue
pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il
soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e
si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre
cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva
altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto
come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove
lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava
assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo
padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a
cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché
non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di
rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la
mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come
mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone;
perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di
tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il
pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar
brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero
sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano
dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona
bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe
tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle
cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare
a fare l'avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che
l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la
pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del
padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era
avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi
bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:
- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e
così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il
cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e
girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa,
contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e
dicesse ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al
sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena
grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i
ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia
e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e
non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo
per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce
di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran
disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse
nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli
ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore,
e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per
scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che
quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva
almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben
bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il
doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare
di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una
bestia davvero.
- To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie
colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si
accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la
schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano
dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non
potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo
pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre
piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si
mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi
da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo
levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava
bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava
che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle
orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più
tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava
al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non
guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino,
povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria
di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e
lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso.
Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse
possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che
un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva
sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio
come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo
loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse
vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a
lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad
uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del
modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche
con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva
così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata
torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero
ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta
da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il
poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo
che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra,
così Ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche
del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza
misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con
maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti
l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai
pestare il viso da questo e da quello! O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici:
- Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva
puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo
batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi
sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le
battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e
ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle
gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può
picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe
la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi;
così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo'
di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con
quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva
a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano
la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia
vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena,
perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più
forte di lui -.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo
piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo
sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una
mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -.
Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane
asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di
badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui
sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a
digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la
minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il
padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si
vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci
avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche
quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato
capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E
qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la
verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno
avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di
fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua
fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta
mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di
lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni
parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in
quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente
gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e
quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per
questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la
camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non
avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia
alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a
sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri
fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,
come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di
buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la
coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano
affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena,
brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto
apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di
gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che
lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei
sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano
finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando
stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare
laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori
dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune,
e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e
lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla
schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la
rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca,
e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora,
avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde,
sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla
testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato
lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto
addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere
veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva
che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo,
il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva
paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva
sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva
condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva
come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di
qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di
ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o
smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter
scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le
strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro
Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi,
proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si
poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu;
sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il
pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere,
osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva
sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder
comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi
un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in
un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre
giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e
steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva
dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso,
e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea
tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e
le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua,
mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la
ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che
caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame,
trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e
la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la
prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto,
giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le
aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli
pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano
accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi,
le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del
papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le
metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui
ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali
idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il
piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti
per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli
avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi
così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene
degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era
andato a buttarlo lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano
lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva
a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli
diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa,
bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani
che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I
cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano
ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li
scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura
delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle
costole al grigio? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo,
colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le
occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le
viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli
accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel
salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei
colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli
mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo
battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li
mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella
bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva
e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o
un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di
piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la
terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso
la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito
coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato
aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il
cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma
io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche
sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava,
ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso
verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le
notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e
là vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe
essere buio sempre e da per tutto -.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava:
- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non
può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava,
perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno
l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni
non sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era
tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna
più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci
stanno volentieri in compagnia dei morti -.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci
stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso,
dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai
loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva
che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da
monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece
dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.
E dopo averci pensato un po':
- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo
chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe
e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in
modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le
corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel
ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in
una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si
sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in
quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle,
e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta,
nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue;
allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa
gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come
l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla
schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio
sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non
si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:
- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la
febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per
comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi,
che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte
sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della
febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla
fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui
ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il
ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e
l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito
sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:
- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu
crepi! E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel
ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne
lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che
altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il
povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava
come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché
sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava
nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta;
sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora
il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel
modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva
tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano
e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché
non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la
civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate
del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora
del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche
di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi,
poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu
era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali
colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo
battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe
divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si
teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era
scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni
ed anni. Malpelo seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si
mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e
guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva
provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo
dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si
contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un
paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in
prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere,
che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo
diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col
pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe
risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni
modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun
padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse
il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo
per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora,
nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e
cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa
udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di
suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e
se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la
voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo
comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
9- “La Lupa” (G. Verga)
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non
era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su
quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi
mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le
donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una
cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si
spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra
rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi
da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la
Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar
messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero
servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era
figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua
bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza
del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e
mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice
innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare,
fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla
pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le
diceva: - O che avete, gnà Pina? - Nei campi immensi, dove scoppiettava
soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava
manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un
momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle
calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in
quando: - Che volete, gnà Pina? Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi
dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te
voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
- Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella - rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e
se ne andò; né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che
cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del
torchio non la faceva dormire tutta notte.
- Prendi il sacco delle olive, - disse alla figliuola, - e vieni -.
Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava - Ohi! - alla mula
perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? - gli domandò la gnà
Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? - rispose Nanni. - Essa ha la roba
di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un
cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può
parlare a Natale - disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle
olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua
madre l'afferrò pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non
lo pigli, ti ammazzo! La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando
invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più
sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava
in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna
per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava
nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a
zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di
gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa
penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In
quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà
Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi
infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano
nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava
sull'orizzonte.
- Svegliati! - disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe
polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, ché ti ho portato il vino per
rinfrescarti la gola -.
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi
ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese
brancolando le mani.
- No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in
fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! andatevene! non ci venite
più nell'aia! Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando
fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava
a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla
viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte - e dopo si cacciava le mani nei
capelli, e le ripeteva ogni volta: - Andatevene! andatevene! Non ci tornate più
nell'aia! Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi
ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, allorché la
vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. - Scellerata! - le diceva. Mamma scellerata!
- Taci!
- Ladra! ladra!
- Taci!
- Andrò dal brigadiere, andrò!
- Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una
lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le
avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca.
Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò
di scolparsi. - È la tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si buttò ai
piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
- Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare,
mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!
- No! - rispose invece la Lupa al brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio
della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia;
non voglio andarmene.
Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il
parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se
ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon
cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione
che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio
sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo
tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. Lasciatemi stare! - diceva alla Lupa - Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la
morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese
lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che
quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non
sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle
anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A
Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a
strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi,
come la Lupa tornava a tentarlo:
- Sentite! - le disse, - non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi,
com'è vero Iddio, vi ammazzo!
- Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché non me ne importa; ma senza di te non
voglio starci -.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la
vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e
stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non
chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di
papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima
vostra! - balbettò Nanni.
10- “Il mondo arcaico e l’irruzione della storia”,
dal cap. I de “I Malavoglia” (G. Verga)
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano
persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di
quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si
chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo,
all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in
figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza
non rimanevano che i Malavoglia di padron 'Ntoni, quelli della casa del nespolo, e
della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio
Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran
danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron 'Ntoni, per
spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di
legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro.
Diceva pure, - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e
il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron 'Ntoni era realmente diposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il
dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché
era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della
città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe
soffiato il naso se suo padre non gli avresse detto «sòffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la
Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a
tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità:
'Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal
nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo
forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena)
soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina
di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia)
ancora né carne né pesce. - Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro,
pareva una processione.
Padron 'Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto
degli antichi mai mentì»: - «Senza pilota barca non cammina» - «Per far da papa bisogna saper far
da sagrestano» - oppure - «Fa' il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» - «Contentati di
quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron 'Ntoni passava per testa quadra, al punto
che a Trezza l'avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la
sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che
proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel
villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron 'Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e
soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da
dar conto».
Nel dicembre 1863, 'Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron
'Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don
Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione
di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don
Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che
se arrivavano a mettere assieme un po' di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li
avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti
sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron 'Ntoni lo pregava e lo strapregava per
l'amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote 'Ntoni andasse soldato, come
se don Franco ce l'avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll'andare in collera. Allora don
Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo
gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo
trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come
se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di
giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che
sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini
stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero 'Ntoni senza dire
«permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto
al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l'abitino della
Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi
gli avrebbero mandato i soldi per la carta.
Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch'esso, ed evitava di
guardare in faccia la nuora, quasi ce l'avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e
a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare
ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in
mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a
cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr'occhi colle vecchie stoviglie, e padron
'Ntoni disse al figliuolo:
- Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più.
Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti
che andavano a Messina, e aspettarono più di un'ora, pigiati dalla folla dietro lo stecconato.
Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli
sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali
che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello
stringimento di cuore che si aveva prima.
- Addio 'Ntoni! - Addio mamma! - Addio! ricordati! ricordati! - Lì presso, sull'argine della via, c'era la
Sara di comare Tudda, a mietere l'erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava
soffiando che c'era venuta per salutare 'Ntoni di padron 'Ntoni, col quale si parlavano dal muro
dell'orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che 'Ntoni
salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si
mosse. Alla Longa, l'era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che
incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i
curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole e qualche povero diavolo, che si
tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si
sbrancarono anch'essi, e padron 'Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara,
le pagò due centesimi di acqua col limone.
