A003178, 1 A003178 FONDAZIONE INSIEME onlus. Da MENTE & CERVELLO del 15/5/2015, <<LA MUSICA DEI RICORDI>>, di Hervé Platel, Mathilde Groussard, Baptiste Fauvel, autori (vedi nota a fine pezzo). Per la lettura completa del pezzo si rinvia al mensile citato. La musica rinforza la memoria e le riserve cognitive, preziose per combattere gli effetti dell’invecchiamento. Ed è stato persino scoperto che alcuni pazienti colpiti dalla malattia di Alzheimer riescono ancora a memorizzare nuove melodie. Tutti abbiamo una canzone speciale, legata a momenti importanti della nostra vita. Il legame tra musica e ricordi è molto forte, e certe melodie sono pietre miliari della nostra memoria autobiografica, ossia della nostra identità. È solo dalla fine degli anni novanta che scienze cognitive e neuroscienze hanno iniziato a interessarsi alla memoria musicale, ma oggi queste ricerche hanno un grande interesse clinico. L’ascolto e la pratica della musica sono attività che aiutano a capire la diversità e la specificità dei meccanismi neurocognitivi della memoria, e sono usate sempre più spesso per restaurare le funzioni cognitive degradate da alcune patologie. La memoria musicale è infatti una funzione cognitiva straordinariamente resistente alle malattie cerebrali. Ma che cos’è la «memoria musicale»? Anche se la memoria è un argomento complesso e sfaccettato, parecchie delle sue dimensioni sono legate al campo della musica. Intanto, la memoria può funzionare in una modalità volontaria, controllata, esplicita, oppure in modo involontario, automatico, implicito - una modalità inconscia. In effetti, memorizziamo il mondo che ci circonda sia facendo uno sforzo mentale per ricordare le informazioni, passando per strategie di ripetizione o di associazione delle informazioni stesse (modalità consapevole), sia senza particolari sforzi (modalità inconscia). La distinzione è importante perché, rispetto alla musica, molte delle nostre conoscenze e rappresentazioni sono acquisite per esposizione «naturale». Sappiamo che i meccanismi cognitivi complessi, come la codifica e il recupero delle informazioni, sono sensibili all’effetto delle malattie che compromettono la memoria. Ma la memoria implicita è più resistente alle malattie del cervello. È per questo, allora, che la memoria musicale, che in larga parte è sostenuta dai meccanismi della memoria implicita, resiste ad alcune patologie cerebrali e potrebbe dunque permettere di contrastarne gli effetti? Esamineremo qui di seguito numerosi risultati che vanno in questa direzione. A003178, 2 SI FA PRESTO A DIRE MEMORIA. A partire dalla distinzione tra memoria implicita e memoria esplicita è possibile identificare cinque grandi tipi di memoria: __ la memoria di lavoro, che ci permette di trattenere una piccola quantità di informazioni per qualche secondo, e il cui funzionamento necessita di controllo cosciente; __ la memoria episodica, che ci permette di ricordare un’informazione specifica o avvenimenti che abbiamo vissuto, e che necessita di un controllo mentale complesso; __ la memoria semantica, che corrisponde a ciò che sappiamo del mondo, e che codifichiamo e recuperiamo sia in modo automatico sia in modo controllato; __ la memoria percettiva a lungo termine, che corrisponde alla conservazione del trattamento sensoriale di un’informazione e funziona in maniera involontaria; __ e infine la memoria procedurale, che permette di acquisire procedure cognitive e motorie (come andare in bicicletta), e che necessita di una fase di apprendimento cosciente perché siano poi eseguite in maniera automatica. Si possono fare molti esempi riguardo i differenti aspetti della memoria che coinvolgono la musica: trattenere temporaneamente in memoria una melodia (memoria di lavoro), ricordarsi del contesto di un’esecuzione o dell’ascolto di un brano (memoria episodica), identificare e riconoscere diversi arrangiamenti di uno stesso pezzo (memoria percettiva), automatizzare l’esecuzione di un certo brano su un particolare strumento musicale (memoria procedurale). L’attività musicale, dunque, attiva tutte «le memorie», soprattutto quando a praticarla è un cantante