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CRITICA DELLA RAGIONE ADULTA

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CRITICA DELLA RAGIONE ADULTA:
La libertà della soggettività come principio del mondo moderno
Il principio del mondo moderno è, secondo Hegel, «la libertà della soggettività»1. «Da quando
c'è stato il sole nel firmamento e i pianeti gli hanno girato intorno, mai si era visto che l'uomo si
mettesse dritto sulla testa, ossia sul pensiero, e costruisse la realtà secondo quest'ultimo» – scrive il
filosofo -2. La «la libertà della soggettività» esprime il processo di autoliberazione ed
autoaffermazione dell'uomo, sia come soggetto individuale sia come umanità, nazione, classe
sociale, che hanno contrassegnato la modernità attraverso i dinamismi storici di cambiamento
rivoluzionario.
L’intera realtà sociale, politica, morale e culturale ne è stata investita, talché nella società si è
realizzata «come ambito per il perseguimento dei propri interessi garantito dal diritto privato, nello
Stato come partecipazione per principio paritetica alla formazione della volontà politica, nel
privato come autonomia etica e realizzazione di se stessi, ed infine nella sfera pubblica relativa a
questa sfera privata come processo di formazione, che si attua tramite l’appropriazione della
cultura divenuta riflessiva»3.
Il termine che meglio potrebbe indicarla nei suoi risvolti etico-politici è emancipazione.
Esso termine racchiude in sé il progetto caratteristico della ragione moderna di «ricondurre il
mondo e tutti i rapporti umani all'uomo stesso» – come scrive Marx - 4. Al contempo,
comprende in sé la volontà di rendere l'uomo libero da ipoteche ultra-mondane, capace di volersi e
di essere soggetto della propria storia. In tal caso, la «libertà della soggettività» si rivela in stretta
connessione con la secolarizzazione, con quel fenomeno culturale, morale, sociale nel quale il
moderno si distanzia senz’altro dal Medio Evo religioso e superstizioso.
1. L’età moderna come epoca del protagonismo del soggetto
Il Medio Evo non conosce una «libertà della soggettività» nel suo specifico significato. «Il
soggetto è per esso – scrive Romano Guardini - l'unità dell'essere umano individuale ed il sostegno
della sua vita spirituale, ma in quanto creato da Dio e portato a compiere la sua volontà». L’anima
è il luogo della presenza di Dio, il luogo della tangenza tra uomo e Dio, non, però, il luogo della
soggettività, perché le manca la caratteristica che sarà moderna dell’autonomia e
dell’autocoscienza. Si concede certo il libero arbitrio, ma il peccato, il rifiuto di Dio, è un
tradimento della coscienza. La libertà non è, quindi, affermazione autonoma dell’uomo, ma è libertà
nella verità.
Ora, sulla fine del Medio Evo e soprattutto nella Rinascenza, ha inizio un'esperienza dell'io che
ha nuovi caratteri e «la soggettività appare anzitutto come personalità, come forma umana che si
dispiega secondo le proprie disposizioni ed iniziative»5. Si riconosce allora all’individuo
un’originalità, nel senso che è l’individuo che pone gli atti che hanno valore e determina i valori.
Questa nuova visione dell’uomo troverà una formulazione filosofica nella «teoria del soggetto
considerato fondamento di ogni conoscenza»; una legittimazione politica nel concetto di una libertà
nuova, già conquistata e da conquistare ancora; un’espressione etica «nel pensiero che l'individuo
porta in sé una forma interiore, che ha la capacità e l'obbligazione di svilupparsi partendo da se
stessa, realizzando un'esistenza che solo a lei appartiene»6.
Figlia dell’Umanesimo e del Rinascimento, la modernità presuppone un interesse primario per
l’uomo e nel contempo la convinzione della sua eccellenza. «Lascio volentieri, - scriveva Coluccio
«Il principio del mondo moderno in genere è la libertà della soggettività, per cui tutti gli aspetti essenziali, che
esistono nella totalità spirituale, si sviluppano, pervenendo al loro diritto» G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del
diritto, Laterza, Bari 1965, pag. 361.
2
G. W. F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia, (tr. G. Calogero) IV Firenze 1966, pag. 204.
3
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997, pag. 86.
4
K. Marx, Zur Judenfrage, in Die Frühschriften (ed. Landshut), Kroner, Stuttgart 1953, pag. 199.
5
R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1999, pag. 43..
6
R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 59.
1
Salutati – a te e a chi alza al cielo la pura speculazione, tutte le altre verità, purché mi lasci la
cognizione delle cose umane»7. L’uomo costituisce un’eccezione, perché, al contrario degli altri
esseri di natura, è capace di decidere da solo la propria sorte, di essere cioè artefice di se medesimo.