12- “La conclusione del romanzo: l’addio al mondo pre-moderno”,
dal cap. XV de “I Malavoglia” (G. Verga)
Alessi s'era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la casa del nespolo.
- Io non sono da maritare, - aveva tornato a dire la Mena; - maritati tu che sei da maritare ancora;
- e cosi ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s'era
messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano pure le
galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e ogni
sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron 'Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato
nell'orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse
passata tanta tela da imbiancare, e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena
si portava in collo pel vicinato quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma.
Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall'altra parte, colle
spalle grosse. - A me non mi avete creduto degno di quest'onore! - le disse alfine quando non ne
poté più, col cuore pi£ grosso delle spalle. - Io non ero degno di sentirmi dir di sì!
- No, compar Alfio! - rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. - Per quest'anima pura
che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son pi£ da maritare.
- Perché non siete pi£ da maritare, comare Mena?
- No! no! - ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. - Non me lo fate dire, compare Alfio! Non
mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacchè
nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne
pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.
- Avete ragione, comare Mena! - rispose compare Mosca; a questo non ci avevo mai pensato.
Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai!
Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti quasi ci
avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri, che
c'erano nati anche loro, - come se fossero stati in viaggio per tomare! - diceva Piedipapera.
Invece padron 'Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d'Alessandria
d'Egitto, dal quale non si ritorna più; e quando il suo nome cadeva nel discorso, mentre si
riposavano, tirando il conto della settimana e facendo i disegni per l'avvenire, all'ombra del
nespolo e colle scodelle fra le ginocchia, le chiacchiere morivano di botto, che a tutti pareva
d'avere il povero vecchio davanti agli occhi, come l'avevano visto l'ultima volta che erano andati
a trovarlo in quella gran cameraccia coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno
li aspettava come un'anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi,
e li andava toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva pi£ nulla, mentre gli si
vedeva in faccia che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si
leggeva in faccia e non la poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa
del nespolo, e volevano portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli
tornavano a luccicare, e quasi faceva la bocca a riso, quel riso della gente che non ride più, o
che ride per l'ultima volta, e vi rimane fitto nel cuore come un coltello. Così successe ai Malavoglia
quando il lunedì tornarono col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono
pi£.
Rammentando tutte queste cose lasciavano il cucchiaio nella scodella e pensavano e pensavano
a tutto quello che era accaduto, che sembrava scuro scuro come ci fosse sopra l'ombra del
nespolo. Ora, quando veniva la cugina Anna a filare un po' con le comari, aveva i capelli bianchi,
e diceva che aveva perso il riso della bocca, perchè non aveva tempo di stare allegra, colla
famiglia che aveva sulle spalle, e Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di
là per le strade e davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo. Anche
dei Malavoglia ce n'erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello a cercarli dove
potevano essere, per le strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero
tornati pi£, dopo tanto tempo.
Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l'uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad
aprire, non riconobbe 'Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato,
coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio,
non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava pi£ quello, e andava guardando in giro le pareti,
come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l'aveva conosciuto mai. Gli misero
fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli
diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non
avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi 'Ntoni, quando si fu sfamato e riposato
alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene.
Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si
senti balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: - Te ne vai?
- Sì! - rispose 'Ntoni.
- E dove vai? - chiese Alessi.
- Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro
qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove
troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.
Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli
faceva bene a dir così. 'Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non
sapeva risolversi ad andarsene. - Ve lo farò sapere dove sarò; - disse infine e come fu nel cortile,
sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: - E il nonno?
Alessi non rispose; 'Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto:
- E la Lia, che non l'ho vista?
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo:
- E' morta anche lei?
Alessi non rispose nemmeno; allora 'Ntoni che era sotto il nespolo colla sporta in mano, fece per
sedersi, poiché le gambe gli tremavano ma si rizzò di botto, balbettando:
- Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?
Prima d'andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto
come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l'animo di lasciarla, e di dare una coltellata a
don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l'animo di passare da una camera all'altra se
non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col
pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c'era
pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella
camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti
lei. 'Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva - Qui pure il nonno avrebbe voluto
metterci il vitello, qui c'erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c'era anche
quell'altra... - Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In
quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e
'Ntoni disse: - Questa qui l'ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare,
andranno a dormire nella loro casa.
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora
qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: - Se volessi
anche tu ci hai la tua casa. Di là c'è apposta il letto per te.
- No ! - rispose 'Ntoni. - Io devo andarmene. Là c'era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto
di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera,
mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia,
tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una
famiglia? Anch'io allora non sapevo nulla, e qui non volevo itarci, ma ora che so ogni cosa devo
andarmene.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli
buttò le braccia al collo.
- Addio, - ripeté 'Ntoni. - Vedi che avevo ragione d'andarmene! qui non posso starci. Addio,
perdonatemi tutti.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e
deserta, che tutti gli usci erana chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del
nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al
paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non
ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e
muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al
gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico.
Allora 'Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il
cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di
massaro Filippo.
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare
che gli brontalava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch'ei
conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d'imposte, e dei passi per le
strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a
guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l'alba, come l'aveva vista tante
volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il
mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle
vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c'era il
lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio
Santoro aprirà la porta - pensò 'Ntoni, - e si accoccolerà sull'uscio a cominciare la sua giornata
anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s'era fatto amaranto, tutto seminato di barche che
avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse:
- Ora è tempo d'andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a
cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.
13 - “La morte di Mastro don Gesualdo”
dal cap. XXI di “Mastro don Gesualdo” (G. Verga)
L'avevano collocato in un quartierino al pian di sopra, poche stanze che chiamavano la
foresteria, dove Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza
neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al
pover'uomo sembrava d'essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così
che pareva non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia,
qualcosa negli occhi, che a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio.
Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un
orecchio: - Cos'hai?... dimmelo!... Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non
posso tradirti!...
Ma anch'essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado anche
della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso... accusando lo stomaco peloso dei
Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!
Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si
gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni
malinconici dietro l'invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella corte
vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli
zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti coi
domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino al collo, o in
panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvide, con le
barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati che
sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi,
stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillate,
discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una
fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano
passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a
buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don
Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta
quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva
dato, su l'Alìa e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo,
sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo,
giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare
e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti
sacrifici, un sasso dopo l'altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe
passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte,
ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva
di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano,
fermavasi appena a dare un'occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo
Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a capo
scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi alla sua vetrina,
gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata
all'anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e
prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava
le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre, dalle arcate del portico che
metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di
sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un'orda
famelica, pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava
qualche visita - un'altra solennità anche quella. - La duchessa certi giorni si metteva in
pompa magna ad aspettare le visite come un'anima di purgatorio. Arrivava di tanto in
tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva
appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla
campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l'alto vestibolo,
e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della
gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le
tegole dirimpetto, a calcolare, con l'amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel
che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili
sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il
denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l'acqua, senza renderlo però,
senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli
consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti
buoni colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei
villaggi interi da fabbricare... delle terre da seminare, a perdita di vista... E un esercito di
mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da
intascare!... Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su
quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle finestre.
Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi,
alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!... Oramai!... oramai!...
Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi, lo
scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente dalla
febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per non seccare il
domestico che sbadigliava nella stanza accanto.
[….]
- Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli...
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani
erranti che l'accarezzavano. L'accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una
parola. Di lì a un po' riprese:
- Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente. - Poi gli venne
una tenerezza. - Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?...
La voce gli si era intenerita anch'essa, gli occhi, tristi, s'erano fatti più dolci, e qualcosa
gli tremava sulle labbra. - Ti ho voluto bene... anch'io... quanto ho potuto... come ho
potuto... Quando uno fa quello che può...
Allora l'attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei
pure, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
- Non ti fo male, di'?... come quand'eri bambina?...
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione,
quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d'interessi, avevano cercato di
mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò
discorso.
- Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso...
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli
lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli
occhi.
- Ma no, parliamone! - insisteva lui. - Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere
adesso. - Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo marito...
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a
sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti...
Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: - Piuttosto farti tagliare la
mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... Lui non sa
cosa vuol dire! - Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l'Alìa, la Canziria, li
passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo
l'altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente,
zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani,
gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme di
terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si
rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... 300 migliaia l'anno, ne davano! Circa 300
onze! E la Salonia... dei seminati d'oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo
nonno che vi lasciò le ossa!...
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
- Basta, - disse poi. - Ho da dirti un'altra cosa... Senti...
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l'effetto che avrebbe fatto
la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e
cercava le parole.
- Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato a delle persone
verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai
conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto
qualcosa anch'io per te...
- Ah, babbo, babbo!... che parole! - singhiozzò Isabella.
- Lo farai, eh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse...
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l'avrebbe
ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in
cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell'altro
segreto, quell'altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle
delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al
confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla
ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi
guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com'essa era Trao, diffidente,
ostile, di un'altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.
- Ora fammi chiamare un prete, - terminò con un altro tono di voce. - Voglio fare i miei
conti con Domeneddio.
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava
anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò
rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l'udì
agitarsi e smaniare prima dell'alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò
dall'altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva
più, andò sonnacchioso a vedere che c'era.
