Il valore della cucina è nel lato artistico

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«Griseldaonline» Centro Studi Camporesi
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‘Il valore della cucina è nel lato artistico’
Conversazione con Giovanni Ballarini.
di Barbara Troise Rioda
‘Uomo dalle mille virtù, genio sui generis, dotto della scienza veterinaria, capace di
incantare con i propri scritti scientifici che sembrano racconti letterari d’autore’. Così
scrive in un’intervista del 2008 un allievo devoto di Giovanni Ballarini (alias John B.
Dancer). Un ‘dotto’ dal curriculum sterminato, impossibile da ripercorrere tutto intero in
poche righe. Merita tuttavia ricordare che dal 1953 al 2003 è stato Professore Emerito
dell'Università degli Studi di Parma, Dottore Honoris Causa dell'Università di Atene,
Medaglia d'Oro ai Benemeriti della Scuola della Cultura e dell'Arte del Ministero della
Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell'Orde du Mérite
Agricole della Repubblica Francese e nel 2008 è stato Presidente della Delegazione di
Parma dell’Accademia Italiana della Cucina.
Per la sua attività di antropologo alimentare ha vinto il Premio Glaxo (Verona), il Premio
Antico Fattore (Firenze), il Premio Verdicchio d’Oro (Staffolo, Ancona) e il Premio
Giornalistico Maria Luigia (Parma).
Venticinque gli anni di ricerca dedicati all’antropologia e più di novecento le pubblicazioni
a suo nome. Alcuni dei suoi numeri.
L’intensa attività di divulgazione sui temi dell’alimentazione è riuscita anche grazie alla
collaborazione con l’inserto “Corriere Salute” del Corriere della Sera, con il Giornale e
attualmente con giornali e riviste di vario genere. Dal 2008 è stato direttore della rivista
dell'AIC “Civiltà della Tavola”.
Tra i suoi libri più famosi: Il triangolo culinario (1984), Parmigiano-Reggiano- Il re dei
formaggi (1991), Una cena dell’altro mondo (1991) A tavola con Benedetto Antelami
(1996), Storia sociale del maiale (2002), La terra del buon cibo (2004), Storia, miti e
identità della cucina parmigiana (2007), Dove i sapori sono arte (2007), La scomparsa
della cucina (2008).
Uno studioso che di mestiere faceva il professore universitario, ma che ad un certo punto
ha sentito i limiti di una ricerca e di una dimensione scientifica nel senso più stretto della
parola. Ha così deciso di costruire dei ponti e aprire strade nuove. In questo
l’ottantacinquenne Giovanni Ballarini è un uomo d’avventura che subisce ancora il fascino
della conoscenza.
1- Passare dallo studio della scienza pura all’analisi del rapporto che l’uomo
ha con il cibo e la tavola è stato un bel ‘salto’…
Non lo definirei un ‘salto’. È stato un cammino lungo e razionale. Ho incominciato dalle
ricerche sulle malattie degli animali, in particolare degli animali da reddito produttori di
alimenti, poi mi sono occupato della sicurezza e della qualità del cibo. Sono stato nove anni
a Bruxelles presso la Comunità Europea interessandomi di sicurezza degli alimenti
destinati agli animali (per lo più mangimi) e all’uomo. Tra i miei studi accademici si è
infiltrata la passione per gli aspetti non nutrizionali degli alimenti, ossia l’antropologia
alimentare. Lo scopo fu quello di studiare e di capire certi comportamenti: perché si
mangiava il gatto e ora non lo si mangia più, perché a Parma si mangiava il formaggio con i
vermi (quindi si mangiavamo i vermi vivi) e ora non più, perché si mangiava la volpe, che
oggi nessuno penserebbe più di mangiare, perché in alcune zone si cucinava il cane,
eccetera, eccetera.