Non ha un’identità già data, coincidente con dei limiti prefissati da Dio, ma, inserito a metà fra gli
esseri ferini e gli esseri divini, «posto nel mezzo del mondo», come scrive Pico della Mirandola,
diventa quello che fa in ragione del suo arbitrio libero8.
L’uomo ha una natura non limitata da nessuna qualità, legge o misura; non limitata neanche dalla
sua stessa condizione fisica, che supera per la sua spiritualità9. E’ vero che egli è anche corpo, e
l’arte rinascimentale esalterà la bellezza del corpo, ma ciò che lo rende uomo è innanzitutto la sua
anima, perché è in essa che risiede la sorgente del suo essere libero. E’ grazie all’anima che l’uomo
esce dal rapporto immediato con la natura e si pone di fronte ad essa come soggetto libero dal
determinismo, che invece avvince gli altri enti naturali.
Il Rinascimento esprime, quindi, un’esperienza dell’io con caratteri nuovi rispetto al passato, per
cui esso gli appare come soggettività, e cioè attività, scelta, arbitrio.
Connessa a questa nuova apprensione dell'uomo è un ottimismo riguardo alla storia, divenuta
teatro del suo protagonismo. Il mondo moderno si autoconcepisce, allora, «nel segno del divenire e
della sua dialettica complessità; è evoluzione, processo, storia, con i suoi rapporti di dipendenza e
di conflitto, suscettibili però di trasformazione grazie all’azione dell’uomo»10. L’uomo si compiace
dei suoi successi e del continuo abbattimento di limiti che prima apparivano invalicabili. Saggia la
sua libertà nei fatti e nelle conquiste del suo ingegno ed è sempre più penetrato «della convinzione
indomabile che solo ora avesse inizio l'essenziale e che tutto ciò che lo aveva preceduto non fosse
stato che preparazione ovvero ostacolo»11.
Storicamente il nuovo significato tutto umano della libertà si afferma già in relazione alle libertà
acquisite nel corso del passaggio dalla società medievale a quella comunale-borghese. Si definisce
in senso teologico all’epoca della Riforma. Diventa, infine, l’elemento primo non solo del pensare,
ma anche dell'agire, al punto che il valore della libertà sostituisce, di fatto, il valore della fiducia
nella giustizia divina12. Diventa cardine del diritto, della morale e della politica. Guida la ricerca
dello scienziato e l’innovazione tecnica. Lo studio della natura si sviluppa, infatti, in un senso che
non è più teologico, ma che è tutto in prospettiva dell’interesse umano di esplorare per carpire i
perché delle cose.
2. Il sé dell’uomo: l’autocoscienza
Nell’epoca in cui l’uomo si ritiene capace di prendere in mano il proprio destino e di guidarlo,
anche il pensare diventa autonomo. Reclama la sua autoappartenenza ed autosufficienza. Gli
C. Salutati, Sulla nobiltà delle leggi e della medicina, in E. Garin, Filosofi Italiani del Quattrocento, Le Monnier,
Firenze, 1942, pag. 97.
8
Rinnovando un concetto che viene dell’antichità, Pico vede la dignità umana nella capacità di dar forma da se stesso
alla propria natura. Nell’Orazione sulla dignità dell’uomo il sommo artefice rivolgendosi ad Adamo gli dice: «non ti ho
dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto,
quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La
natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto,
secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai» G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, tr. it.
di E. Garin, La scuola, Brescia 1987, pag. 6-7.
9
«Secondo il suo essere originale, composto di anima e di corpo, l'uomo appartiene egli stesso alla natura; ma quando
prende coscienza di questo e se ne rende padrone, egli esce dal rapporto immediato con la natura e si pone di fronte ad
essa» R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 43.
10
B. Forte, Gesù di Nazaret storia di Dio, Dio della storia, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, pag. 46.
11
R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 74-75. La modernità è venuta costituendo una consapevolezza del
suo ruolo rispetto al passato e ha espresso la convinzione di situarsi al culmine della storia dell’umanità. Ha guardato, di
conseguenza, con fiducia illimitata al futuro visto sempre ottimisticamente come momento ulteriore di un cammino di
progressiva affermazione dell’uomo. Il mondo moderno è «l’epoca che vive rivolta al futuro, che si è aperta al nuovo
futuro». E «si distingue dall’antico in quanto si apre al futuro» J. Habermas, Il discorso filosofico etc., cit., pag. 6-7
12
Vedi J. Ratzinger, La via della fede, Ares, Milano 2005, pag. 13.
7
sviluppi teoretici seguono, quindi, gli sviluppi etici e ad una coscienza autonoma e libera
corrisponde l’ideale di una razionalità che si fonda su se stessa.
