3. L’UOMO E L’ENIGMA-UOMO
3.1. “LA COSCIENZA UMANA E’ PRATICAMENTE L’ULTIMO MISTERO CHE ANCORA
SOPRAVVIVE”
(Daniel C. Dennett, Coscienza, Rizzoli, pag. 31)
Uno schianto. Una carambola di macchine. Urla disperate. Le sirene dispiegate
dell’autoambulanza. Una corsa frenetica all’ospedale più vicino, ma il cuore di Giulia non
resiste.
Federica non se ne dà pace. Non era una delle tante sue amiche. La conosceva bene fin dai
banchi del Liceo. Condivideva con lei interessi, passioni. A lungo. Avevano amato insieme la
vita. Avevano cercato di spremere tutto ciò che di giocoso potevano offrire gli anni della
giovinezza. Era con lei anche in quella notte tragica: avevano sentito della bella musica in
compagnia di amici ed avevano ballato spensieratamente. Era con lei - di ritorno dalla cascina
– nella stessa macchina: un urlo e, poi, il silenzio, un silenzio glaciale.
E’ la prima volta che si trova in faccia alla morte, che la sente sulla sua pelle, che la sente
ghermire una persona cara. E ghermirla per sempre. Sì, per sempre: la fredda ragione non le
offre alcuna alternativa. Ma il suo cuore si ribella: Giulia non può essere morta del tutto!
“HO” UN CORPO O “SONO” UN CORPO?
Federica pensa a Giulia e pensa anche a se stessa. Si rifiuta di credere di ‘essere’
semplicemente un corpo. No: lei ‘ha’ un corpo. E… cos’è che caratterizza il suo ‘io’? Cos’è
quella ‘cosa’ che ha un corpo?
Ne parla con Elisa, una sua amica e la invita a casa sua: nel giardino.
“Sai, Elisa, che la morte di Giulia mi ha letteralmente sconvolta. Non riesco ad immaginare che
di lei non ci sia più niente, che di me non rimarrà più niente. Tu cosa pensi?”
“Io credo che via sia in noi qualcosa che sopravvive: l’anima. Non chiedermi di motivare
questa mia credenza: è una convinzione che ho dalla mia prima istruzione. So, poi, che si
tratta di una tesi che ha alle spalle una lunga tradizione di pensiero. Così, almeno, ho studiato
a scuola.”
“Fa parte anche del mio bagaglio culturale: chi non ha sentito che in noi esiste un’anima che
sopravvive alla morte del corpo? Ma, senti, cos’è questa anima?”
“Federica, immagino sia qualcosa di spirituale: come potrebbe, altrimenti, sopravvivere alla
morte del corpo?”
“Ma… a cosa ti riferisci in concreto quando parli di quel ‘qualcosa’ che in te non sarebbe
materiale?”
“Non lo so: immagino sia la ‘coscienza’: è qualcosa di fisico, forse, la coscienza?”
“Senti, Elisa, perché mai la coscienza non potrebbe essere spiegata semplicemente col
cervello?”
“Col cervello? Ma ti sembra possibile che degli elettroni e dei protoni (alcuni dei mattoni di
base del cervello) si percepiscano, siano in grado cioè di riflettere su se stessi? Non ti sembra
quanto meno paradossale che la materia possa essere cosciente di sé?”
“Ma perché, Elisa, ciò che non può fare il singolo elettrone, non potrebbe farlo il cervello
umano che ha una struttura complicatissima formata da un intreccio di 100 miliardi di neuroni?
Il tutto non è riducibile alle sue parti: questa è una convinzione che ho mutuata dai miei studi.
”
“Federica, non mi convinci. Il cervello, anche se complesso, è costituito in ultima analisi da
elettroni, protoni, neutroni: come potrebbe, allora, l’insieme degli elettroni essere in grado di
fare ciò che non può fare il singolo elettrone?”