È stato un percorso naturale. Sono passato da una scienza produttiva animal science ad
una ricerca sui costumi e sulle regole alimentari umane perché lì mi hanno portato
‘naturalmente’ i miei interessi. Sono stato per un certo periodo anche in Cina, sempre per
conto dell’Unione Europea, e ho potuto capire quanto la gente lì mangiasse cose
completamente diverse da ciò che mangiavamo noi europei e occidentali in genere. Ho
tentato così di sviscerare le regole che nella specie umana determinano la scelta e la
preparazione di un cibo. Regole che si sono costruite nel corso del tempo e sono sempre
figlie di una certa cultura. Regole che non possono essere lette dal punto di vista
scientifico, ma nascono e vivono in rapporto all’ambiente di riferimento e che possono
trasformarsi anche in tabù identificatori. Per esempio mi ha stupito scoprire, non tanto che
gli Ebrei non mangiassero il maiale, ma che nella ristretta zona della Palestina (dove
vivevano solo gli Ebrei) non ci sono le ossa del maiale. Nelle zone attorno invece ci sono. Il
maiale era quindi un alimento di identificazione ‘noi siamo quelli che non mangiano il
maiale’ e cioè Ebrei e ‘noi siamo quelli che mangiano il maiale’ cioè tutti gli altri. Un
elemento di identificazione può essere anche un prodotto alimentare di un territorio. I
parmigiani possono dire in coro ‘noi siamo quelli del Prosciutto di Parma’. Quindi il cibo
diventa un elemento di identificazione sociale e si intreccia con aspetti psicologici,
sociologici, religiosi e letterari. Scienza del resto è conoscenza...
2- Cento anni dalla morte del grande gastronomo e letterato Pellegrino Artusi.
Nel suo trattato ha coraggiosamente parlato insieme di ‘Scienza’ e ‘Arte’ della
cucina? Quali sono i confini?
Scienza e arte. È la prima opera in cui le due parole compaiono insieme: La scienza della
cucina e l’Arte del mangiar bene. L’Artusi è un tipico rappresentante della cucina
borghese. Una cucina che è nata trecento anni fa circa e che sta morendo adesso. Un ciclo
di trecento anni. Una modalità di approcciarsi al cibo nella quale si identifica da una parte
l’aspetto scientifico, ma soprattutto l’aspetto illuministico. La cucina borghese nasce con
l’illuminismo di Voltaire, Diderot, d’Alembert , grazie al contributo degli stessi intellettuali
che hanno scritto l’Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri (anche qui scienza e
arte compaiono insieme). I mestieri in particolare sono intesi come il ‘saper fare qualcosa’,
avere la padronanza delle ‘tecniche’: come si fa il pane, come si fa lo jogurt, come si lavora
il latte. Tutto è spiegato nel libro di d’Alembert. Questa conoscenza scientifica si innesta
poi sulla caduta delle Regge, prima con la caduta di Parigi poi successivamente delle altre.
La borghesia cresce e costruisce un proprio modus vivendi, un proprio modo di mangiare
diverso da quello della nobiltà di palazzo e costruisce con orgoglio la propria cucina.
L’Artusi come ricettario in sé è superato. La cucina è infatti lo specchio della società e ogni
società (in un dato momento storico) ha la propria cucina per cui bisogna interpretarla a
seconda del periodo, va contestualizzata. L’opera gastronomica dell’Artusi è un ricettario
anacronistico nel senso che è ‘fuori dal tempo’. Ma continua a vivere e a ‘parlare’ con il
nostro tempo. La ricetta è qualcosa di vivo. Se noi prendiamo i tortelli del 1200 citati da
‘Fra Salimbene de Adam non sappiamo come fossero. Nel ‘700 invece sappiamo che c’era
un certo tipo di tortelli parmigiani fatti con le erbette. Questo modello di pasta ripiena
accoglie successivamente la zucca. Dopo due secoli accoglie la patata. Il modello va avanti e
prosegue. Il modello è in evoluzione e viene interpretato momento per momento, luogo per
luogo e viene anche ritualizzato. Un tempo la ricetta era identificata con una certa
occasione anche di tipo religioso, una religione laica ovviamente, non sacrale.
La ricetta vive quindi al di fuori di quel piccolo momento in cui viene scritta perché come
dice giustamente Aldo Spoldi noi ‘mangiamo il nostro tempo’ e quindi rileggiamo e
reinterpretiamo i piatti del passato.