- Mia figlia! - borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. Chiamatemi mia figlia!
- Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, - rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell'accidente! Un po' erano sibili, e un po' faceva peggio di
un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore
strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed
ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che
infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle
parolacce.
- Cos'è? Gli è venuto l'uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il
paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a
dormire gli andò via a un tratto.
- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? - balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare
un po', o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don
Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo
solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto
s'irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime
campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il
domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto,
spalancò le vetrate, e s'affacciò a prendere una boccata d'aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
- Mattinata, eh, don Leopoldo?
- E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M'è toccato a me questo regalo!
L'altro scosse il capo, come a chiedere che c'era di nuovo, e don Leopoldo fece segno
che il vecchio se n'era andato, grazie a Dio.
- Ah... così... alla chetichella?... - osservò il portinaio che strascicava la scopa e le
ciabatte per l'androne.
Degli altri domestici s'erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po' la
camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La
guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far
capolino nella stanza accanto.
- Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche
lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...
- Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... - Ha cessato di penare.
- Ed io pure, - soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano - uno che faceva
della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. - Pazienza
servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla.
- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. - Guardate che
mani!
- Già, son le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos'è nascer fortunati... Intanto vi
muore nella battista come un principe!...
- Allora, - disse il portinaio, - devo andare a chiudere il portone?
- Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora
duchessa.
14 - “Il conte Andrea Sperelli” dal cap. II, libro I de “Il piacere” (G. D’Annunzio)
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che
molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a
poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in
cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d'eletta cultura,
d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo
più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità,
l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica,
la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie.
Un Alessandro Sperelli,
nel 1466, portò a Federico d'Aragona, figliuolo di Ferdinando re di Napoli e fratello d'Alfonso duca
di Calabria, il codice in foglio contenente alcune poesie « men rozze » de' vecchi scrittori toscani,
che Lorenzo de' Medici aveva promesso in Pisa nel '65; e quello stesso Alessandro scrisse per
la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti del suo tempo,
una elegìa latina, malinconica ed abbandonata a imitazion di Tibullo. Un altro Sperelli, Stefano,
nel secolo medesimo, fu in Fiandra, in mezzo alla vita pomposa, alla preziosa eleganza,
all'inaudito fasto borgognone; ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, imparentandosi con
una famiglia fiamminga. Un figliuol suo, Giusto, praticò la pittura sotto
gli insegnamenti di Giovanni Gossaert; e insieme col maestro venne in Italia,
al seguito di Filippo di Borgogna ambasciator dell'imperator Massimiliano presso il papa Giulio II,
nel 1508. Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe
a secondo maestro Piero di Cosimo, quel giocondo e facile pittore, forte ed armonioso colorista,
che risuscitava liberamente col suo pennello le favole pagane. Questo Giusto fu non volgare artista;
ma consumò tutto il suo vigore in vani sforzi per conciliare la primitiva educazione gotica con
il recente spirito del Rinascimento. Verso la seconda metà del secolo XVII
la casata degli Sperelli si trasportò a Napoli. Ivi
nel 1679 un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astrologico De Nativitatibus;
nel 1720 un Giovanni Sperelli diede al teatro un'opera buffa intitolata La Faustina e poi
una tragedia lirica intitolata Progne; nel 1756 un Carlo Sperelli stampò un libro di versi amatorii in
cui molte classiche lascivie erano rimate con l'eleganza oraziana allora
di moda. Miglior poeta fu Luigi, ed uomo di squisita galanteria, alla corte del re lazzarone e
della regina Carolina. Verseggiò con un certo malinconico e gentile epicureismo, assai nitidamente;
ed amò da fino amatore, ed ebbe avventure in copia, talune celebri, come quella con
la marchesa di Bugnano che per gelosia s'avvelenò, e come quella con
la contessa di Chesterfield che morta etica egli pianse in canzoni, odi, sonetti ed elegìe soavissime s
ebbene un poco frondose.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era,
in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo,
il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e
di artisti eleganti, ultimo discendente d'una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La
sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent'anni,
le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la
sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna,
senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte,
il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii, l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vi
vere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una
certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso
suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli
aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed
aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto
in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche
dall'esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più
si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva,
ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di
quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale che il padre stesso non
aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle
sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli
si restringeva sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: « Bisogna fare la propria vita,
come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui.
La superiorità vera è tutta qui. »
Anche, il padre ammoniva: « Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebrezza.
La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: - Habere, non haberi. »
Anche, diceva: « Il rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra
tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e
con nuove imaginazioni. »
Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro potevano
anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in
un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea: il seme del sofisma. «
Il sofisma » diceva quell'incauto educatore « è in fondo ad ogni piacere e ad
ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il
proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell'oscurare la verità. La parola è
una cosa profonda, in cui per l'uomo d'intelletto son nascoste inesauribili ricchezze.
I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell'antichità.
I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso. »
Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco,
in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé
stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch'egli giunse a non poter
mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo,
a ventun anno, signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle
sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze,
con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non
la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese.
Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna,
l'Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna,
dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il
suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci,
come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come
quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi profondi,
il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia,
le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un
qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra
un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda « Che vorreste voi essere? » egli
aveva scritto « Principe romano ».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il
suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su
quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò
tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe
nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino,
una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come
una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che
si specchiano ne' mari australi.
[…]
Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in
ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità.
La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso
morale.
15 - “La prosa notturna” dal “Notturno” (G. D’Annunzio)
Sento il sole dietro le imposte. Sento che c’è
un’afa di marzo chiara e languida sul canale. Sento che è bassa marea.
La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in
una sonnolenza rotta di sussulti e di tremori.
Ascolto.
Lo sciacquìo alla riva lasciato dal battello che passa.
I colpi sordi dell’onda contro la pietra grommosa.
Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risse stridenti, le
loro pause galleggianti.
Il battito di un motore marino.
Il chioccolìo sciocco del merlo.
Il ronzìo lùgubre d’una mosca che si leva e si posa.
Il ticchettìo del pendolo che lega tutti gli intervalli.
La gocciola che cade nella vasca del bagno.
Il gemito del remo nello scalmo.
Le voci umane nel traghetto.
Il rastrello su la ghiaia del giardino.
Il pianto d’un bimbo non racconsolato.
Una voce di donna che parla e non s’intende.
Un’altra voce di donna che dice: «A che ora? a che ora?»
[…]
Dal bulbo dell’occhio, con una fitta improvvisa, rompe il giacinto violetto.
Serro i denti. Sento le barbe aggrovigliate nel cervello. Sento distinte le membrane e
le squame carnose.
Il gambo s’allunga. Il fiore si compisce, s’infoltisce, s’appesantisce. È cupo, è
quasi nero. Lo vedo.
Chi me l’ha scerpato?
Ho paura del mio grido folle.
L’umore vischioso impiastra la compressa, mi cola giù per la gota.
Il nero rispunta, con una fitta più acuta. Rinasce e si stronca e m’invesca. E io grido.
Rigitta ancóra, si spezza ancóra.
Oggi non ho più nell’occhio il giacinto cupo.
Oggi ho nell’occhio non so che fiore villoso, tra rossigno e gialligno, simile all’orecchio
di un cuccioletto.
16 - “La pioggia nel pineto” (G. D’Annunzio)
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
5
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20
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30
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ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
50
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60
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75
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85
90
95
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
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17 - “Qui giacciono i miei cani” (G. D’Annunzio)
Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.
18 - “Arano” (G. Pascoli)
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinno come d'oro.
19 - “Novembre” (G. Pascoli)
Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
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20 – “Temporale” (G. Pascoli)
Un bubbolìo lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
21 - “Il lampo” (G. Pascoli)
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
5
21 – “X agosto” (G. Pascoli)
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh!, d’un pianto di stelle lo innondi
quest’atomo opaco del Male!
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23 – “L’assiuolo” (G. Pascoli)
Dov’era la luna? Ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
24 - “Italy”: cap.III, vv. 1-25; cap. IV, vv. 17-25) (G. Pascoli)
E i figli la rividero alla fiamma
del focolare, curva, sfatta, smunta.
«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»
Ed accostando agli occhi, essa, la punta
del pannelletto, con un fil di voce:
«E il Cecco è fiero? E come va l'Assunta?»
«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
I muri grezzi apparvero col banco
vecchio e la vecchia tavola di noce.
Di nuovo, un moro, con non altro bianco
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
la lenza a spalla ed una mano al fianco:
roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
S'udiva il soffio delle vacche, e il sito
della capanna empiva l'abituro.
Beppe sedé col capo indolenzito
tra le due mani. La bambina bionda
ora ammiccava qua e là col dito.
Parlava, e la sua nonna, tremebonda,
stava a sentire e poi dicea: «Non pare
un luì quando canta tra la fronda?»
Parlava la sua lingua d'oltremare:
«... a chicken-house» «un piccolo luì...»
«... for mice and rats» «che goda a cinguettare,
zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»
Maria guardava. Due rosette rosse
aveva, aveva lagrime lontane
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.