Federica ed Elisa sono sedute. Di fronte a loro un tavolino. Ogni tanto sorseggiano un po’ di
Coca Cola. Il giardino – di pianta quadrata - è di modeste dimensioni, ma è particolarmente
attraente. Qua e là – in mezzo al prato verde intenso – sorgono cespugli di erica, di gelsomino
e di lavanda. Sono soprattutto i colori degli oleandri a ravvivare l’ambiente. Il caprifoglio,
abbarbicato sulla pergola, in fondo al giardino, sprigiona un profumo paradisiaco. La passiflora
matura lentamente i suoi frutti tra i quali cinguettano allegri dei passeri, mentre il cagnolino
corre abbaiando in tutte le direzioni. Di tanto in tanto si intravede la mamma di Federica che
sbriga le faccende di casa.
“Elisa, secondo te, allora, la coscienza sarebbe spiegata grazie alla presenza in noi di uno
‘spirito’?”
“Perché no?”
“Se fosse così, come si spiegherebbe, allora, la presenza pressoché certa di una qualche forma
di coscienza negli animali (o almeno alcuni di loro)? Si dovrebbe dire che anche negli animali è
presente lo ‘spirito’?”
“Non credo: la coscienza animale non ha certo le caratteristiche di quella umana!”
“Il grado di consapevolezza sarà sicuramente diverso, ma non si tratterebbe pur sempre di
consapevolezza?”
“Ho la sensazione che qui stiamo usando un termine (consapevolezza) con due significati
diversi: come si potrebbe confondere la coscienza dell’uomo con quella – tra l’altro presunta –
dell’animale? Al di là, comunque, della coscienza, in noi non vi è pure l’intelligenza? Ora
l’intelligenza umana come sarebbe spiegata se non con la presenza in noi di uno spirito?”
“Perché mai ricorrere allo spirito? L’intelligenza è una funzione tanto cerebrale che è comune
anche a degli animali.”
“Non puoi negare, però, che il grado di intelligenza dell’uomo sia di gran lunga superiore a
quello di un animale (anche di quello più vicino all’uomo): forse che un'astrazione matematica,
la teoria della relatività di Einstein, la musica di Bach sono, secondo te, spiegabili solo col
cervello?”
“Come no? Il cervello dell'uomo è di sicuro più sviluppato di quello degli animali superiori. Tra
gli uomini, poi, c'è chi ha un'intelligenza genetica alla Einstein e c'è chi ne ha una molto più
modesta.”
“E' vero. Ma come faresti a spiegare dei prodotti ‘astratti’ (la matematica non è, ad esempio,
un prodotto astratto?) con un cervello che, seppur complesso, è pur sempre qualcosa di
materiale, di concreto?”
“Questo non lo so. Ma perché escludere che quell’oggetto complicatissimo che è il cervello sia
proprio in grado di effettuare queste operazioni?”
“Ho qualche dubbio.”
Federica ascolta con un forte interesse quanto le dice l’amica. Sa di non avere di fronte il
classico ‘esperto’, ma forse per questo si trova ‘aperta’ al confronto con lei: parlano alla pari,
discutono alla pari. E’, poi, un fatto positivo che Elisa parta da convinzioni diverse. A dire il
vero lei – Federica – non ha vere e proprie convinzioni: è solo alla ricerca di se stessa. Cos’è
quello che in gergo si chiama il suo ‘io’? L’amica le suggerisce una pista interessante: l’anima,
intesa come qualcosa di spirituale. Una pista che – secondo Elisa – spiegherebbe la presenza
nell’uomo sia della ‘coscienza’ che dell’intelligenza umana. Si tratta di una idea che le
aprirebbe subito un orizzonte di luce, di speranza. Ma ha una qualche resistenza ad accettarla.
Non che abbia un atteggiamento mentale ‘scientifico’. No. Ma la cultura che respira la porta a
rifiutare un’idea che le pare di matrice religiosa. Perché mai non basterebbe l’evoluzione
biologica dell’uomo – un’evoluzione durata milioni di anni – per spiegare sia la coscienza che
l’intelligenza? Un approccio del genere, poi, spiegherebbe benissimo come mai nel mondo
animale siano presenti la coscienza e l’intelligenza seppur in gradi inferiori. Certo non ha dubbi
che il livello di astrazione che l’intelligenza umana ha raggiunto è ben lontana dal livello –
molto ‘concreto’ - raggiunto dall’intelligenza animale. Ma perché non pensare che il ‘miracolo’
l’abbia proprio operata la stessa evoluzione dell’uomo?