3- L’Arte ha a che fare con il sentimento e con la passione. Anche quando si
manipolano gli alimenti senza passione artistica, pure se tecnicamente si è
perfetti, non si ottiene granché.
Sto per pubblicare un libro che non so che titolo avrà. Forse qualcosa come: ‘A cosa serve la
gastronomia’. È uno studio di trecento pagine circa sulla cucina come arte.
Vi sono vari tipi di arte. C’è l’arte povera, l’arte popolare, la grande Arte e ci sono vari tipi
di cucine. L‘ ‘arte della cucina’ ha infatti degli stretti rapporti con l’evoluzione delle altre
arti. Il libro è diviso in tanti capitoli Cucina e Musica, Cucina e letteratura, Cucina e
Cinema, Cucina e architettura nei quali vengono approfonditi i singoli temi. Per fare
qualche esempio: quando la musica cambia diventa atonale e compare il ritmo (tanto che si
parla di musica ritmica e del contrasto) anche la cucina, che prima era una cucina borghese
basata soprattutto sull’armonia, segue la stessa strada. Una volta c’era la salsa che univa
tutto adesso invece c’è sullo stesso piatto il contrasto del caldo e del freddo, dell’amaro e
del dolce. Da qui la cosiddetta ‘cucina dei contrasti’. Oggi non si parla più di ricette, a certi
livelli si parla di ‘progetto’ (come in architettura) di food designer. Questi progetti
privilegiano gli aspetti visivi. Non è una cosa nuova già Careme Marie Antoine, a metà del
‘800, dice che ‘le Belle Arti sono cinque, e cioè: la pittura, la scultura, la poesia, la musica,
l'architettura. Quest'ultima ha per ramo principale la pasticceria’. Quindi la pasticceria è
una branca dell’architettura. Non per niente la gran parte dei nostri dolci venduti
dall’industria sono stimolanti proprio sotto l’aspetto estetico e scenografico.
Anche la struttura del pranzo ricalca un certo tipo di arte. Nel ‘600 c’era la grande cucina
ostensiva che potremmo rapportare ai grandi affreschi, poi con l’800 il pranzo ricalca la
grande operà francese con l’overture, il primo tempo, l’intervallo, il secondo tempo e il
gran finale di dolci. Adesso stiamo andando verso una rappresentazione simile ad un
piccolo quadro. Quello che conta oggi è il piatto. Si può pensare ad un Morandi e di fianco
una fotografia di un piatto di un celebre chef (il ‘risotto allo zafferano con la foglia d’oro’
di Gualtiero Marchesi mi viene in mente). Questo è l’influsso del passaggio dall’affresco al
piccolo quadro, ecco perché penso a Morandi. C’è uno stretto rapporto tra cucina e arti
figurative. La gastronomia del resto è un’arte e come arte partecipa all’evoluzione del gusto
delle altre arti.
4- C’è chi parla addirittura di ‘amore’ per la cucina. George Bernard Shaw
dice: ‘non c’è amore più sincero di quello per il cibo’. È un ‘innamorato’ anche
lei?
Il problema è capire che cosa vuol dire amore. E ancora di più cosa vuol dire cucina. Cos’è
la cucina? La cucina è il manipolare le cose. In casa ho questi mobili, che ho comprato e ho
raccolto tra i mobili della mia famiglia e quella di mia moglie. Hanno tutti un certo tipo di
‘stile’. A noi non basta fare una seggiola dobbiamo dare uno stile a questa seggiola. Questo
è l’amore per il fare. Penso che nella cucina ci sia questo ‘amore per il fare’. Ma a che
scopo? Non per il semplice utilizzo fine a se stesso, ma per comunicare. Anche la cucina è
un linguaggio.
Io non cucino, non ‘faccio’ ma amo comunque la cucina perché studio la gastronomia come
fenomeno di manipolazione. Quest’arte nasce nel 25/30 mila a.C. insieme alla pittura,
assieme alla formazione degli oggetti, quando dalla scheggia di selce semplice si passa allo
strumento decorato. Noi abbiamo da un milione di anni, forse di più, la pietra scheggiata
ma solo quando l’uomo diventa propriamente uomo (25-30 mila anni fa) incomincia a
decorare e troviamo oggetti del paleolitico con decorazioni artistiche. Inutili o necessarie?