Il modello antropologico di un uomo capace di essere fabbro della propria esistenza, protagonista
libero della propria storia, fa da sfondo, quindi, anche al nuovo modo di porsi di fronte al sapere.
Ciò è verificabile negli sviluppi della conoscenza della natura da Leonardo fino ad arrivare a
Galilei, in cui il coraggio di scrutare i cieli col cannocchiale fa tutt’uno con la posizione dell’uomo
che osa ormai sondare i segreti dell’universo. La stessa formulazione del metodo galileiano, fondato
sulle «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» presuppone la conquistata autonomia
dell’uomo e del suo sapere. Nasce l’ideale di un sapere costruito a partire dalle ipotesi
razionalmente formulate e dalle esperienze che servono a verificarle, seguendo un percorso
autonomo rispetto ad ogni forma di autorità filosofica o teologica. «Mi par - scrive Galilei - che
nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle
Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie»13.
Il principio antropologico dell’autonomia dell’uomo diventa, in tal caso, approccio
metodologico. Qui il dispiegarsi soggettivo «secondo le proprie disposizioni ed iniziative» si
traduce nella postulazione dell’osservazione empirica come prioritaria rispetto all’assunzione di
affermazioni non autonomamente e direttamente verificate.
Volendo poi fondare su qualcosa di certo il sapere, Cartesio lo trova esclusivamente nella
coscienza del soggetto. Nelle Meditazioni metafisiche egli la definisce unico «punto fisso e
immobile» capace di offrire un'evidenza rassicurante e definitiva14. La ragione umana diventa,
quindi, principio di ogni conoscenza possibile, criterio saldo, e ha la pretesa di un’autofondazione
assoluta entro il circolo insuperabile dell'autocoscienza.
Autocoscienza indica, infatti, il punto d’inizio del discorso, il fondamento che circolarmente
si autogiustifica e, autogiustificandosi, fonda. Il dubbio invade ogni campo, destruttura ogni
convinzione, ma, arrivato alla coscienza, si involve in una contraddizione invertendo la
direzione destrutturante. Il dubitare di sé è, infatti, un pensare che sottintende un sé: «Ma,
subito dopo, m’accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava
necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa»15. Ossia, potremmo dire, che fossi
almeno io a pensarla.
E’ vero che Cartesio troverà nell’io implicita l’esigenza di un principio superiore, ma resta che il
punto in cui il dubbio rimbalza è l’autocoscienza, che è autosufficiente e può fare a meno di tutto
ciò che le è esteriore per raffermarsi e sentirsi sicura.
E’ importante notare come la proclamazione della coscienza umana come punto di inizio e di
verifica di ogni certezza presuppone una trasformazione del suo significato. In Cartesio essa
diventa fondamentalmente coscienza di sé, e cioè autocoscienza, non più «cum scientia», che
presuppone una relazione, un confronto con altri. Ha scritto K. Wojtyla: «Nel periodo
precartesiano la filosofia, e dunque il cogito, o piuttosto il cognosco, era subordinato all'esse, che
era considerato qualcosa, di primordiale. A Cartesio invece apparve secondario, mentre il Cogito
fu da lui giudicato primordiale»16.
Ciò ha conseguenze dirompenti a livello antropologico. Là dove ogni essere umano è solo con se
stesso, l’uomo non incontra più il suo Dio. Non sente una voce che lo richiama e non trova una
norma morale inscritta nel suo cuore di carne. L’uomo sperimenta, invece, la propria coscienza
13
G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena, in Le opere di Galileo Galilei, Edizione nazionale a cura di A.
Favaro, Barbera editore, Firenze 1932, vol. V, pag. 309-348.
14
R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, 1967, vol. I, pp.199-202.
15
R. Cartersio, Discorso sul metodo, Laterza 1997, Roma-Bari, pag. 81..
16
K. Wojtyla, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, pag. 21. cit., pag. 19. La novità del problema gnoseologico
moderno nasce dalla considerazione dell’aspetto interno o mentale del conoscere, a prescindere dal termine esterno, e
cioè dalla realtà. Se nella posizione tomista è la res (l’essere) l’oggetto primo della conoscenza, nella modernità
l’oggetto diretto della conoscenza è la mente stessa, con i suoi contenuti e le sue operazioni. Il soggetto non si adegua
alla realtà esterna, ma se la rappresenta interiormente. Non ha più a che fare direttamente con cose, ma con concetti
inseriti all’interno di sistemi di idee.
come inizio. La coscienza è «fonte di conoscenza morale, cioè un originario sapere personale
circa il bene e il male, che in ciascun uomo sembra dato come fonte della sua capacità di
giudizio morale»17. Espunta la dimensione trascendente, la coscienza è tagliata, potremmo dire,
secondo la dimensione unica dell’immanenza 18.