“Senti, Elisa, abbiamo parlato di coscienza, di intelligenza. Soffermiamoci un attimo.
Supponiamo che sia la coscienza a caratterizzare l’uomo, a renderlo, cioè, uomo: questo non
produrrebbe delle conseguenze non desiderate?”
“Quali, ad esempio?”
“In questa ottica potresti definire ‘uomo’ un neo-nato, un grave handicappato psichico, una
persona in coma?”
“Di sicuro il neo-nato non è cosciente, non ha neanche la coscienza di essere distinto dal
mondo.”
“Vuol dire, allora, che non si tratta di un essere ‘umano’ e, quindi, potrebbe essere soppresso
senza commettere omicidio?”
“Ma un neo-nato, Federica, come potrebbe non essere considerato un essere umano? Anche se
non ha coscienza, il neo-nato è destinato ad averla.”
“Questo, però, non potresti dirlo per l’handicappato psichico grave e per le persone cadute in
un coma irreversibile.”
“Federica, noi non sappiamo, né possiamo saperlo se in un handicappato psichico grave o in
una persona in coma irreversibile (supponiamo che lo sia: in quanti casi dichiarati tali si è
avuto il risveglio!) ci sia una totale assenza di coscienza: noi parliamo di non coscienza solo
sulla base di mancate reazioni a degli stimoli. Non possiamo sapere nulla neanche nel caso di
persone che hanno esclusivamente un livello di vita ‘vegetale’.”
Cos’è l’uomo? Federica sta esaminando – anche se in forma molto rudimentale – la congettura
della ‘coscienza’: che sia questa a caratterizzare l’‘io’? Ma la piega del discorso le pone dei
dubbi: con difficoltà si potrebbero considerare uomini esseri che sono universalmente
considerati delle ‘persone’. Ora cos’è che fa sì che una persona sia tale? Un quesito a cui
associa subito il tema delicato dell’aborto.
“Senti, Elisa, cosa pensi dell’aborto?”
“Secondo me l’embrione umano – anche se non ha la coscienza, anche se non ha ancora le
condizioni cerebrali per lo sviluppo dell’intelligenza - senza interventi esterni, in assenza di
particolari patologie, è destinato a diventare uomo nella sua pienezza. Non vedo, quindi, come
non si possa considerare l’aborto un omicidio. E questo lo dico al di là dell’educazione cattolica
che ho avuto: lo sai benissimo che non sono una praticante”.
“Allora a definire l’uomo non sono la ‘coscienza’ e l’intelligenza? Se il neo-nato non è cosciente,
a maggior ragione non lo è l’embrione. L’intelligenza, poi – come è noto – ha le basi nel
cervello: ora come potrebbe l’embrione avere intelligenza se non ha il relativo supporto
cerebrale?”
“Io sarei più cauta, Federica. L’embrione – anche dei primi mesi – ha delle percezioni: perché,
allora, non attribuirgli una qualche forma di coscienza?”
“Ma la coscienza non comporta che si avverta, almeno, la distinzione tra l’io e il resto e, quindi,
che vi sia consapevolezza di se stessi? Ora, come si potrebbe attribuire tutto questo
all’embrione se non è presente neanche nel bambino dei primi mesi?”
“Sarà vero tutto questo, ma è anche vero che l'embrione - se non ci fossero ostacoli - sarebbe
destinato a diventare uomo a tutti gli effetti.”
“E’ un dato di fatto, però, che adesso non può definirsi tale. Tra l’altro – come sai – nei primi
14 giorni l’embrione non ha ancora il sistema nervoso: come si potrebbe parlare di intelligenza
potenziale se non vi è ancora il supporto cerebrale dell’intelligenza stessa?”
“Ma l’aborto è consentito entro i primi tre mesi, non entro i primi 14 giorni!”
“E’ vero. Ma il discorso di prima non cambia: la coscienza si svilupperà, come si svilupperà
l’intelligenza, ma ora non ci sono.”
“Non ci sono, ma vi è una continuità: l’embrione non registra – nella sua evoluzione – dei salti.