Bella domanda. Ci si può chiedere allora: perché ci sono i gioielli? perché ci sono le prime
collane? perché ci sono i primi ornamenti? perché ci sono le pitture dentro le grotte? Anche
il cibo ad un certo punto non viene più solo mangiato ma viene manipolato. E da qui che
nasce la cucina. Perché qualunque attività umana nel corso dei millenni è stata trasformata
in un linguaggio, è nella natura dell’uomo.
5- Chi è il cuoco? Lo si può definire un poeta anche se non usa le parole per
esprimersi e la sua composizione è un piatto?
Il cuoco è l’artista. E da qui nasce l’altro grosso dilemma di cosa sia l’arte. Nei miei studi
sugli animali ho cercato di scoprire se in loro vi sono delle schegge, delle scintille artistiche.
Sembra che qualcosa ci sia. Intendo un’arte in quanto estrinsecazione di cose non
immediatamente utili. Tra gli uccelli per esempio ci sono maschi che decorano splendidi
giardinetti per attirare la femmina. Anche questo diventa un linguaggio simbolico e di
espressione artistica. Il cuoco dovrebbe fare lo stesso: esibirsi per primeggiare sugli altri.
Anche per guadagnare, ma il guadagno è un segno, è una conseguenza del primato.
Come il grande poeta vuole essere ascoltato, il grande musicista vuole essere ascoltato
anche colui che manipola gli elementi della natura (come qualsiasi altro artista) vuole
essere ascoltato o in questo caso ‘mangiato’.
Un’altra figura fondamentale è il Maestro di cucina. Se la cucina è un’arte, l’arte la fanno i
Maestri. Ecco il perché dell’importanza della Scuola Internazionale di Cucina che ha come
rettore un grande maestro come Gualtiero Marchesi. Perché se non ci sono i maestri non
c’è la possibilità di creare uno stile e non è possibile diffonderlo. Non tutti i grandi artisti
sono capaci di insegnare. Ci sono dei geni meravigliosi che finiscono. Ci sono geni
altrettanto meravigliosi che hanno in più la virtù di saper trasmettere ed insegnare.
Gualtiero Marchesi è un amico capace di insegnare. Ha fatto scuola. Difficile trovare un
allievo di Vissani. Lui è un animale gastronomico, un sensitivo, ha un palato gastronomico,
ha il dono dell’‘occhio clinico’ come si dice. Marchesi è un esempio. Ne verranno fuori altri.
Bastano le capacità e un po’ di predisposizione. Del resto nel ‘400 italiano c’erano tanti
pittori eccellenti, ma se ci si pensa pochi hanno fatto scuola. Oggi che c’è molta
frammentazione è più difficile riconoscere chi emergerà.
6- Pochi giorni fa in occasione di Cortina Incontra ha espresso chiaramente la
sua preoccupazione dicendo che stiamo correndo il ‘rischio di perdere il
valore dei gusti di una volta’. Come si può evitare il pericolo ?
La preoccupazione è quella di sostituire un gusto non solo personale ma famigliare e locale
ad un gusto più generale. Mi spiego meglio: gli anolini erano diversi casa per casa, adesso
gli anolini che compriamo già fatti sono uguali dappertutto. C’è una standardizzazione del
gusto. Dobbiamo essere rieducati ai sapori. È un po’ come la questione della musica. Un
fatto è quello di ascoltare la musica l’altro è quello di fare sentire la musica in casa, suonare
in casa, magari male, però con una certa partecipazione ed identificazione.
Stiamo passando da una società di piccoli gruppi (famigliari) ad una società mondializzata.
La possibilità di creare alternative potrebbe esserci. Pensiamo a quello che capita nei vini.
Mai come oggi ci sono tanti vini diversi. Ognuno viene identificato però sono tutti
industriali. Una volta c’era il lambrusco di casa, adesso ci sono tanti lambruschi uno per
ditta. Con gusti diversi.