L'uomo, perciò, non è misurato da niente e da nessuno; lui solo è misura di se stesso, del
suo essere e del suo agire. Né l’uomo è immagine di qualcun altro, fosse anche Dio, perché
l’essere immagine ammette un rimando e l’essere dell’uomo non rimanda oltr e se stesso. E’ già
misura di sé, criterio e principio. Basta a se stesso, perché non è un nulla che abbisogna per
essere, volere e pensare di essere sostenuto. L’uomo non è inconsistenza e precarietà, ma, al
contrario, sussistenza e autoappartenenza. Anzi, egli è «soggetto libero» proprio in misura del
fatto che si appartiene.
Ora la sussistenza dell’uomo viene affermata in modo assoluto. Fa tutt’uno con l’autonomia
e l’autosufficienza teoretica dell’uomo. Esclude di principio ogni relazione, in quanto no n
sostanziale, accessoria e aggiunta alla vera essenza dell’uomo. L’uomo è sussistenza, ma non è
relazione. In Tommaso i due termini erano ancora uniti. La sussistenza dell’uomo il suo essere
sostanza, in quanto questo uomo, e cioè in quanto individuo, si realizza nel concreto delle
relazioni che lo connettono agli altri, alla natura e alle cose, e, in ultima istanza, a Dio stesso.
La soggettività cui si riconosce come caratteristica la libertà è, di fatto, diventato l’uomo in
quanto autocosciente. Non è l’uomo nel senso personalistico come unione di anima e corpo, di
fisicità e spiritualità, né l’uomo in un senso intimistico in cui prevale l’elemento della
coscienza. Ma è l’uomo nel senso appunto della sua capacità di ritrovare in sé il fondamento
innanzitutto di sé e poi il riflesso determinante del mondo, il senso vero ed ultimo delle cose.
L’occhio impietoso di Leonardo scruta perciò i segreti e i misteri della natura, sentendosi ormai
libero da ogni pregiudizio di religiosa pietà.
3. La struttura dell’autorelazione
Spenta nel cuore dell’uomo la luce della presenza trascendente, esso si trasforma in qualcosa di
opaco. La coscienza appare incapace di relazione, chiusa irrimediabilmente in sé e isolata.
Dove non c’è luce, non c’è relazione e non c’è vita. La coscienza è libertà, ma non è relazione.
E’ indipendenza e capacità di fare da sé, ma non è ricerca dell’Altro e apertura all’essere. A livello
morale e in linea di principio, oltre la coscienza non c’è altro. La coscienza è autonoma ed
autosufficiente. Non ha bisogno di tutori. Può fare anche a meno di ogni relazione. L'uomo, inteso
come soggetto, è libero nel senso che non si relaziona per il suo essere ad altro che a se stesso.
Si può dire, pertanto, che la struttura dell’autorelazione19 è essenziale alla modernità, quanto il
principio della soggettività. La soggettività è libertà, proprio perché è originariamente
autorelazione, coscienza di sé, volere sé, pensare sé. Anche lo stato di minorità, di cui scrive Kant
nella Risposta alla domanda che cos'è l'Illuminismo, è qualcosa che l’uomo «deve a se stesso».
Perciò, se ne può uscire solo servendosi del proprio intelletto, «senza la guida di un altro»20. E non
è casuale che l’Illuminismo, ad esempio con Rousseau, rifiuti la condizione di peccato e di fragilità
(di nulla) dell’uomo.
Di conseguenza, si agisce e si pensa a prescindere dalle relazioni che il soggetto intrattiene col
mondo e con gli altri, al di là delle situazioni concrete in cui ci si trova e al di là delle stesse fragilità
17
J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 112.
Per J. Maritain 2 principi costituiscono la filosofia moderna: l’immanentismo e il trascendentalismo. Immanentismo,
in particolare, è inteso come rivendicazione d’indipendenza dell'io, della realtà interna al pensiero rispetto a quella
esterna, di modo che «ogni azione, ogni aiuto, ogni regola, ogni magistero che provenisse dall'altro (dall'oggetto,
dall'autorità umana, dall'autorità divina) sarebbe un attentato contro lo spirito». Vedi: J. Maritain, Antimoderno,
Logos, Roma 1979, pag. 12.
19
Scrive J. Habermas: «Si tratta della struttura della relazione del soggetto conoscente con se stesso, che si ripiega su
di sé come oggetto, per cogliersi come in un’immagine speculare…» (Il discorso filosofico etc., cit., pag. 19).
20
Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di M.
Cordopatri, Torino 1965.