E, quindi, non vi è l’esatto momento in cui la coscienza nasce.”
“Sono d’accordo con te.”
Federica è colpita dal discorso della ‘continuità’. Non che non l’abbia mai sentito, ma in questo
momento le pare un argomento forte. Ma dove porta tale discorso? Non porta a confermare la
tesi dell’evoluzione dell’uomo? Perché mai nello sviluppo dell’embrione umano non vi sarebbe
una sorta di ricapitolazione dell’evoluzione della specie umana? Non vede, quindi, nessuna
improbabile comparsa di qualche… spiritello: la coscienza è il prodotto finale di una lunga
evoluzione del sistema nervoso. Ma – anche in questa ottica – non si può negare che la
coscienza (così come risulta nell’uomo) sia una peculiarità della specie umana. E questo vuol
dire che la coscienza di grado inferiore – quella che si potrebbe attribuire all’embrione già
sviluppato – ha un livello non umano, un livello ‘animale’? A Federica pare che la coerenza
porti a questo. Ma allora l’embrione non può considerarsi una persona? Le sembra una tesi
troppo radicale. E allora cos’è che definisce l’uomo, che lo caratterizza, che lo distingue
veramente dagli animali? Le definizioni di uomo come ‘cosciente’ e come ‘animale ragionevole’
le sembrano troppo strette per essere applicate a tutti quelli che usualmente vengono
considerati ‘uomini’.
“Senti, Elisa, perché la definizione di uomo non potrebbe essere una semplice ‘convenzione’?”
“Mi rifiuto di pensarlo. Prova a pensare alle conseguenze. Se fosse così, si giustificherebbero
tutti i genocidi: basterebbe considerare - sulla base di una convenzione - “non umani”, ad
esempio, gli ebrei, gli slavi, i negri...”
“Perché ti scandalizza l’idea della "convenzione"? Come si farebbe a salvare come uomini (mi
riferisco anche all'embrione umano), individui che non hanno né capacità di ragionare, né
consapevolezza?”
“Tu, Federica, metti in evidenza l'aspetto positivo: oggi nel mondo occidentale tramite delle
"convenzioni" - se vuoi chiamarle così - si tende a salvare come uomini anche individui che non
presentano (o non presentano ancora o non presentano più) le classiche caratteristiche che
fanno dell'uomo un ‘uomo’. Non puoi dimenticare, tuttavia, che nel passato si sono perpetrati
delitti contro l’umanità sulla base di definizioni ‘convenzionali’ dell’uomo.”
“Certo. Oggi, però, sono le leggi (le carte costituzionali, le carte dell'Onu) che sanciscono i
diritti "umani" (anche degli handicappati gravi). Ed è la stessa legge italiana sull'aborto che
stabilisce che solo entro i primi tre mesi di gravidanza è possibile ricorrere all'interruzione della
gravidanza.”
“Mi pare una mostruosità stabilire con una legge quando si può troncare la vita ad un embrione
e quando no!”
“Ti sembrerà una mostruosità, ma è un fatto che la legge almeno un ‘limite’ lo pone e questo a
tutela dello stesso embrione già sviluppato.”
“Ma – come abbiamo detto prima – vi è una continuità!”
“Certamente, ma la ‘convenzione’, comunque, salvaguarda l’embrione già maturo. Sarà poco
per te, ma è una forma di salvaguardia.”
Federica non esclude l’ipotesi della convenzione, ma si tratta – per lei – di una congettura
valida per la convivenza civile. Si rifiuta di pensare che l’uomo, dopo migliaia di anni – non
abbia ancora colto cos’è che lo caratterizza, cos’è che lo rende uomo. La convenzione – sotto
questo profilo – le sembra un rifugio, o meglio una sorta di scappatoia. Come le sembra una
scappatoia la risposta cristiana. Per il Cristianesimo l'embrione umano (come tutti gli uomini,
anche gli handicappati psichici gravissimi, anche gli individui in coma irreversibile) è un dono di
Dio e, in quanto tale, non può essere violato. Il Cristianesimo, però, non solo è una delle
religioni, ma, in quanto religione, è un salto nel buio: come potrebbe essere considerato un
metro di misura per definire l’uomo?