Poi c’è il grande tema dell’uscita della cucina dalla casa a favore dell’artigianato e
dell’industria. Una volta in casa c’era il maiale, il sacco di grano, il tino con l’uva. Si faceva
tutto in casa. Poi il pane si è cominciato a comprare fuori, lo stesso per il vino, i salumi e
così via. La pasta negli anni ’50 però si faceva ancora quasi tutta tra le mura domestiche.
Oggi i dati ci dicono che solo il quattro per cento delle persone la fa come una volta. La
pasta secca è tutta comprata fuori, la pasta fresca solo per il quattro per cento è fatta in
casa, il resto è comprata già fatta. Non è, come dicono in molti, che non ci sia più tempo è
che occupiamo il tempo a fare altre cose. Questo ha portato il passaggio dalla cucina
domestica alla cosiddetta ‘Grande Sorella’. Un tipo di cucina industriale alla ricerca degli
stessi sapori, che tende all’omologazione. (continua)
Non c’è mai stata contrapposizione tra tradizione e innovazione. Direi che tra le due c’è
sinergia. La diversità rispetto al passato è che stiamo passando ad una innovazione, basata
su delle tradizioni che non sono più nostre ma sono fatte da altri. C’è un ‘esproprio’ del
processo tradizione-innovazione.
Quando a Parma è arrivata la zucca, hanno inventato i tortelli di zucca quindi si è fatta
un’innovazione del prodotto. Quando è arrivata la patata lo stesso. Ma questa ‘mutazione’
chi l’ha fatta? L’hanno fatta i singoli. Adesso invece c’è un produttore di pasta ripiena che si
sveglia una mattina e dice ‘provo a fare i tortelli con dentro il pesce’. È lui che fa
innovazione. Questo intendo per ‘esproprio’ del processo. Noi diventiamo solamente dei
consumatori, non più dei partecipi, dei produttori. Perdiamo il ruolo di protagonisti
dell’innovazione. Da qui si apre un altro ambito di studi che si può approfondire e che è
quello dell’industria food and beverage moderna che sfrutta le pulsioni inconsce. La prima
è stata la Coca-Cola. La Coca-Cola non ha mai venduto una bibita. Non ha mai venduto una
bevanda acida che contiene caffeina. Ha venduto allegria, amicizia, amore, fantasia, gioia.
Chi di noi non si ricorda l’albero ‘umano’ illuminato dagli accendini che ci veniva
riproposto tutti i Natali. Ho visto da poco l’ultima pubblicità del Gran Soleil. Che cosa si
vende? Leggerezza, freschezza...emozione! Anche qui c’è la vendita dell’emozione. Siamo in
una società alla ricerca di emozioni in tutti i settori. Perché lei si veste così? perché ha
scelto questi colori? chi glieli ha fatti scegliere? Siamo tutti influenzati dalla moda. Il
vestito non è una cosa da poco.
C’è uno stretto rapporto tra moda e cucina. Molto stretto. Mi riferisco al sistema che
governa entrambe. Nella moda c’è la grande sperimentazione che poi diventa il pret a
porter che poi diventa la moda comune. La grande sperimentazione in cucina diventa
innovazione, poi diventa anche tradizione. Le regole di mercato sono le stesse. Il mercato
della moda e il mercato della cucina seguono la stessa strada. Non è un fenomeno nuovo, è
sempre stato così. In passato però valeva solo per lo 0,1 per cento della popolazione, ossia
questo poteva capitare nella corte di Versailles, poteva capitare in quelle venti o massimo
cinquanta persone che vivevano a Colorno con i Farnese non di più. Adesso il fenomeno si
è allargato a tutti quanti.
8- Qual è il suo piatto preferito? E quello che non servirebbe neanche al suo
peggior nemico?
(Sorride) Tutti i piatti di pasta. Le paste. In generale ho sempre assaggiato tutto. Ho
assaggiato, non ho vergogna a dirlo, il cane fatto in Cina, cucinato da loro con certi criteri.
Ecco l’unica cosa che non ho mangiato sono i vermi. Forse perché sono vivi e si muovono.