o uno strumentista. Al di là dei differenti tipi di memoria, la musica sembra conservarsi anche sotto forma emotiva. I musicisti sottolineano l’importanza di questo repertorio emotivo, e la prodigiosa memoria di alcuni interpreti e direttori d’orchestra è affascinante. Ma qual è il legame tra competenza musicale e memoria? E il fatto di imparare a memoria un gran numero di partiture ha forse un effetto sull’organizzazione e il funzionamento della memoria dei musicisti? Riserve potenziate. Di solito i musicisti, e in modo particolare i direttori d’orchestra, hanno una memoria impressionante. La pratica musicale rafforza infatti le loro «riserve cerebrali». L’impatto cognitivo della musica è stato molto studiato, ma curiosamente l’effetto della competenza musicale sul funzionamento della memoria è stato trascurato, anche se imparare la musica ha un effetto stimolante sui processi mnestici. A003178, 3 Si sa che le funzioni di pianificazione delle azioni, di inibizione degli errori e di controllo cognitivo sono altrettanto importanti, nell’apprendimento della musica, delle capacità uditive e motorie. D’altra parte, risonanza magnetica funzionale ed elettroencefalografia mostrano che l’immagazzinamento nella memoria di lavoro e le funzioni esecutive applicate al materiale musicale non sembrano far intervenire moduli corticali specifici: implicano invece reti generali che servono anche all’elaborazione di stimoli d’altro tipo (visuali, verbali). Nei non musicisti, si nota che l’ascolto della musica sollecita soprattutto le aree uditive primarie e secondarie. Nei musicisti sono ugualmente attive alcune regioni corticali associative, come il giro sopramarginale, la corteccia prefrontale, la corteccia parietale, il giro del cingolo. Le aree associative hanno la capacità di integrare differenti stimoli percettivi, combinando così stimoli uditivi, visivi (le note, il pentagramma e così via) e linguistici (il «nome» delle note). L’ascolto di una melodia da parte del cervello «musicista» è più ricco e complesso, e combina informazioni di diversa natura. Più aumenta la difficoltà del compito, più gli esperti ricorrono a queste regioni multimodali, e più le loro prestazioni superano quelle dei soggetti di controllo. IL DIALOGO DELLE AREE CEREBRALI. Che cosa c’è di specifico nel funzionamento del cervello dei musicisti? Come abbiamo accennato, nei musicisti le aree cerebrali «dialogano» di più che nei non musicisti. È noto, d’altro canto, che il cervello delle persone cieche dalla nascita si riorganizza, assegnando le aree visive inutilizzate ad altri compiti: queste persone hanno, per esempio, una memoria verbale migliore dei vedenti. La riorganizzazione funzionale del cervello dei musicisti non è dovuta a privazione sensoriale (come nei ciechi), ma alla pratica dello strumento, che ha bisogno di sfruttare al massimo le risorse neuronali disponibili per integrare tutte le informazioni associate alle differenti modalità sensoriali: quelle audiovisive, certo, ma anche, come abbiamo accennato, quelle linguistiche, tattili (il tocco sul piano, la pressione dell’archetto sulle corde) e ancora quelle linguistiche e posturali. Un gruppo di ricerca dell’Università di Pechino ha mostrato che la corteccia frontale, l’amigdala e l’ippocampo, strutture chiave dei processi mnestici, in particolare per la memoria episodica, sono più attivi nei musicisti. E nel 2010, abbiamo anche evidenziato, sempre nei musicisti, un aumento della densità della materia grigia nell’ippocampo sinistro, una regione particolarmente importante per la memoria verbale e per quella autobiografica. A003178, 4 D’altro canto abbiamo mostrato di recente che alcune regioni cerebrali sono meglio sincronizzate nei musicisti proprio in virtù della pratica strumentale. Ciò risulta dall’analisi della connettività funzionale del cervello a riposo: ai soggetti, posti nella risonanza magnetica, viene chiesto di lasciar vagabondare la mente mentre viene registrata la loro attività cerebrale. Il «connettoma» così ottenuto rivela che certe regioni del cervello dei musicisti sono più connesse; e sono regioni associate a reti