18
costitutive. Ma soprattutto si agisce e si pensa senza sentirsi bisognosi di grazia e di illuminazione,
senza quella relazione intima e profonda col trascendente che invece Agostino pensava strutturale
alla coscienza, più profonda nella coscienza della coscienza stessa.
E’ l’uomo senza inquietudine e con tante certezze che non si relaziona più con la trascendenza.
Seppure un rapporto con il trascendente è riconosciuto alla coscienza, esso non è più originario.
L’uomo non sperimenta l’oltre né all’inizio delle sue scelte e dei suoi pensieri né alla fine. La
ragione – parafrasando ciò che scrive Pascal – «non compie mai l’ultimo passo che la porta a
riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano»21. Se un oltre la ragione ritrova, questo è
confinato, in particolare in quel Cartesio che Pascal definisce «debole e incerto», in una sfera che
non spinge a riconoscere i limiti e l’impotenza della condizione umana.
Si promuove «la persona non in quanto sia immagine di altro (imago Dei), ma in quanto non
rappresenta niente altro che se stessa». Nell’essere «immagine di» c’è un’orma di relazione, c’è un
rimando. «La persona è – invece - in ultima analisi un sé, che si vuole e si comprende da sé». E
«l’uomo è, primieramente, un sé»22.
Se la persona è questo, allora l’inizio, moralmente parlando, è la sua coscienza affrancata da ogni
vincolo esterno, pienamente appartenentesi. La libertà, in tal caso, assume un significato assoluto.
Non è in funzione di un bene da perseguire e, quindi, come in Agostino bene medio, ma appunto
bene assoluto, svincolato da dipendenze e relazioni. E' – come stigmatizzava Lévinas – libertà
dell’inizio assoluto23.
Il soggetto intende, quindi, trovare in sé la ragione delle sue scelte e del suo pensare. L’uomo è
moralmente legge a se stesso, perché è lui che pone gli atti che hanno un valore ed è a lui che va
riferito il metro categoriale che determina i valori stessi.
La coscienza ha esclusivamente in sé le ragioni del suo volere e del suo agire!
4. L’uomo adulto dell’Illuminismo
L’espressione più acuta di questo definirsi dell'uomo come soggetto libero lo troviamo nella
filosofia di Kant «per cui il soggetto logico, etico ed estetico è un elemento primo al di là del quale
non si può concepire null'altro. Esso ha il carattere dell'autonomia, è fondato in se stesso e
stabilisce il senso della vita dello spirito»24.
Kant è l’espressione a sua volta di una stagione, quella illuministica, in cui l’eco delle rivoluzioni
fatte in nome della libertà carica il termine soggetto di una valenza etico-politica particolare. La
«libertà della soggettività» sottintende allora la lotta per l’emancipazione dell’uomo, sia come
individuo, sia come collettività, popolo, nazione, che l’Illuminismo consegna come sua più propria
eredità all’epoca successiva.
Emblematica, da questo punto di vista, è la Risposta alla domanda Che cos'è l'illuminismo? di
Kant. Scrive il filosofo: «L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dalla sua età minore, che egli deve a se
stesso. L'età minore è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. E
questa minorità la si deve a se medesimi se la causa di essa risiede nella mancanza non
d'intelligenza, bensì della decisione e del coraggio di servirsene senza la guida di un altro»25.
Kant esprime qui una fede nella ragione umana in quanto promotrice di progresso civile.
Afferma come centrale il ruolo dell’uomo nella storia e riguardo alla stessa natura. Ma nel
contempo Kant intende questo protagonismo del soggetto teoretico in funzione delle capacità morali
dell’uomo di rendersi libero, di farsi autonomo. Subordina, quindi, le ragioni teoretiche a quelle
etiche, l’uomo che pensa all’uomo come è moralmente. La fede nelle capacità dell’uomo di fare da
21
B. Pascal, Pensieri, ed. Paoline, Alba 1974, pag. 122.
E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1994, pag. 120.
23
«In caso contrario, la libertà dell'inizio assoluto, si rivela obbedienza alle forme insidiose dell'impersonale e del
neutro; l'universale di Hegel, il sociale di Durkheim, le leggi statistiche che guidano la nostra libertà, l'inconscio di
Freud, l'esistenziale che sostiene l'esistentivo in Heidegger». E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. pag 281.
24
R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 44.
25
I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura
di M. Cordopatri, UTET, torino 1965.
22
sé26 presuppone, perciò, il coraggio, e cioè il valore della libertà che si afferma emancipandosi dalla
condizione di minorità spirituale ed intellettuale27. Scriverà significativamente Fichte, che non a
caso si reputava un interprete di Kant, che «la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come
uomo»28.