Il formaggio con i vermi di Corniglio... non sono riuscito a provarlo andava un po’ troppo
contro la mia natura.
9- Studiando l’antropologia alimentare da ben venticinque anni qual è stata la
scoperta più sconvolgente?
Sconvolgente nessuna. Ogni ricerca è stata un cammino lento, continuo inseguendo
risposte che spesso avevo già ipotizzato ed intuito. Potrei dire che la scoperta più
interessante è stata quella dell’importanza del subconscio e dell’inconscio alimentare.
Esiste infatti un forte inconscio alimentare che si manifesta anche nei sogni. Il ruolo del
sogno alimentare è stato per la verità ancora poco approfondito. Lo stesso Freud non lo
aveva affrontato, mentre Jung e i suoi seguaci, come per esempio James Hillman , un
junghiano americano, hanno sviscerato proprio il problema dell’inconscio alimentare (che
ha gli stessi meccanismi di qualsiasi altro inconscio). Esso ha notevoli risvolti psicologici
perché dopo un buon pasto ci si sente bene c’è la cosiddetta eucenestesi (sentirsi bene) e
quindi c’è un inconscio. L’inconscio è un elemento guida e di valutazione del cibo. Un
aspetto affascinante ancora da scoprire.
10- Delle sue circa novecento pubblicazioni quale l’ha divertita di più?
Uno dei primi libri che ho scritto sull’alimentazione: Il triangolo culinario . Una ricerca
sulle strutture che determinano il nostro modo di mangiare. Ai tempi, quando scrissi il
libro, ero innamorato dello strutturalismo, poi mi sono accorto che è solo una dimensione.
Lo strutturalismo dice parecchie cose, ma non dice tutto. Dice solamente qualche cosa. Ho
accennato per esempio un attimo fa all’importanza dell’inconscio che lo strutturalismo
ignora. È vero che qualcuno potrebbe sostenere che anche le strutture sono collegate
all’inconscio ma sono correnti, o meglio finestre, di analisi differenti. Domani può darsi
che si possa arrivare alla teoria unificata del cibo. Ma ancora no.
11- Chi è John B. Dancer?
Jonny (è così che chiama affettuosamente il suo alter ego) è un ricercatore e uno studioso
che da molti anni vive a Parma e che a un certo momento ha pensato di occuparsi di una
materia nuova: l’antropologia alimentare (vale a dire tutto ciò che c’è di non nutrizionale
nei cibi). Allora avendo cambiato argomento dei suoi studi, avendo cambiato stile di
ricerca ha pensato anche di cambiare nome, recuperando una vecchia filosofia indiana per
cui ad ogni età della vita, ad ogni tipo di mestiere, ad ogni tipo di attività ci vuole un nome
nuovo. Una filosofia che da noi è rimasta per esempio per le persone che andavano in
convento e in monastero e cambiavano vita oppure anche per chi diventava papa. Ecco il
perché del cambiamento del nome. Un nome che è abbastanza trasparente e non taglia le
mie radici è infatti la semplice traduzione di Giovanni Battista Ballarini: Jhon B. Dancer.
Parecchi di coloro che si sono avvicinati al cibo inizialmente lo hanno tenuto staccato dagli
altri studi accademici. Se si pensa che lo stesso Jean Anthelme Brillat-Savarin aveva dato
poco peso al suo trattato. L’Artusi, che si riteneva un critico letterario, non dava grande
importanza al suo libro di cucina perché voleva valorizzare le altre ricerche che aveva fatto
su Foscolo e su Giusti. Per cui anch’io che avevo tutta la mia produzione scientifica
accademica non volevo che la cose si mischiassero.
12- Quanto conta l’estetica a tavola? ‘Se dico che un piatto è veramente bello,
intendo dire che è buono’ sono le parole del suo amico Gualtiero Marchesi. Le
condivide?
Bisogna innanzitutto stabilire un limite che è quello delle 3000 calorie lorde disponibili.