La nonna intanto ripetea: «Stamane
fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
mettea sul desco ed affettava il pane.
Pane di casa e latte appena munto.
Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:
«Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»
25 – “Italy”: cap. VI, vv. 1-25; VII 7-25; VIII 7-18 (G. Pascoli)
Oh! no: non c'era lì né pie né flavour
né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»
Oh! no: starebbe in Italy sin tanto
ch'ella guarisse: one month or two, poor Molly!
E Ioe godrebbe questo po' di scianto!
Mugliava il vento che scendea dai colli
bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta
fissò la fiamma con gli occhioni molli.
Venne, sapendo della lor venuta,
gente, e qualcosa rispondeva a tutti
Ioe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta...
molti bisini, oh yes... No, tiene un fruttistendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...
Conta moneta: può campar coi frutti...
Il baschetto non rende come prima...
Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...
Yes, l'ho rivisto nel pigliar la stima...»
Il tramontano discendea con sordi
brontoli. Ognuno si godeva i cari
ricordi, cari ma perché ricordi:
quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari
per farsi un campo, per rifarsi un nido...
Un campettino da vangare, un nido
da riposare: riposare, e ancora
gettare in sogno quel lontano grido:
Will you buy... per Chicago e Baltimora,
buy images... per Troy, Memphis, Atlanta,
con una voce che te stesso accora:
cheap!... nella notte, solo in mezzo a tanta
gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;
cheap!... Finalmente un altro odi, che canta...
Tu non sai come, intorno a te le cime
sono dell'Alpi, in cui si arrossa il cielo:
chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.
«La mi' Mèrica! Quando entra quel gelo,
ch'uno ritrova quella stufa roggia
per il gran coke, e si rià, poor fellow!
O va per via, battuto dalla pioggia.
Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.
Un uomo compra tutto. Anche, l'alloggia!»
Diceva alcuno; ed assentiano al detto
gli altri seduti entro la casa nera,
più nera sotto il bianco orlo del tetto.
Uno guardò la piccola straniera,
prima non vista, muta, che tossì.
«You like this country...» Ella negò severa:
«Oh no! Bad Italy! Bad Italy!»
Ghita diceva: «Mamma, a che filate?
Nessuna fila in Mèrica. Son usi
d'una volta, del tempo delle fate.
Oh yes! filare! Assai mi ci confusi
da bimba. Or c'è la macchina che scocca
d'un frullo solo centomila fusi.
Oh yes! Ben altro che la vostra rócca!
E fila unito. E duole poi la vita
e ci si sente prosciugar la bocca!»
La mamma allora con le magre dita
le sue gugliate traea giù più rare,
perché ciascuna fosse bella unita.
Vedea le fate, le vedea scoccare
fusi a migliaia, e s'indugiava a lungo
nel suo cantuccio presso il focolare.
Diceva: «Andate a letto, io vi raggiungo».
Vedea le mille fate nelle grotte
illuminate. A lei faceva il fungo
la lucernina nell'oscura notte.
Ghita diceva: «Madre, a che tessete?
Là può comprare, a pochi cents, chi vuole,
cambrì, percalli, lustri come sete.
E poi la vita dite che vi duole!
C'è dei telari in Mèrica, in cui vanno
ogni minuto centomila spole.
E ce n'ha mille ogni città, che fanno
ciascuno tanta tela in uno scatto,
quanta voi non ne fate in capo all'anno».
Dicea la mamma: «Il braccio ch'io ricatto
bel bello, vuole diventar rotello.
O figlia, più non è da fare, il fatto».
26 - “Il gelsomino notturno” (G. Pascoli)
E s’aprono i fiori notturni ,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
Le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi ,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
L’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
Trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
Va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
L’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…
È l’alba: si chiudono i petali
Un poco gualciti ; si cova,
dentro l’urna molle e segreta ,
non so che felicità nuova.
27 - “Prefazione” e “Preambolo” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
PREFAZIONE
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere.
Chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo
scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di
psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in
tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio
alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati
insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla
cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere
con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura.
Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli
dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
PREAMBOLO
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse
potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli
d'ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose
recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima.
Ma un po' d'ordine pur dovrebb'esserci e per poter cominciare ab ovo, appena
abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per
facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile
d'intenderlo, ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di
carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il
mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S'alza, s'abbassa... ma è la sua sola
attività. Per ricordargli ch'esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi,
afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di
tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L'esperimento finì nel sonno più profondo e
non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto
durante quel sonno qualche cosa d'importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini
bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che
sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove
vada e perché sia ora capitata qui!
Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a
ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché
dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche
settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le
mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia
infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell'importanza di
ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere
che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa
che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla
ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui
sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la
tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni
minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te,
perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo
di persone ch'io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo,
tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.
28 - “La morte del padre” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
Mia madre era morta quand'io non avevo ancora quindici anni. Feci delle poesie per
onorarla ciò che mai equivale a piangere e, nel dolore, fui sempre accompagnato dal
sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una vita seria e di lavoro. Il
dolore stesso accennava ad una vita più intensa. Poi un sentimento religioso tuttavia vivo
attenuò e addolcì la grave sciagura. Mia madre continuava a vivere sebbene distante da
me e poteva anche compiacersi dei successi cui andavo preparandomi. Una bella
comodità! Ricordo esattamente il mio stato di allora. Per la morte di mia madre e la
salutare emozione ch'essa m'aveva procurata, tutto da me doveva migliorarsi.
Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più
ed io poi, a trent'anni, ero un uomo finito. Anch'io! M'accorsi per la prima volta che la
parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il
mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt'altro!
Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di
sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all'altra, con una fiducia indistruttibile
nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita,
sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non
c'era più una dimane ove collocare il proposito. Tante volte, quando ci penso, resto
stupito della stranezza per cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia
prodotta alla morte di mio padre e non prima. Sono in complesso cose recenti e per
ricordare il mio enorme dolore e ogni particolare della sventura non ho certo bisogno di
sognare come vogliono i signori dell'analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino
alla sua morte io non vissi per mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e,
quando si poté farlo senz'offenderlo, lo evitai. All'Università tutti lo conoscevano col
nomignolo ch'io gli diedi di vecchio Silva manda denari. Ci volle la malattia per legarmi
a lui; la malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il medico lo diede
subito per spacciato. Quand'ero a Trieste ci vedevamo sì e no per un'oretta al giorno, al
massimo. Mai non fummo tanto e sì a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari
l'avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato. Era difficile di trovarsi
insieme anche perché fra me e lui, intellettualmente non c'era nulla di comune.
Guardandoci, avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento, reso in lui più acido
da una viva paterna ansietà per il mio avvenire; in me, invece, tutto indulgenza, sicuro
com'ero che le sue debolezze oramai erano prive di conseguenze, tant'è vero ch'io le
attribuivo in parte all'età. Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, - a me sembra, troppo presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l'appoggio di una convinzione
scientifica, egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva - e
qui con fede scientifica sicura - ad aumentare la mia diffidenza per lui.
Egli godeva però della fama di commerciante abile, ma io sapevo che i suoi affari da
lunghi anni erano diretti dall'Olivi. Nell'incapacità al commercio v'era una somiglianza
fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza
e lui la debolezza. Già quello che ho registrato in questi fascicoli prova che in me c'è e
c'è sempre stato - forse la mia massima sventura - un impetuoso conato al meglio. Tutti i
miei sogni di equilibrio e di forza non possono essere definiti altrimenti. Mio padre non
conosceva nulla di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d'accordo sul modo come
l'avevano fatto ed io devo ritenere ch'egli mai abbia compiuti degli sforzi per migliorarsi.
Fumava il giorno intero e, dopo la morte di mamma, quando non dormiva, anche di
notte. Beveva anche discretamente; da gentleman, di sera, a cena, tanto da essere sicuro
di trovare il sonno pronto non appena posata la testa sul guanciale. Ma, secondo lui, il
fumo e l'alcool erano dei buoni medicinali.
In quanto concerne le donne, dai parenti appresi che mia madre aveva avuto qualche
motivo di gelosia. Anzi pare che la mite donna abbia dovuto intervenire talvolta
violentemente per tenere a freno il marito. Egli si lasciava guidare da lei che amava e
rispettava, ma pare ch'essa non sia mai riuscita ad avere da lui la confessione di alcun
tradimento, per cui morì nella fede di essersi sbagliata. Eppure i buoni parenti
raccontano ch'essa ha trovato il marito quasi in flagrante dalla propria sarta. Egli si scusò
con un accesso di distrazione e con tanta costanza che fu creduto. Non vi fu altra
conseguenza che quella che mia madre non andò più da quella sarta e mio padre
neppure. Io credo che nei suoi panni io avrei finito col confessare, ma che poi non avrei
saputo abbandonare la sarta, visto ch'io metto le radici dove mi soffermo.
Mio padre sapeva difendere la sua quiete da vero pater familias. L'aveva questa quiete
nella sua casa e nell'animo suo. Non leggeva che dei libri insulsi e morali. Non mica per
ipocrisia, ma per la più sincera convinzione: penso ch'egli sentisse vivamente la verità di
quelle prediche morali e che la sua coscienza fosse quietata dalla sua adesione sincera
alla virtù.