Kant non solo esprime, dunque, la fede nelle capacità della ragione e la convinzione che questa
nuova consapevolezza rappresenti l’uscita da ogni stato di minorità spirituale ed intellettuale, ma
anche disegna una visione dell’uomo tipica. Afferma un modello antropologico che fa
dell’indipendenza e dell’autosufficienza le caratteristiche peculiari dell’umano. L’uomo adulto non
è più nella condizione di dipendere, perché si è emancipato interiormente avendo superato ogni
sentimento di dipendenza verso qualcuno o qualcosa. L’uomo adulto intende, quindi, trovare in sé
la ragione delle sue scelte, prima ancora che del suo pensiero. Vuole porre da se stesso gli atti che
hanno valore, in modo che a lui solo vada riferito il metro categoriale che determina i valori stessi.
Non a caso allora Kant parla di «uscita dallo stato di minorità».
In un senso figurato ciò significa uscita da ogni condizione di soggezione ad autorità
acriticamente assunte. In un senso letterale ciò significa il rifiuto di instaurare un modello umano
che fermi la condizione dell’uomo a quella del suo stadio infantile in cui egli è appunto un minore,
dipendente dagli altri, perché bisognoso di cure e di attenzioni.
Si rivela, da ultimo, in Kant la radice antropologica della filosofia illuministica, e in senso lato
moderna, che può essere considerata un’antropologia centrata sull’ideale dell’uomo adulto. In
questo senso emancipazione è innanzitutto liberazione da tutte le forme di limitazione dell’umano.
L’idea di emancipazione è, in effetti, quella che meglio individua lo spirito illuministico.
Emancipazione ha un senso dinamico, fattuale, trasformativo. La libertà, infatti, non coincide tanto
con una forma astratta e statica, quanto con un processo. Perciò, l’emancipazione non resta un
progetto dei filosofi, ma si rivela un potente fattore di sviluppo, attuandosi concretamente nei
«dinamismi storici di cambiamento rivoluzionario»29 che hanno contraddistinto tutta l’epoca
dell’Illuminismo. Da queste premesse scaturiscono, infatti, le solenni affermazioni dei diritti
dell’uomo della Rivoluzione americana del 1776 e della rivoluzione francese del 1789. La
coscienza della libertà dell’uomo in quanto uomo suggella poi l’abolizione della schiavitù e il
progressivo affermarsi della tolleranza religiosa e dell’idea di uguaglianza 30. Porta al
riconoscimento del diritto naturale e alla teorizzazione della democrazia come unico sistema
realistico di libertà. Contribuisce da ultimo all’effettivo cambiamento del mondo attraverso
l’affermazione di questo modello legislativo e politico.
5. La libertà come autonomia
Non diversamente, nella sostanza, si esprime R. Guardini: «Questo stato d'animo si esprime nella moderna fede nel
progresso, baldanzosamente derivata dalla logica della natura e dell'opera umana». (La fine etc., cit., pag. 74-75).
27
Con l'illuminismo la visione progressiva della storia si salda con l'idea di un'emancipazione, che si attua grazie
all'azione critica e illuminatrice della ragione. Questa idea la si ritrova anche in gran parte delle filosofie dell'800 e del
‘900, dall'hegelismo al marxismo e al positivismo. Se il passato rappresenta la staticità, il presente attiene ad un
movimento di uscita da questo stato di immobilità verso una nuova consapevolezza liberatrice. Le grandi conquiste
dell’ingegno umano, prima letterario e umanistico, poi scientifico, hanno impresso come una direzione umana alla
storia, un tempo vista come spazio esclusivo dell’azione divina.
28
G. A. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza, traduzione di L. Pareyson, in Grande Antologia
Filosofica, Marzorati, Milano 1971, pag. 958.
29
B. Forte, Teologia come compagnia memoria e profezia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, pag. 16.
«Emancipazione – afferma B. Forte - è parola chiave, capace di contraddistinguere l'intera epoca, che sta sotto il
segno dell'illuminismo: esprime il progetto proprio della ragione moderna di rendere l'uomo finalmente adulto, libero
da ipoteche ultra-mondane, capace di volersi e di essere soggetto della propria storia».
30
«La crescita progressiva di una coscienza della libertà concretamente influì sulla formazione di sempre più
ampi spazi di libertà per il singolo. L'abolizione della schiavitù, la tolleranza religiosa, l'idea dell'uguaglianza
tradotta in realtà statuale hanno cambiato il mondo» J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 108-10.
26
Con Kant siamo alla proclamazione solenne di quello che può essere considerato il dogma
dell’illuminismo, e cioè il principio dell’autonomia morale31.