cerebrali implicate nelle funzioni cognitive superiori, come il giudizio emotivo, il linguaggio e le memorie autobiografica e semantica. È chiaro dunque che la pratica musicale rinforzi, in maniera indiretta, l’efficacia delle funzioni cognitive. Il cervello dei musicisti presenta dunque alcune caratteristiche direttamente legate al livello di competenza musicale, e ciò a sua volta influenza le prestazioni cognitive. È noto inoltre che queste prestazioni evolvono in modo differente nei diversi individui. Per uno stesso grado di atrofia cerebrale di una determinata area cerebrale, le conseguenze cliniche variano considerevolmente da un soggetto all’altro. Qualcuno ha una maggiore capacità di resistere alla perdita di neuroni e mantiene un funzionamento cognitivo relativamente buono, mentre altri subiscono un declino che può condurre a una perdita di autonomia. Allo stesso modo, sia la velocità del declino cognitivo legato all’età che la sua portata sembrano regolate da geni, comportamenti e ambiente. UNO STIMOLANTE PER NEURONI. Per spiegare il fenomeno, i ricercatori hanno proposto le nozioni di riserva cerebrale e riserva cognitiva. La riserva cerebrale è legata alle caratteristiche anatomiche del cervello in caso di atrofia, la comparsa dei primi disturbi sarà tanto più tardiva quanto maggiore è il volume della sostanza grigia, riserva fisiologica. La riserva cognitiva chiama in causa invece alcuni meccanismi di neuro-plasticità: in caso di atrofia la comparsa dei primi disturbi sarebbe ritardata se il circuito cerebrale impegnato in un certo compito fosse particolarmente efficace, o per via di circuiti alternativi che permettano strategie di compensazione. Questi meccanismi consentirebbero valide prestazioni cognitive malgrado le alterazioni fisiologiche legate all’età. La riserva cerebrale è determinata da criteri genetici e livello di istruzione, ma anche dalla dieta e dalle attività sportive, che favoriscono la vascolarizzazione e l’ossigenazione cerebrale. La riserva cognitiva sarebbe invece legata ad altri fattori ambientali, come il livello di istruzione, le attività svolte nel tempo libero (per esempio giocare a carte), la qualità delle reti sociali e il carattere stimolante della professione esercitata. A003178, 5 Parecchi studi a lungo termine hanno stabilito che le attività del tempo libero diminuiscono il rischio di essere colpiti da demenza. Nel 2008 Michael Valenzuela, insieme ai suoi colleghi della Scuola di psichiatria di Sydney, in Australia, hanno mostrato in 37 partecipanti sani anziani che in questi soggetti l’ippocampo essenziale per la memoria- era tanto più voluminoso quanto più numerose erano state le loro attività sociali nel corso della vita. Un nuovo esame, effettuato tre anni dopo il primo, ha rivelato che la perdita di neuroni nell’ippocampo è minore nei soggetti che svolgevano più attività sociali. Le ricerche nel campo della neuropsicologia sperimentale lasciano ritenere che la pratica di uno strumento musicale sia un’attività particolarmente adatta alla costituzione della riserva cognitiva, e possa essere utile a combattere gli effetti del normale invecchiamento. Come abbiamo accennato, questa pratica fa intervenire un’ampia rete cerebrale che associa le aree frontali, temporali e parietali, in particolare le aree di Broca e di Wernicke, essenziali alla produzione e alla comprensione del linguaggio. È chiaro quindi che in questo modo si possono stabilire più facilmente strategie di compensazione. A003178, 6 Fig. 1. Un cervello connesso. La connettività di alcune aree cerebrali aumenta notevolmente nei musicisti. A partire dalle zone che presentano un maggior volume di sostanza grigia sia nei musicisti che nei non musicisti (in rosso), è stata analizzata mediante risonanza magnetica funzionale (fRMl) a riposo la connettività funzionale, ossia il rafforzamento dei legami con altre zone. Nelle immagini in alto sono indicate le regioni implicate in determinati compiti: memoria autobiografica, memoria semantica, linguaggio e giudizio emotivo. Il cervello è rappresentato dall’alto, di profilo e di tre quarti, con la parte anteriore sempre