Adesso che invecchio e m'avvicino al tipo del patriarca, anch'io sento che un'immoralità
predicata è più punibile di un'azione immorale. Si arriva all'assassinio per amore o per
odio; alla propaganda dell'assassinio solo per malvagità.
Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch'egli mi confessò che una delle persone che
più l'inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m'aveva spinto a
studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di
quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v'era bisogno di ricordare
valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva. Niente movimento
perché l'esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll'arrestarsi. Anche la terra era
per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai,
ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse.
M'interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella
gente con la testa all'ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.
Egli mi rimproverava due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle
cose più serie. In fatto di distrazione egli differiva da me per un certo suo libretto in cui
notava tutto quello ch'egli voleva ricordare e che rivedeva più volte al giorno. Credeva
così di aver vinta la sua malattia e non ne soffriva più. Impose quel libretto anche a me,
ma io non vi registrai che qualche ultima sigaretta.
In quanto al mio disprezzo per le cose serie, io credo ch'egli avesse il difetto di
considerare come serie troppe cose di questo mondo. Eccone un esempio: quando, dopo
di essere passato dagli studii di legge a quelli di chimica, io ritornai col suo permesso ai
primi, egli mi disse bonariamente: - Resta però assodato che tu sei un pazzo.
Io non me ne offesi affatto e gli fui tanto grato della sua condiscendenza, che volli
premiarlo facendolo ridere. Andai dal dottor Canestrini a farmi esaminare per averne un
certificato. La cosa non fu facile perché dovetti sottomettermi perciò a lunghe e
minuziose disamine. Ottenutolo, portai trionfalmente quel certificato a mio padre, ma
egli non seppe riderne. Con accento accorato e con le lacrime agli occhi esclamò: - Ah!
Tu sei veramente pazzo!
E questo fu il premio della mia faticosa e innocua commediola. Non me la perdonò mai e
perciò mai ne rise. Farsi visitare da un medico per ischerzo? Far redigere per ischerzo un
certificato munito di bolli? Cose da pazzi!
Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di
quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione.
[…]
Andammo al letto dell'ammalato. Con l'aiuto dell'infermiere egli girò e rigirò quel
povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò.
Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.
- Basta! - disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il
pavimento e, con un sospiro, mi disse:
- Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.
Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.
Era perciò senza occhiali e quando l'alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la
testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi
prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui.
Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben
chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così
senz'occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le
cercavano dappertutto.
Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro
che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli
dell'avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con
bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la
sua scienza avrebbe potuto tutt'al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non
impedirla.
Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di
rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse
lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli
nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui
sedevamo giornalmente insieme. L'evidenza della mia colpa m'atterrò, ma il dottore non
insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo
e ch'io perciò la deridevo.
Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. - Fra un paio d'ore probabilmente
ricupererà la coscienza almeno in parte, - disse.
- C'è qualche speranza dunque? - esclamai io.
- Nessunissima! - rispose seccamente. - Però le mignatte non sbagliano mai in questo
caso. Ricupererà di sicuro un po' della sua coscienza, forse per impazzire.
Alzò le spalle e rimise a posto l'asciugamano. Quell'alzata di spalle significava proprio
un disdegno per l'opera propria e m'incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all'idea che
mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza
quell'alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.
- Dottore! - supplicai. - Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?
Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l'avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi
abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal
dottore il giudizio che avevo osato di dare sull'opera sua.
Con grande bontà egli mi disse:
- Via, si calmi. La coscienza dell'infermo non sarà mai tanto chiara da fargli
comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch'è moribondo, ed
egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però
portata con me la camicia di forza e l'infermiere resterà qui.
Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta
calma mi raccontò che l'infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne
aveva dato l'ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m'arrabbiai. Poteva
esserci un'azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz'avere la
minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover
sopportare - con quell'affanno! - la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre
accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che
mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente
condannato.
Io odio quell'uomo perché egli allora s'arrabbiò con me. È ciò ch'io non seppi mai
perdonargli. Egli s'agitò tanto che dimenticò d'inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse
esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi
disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era
ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.
Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli
stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l'ammalato. La casa mia e chi vi
abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c'erano altri posti a questo
mondo!
Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:
- Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell'istante. Ma chi può dire quello che
può avvenire fra mezz'ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata
aperta la via a tutte le possibilità.
Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d'impiegato pedantesco, aggiunse ancora
delle spiegazioni che non finivano più, sull'importanza che poteva avere l'intervento del
medico nel destino economico di una famiglia. Mezz'ora in più di respiro poteva
decidere del destino di un patrimonio.
Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose
in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state
applicate!
Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich
usai ogni riguardo. Dev'essere stato per tale riguardo ch'io non osai di proporre un
consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora anche quel rimorso è morto
insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei
di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio cuore, di quei giorni, non v'è altro residuo
che l'antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.
Più tardi andammo ancora una volta al letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva
adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta una pezzuola sulla tempia per coprire le
ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle subito provare se la sua coscienza avesse
aumentato e gli gridò nelle orecchie. L'ammalato non reagì in alcun modo.
- Meglio così! - dissi io con grande coraggio, ma sempre piangendo.
- L'effetto atteso non potrà mancare! - rispose il dottore. - Non vede che la respirazione
s'è già modificata?
Infatti, frettolosa e affaticata, la respirazione non formava più quei periodi che mi
avevano spaventato.
L'infermiere disse qualche cosa al medico che annuì. Si trattava di provare al malato la
camicia di forza. Trassero quell'ordigno dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo
a star seduto sul letto. Allora l'ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti
alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo che subito guardassero e vedessero tutto.
Invece, quando la testa dell'ammalato ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero,
come quelli di certe bambole.
Il dottore trionfò:
- È tutt'altra cosa; - mormorò.
Sì: era tutt'altra cosa! Per me nient'altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio
padre sulla fronte e nel pensiero gli augurai:
- Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al sonno eterno!
Ed è così che augurai a mio padre la morte, ma il dottore non l'indovinò perché mi disse
bonariamente:
- Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo ritornare in sé!
Quando il dottore partì, l'alba era spuntata. Un'alba fosca, esitante. Il vento che soffiava
ancora a raffiche, mi parve meno violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.
Accompagnai il dottore in giardino. Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse
il mio livore. La mia faccia significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una
smorfia di disgusto, che mi sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il
viottolo che conduceva all'uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve,
barcollava e si fermava ad ogni raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella
smorfia e sentii il bisogno di altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche
minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve
alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso.
Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo
osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto
filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.
Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell'avvenire indagando
per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi
molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua
camera.
Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme
all'infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai.
Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano
lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il
dolore, fu d'uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.
L'infermiere mi disse:
- Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in
quel momento, ansante più che mai, l'ammalato s'era coricato. Ero deciso: avrei costretto
mio padre di restare almeno per mezz'ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il
mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia
pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel'impedii mentre a
voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato,
egli obbedì. Poi esclamò:
- Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia
mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che
allora la sua ira fu aumentata al trovarsi - sebbene per un momento solo - impedito nei
movimenti e gli parve certo ch'io gli togliessi anche l'aria di cui aveva tanto bisogno,
come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo
arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch'egli non
poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia
guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch'egli,
moribondo, aveva voluto darmi. Con l'aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto.
Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell'orecchio:
- Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:
- Ti lascerò movere come vorrai.
L'infermiere disse:
- È morto.
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più
provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch'era sempre
fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta
esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto?
Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi
qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere
stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col
dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si
fosse congedato da me. A lui, che m'aveva già accusato di aver mancato di affetto per
mio padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l'infermiere, in cucina, di
sera, raccontava a Maria: - Il padre alzò alto alto la mano e con l'ultimo suo atto picchiò
il figliuolo. - Egli lo sapeva e perciò Coprosich l'avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere.
L'infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma.
La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani
grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che
parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l'avevo sempre
conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m'era stato inflitto
da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio
padre s'accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso:
eravamo oramai perfettamente d'accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.
Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che
mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La
bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per
parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore
illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero
- e qui voglio confessarlo - che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai
l'anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad
alta voce per averne il conforto di cui qualche volta - raramente - non si può fare a meno.
29 - “La salute “malata” di Augusta” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla
felicità. Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di
nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta
che mi stupì: io amavo Augusta com'essa amava me. Dapprima diffidente, godevo
intanto di una giornata e m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa. Ma una
seguiva e somigliava all'altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era
la sorpresa - mia. Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la
stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto
prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta?
Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E
vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
- Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto così? Lo sapevo pur io
che sono tanto più ignorante di te!
Non so più se dopo o prima dell'affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande
speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch'era la salute personificata. Durante
il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a
studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non
era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori
dell'aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano
passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge
e nell'ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché
basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo
comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo
poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa
credeva la vita eterna. Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli
errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di
ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non
toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme.
Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un
periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva come si fosse arrivati a darsi del
tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più
per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana
quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva
segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di
non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia
ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un
uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di
natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La
terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili
avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il
verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e
quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non
m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche
quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come
sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le
infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa
sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la
beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella
austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre
del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che
avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a
toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma
perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto,
mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi
sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la
converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse
avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni,
mai ebbi tale dubbio.
30 - “La profezia di un’apocalisse cosmica” da “La Coscienza di Zeno” (I. Svevo)
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri
miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre
mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo
credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle
bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste
e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una
minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli
uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza
di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia
che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella
comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò
il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo
organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo
s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci
sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute
e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si
vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che
la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano
prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello
stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che
crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge
del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe:
sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e
ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto
di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al
quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed
un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato,
ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo
effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra
ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
31 - “Ciàula scopre la luna” (L. Pirandello)
I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante
casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il
soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti alla buca della Cace, per
impedire che ne uscissero.
– Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino
all’alba, o faccio fuoco!
– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con
risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata,
passarono tutti, meno uno. Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale
Cacciagallina poteva far bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che
neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in
faccia, scrollandolo furiosamente:
– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello! Zi’ Scarda si
lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo,
quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era,
poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno
più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini;
ridevano e gridavano:
– Ecco, sì! tieniti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone
– Gioventù! – sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.
E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato
opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.
Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di
baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel
corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di
quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicaj.
Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né
faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versacelo solito, con cui, non senza stento, si
deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro
occhio, da quello buono.
Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e
più metri sottoterra, col piccone in mano, che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di
rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era
quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa
fiammella fumosa della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro
infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del palo o della piccozza, piegava la
testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse
giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche
quelle del pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliuolo, per lo
scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva
giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e
mormorava un nome:
– Calicchio…
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della
stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni
sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità
che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
– Dio gliene renda merito.
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.
Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le
buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di
quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo
aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il
suo caruso,che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo
com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamano le cornacchie ammaestrate:
– Te’, pa’! te ’, pa’!
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un
tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse
durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a
una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva
essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia,
che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei
quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente
ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche,
durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei
compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli
apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i
calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un
cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il
verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava
al paese.
– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò
tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per
noi il Signore non fa notte.
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si
poggiò le mani su le reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
– Gna bonu! (Va bene.)
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte
non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’
Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e
schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a
scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, col fiato mózzo, quel suo crocchiare a ogni
scalino, quasi in un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne
rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi dal carico, gli aspetti noti delle
cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza
che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava
in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche
lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro
qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la
mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il
suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto
della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia
strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito
d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un
cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo
desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni
mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di
zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciati dallo scoppio della mina,
e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù, nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era
sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano
accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro
noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e
quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel
silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo
conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece,
nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel
silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte,
piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva esser lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro
aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in
tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza,
come se qualcuno lo avesse inseguito.
Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse
pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato,
sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava
attentamente la lumierina di terracotta.
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai,
né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo
di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della
macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammentarlo sul sacco
attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a
un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al
peso, con quel tremitio, Ciàula gridò:
– Basta! basta!
– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda. E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così
caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin
lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse
aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non né poteva
più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco,
sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando
sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte,
a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia,
ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno,
arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di
fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico,
pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva
veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la
lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal
ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva
ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità
d’argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse
strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva
sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò
un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la
Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai
importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la
Luna… C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande
dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio
velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per
lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
32 - “La costruzione della nuova identità e la sua crisi”
dai capp. VIII e IX de “Il Fu Mattia Pascal” (L. Pirandello)
Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevan o voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza
non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d'encomio, quanto per obbedire
alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr'uomo.
Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire
miseramente nella gora d'un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse
sorte migliore.
Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell'intimo, non rimanesse più in
me alcuna traccia di lui.
Ero solo ormai, e più solo di com'ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d'ogni
legame e d'ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del
mio passato, e con I'avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.
Ah, un pajo d'ali! Come mi sentivo leggero!
Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me,
ormai, ragion d'essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi
neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal.
Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna
aveva voluto concedermi.
« E innanzi tutto, » dicevo a me stesso, « avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso
per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e
passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole.
Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di
belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi
trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto
due vite, ma d'essere stato due uomini. »
Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi
accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far
nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto.
Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star
curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere
doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio su quella barbaccia che non m'apparteneva
più, armato di certi forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d'esser sorretti in punta con
l'altra mano. Non m'arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi
sentii scuotere pian piano.
Il brav'uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se era stato bravo.
Mi parve troppo!
- No, grazie, - mi schermii. - Lo riponga. Non vorrei fargli paura.
Sbarrò tanto d'occhi, e:
- A chi? - domandò.
- Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev'essere antico...
Era tondo, col manico d'osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in
quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi
stupito, me lo posi sotto gli occhi.
Se era stato bravo!
Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e
radicale; alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il
mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel
barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che
naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio!
« Ah, quest'occhio, » pensai, « così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia!
Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che
coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con
questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e
cappellaccio a larghe tese. »
Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d'aspetto. Ebbene,
pazienza: mi sarei armato d'una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera
umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più
parermi un po' ridicola e meschina.
[….]
Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di
ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia
infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar
profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di
quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era d'un tratto
quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi,
poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh
levità deliziosa dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico,
all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli
altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro:
« Vedrai, vedrai com'essa t'apparirà curiosa, ora, a guardarla cosi da fuori!
[….]
In fondo, ero già un po' stanco di quell'andar girovagando sempre solo e muto. Istintivamente
cominciavo a sentir il bisogno di un po' di compagnia. Me ne accorsi in una triste giornata di
novembre, a Milano, tornato da poco dal mio giretto in Germania.
Faceva freddo, ed era imminente la pioggia, con la sera. Sotto un fanale scorsi un vecchio
cerinajo, a cui la cassetta, che teneva dinanzi con una cinta a tracolla, impediva di ravvolgersi
bene in un logoro mantelletto che aveva su le spalle. Gli pendeva dalle pugna strette sul mento un
cordoncino, fino ai piedi. Mi chinai a guardare e gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto
minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente, lì
rincantucciato. Povera bestiolina! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi rispose di sì e che me
l'avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto: ah, si sarebbe fatto un bel cane, un
gran cane, quella bestiola:
- Venticinque lire...
Seguitò a tremare il povero cucciolo, senza inorgoglirsi punto di quella stima: sapeva di certo che il
padrone con quel prezzo non aveva affatto stimato i suoi futuri meriti, ma la imbecillità che aveva
creduto di leggermi in faccia.
Io intanto, avevo avuto il tempo di riflettere che, comprando quel cane, mi sarei fatto sì, un amico
fedele e discreto, il quale per amarmi e tenermi in pregio non mi avrebbe mai domandato chi fossi
veramente e donde venissi e se le mie carte fossero in regola; ma avrei dovuto anche mettermi a
pagare una tassa: io che non ne pagavo più! Mi parve come una prima compromissione della mia
libertà, un lieve intacco ch'io stessi per farle.
- Venticinque lire? Ti saluto! - dissi al vecchio cerinajo.
Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che già il cielo cominciava a
mandare, m'allontanai, considerando però, per la prima volta, che era bella, sì, senza dubbio,
quella mia libertà così sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva
neppure di comperarmi un cagnolino.
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e
nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come ho
detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po'
di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a
prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva.
« Ma sta' a vedere, » mi rampognavo, « che non debba più far nuvolo perché tu possa ora godere
serenamente della tua libertà! »
M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la
sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse
un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di
sorta!
Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché
come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una
regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi.
Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra,
indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal
luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo:
« Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente.
Eppure, in quanti luoghi ho detto: - Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E ho invidiato
gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano
dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi
viaggia. »
Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi
ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno.
Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per cosi
dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle
sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che
un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce
cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così,
quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto,
insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e
noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi.
Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d'albergo ?
Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari erano pochini... Ma
una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante
cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua,
domani là. Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora : registri e tasse subito! E non mi
avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?,
forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!... No, via:
prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in
qualche famiglia, in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco?
L'inverno, L'inverno m'ispirava queste riflessioni malinconiche, La prossima festa di Natale che fa
desiderare il tepore d'un cantuccio caro, il raccoglimento, l'intimità della casa.
Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L'altra, più antica, della casa paterna, l'unica
ch'io potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel mio nuovo stato.
Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando che davvero non sarei stato più lieto, se avessi
passato a Miragno, tra mia moglie e mia suocera - (rabbrividivo!) - quella festa di Natale.
Per ridere, per distrarmi, m'immaginavo intanto, con un buon panettone sotto il braccio, innanzi
alla porta di casa mia.
« - Permesso? Stanno ancora qua le signore Romilda Pescatore, vedova Pascal, e Marianna
Dondi, vedova Pescatore? »
« - Sissignore. Ma chi è lei? »
« - Io sarei il defunto marito della signora Pascal, quel povero galantuomo morto l'altr'anno,
annegato. Ecco, vengo lesto lesto dall'altro mondo per passare le feste in famiglia, con licenza dei
superiori. Me ne riparto subito! »
Rivedendomi cosi all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento la vedova Pescatore? Che! Lei?
Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire me, dopo due giorni.
La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi
liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero
libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il
momento... chi sa quanti erano soli com'ero io!
« Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son
forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno
casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu
invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della
vita, Adriano Meis. »
[…]
Bastava guardarlo, bastava considerare un poco quella sua minuscola ridicola personcina, per
accorgersi ch'egli mentiva, senza bisogno d'altre prove.
Allo stupore seguì in me un profondo avvilimento di vergogna per lui, che non si rendeva conto
del miserabile effetto che dovevano naturalmente produrre quelle sue panzane, e anche per me
che vedevo mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui che non ne avrebbe avuto alcun
bisogno; mentre io, che non potevo farne a meno, io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni
volta, torcer l'anima dentro.
Avvilimento e stizza. Mi veniva d'afferrargli un braccio e di gridargli:
« Ma scusi, cavaliere, perché? perché? »
Se però erano ragionevoli e naturali in me l'avvilimento e la stizza, mi accorsi, riflettendoci bene,
che sarebbe stata per lo meno sciocca quella domanda. Infatti, se il caro ometto imbizzarriva cosi
a farmi credere a quelle sue avventure, la ragione era appunto nel non aver egli alcun bisogno di
mentire; mentre io... io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che per lui, insomma, poteva essere
uno spasso e quasi l'esercizio d'un diritto, era per me, all'incontro, obbligo increscioso, condanna.
E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla
mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né
amici... Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di
quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io
potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co' miei simili un breve scambio di
parole aliene.
Ebbene, erano gl'inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi sarei scoraggiato per questo?
« Vivrò con me e di me, come ho vissuto finora! »
Sì; ma ecco: per dir la verità, temevo che della mia compagnia non mi sarei tenuto né contento
né pago. E poi, toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi una mano su quei
capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul naso, provavo una strana impressione: mi pareva
quasi di non esser più io, di non toccare me stesso.
Siamo giusti, io mi ero conciato a quel modo per gli altri, non per me. Dovevo ora star con me, così
mascherato? E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire per
gli altri, per chi doveva servire? per me? Ma io, se mai, potevo crederci solo a patto che ci
credessero gli altri.
Ora, se questo Adriano Meis non aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, e si
appartava e rientrava in albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate d'inverno, per le vie
di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto Mattia Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh,
avrebbero cominciato a camminar male; che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento,
e che la mia bella fortuna, allora...
Ma la verità forse era questa: che nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a
vivere in qualche modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto, mi
pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli.
Ed ecco, mi cacciavo, di nuovo, fuori, per le strade, osservavo tutto, mi fermavo a ogni nonnulla,
riflettevo a lungo su le minime cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo qualche giornale,
guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo anch'io. Ma la vita, a considerarla così,
da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel
rimescolìo di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m'intronavano.
« Oh perché gli uomini, » domandavo a me stesso, smaniosamente, « si affannano così a rendere
man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di
macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così
detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza
crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja
in fondo proviamo noi, anche ammirandole? »
In un tram elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un pover'uomo, di quelli che non possono
fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente.
- Che bella invenzione! - mi aveva detto. - Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano.
Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover'uomo, e non pensava che il suo
stipendiuccio se n'andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita
fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc.
Eppure la scienza, pensavo, ha l'illusione di render più facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche
ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e
complicate, domando io: « E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che
rendergliela facile e quasi meccanica? ».
Rientravo in albergo.
Là, in un corridojo, sospesa nel vano d'una finestra, c'era una gabbia con un canarino. Non
potendo con gli altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli
rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli parlasse e ascoltava
e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di nidi, di foglie, di libertà... Si agitava nella
gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva,
ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m'inteneriva, mentre io non sapevo che cosa gli avessi
detto...
Ebbene, a pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di simile? Non crediamo anche noi
che la natura ci parli? e non ci sembra di cogliere un senso nelle sue voci misteriose, una risposta,
secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che le rivolgiamo? E intanto la natura, nella sua
infinita grandezza, non ha forse il più lontano sentore di noi e della nostra vana illusione.
Ma vedete un po' a quali conclusioni uno scherzo suggerito dall'ozio può condurre un uomo
condannato a star solo con se stesso! Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque sul
punto di diventare sul serio un filosofo?
No, no, via, non era logica la mia condotta. Così, non avrei potuto più oltre durarla. Bisognava
ch'io vincessi ogni ritegno, prendessi a ogni costo una risoluzione.
Io, insomma, dovevo vivere, vivere, vivere.
33 - “Non mi saprei proprio dire ch’io mi sia”
dal cap. XVIII de “Il fu Mattia Pascal” (L. Pirandello)
Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa
sua. La mia bislacca avventura m'ha rialzato d'un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in
cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di
don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui
egli serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere
che frutto se ne possa cavare.
- Intanto, questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che
sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità.
Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la
lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CUOR GENEROSO ANIMA APERTA
QUI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA' DEI CONCITTADINI
QUESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là.
Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e considerando la mia condizione - mi domanda:
- Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
- Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal.
34 - “Veglia” (G. Ungaretti)
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Cima Quattro, 23 dicembre 1915
35 - “San Martino del Carso” (G. Ungaretti)
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato
(Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916)
36 - “Viatico” (C. Rebora)
O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
Pietà di noi rimasti
A rantolarci e non ha fine l’ora,
Affretta l’agonia,
Tu puoi finire,
E conforto ti sia
Nella demenza che non sa impazzire,
Mentre sosta il momento
Il sonno sul cervello,
Làsciaci in silenzio –
grazie, fratello
37 - “Voce di vedetta morta” (C. Rebora)
C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l'uomo
E la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch'è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t'ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.
38 - “Mio padre è stato per me l’assassino” (U. Saba)
Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
39 - “La confessione alla madre” da “Ernesto” (U. Saba)
Capì qual era la sola cosa che gli restava da fare e decise, per quanto gli costasse, di
farla.
«Dal signor Wilder – disse a sua madre – non ci ritorno più».
La signora Celestina rimase un po’ impressionata dall’accento risoluto del figlio. Però
pensava ancora che si trattasse di un ripicco, di orgoglio offeso, o qualcosa di simile.
«Non ti farà nessun rimprovero, – disse; – me l’ha promesso. Mi ha fatto anche
comprendere che, se tutto ritornerà come prima, ti crescerà, per la fi ne dell’anno, la
paga. Lo aveva già pensato prima che tu gli scrivessi la lettera. Ha parlato – aggiunse –
come un padre, e non come un superiore, ed un superiore ingiustamente offeso. Nessun
altro al suo posto...».
«Ti ripeto – disse Ernesto – che dal signor Wilder non metto più piede; nemmeno se
fosse lui a chiedermi scusa, e mi off risse cento corone al mese.
La signora Celestina s’indignò. «Sei – gli disse – un cattivo figlio ed un cattivo soggetto;
hai deciso, come tuo padre, di farmi morire a forza di dispiaceri». Non pianse; fece
invece l’atto di alzarsi dalla sedia sulla quale era caduta ansante per la fatica delle scale,
e di uscire dalla stanza.
«Resta seduta – le disse, con voce improvvisamente dolce, quasi implorante, Ernesto. –
Devo, mamma, confessarti una cosa che ti darà forse dolore, ma che devo dirti. Quando
la saprai, non insisterai più perché ritorni dal signor Wilder. Mamma, – incominciava...
ma subito si fermò. Come dire quella cosa? Come dirla a sua madre? Con l’uomo3, un
ragazzo che, come Ernesto, non aveva peli sulla lingua, poteva parlar franco, ma con
lei... Subito, appena udita la proposta del signor Wilder, aveva deciso di raccontarle
tutto. Forse anche (situazione in cui si trovava a parte) era ancora troppo giovane, e non
ce la faceva più a tenere per sé solo quel «terribile» segreto; provava (proprio come
temeva l’uomo) il bisogno di confidarsi a qualcuno. E a chi poteva confidarsi se non a
sua madre? Certo era una donna dura, e non sapeva, il più delle volte, comprenderlo; ma
era pur sempre sua madre. E poi: come liberarsi altrimenti dall’obbligo di ritornare in
ufficio? Se non diceva la «vera causa» del suo rifiuto, prevedeva scene peggiori di quelle
che, a confessione fatta, l’aspettavano, e, per di più, interminabili. Il cuore gli batteva in
gola: gli dispiaceva, un poco, anche per l’uomo: raccontare la loro storia era tradirlo due
volte. Ma di sua madre poteva fidarsi; non avrebbe sicuramente parlato. Il difficile era
trovare le parole...
La signora Celestina si era di nuovo seduta, ed attendeva che suo figlio parlasse. Anche a
lei doleva il cuore: si aspettava qualcosa di grave; ed aveva sofferte tante disgrazie nella
sua vita che non si sentiva la forza di affrontarne delle nuove.
«Parla» disse, quasi intimò, al figlio. Il suo pensiero era mille miglia lontano dalla
verità. Ma Ernesto taceva; non trovava ancora – come si è detto – le parole. Rimaneva
disteso sul letto; s’era presa la testa fra le mani. Sua madre era sempre più impressionata.