Autonomia traduce a livello intimo lo spirito dell’emancipazione. La libertà prima di divenire
principio di affrancamento politico collettivo è, infatti, un principio interiore di affrancamento
morale. Inizia a cambiare la coscienza individuale per poi estendersi e dilatarsi negli sviluppi della
storia. Si afferma, infatti, prima l’autonomia come liberazione da ogni forma di dipendenza morale,
al fine di riprendere possesso della propria coscienza, e poi la legge come fonte di un dovere che
non deve essere esterno al soggetto, ma deve coincidere con ciò che il soggetto vuole
razionalmente. «La volontà – aveva affermato significativamente Kant - non è semplicemente
sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo
patto sottostà alla legge»32.
Perciò, ogni autorità (culturale, morale o politica), che non sia passata al vaglio della coscienza,
che non sia divenuta oggetto di una consapevole e libera accettazione, è percepita come vincolo
esterno. Costituisce un ostacolo alla libera affermazione ed espressione dell’uomo. Comporta una
diminuzione, in quanto rappresenta un’infedeltà a se stessi, un tradimento della propria coscienza33.
Ma l’affermazione dell’autonomia dell’uomo implica il presupposto di carattere antropologico
che la dipendenza sia perdita dell’essenza dell’umano. E’ proprio dell’uomo l’essere
autosufficiente, il bastare pienamente a sé, non il dipendere da altri per la propria vita, per i propri
pensieri e le proprie decisioni. Ritorniamo qui alla metafora dell’adulto, che è appunto chi non ha
più bisogno di tutori, perché ha in se stesso la capacità di fare. Ritorniamo all’idea, che diventa
centrale nella modernità, che «io sono libero quando decido da me su quello che m'interessa,
anziché farmi plasmare da influenze esterne»34.
I fili della libertà politica e dell’autonomia morale, quindi, partono dall’uomo e all’uomo, inteso
come soggetto, fanno riferimento in un circolo di autoreferenzialità che recide rapporti e
dipendenze. Ogni forma di dipendenza che ricordi le situazioni dell’infanzia bisognosa di assistenza
e di cura viene bandita. L’uomo non nasce bisognoso di cure e di attenzione, ma è essenzialmente
autosufficiente.
In questo caso quello che colpisce è che le influenze esterne, le relazioni fondanti a livello
personale, siano pregiudizialmente viste come plasmatrici e non formatrici dell’uomo. Ciò che
viene dall’esterno deforma, più che formare, vincola e condiziona, più che ordinare. Siamo all’idea
che svilupperà Rousseau dell’uomo buono per natura e necessariamente corrotto dalla società35.
Si comprende allora perché la pretesa di un diritto di natura e le istanze libertarie ed egualitarie si
presentino storicamente anche come rivendicazione dei diritti dell'individuo nei confronti dello
Stato e nei confronti delle istituzioni. Le autorità nell’Illuminismo appaiono il polo opposto della
libertà e ogni vincolo di autorità viene sottoposto ad una critica radicale in base al principio della
ragione. Il bene individuale non solo entra in tensione con l’istituzione, sia esso lo Stato o la Chiesa,
ma diventa anche altro rispetto al bene comune. Si smarrisce, in tal modo, la naturale tendenza
relazionale dell’uomo, il suo essere animale sociale, il suo essere nato per la relazione. In ciò che è
comune e pubblico non si riconosce null’altro che una limitazione delle libertà individuali.
Questo risvolto individualista ed autarchico del principio di autonomia si evidenzia propriamente
nel filone anarchico rivoluzionario che risale a Rousseau. Egli, ritenendo che tutto ciò che è stato
elaborato dalla ragione e dalla volontà è contro la natura e ne rappresenta la corruzione e la
negazione, si proietta ormai verso il sogno di una libertà radicale, senza alcuna regola. La libertà
«L’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono…(…)
Dunque la legge morale non esprime nient’altro che l’autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà» I. Kant,
Critica della ragion pratica (trad. it. A cura di Francesco Capra) , Laterza, Bari 1974, pag. 42.
32
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1986, pag. 70-71.
33
E’ chiara la derivazione dal principio protestantico del libero esame, che individua nella coscienza, al di là della
manifestazione esterna delle opere, il luogo della fede .
34
Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2002, pag. 34.
35
Vedi J.J. Rousseau, Discorso sull’origine della Disuguaglianza. Contratto sociale, a cura di D. Giordano, Bompiani,
Milano 2012.
31
diventa qualcosa di incontenibile, che travolge ogni autorità, sia essa politica o giuridica, sia essa
morale o religiosa. Tale metamorfosi della libertà si manifesta già negli eccessi della Rivoluzione
francese, ma si istituzionalizza nelle ideologie di stampo egualitario e giustizialista, che partite dalla
contestazione dell’esistente finiranno, paradossalmente, per istituire forme di regime totalitarie e
violente.