a sinistra. A003178, 7 Strategie efficaci. La pratica musicale sollecita i diversi tipi di memoria e rinforza in particolare quella di lavoro. Consolidando la connettività tra le diverse aree cerebrali attenua gli effetti dell’invecchiamento, rendendo possibili strategie di compensazione più efficaci. Il fatto che la pratica musicale metta in gioco simultaneamente questi differenti circuiti neuronali ne ottimizzerebbe l’effetto nel quadro dell’invecchiamento fisiologico. Misurazioni della densità delle fibre nella sostanza bianca e una raccolta di dati comportamentali relativi a un gruppo di soggetti anziani hanno mostrato che la quantità di mielina e l’integrità delle fibre della sostanza bianca sono indici predittivi delle prestazioni mnestiche ed esecutive così come della velocità di elaborazione delle informazioni. La musica potrebbe essere addirittura più efficace, rispetto ai programmi standard di allenamento cognitivo, perché favorisce la comunicazione all’interno di ciascuno dei due emisferi e fra essi, il che facilita la riorganizzazione funzionale corticale indispensabile all’adozione di strategie compensative. Suonare uno strumento musicale, infine, ha un aspetto edonico che aumenta gli adattamenti plastici regalando al tempo stesso un senso di soddisfazione e di crescita personale, con conseguente diminuzione dei punteggi relativi ai livelli di depressione. Lo studio condotto nel 2011 da Brenda Hanna-Pladdy e Alicia Mackay, dell’Università del Kansas, è uno dei pochi relativi al funzionamento cognitivo di persone anziane che si sono dedicate a un’attività musicale nel corso della propria vita. I risultati hanno messo in luce differenze significative: i musicisti ottengono migliori risultati nei test cognitivi, e le prestazioni dei musicisti dilettanti si situano a mezza strada tra quelle dei professionisti e quelle dei soggetti di controllo. La pratica musicale, dunque, migliorerebbe un gran numero di operazioni mentali, stimolerebbe i circuiti neuronali della memoria e permetterebbe di combattere gli effetti dell’invecchiamento cerebrale. LA MUSICA PROTEGGE DA TUTTO? Ma la musica non è una panacea, e i musicisti non sono certo al riparo dalle patologie cerebrali. Tuttavia, nel campo delle malattie neurodegenerative alcuni casi clinici hanno mostrato che alcuni ex musicisti colpiti da malattia di Alzheimer conservano notevoli capacità musicali, pur presentando seri disturbi della memoria e del linguaggio. Qualcuno resta in grado di suonare composizioni apprese prima dell’insorgenza della malattia. Molti conservano poi sorprendenti attitudini al riconoscimento e all’apprendimento della musica, in contrasto con le difficoltà mnestiche e di linguaggio associate alla patologia. Queste osservazioni hanno spinto i ricercatori a proporre studi sistematici che permettessero di valutare le competenze, nel A003178, 8 campo della memoria musicale, dei non musicisti colpiti dalla malattia di Alzheimer. La sintesi dei risultati pubblicati sull’argomento, che abbiamo realizzato nel 2013, ci ha permesso di fare il punto e di proporre una possibile spiegazione delle differenze osservate, che dipendono in parte dal fatto che i risultati non sono confrontabili, perché i processi di memoria valutati variano da uno studio all’altro secondo gli stadi della malattia. Negli stadi precoci, peraltro, la memoria episodica musicale è pressoché la sola a essere valutata sistematicamente; e appare deficitaria in questi pazienti, cosa non sorprendente. A partire dagli stadi moderati della malattia, di contro, si osserva che a essere valutati sono la memoria semantica e l’apprendimento implicito, noti per resistere più a lungo alla malattia. Così, gli studi dedicati ai pazienti colpite da malattia di Alzheimer suggeriscono che le capacità di associazione verbale legate alle conoscenze musicali sono alterati in maniera precoce, mentre le tracce percettive resistono a lungo. In diversi esperimenti, realizzati in collaborazione con Odile Letortu, dell’Unità Alzheimer della Casa di riposo Les Pervenches di Biéville-Beauville, nella regione francese del Calvados, abbiamo mostrato che