«Non avrai mica – gli disse sottovoce e guardandosi intorno, come per la paura di essere
udita, sebbene non ci fosse nessuno in quella stanza o nelle stanze attigue – non avrai
mica rubato al signor Wilder?» Sapeva suo figlio onesto, ma anche spendaccione... E sui
giornali si leggevano tante cose quasi incredibili commesse da ragazzi dell’età di
Ernesto, magari più giovani, e che, fi no al giorno prima, erano sembrati tanti angeli. Fra
tutti i «delitti» che possono commettere i poveri uomini, il furto era quello che
l’impressionava di più.
«No, mamma – disse Ernesto – non ho rubato».
«E cosa hai fatto allora? In nome di Dio, parla; non farmi morire a fuoco lento».
Però, adesso che il furto era escluso (sapeva che Ernesto non le diceva bugie), il cuore
gli prediceva cose assai meno gravi. Pensò (e forse non andava lontano) a qualche
ragazzata, a qualche monelleria, di cui suo figlio si fosse esagerate le conseguenze. Lo
sapeva, oltre che spendaccione, esagerato.
«Mio figlio – disse; rendendogli così, senza saperlo, la confessione più amara – non può
aver commesso nulla di vergognoso; nulla che non possa, senza arrossire, raccontare a
sua madre. Ed io sono qui, e ti ascolto».
Ernesto aveva, intanto, trovate le parole.
«Ti ricordi – incominciò – quell’uomo che venne un giorno a casa nostra, quando ero
ammalato? Voleva i conti che avevo dimenticati nella tasca della giacca: lo aveva
mandato il signor Wilder...».
«Quel facchino – disse la signora Celestina – al quale hai voluto che off rissi un
bicchiere di vino? Non mi è sembrata una cattiva persona. Ma non capisco...».
«So che non puoi ancora capire; e forse... non capirai nemmeno dopo. Ma io devo
parlare ugualmente. Ti ricordi – continuò, abbassando la voce – quello che mi disse una
domenica lo zio Giovanni6, a tavola, prima di darmi il fi orino? Fu quando scoppiò in
città quel maledetto scandalo intorno a quel deputato7 di cui parlarono tutti i giornali;
poco tempo fa, insomma. “Ad un uomo”, mi disse, “che abbia fatte di quelle cose, non
resta più che spararsi un colpo di revolver”. Ebbene, mamma, mammina, io e
quell’uomo abbiamo fatto di quelle cose...».
La signora Celestina ricordava esattamente, sebbene per altri motivi, quelle parole di
suo fratello, alla fine di quel pranzo, nel quale era apparso, sulla mensa, un magnifico
branzino allesso, un dono dell’invitato, per cui aveva perso la mattinata intera a sbattere,
con cura particolare, un’abbondante salsa alla maionese. Ricordava anche che suo figlio
era rimasto turbato «per eccesso, – pensò sua madre – di pudicizia»; tanto che ce l’aveva
un po’ col fratello per aver intavolato quel discorso. «Lo avrà fatto – pensò – a scopo
educativo»; ma col giovane Ernesto – che era, o a lei sembrava essere, il ritratto
dell’innocenza – non ce n’era proprio bisogno. Del resto, aveva solo un’idea vaga di
«quelle cose» che considerava, come il dialetto, appannaggio esclusivo degli infi mi
strati della popolazione, del «basso ceto». Non aveva mai creduto che un deputato, un
distinto personaggio, se ne fosse macchiato: tutto doveva essere una macchinazione dei
suoi nemici. Quel personaggio era un signore. Ed anche Ernesto – malgrado la povertà e
la dipendenza dalla zia – era un signore.
«Non chiedermi nulla» implorò Ernesto quando, fra le dita delle mani di cui si faceva
schermo alla faccia, lesse negli occhi di sua madre il turbamento causato dalla sua
confessione. Temeva di averle inferto un colpo mortale, di vederla, da un momento
all’altro strammazzare dalla sedia, morta per colpa sua... Se non fosse stato egli stesso
così turbato, avrebbe visto che le sue parole avevano invece procurato a sua madre un
senso quasi di sollievo. Dall’agitazione del figlio attendeva anche peggio...
«Adesso capirai – continuò Ernesto – perché non posso più ritornare dal signor Wilder.
Non devo più rivedere quell’uomo».
La signora Celestina non vedeva che il lato materiale del fatto, che gli sembrava, più
che altro, incomprensibile. Le sfuggiva del tutto il suo significato – la sua determinante –
psicologica. Se no, avrebbe dovuto anche capire che il suo matrimonio sbagliato, la
totale assenza di un padre, la sua severità eccessiva ci avevano la loro parte... Senza
contare, bene inteso, l’età; e, più ancora, la «grazia» particolare di Ernesto, che forse
traeva le sue origini proprio da quelle assenze.
«Mascalzone – esclamò, prendendosela, ad ogni buon conto, con l’uomo – mascalzone,
assassino, peggio di tuo... Abusare così di un ragazzo! Saprò bene io trovarlo, e dirgli
quattro parole. Al solo vedermi, deve buttarsi in mare dalla vergogna, e subito; se non
vuole che io...».
«No – disse Ernesto – egli non ha tutta la colpa. Devi anzi, se non vuoi far andare in
dispiaceri anche me, giurarmi che non cercherai mai né di vederlo, né di parlargli.
Perché tu non sai, mamma... Adesso è finito; ma se ritornassi dal signor Wilder... Diceva
di volermi bene, e non mi lasciava più pace... Mi portava perfino le paste».
«E vorresti che io lo lasciassi impunito, dopo quello che ha fatto a mio figlio, a un
ragazzo per bene...».
«Non sono più per bene, e non sono più un ragazzo – disse, suo malgrado, Ernesto – o
almeno non lo sono più per la Legge. E, se io non avessi voluto...».
«Non mi dirai, adesso, che sei stato tu a pregarlo?».
«No, mamma, a pregarlo no; ma,... ma gli sono andato incontro a più di mezza strada.
Ecco perché non devi dir niente a nessuno, meno di tutti allo zio Giovanni». (Gli era
venuta in mente l’idea – più terribile di ogni altra – che sua madre potesse denunciare la
cosa a suo zio, che era anche il suo tutore, e per di più – Ernesto non lo dubitava –
mezzo matto... Il padre di Ernesto era stato bandito – per attività sovversive:
irredentistiche – dall’Impero d’Austria, di cui Trieste era, dopo la perdita di Venezia, «la
più bella gemma»; e la Legge voleva che ogni minorenne, privo per causa di morte o
altra, dell’assistenza paterna, avesse, almeno per la forma, un tutore). «Giurami –
continuò – che non dirai nulla allo zio; giurami, mammina. Se no...». E si mise a
piangere.
La signora Celestina (e fu un miracolo) capì, questa volta, che suo figlio aveva più
bisogno di essere consolato che rimproverato. Il fatto – va da sé – le ripugnava e, più
ancora le riusciva – come si è detto – quasi incomprensibile. Ma non ne fece – come
temeva Ernesto – un caso di vita o di morte. Si accontentava che, per il buon nome di
suo figlio, rimanesse segreto; che nessuno, nemmeno l’aria, ne sapesse, o sospettasse,
nulla
«Ma lui... quell’uomo – disse – sei sicuro che non parlerà?».
«Sicuro» si sforzò di mentire Ernesto.
«Ed anche tu non devi farlo capire a nessuno; nemmeno – guai! – a tuo cugino. Sai che
ragazzo è quello!» (Temeva che suo figlio fosse, oltre che un po’ esagerato, un po’
chiacchierino). «Ti ha fatto molto male?» aggiunse, sottovoce.
«Oh, mamma!» implorò Ernesto; cacciandosi sempre più la testa fra le mani. (Il cugino
corruttore gli sembrava, in quel momento, uno specchio di virtù).
«Figlio, povero figlio mio!» s’intenerì, ad un tratto, la signora Celestina. E, seguendo
questa volta l’impulso del cuore, mandò al diavolo (cioè al suo vero padre) la morale e le
sue prediche inette. Si piegò sul ragazzo, e lo baciò in fronte.
«Devi giurarmi – disse – che non lo farai più. Sono cose brutte, indecenti (Ernesto pensò
involontariamente alla «forma esterna» dei suoi componimenti scolastici, che gli aveva
procurato l’inimicizia di un professore al Ginnasio), indegne di un bel ragazzo come te.
Solo i «muloni» le fanno, quelli che vendono limoni agli angoli delle strade, in Rena
vecchia, non il mio Pimpo». (Nei suoi rari momenti d’espansione, la signora Celestina
dava a suo figlio il nome che questi aveva dato al merlo).
Dopo il bacio della madre, e sentendo avvicinarsi il perdono, Ernesto si sentiva
rinascere. Era uno dei pochi baci che avesse ricevuti da lei. La povera donna ci teneva
molto a essere – e più ad apparire – una «madre spartana».
40 - “Meriggiare pallido e assorto “(E. Montale)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
m entre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
41 - “Spesso il male di vivere ho incontrato” (E. Montale)
Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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