E allora? Federica vuole andare fino in fondo. La conversazione con Elisa le ha, indubbiamente,
aperto delle strade o le ha – comunque – aperto l’orizzonte della sua ricerca. Che fare ora?
Pensa che sia il caso di confrontarsi con chi nel passato ha studiato questo problema: cioè i
filosofi. Ma come confrontarsi? Leggere direttamente le opere di questi intellettuali le sembra
un’impresa ardua. Sì, qualcosa sa di filosofia, ma non a tal punto da immergersi in un
linguaggio tecnico. Considera più opportuno incontrare qualcuno che ha un po’ di
dimestichezza con tale linguaggio e con tali opere. Le viene in mente Francesco, un amico che
frequenta la facoltà di filosofia. Un colpo di telefono e l’appuntamento è fissato ad un bar
frequentato dai giovani. I convenevoli di rito e, poi, Federica attacca subito.
IL NULLA DOPO LA MORTE?
“Francesco, forse ti disturbo, ma ho proprio bisogno di te, delle tue competenze.”
“Competenze? Non scherzare! Da quello che so, posso dire che i filosofi non hanno verità da
vendere, ma sono soltanto ricercatori. Ricercano proprio perché hanno la piena consapevolezza
di non sapere.”
“Se hai questo habitus, potresti aiutare anche me nella mia ricerca, una ricerca che è nata in
seguito ad un tragico evento: la morte della mia carissima amica. E’ proprio vero che dopo la
morte non vi è più nulla? E’ proprio vero che nell’uomo non vi è nulla che sopravviva alla morte
del corpo? Sia chiaro: non sto cercando la risposta religiosa che so già, ma una risposta –
diciamo – razionale.”
“Non so se potrò aiutarti. Io stesso è da parecchio che sto affrontando il problema senza,
tuttavia, risolverlo. Quello che posso dirti è che già gli antichi filosofi greci hanno cercato di
dare una risposta ai tuoi interrogativi. Sostenendo, ad esempio, che l’uomo è un mix di corpo e
anima, di materia e di spirito.”
“Ma questa è la risposta cristiana!”
“Non solo. Vi sono stati pensatori greci di grande statura che hanno affermato una concezione
del genere, una concezione che – indubbiamente – apre l’uomo alla speranza.”
“Ma si può dimostrare, Francesco, l’esistenza di questo spirito nell’uomo? Non si è tirata fuori forse – l’idea di spirito proprio per regalare a buon mercato la speranza all’uomo?”
“Non direi. Vi è chi ha tirato fuori degli argomenti piuttosto stringenti.”
“Ad esempio?”
“Ciò che è spirituale non è composto di parti (è semplice), allora non può disgregarsi, cioè non
può morire, cioè è immortale.”
“Ma perché mai ciò che non è composto di parti non dovrebbe morire?”
“Perché non potrebbe disgregarsi: la morte non è una disgregazione dei componenti di un
aggregato?”
“Non ti sembra, Francesco, che il ragionamento parta dal presupposto che nell’uomo esiste una
componente spirituale? Se non se ne dimostra l’esistenza, il discorso sarebbe puramente
teorico.”
“Infatti, Federica. Vi è chi ha sostenuto con forza l’esistenza di questa componente spirituale.
L’argomentazione? Abbiamo un linguaggio simbolico, pensiamo a dei numeri e a delle figure
geometriche, abbiamo ad esempio l'idea di bellezza: come si potrebbero spiegare questi eventi
mentali con la materia?”
“E perché non potrebbero essere spiegati col sofisticatissimo cervello che noi abbiamo?”
“Perché, Federica, siamo di fronte a concetti ‘astratti’, a concetti, cioè, che non hanno nulla di
concreto: forse che la vedi la ‘bellezza’? forse che vedi il triangolo?”
“Perché mai non vedremmo il triangolo? Una volta l’abbiamo disegnato, lo vediamo: no?”