queste tracce possono essere valutate a partire dall’emergere di un senso di familiarità: il paziente sa di aver già sentito la melodia. Non sempre, in queste persone, si può misurare l’emergere del senso di familiarità chiedendo loro se riconoscono il brano. Ma lo si può fare ascoltandone gli eventuali commenti spontanei, e osservandone la postura, la mimica e l’intonazione della voce. Riportando l’intensità del senso di familiarità su una scala da uno a sei, abbiamo mostrato in pazienti affetti da Alzheimer allo stadio avanzato che la presentazione in sedute ripetute per otto giorni di diversi estratti di musica strumentale produce un aumento del senso di familiarità tra la prima e l’ultima seduta di esposizione. Questi pazienti che non memorizzano più nessuno degli avvenimenti recenti, e inizialmente non conoscevano la melodia, la assimilano al punto da considerarla familiare nel giro di qualche seduta. E rivelano un senso di familiarità più marcato verso i brani cui sono già stati esposti rispetto a quelli nuovi. Inoltre, due mesi e mezzo dopo le sedute abbiamo osservato che il senso di familiarità era ancora presente. Gli stessi risultati non si ottengono con le poesie o le parole delle canzoni. Queste osservazioni depongono a favore dell’esistenza di un sistema di memoria musicale a lungo termine particolarmente resistente, distinto dalla memoria verbale, e confermano che le persone colpite da Alzheimer conservano stupefacenti capacità di apprendimento di nuove melodie. A003178, 9 UN NUOVO STRUMENTO TERAPEUTICO. Possiamo dire, quando il sentimento di familiarità verso una musica aumenta, e il paziente afferma di conoscere questa o quell’altra melodia, che si è creata una nuova rappresentazione nella memoria semantica? La questione rimane aperta: si deve parlare di nuove rappresentazioni percettive a lungo termine o di nuove conoscenze? Lo studio di visualizzazione celebrale che stiamo realizzando permetterà forse di acquisire elementi per arrivare a una risposta, relativi alla natura dei processi di memoria sottostanti all’emergere del senso di familiarità. Quando il rapporto con una persona colpita da una malattia neurodegenerativa si spezza, la musica può aiutare a recuperarlo. Queste mantenute capacità di apprendimento implicito di nuove melodie, assenti quando si tratta di materiale linguistico, sono davvero specifiche per la musica? La capacità di attrarre ed emozionare, e la ricchezza percettiva del materiale musicale sono innegabilmente fattori d’importanza cruciale. Oltre agli effetti sulla cognizione, la forza emotiva della musica sembra avere un impatto sulle componenti sensoriali, affettive, sociali e comportamentali dei pazienti colpite dalla malattia di Alzheimer. La musica, un materiale così ricco sul piano della percezione e dell’emozione, consente di mostrare che diverse capacità, anche mnestiche, restano presenti nei pazienti colpiti da Alzheimer, persino allo stadio avanzato. Le ricerche devono cercare di mettere in evidenza queste attitudini rimanenti, in particolare per quel che riguarda le capacità di apprendimento. Solo allora si scoprirà se la musica ha veramente effetti unici e specifici sulla nostra memoria, e come usarla per preservare il filo sottile che ancora ci unisce a quei malati la cui memoria degenera nel tempo. IN PIÙ FAUVEL B. e altri: Morphological cerebral plasticity induced by musical expertise is accompanied by modulation in functional connectivit at rest, in «Neuroimage», Vol. 90, pp. 179-188,2014. GROUSSARD M., MAUGER C. e PLATEL H., La mémoire musicale à long terme au cours de l’évolution de la maladie d’Alzheimer, in «Geriatrie et Psychologie Neuropsychiatrie du Vieillissement>>, Vol. 11, p. 99, 2013. FAUVEL B. e altri, Neural implementation of musical expertise and cognitive transfers: Could they be promising in the framework of normal cognitive aging?, in «Frontiers in Human Neuroscience», Vol.7, p. 693, 2013. A003178, 10 GLI AUTORI. HERVÉ PLATEL insegna neuropsicologia all’Università di Caen. MATHILDE GROUSSARD è maitre de conférences all’Università di Caen. BAPTISTE FAUVEL è dottorando nello stesso ateneo.