Lorde vuol dire che quando noi compriamo un pollo ne buttiamo via un bel pezzo, se
compriamo le ostriche buttiamo via tutti i gusci. La parte lorda quindi è sempre di più di
quella mangiata. Quando una popolazione scende sotto questa soglia guarda al mangiare,
quando supera questo limite guarda anche l’aspetto estetico. Allora sì che come dice
Olindo Guerrini in una frase che mi piace molto ‘quel che soddisfa il gusto deve essere
minore di quel che soddisfa gli altri sensi’. Noi abbiamo superato le 3.000 calorie negli
anni ’40-‘50.
L’importanza dell’aspetto esteriore di un piatto dipende poi dalle famiglie, dipende dalle
società, dipende dalle classi sociali, dal livello di cultura. Se chiedessimo ad un immigrato
che è in un centro d’accoglienza quanto conta per lui la bellezza o l’aspetto emozionale del
cibo ci meriteremmo una rispostaccia
13- Una cibo che le piacerebbe creare o provare? Uno studio creativo, un
progetto che ha nel cassetto?
Sono molto interessato alle possibilità del gelato salato. Noi siamo abituati ai gelati come
cibi dolci. Tuttavia il gelato come cibo salato e speziato con le nuove tecnologie che
abbiamo a disposizione può essere una nuova apertura. Non dimentichiamo che fino a
duecento anni fa la cucina era quella del paiolo sul fuoco a legna, poi dopo è arrivato il gas
(centocinquanta anni fa non di più) e poi è arrivata l’elettricità ed è tutto cambiato.
Pensiamo solo agli strumenti meccanici per agitare, per frullare come si sono evoluti e
sono diventati i comuni elettrodomestici che abbiamo nelle nostre case. Il futuro è quello
delle cotture sottovuoto quindi senza ossigeno, a bassa temperatura 65-70° per lunghi
periodi. Per cui non si strina più, non c’è più la carne bruciata.
Le nuove tecnologie stanno aprendo nuovi orizzonti uno di questi è appunto il gelato
salato. Il problema è che le tecnologie moderne si devono affinare per riuscire a produrre
dei gelati cremosi. Il punto debole è infatti la cremosità che si ottiene o con temperature
bassissime, quindi l’azoto liquido, oppure con l’aggiunta di additivi specifici che regolano la
grandezza dei cristalli di ghiaccio. Le tecniche nuove che stanno arrivando potranno aprire
chissà quali nuovi orizzonti. D’altra parte quando è arrivata la tecnica di distillare e
abbiamo inventato i liquori era il XVI secolo. Prima non c’erano i liquori e lo stesso gelato è
un’invenzione del ‘500. Furono gli alchimisti che inventano sia il gelato che l’alcol (alcol è
un termine arabo) e che hanno aperto due strade nuove. Anche adesso stiamo scoprendo
percorsi innovativi. Cosa succederà? Una bella domanda alla quale l’antropologia
alimentare può tentare di dare qualche risposta.
14- Che cos’è e a cosa serve quindi l’antropologia alimentare?
È lo studio dei comportamenti umani nei riguardi del cibo. In termini banali tutto quello
che c’è di non nutrizionale nell’alimentazione. Ad esempio l’antropologia alimentare è la
scelta degli alimenti: questo è buono, questo è cattivo, questo è puro questo è impuro; del
loro utilizzo: non si mangiano i cavoli a merenda. È l’analisi di come si costruisce
l’alimentazione nella giornata: questo va fatto al mattino, a mezzogiorno e sera. Come si
costruisce nell’arco della settimana, c’erano i proverbi un tempo che aiutavano: ‘sabato la
trippa e giovedì gli gnocchi’. Come si costruisce nel corso dell’anno.
C’è anche tutta quanta una ritualità popolare. Quando muore qualcuno in casa che cosa si
prepara da mangiare? Le vecchie società dicono che quando in una casa c’è il morto si
‘mette su’ la pentola da brodo. Si prepara il brodo perché le persone che vengono da via
devono essere ospitate e si offre loro una tazza di brodo caldo.
15- L’antropologia alimentate studia quindi l’uomo tra i fornelli di casa?