“Quello che tu disegni non è, però, il triangolo come è definito dalla geometria euclidea: se
disegni un triangolo, conferisci uno spessore ai lati, lati che, invece, non hanno alcuna
dimensione sotto il profilo della geometria di Euclide. Si tratta di concetti che, proprio perché
sono astratti, sono ‘generali’ (o ‘universali’, come si diceva una volta). Si applicano, cioè, non
ad una cosa, ma a tutte le cose di una serie: ad esempio, a tutti i triangoli, oppure a tutti i
triangoli isosceli.”
“E con che cosa si vedrebbero, Francesco, queste cose astratte e generali?”
“Non certo con i sensi: con i sensi noi vediamo o percepiamo solo ciò che è concreto e
particolare (questo albero qui, con questo tronco, con queste foglie…), mai l’albero, il concetto
in altre parole che è applicabile a tutti gli alberi, anche ai baobab, anche agli alberi che non ho
mai visto. L’idea di albero non ha nulla di particolare e concreto.”
“Ma perché mai i concetti astratti non possono essere considerati come delle ‘convenzioni’
create dall’uomo, convenzioni, quindi, che non presuppongono alcuno spirito? Il concetto
‘albero’ non è la ‘parola’ albero e, quindi, non è linguaggio? Ora il linguaggio credo sia una
creazione artificiale dell’uomo. No?”
“Convenzioni o no, ci troveremmo, comunque, di fronte a qualcosa di astratto: se non esistono
concetti ‘astratti ed universali’, ma solo ‘parole’ che l'uomo ha creato in modo convenzionale,
non saremmo davanti a dei "simboli" (come la parola ‘bellezza’) che hanno le caratteristiche di
astrattezza e di universalità? E, poi, questi simboli non fanno riferimento a dei concetti, a degli
eventi cioè mentali?”
“Vuoi dire che l’obiezione rinvia soltanto il problema?”
“A me pare di sì. E' un fatto che i fenomeni mentali sono diversi dalle cose materiali: quando
noi pensiamo al concetto (o al simbolo lessicale) di ‘triangolo’, noi non abbiamo presente
questo o quel triangolo (ad esempio isoscele), ma ciò che fa sì che ogni triangolo sia un
triangolo, quindi qualcosa di ‘astratto’ ed ‘universale’. Da qui l'argomento classico: proprio
perché i sensi colgono solo ciò che è materiale, cioè ‘concreto’ e ‘particolare’, dobbiamo dire
che a cogliere ciò che è ‘astratto’ non può che essere qualcosa di non materiale.”
Il bar, a quest’ora, è poco frequentato: solo qualche giovanotto che si cimenta con i videogiochi. A Federica va bene così. Non è un caso che abbia scelto questo momento: desidera
confrontarsi con Francesco senza essere disturbata. Ma anche Francesco è soddisfatto:
considerato il suo carattere schivo, non ha alcuna intenzione di mettersi in mostra, di ostentare
le sue conoscenze.
“Perché mai, Francesco, a percepire ciò che è astratto deve esserci necessariamente qualcosa
di ‘spirituale’? Perché tiri fuori il concetto di ‘spirito’ che non ha nulla a che fare col concetto di
‘astratto’?”
“Come il concetto di ‘astratto’ non ha nulla a che fare col concetto di ‘spirito’? Se le cose
‘materiali’ sono ‘concrete’ e ‘particolari’, ciò che è ‘astratto’ ed ‘universale’ non è materiale,
cioè è spirituale e, quindi, non può che essere colto dallo ‘spirito’.”
“Vuoi dire che i sensi non possono percepire qualcosa di spirituale (o simbolico che dir si
voglia)?”
“Come potrebbero, se sono materiali?”
“Anche ammettendo che il tuo discorso sia corretto, ho la sensazione che qualcosa non quadri:
se lo spirito ha caratteristiche diverse dai corpi materiali, non saremmo di fronte ad un uomo
costituito da due realtà che non potrebbero comunicare tra loro? Come potrebbero, infatti,
comunicare due realtà che non avessero nulla in comune?”
“Perché mai dovremmo negare un'argomentazione rigorosa per le conseguenze che potrebbe
produrre?”