6. La libertà come autenticità
La fedeltà a se medesimi, presupposto dell’autonomia morale, nasce come rifiuto delle autorità
acriticamente e inconsapevolmente accettate per divenire poi affermazione di autosufficienza, di
autarchia morale e di intrascendibilità della coscienza. L'etica del bene e del vero oggettivo viene
soppiantata, in conseguenza di quest’affermazione, da quella dell'autenticità e della sincerità, che si
incentra sul soggetto, avente in sé soltanto il metro per giudicare delle azioni. In tal caso
l’autonomia sfocia in autenticità, conoscendo risvolti accentuatamente individualistici.
Autenticità significa, più specificamente, che ciascun individuo ha la propria misura di essere
uomo in se stesso. Io non debbo adattare la mia vita alle richieste della conformità esteriore, non
solo perché questa costituirebbe un vincolo di autorità esterno, ma più sottilmente perché non posso
trovare il modello su cui regolare la mia vita fuori di me. Posso trovarlo solo dentro di me. Sono io,
in altri termini, che pongo il mio modo di essere uomo. Scrive Ch Taylor: «Essere fedele a me
stesso significa essere fedele alla mia propria originalità, la quale è qualcosa che io solo posso
articolare e scoprire. Nell'articolarla, io definisco altresì me stesso, realizzando una potenzialità
ch'è propriamente ed esclusivamente mia36». Di conseguenza, se non sono fedele a me stesso, perdo
la sostanza della mia vita, perdo ciò che sono.
L’autenticità è un risvolto, o se si preferisce un rovescio, dell’autonomia. Nell’autonomia c’è
ancora il senso del negativo, del condizionamento da cui ci si deve svincolare. Nell’autenticità c’è
tutta la positività di una condizione che si sperimenta come ricca di opportunità. L’autenticità
riconosce, infatti, nella libertà la possibilità di autodeterminarsi.
L’autenticità ha inoltre un senso ancora più accentuatamente dinamico. L’identità dell’uomo non
è nulla di definito o predeterminato, ma è precisamente quello che l’uomo progetta in funzione delle
sue capacità37. L’uomo si autodetermina e si fonda da sé, sia teoreticamente che eticamente.
Ciò implica un principio etico che diventa il dogma della modernità che cioè «nessuno ha diritto
di dirmi come devo agire»38. Il rilievo di questa affermazione che è etica e di diritto, nasconde
anche in questo caso un senso antropologico radicale. Indica la pretesa da parte del soggetto che
non ci sia norma del bene e del male all’infuori di quella che il soggetto si dà autonomamente in
coscienza. Indica ancor più che non ci sia misura ontologica dell’essere dell’uomo. Il soggetto
afferma che di principio non ci si dia dato che possa misurarlo «poiché natura e leggi, definizioni,
dogmi, doveri sono pure espressioni del nostro intimo e dell'attività creatrice dello spirito in noi»39.
Le scelte che l’uomo fa si determineranno a partire da questa opzione fondamentale. Pertanto,
quello che si fa consegue direttamente a quello che si è deciso di essere, senza che si frappongono
in mezzo considerazioni altre. La coscienza vuole e sceglie in senso assoluto, al di là cioè
dell’oggetto voluto e scelto. In altri termini, le ragioni che determinano la volontà e la scelta sono
nella coscienza, a prescindere dalle cose verso cui si indirizza la scelta. La coscienza si disancora,
quindi, da ogni bene e da ogni deliberato per ritrovare solo in sé il punto d’inizio delle mozioni
morali.
La modernità sta allora, come ha scritto A. Touraine, nella «affermazione secondo la quale
l’uomo è ciò che fa»40. L’attività demiurgica dell’uomo non è solo quella che lo porta a trasformare
Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., pagg. 35-36.
Da questo punto di vista, moderno diventa sinonimo di progresso e di emancipazione. Moderno significa dinamico.
Indica l’«impossibilità di restare fermi» di chi si sente «perennemente in cammino» Vedi Z. Bauman, Il disagio della
postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pag. 78.
38
Si veda E. Agazzi, Il bene il male e la scienza, Rusconi, Milano 1992, pag. 275.
39
J. Maritain, Antimoderno, cit., pag. 12.
40
A. Touraine, Critica della modernità, il Saggiatore, Milano 1993, pag. 11.
36
37
il mondo esterno e a rimodellarlo in funzione dei suoi bisogni, né è solo quella che porta a
rivoluzionare i rapporti di potere e il corso della storia, ma è anche quella che attua il sogno
prometeico di riformularsi, di riprogettarsi in una dimensione che va oltre il limite e la relazione col
bene e col male, ora spostando i confini dell’ignoto, ora spostando i confini del fattibile e
dell’osabile.
Clemente Sparaco
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