Riguarda le piccole cose come la grande letteratura. Piero Camporesi, che ho conosciuto e
con il quale mi sono confrontato, è stato il primo in Italia a leggere ed interpretare la
letteratura attraverso la categoria del cibo, della cucina passata e presente e dei miti
alimentari. Ha visto nel cibo una dimensione attraverso la quale sviluppare le sue ricerche
di italianistica. Poi ci sono stati i suoi allievi che hanno continuato in Italia il suo lavoro. I
francesi erano più avanti. Aron aveva già affrontato la questione. Con Les Annales e la
storia materiale, i francesi si accorsero dell’importanza della cucina. Aron ha capito questo
aspetto prima di molti altri per questo alcuni nostri grandi studiosi di cibo e letteratura,
come Massimo Montanari, sono molto legati alla Francia. La Francia ha certamente
incominciato prima su questa strada dell’esegesi della letteratura in senso più ampio.
Le pagine della letteratura sono utili all’antropologia alimentare come tutto il resto. Ad
esempio uno potrebbe occuparsi della letteratura come dello studio degli strumenti della
cucina: vecchie pentole, la stessa forchetta (quando nasce, perché prima si mangiava con le
mani), i bicchieri. Tutti quanti gli oggetti da tavola e di cucina sono espressione di una
certa cultura gastronomica.
16- Il ‘Mangiatore di Fagioli’ di Annibale Carracci può ben rappresentare lo
spirito e l’idea di italianità del cibo e dell’italiano a tavola?
L’intenzione di Annibale Carracci era quella di rappresentare un piatto ‘esotico’. I fagioli
erano appena arrivati. Un cibo considerato importante, non una robaccia. Un’altra icona è
quella di Esau che vende la sua primogenitura per una zuppa di lenticchie. Un’opera di
Hendrick ter Brugghen . La presenza della zuppa ci dice che c’era il pane e c’era il cereale
(la lenticchia ). È importante perché Esau è un israelita. Gli israeliti erano pastori che non
avevano un cibo del genere. Le lenticchie le compravano dai contadini. Quindi la zuppa è
una vivanda preziosa. La stessa cosa si ripete con il Mangiatore di fagioli di Caracci. Un
altro quadro significativo ma molto, molto brutto da un punto di vista psicologico è I
mangiatori di patate di Van Gogh: cupo, buio, brutta gente. Nel ‘600 la patata era infatti, a
differenza dei fagioli, un cibo povero di basso livello.
Per rappresentare l’italianità a tavola è molto meglio il Cinema. Il cinema ha rivalutato il
cibo in tutti i suoi aspetti. C’è La Grande abbuffata, la scena in cui Alberto Sordi mangia
gli spaghetti in Un americano a Roma di Vanzina. Il cinema del resto è un’arte popolare e
nell’arte popolare il cibo in genere è molto importante. Mentre in un’opera teatrale ed
ancor meno in un’opera lirica è molto meno.
17- Una considerazione più ‘leggera’. Dall’apparenza e dalla sua silhouette non
si direbbe per niente un appassionato di cucina...
Il gourmet non è un mangione. Qualcuno addirittura sta teorizzando che di tortelli
bisognerebbe mangiarne uno solo. Infatti Gualtiero Marchesi fa il tortello aperto. Non solo
io sono stato a mangiare in un ristorante abbastanza celebre, ho preso il solito menù di
presentazione e lì di tortelli me ne hanno dati due. Il Maestro dice: perché devo ripetere
una, due, tre, quattro volte un’opera d’arte.
Per vivere bene si deve misurare e adeguare le quantità. Non bisogna a mio parere
alleggerire nella qualità ma nella quantità. Ho una parente che quando mi invita da lei mi
dice ‘vieni che ho fatto una torta senza burro, senza zucchero, senza questo senza
quell’altro’ io le dico ‘uno schifo praticamente! Fammela col burro e tutto quello che ci
vuole e ne prendo poca’. Quantità e qualità dipendono dallo stile di vita. Se devo andare a
zappare posso mangiare anche trenta tortelli ma se invece sto seduto e fermo davanti al
computer ne mangerò due, tre, quattro massimo cinque. Do ragione a Jean Anthelme
Brillant-Savarin quando dice che ‘chi si ingozza o si ubriaca non sa ne bere ne mangiare’.
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