“Ma se un'argomentazione producesse una conseguenza che violasse l'esperienza, non
saremmo di fronte ad un'argomentazione che contiene - quanto meno - qualcosa che non
quadra?”
“Il problema – come vedi – è più complesso di quanto si possa immaginare di primo acchito: la
complessità è data dal vedere nell'uomo due ‘realtà’ non solo distinte, ma come si dice in
gergo – ‘eterogenee’ tra loro. Tra l'altro, se lo spirito non ha nulla a che fare con ciò che è
concreto e particolare, se cioè non ha nulla a che fare con la ‘materia’, non è divisibile come la
materia: come potrebbe essere divisa, ad esempio, la coscienza? Allora questo è il problema:
come potrebbero comunicare tra loro due realtà che non avessero nulla in comune? Se le due
realtà non comunicassero tra loro, come potrei spiegare il fatto (un fatto dell'esperienza che è
innegabile) che tutte le volte che decido di muovere il braccio, il braccio si muove?”
“Ma non è il cervello che dà gli ordini di muovere il braccio o le labbra? Cosa c’entra lo spirito?”
“Ma se fosse il cervello, cadrebbe tutto il discorso dello spirito. No?”
“Sembra proprio di sì. E mi pare una soluzione più credibile: in questo caso, infatti, ci
troveremmo di fronte a due realtà omogenee (materiali) quali il cervello ed il braccio (o le
labbra). Non vi sarebbe più, quindi, il problema di prima.”
“Ma la decisione di muovere il braccio non ti sembra un atto mentale? Se fosse un fatto
cerebrale, dove andrebbe a finire la libertà che caratterizza l'uomo stesso? Un fatto cerebrale
(delle reazioni chimiche), infatti, non può che essere soggetto a delle leggi e non può essere
libero. E poi il cervello non è cosciente, mentre il decidere di muovere il braccio è un atto
cosciente. No?”
Federica ordina da bere. Intanto comincia ad affluire gente. Per lo più si tratta di giovani
catturati dai giochi elettronici. Pochi si siedono a chiacchierare. Entra qualche amico. I
tradizionali saluti e niente di più: gli amici, appena si rendono conto che Federica e Francesco
stanno affrontando un problema esistenziale, stanno alla larga, convinti – come sono – che
non valga la pena tormentarsi più di tanto con problemi insolubili.
“Francesco, tu, naturalmente, parti dal presupposto che l'atto del decidere sia un atto ‘libero’ e
sia ‘cosciente’.”
“Indubbiamente: se la decisione umana non fosse libera e consapevole, l’uomo non sarebbe
riducibile di fatto ad un animale? Il problema – come vedi - si sta ulteriormente complicando.
E' un fatto che chi sostiene quello che si chiama ‘dualismo’ - la concezione secondo la quale
nell'uomo convivono due realtà eterogenee - non è in grado di spiegare come mai le due sfere
della ‘mente’ e del ‘corpo’ di fatto comunicano tra loro. Ma qualcosa non quadra neanche
nell’altra ipotesi: se l'uomo fosse determinato da fattori inconsci o dall'ambiente, sarebbe
comunque un fatto che un conto è l'atto consapevole del decidere (ve ne sono di inconsci, ma
anche di consapevoli: eccome!) ed un conto le reazioni chimiche del cervello che consapevoli
non sono.”
“E’ vero. Ma perché è da escludere totalmente che la ‘mente’ – anche se diversa dal ‘corpo’ –
sia qualcosa di ‘fisico’?”
“Come potrebbe? La coscienza non ha né massa né peso. L'idea di bellezza non è divisibile
come, invece, è divisibile qualcosa di fisico.”
“Di sicuro mente e cervello non sono identici, ma perché non potrebbe esistere qualcosa di
comune tra loro?”
“Che cosa potrebbe esserci di comune?”
“Non basterebbe dire che non si tratta di due realtà, ma solo di due aspetti diversi della stessa
realtà? Non basterebbe dire, ad esempio, che il fenomeno psichico della ‘vergogna’ (si tratta di
un fatto psichico perché non è sensato attribuire al cervello il sentimento della vergogna) è
sempre associato al fenomeno fisico del ‘rossore’ del viso?”
“Ma come si potrebbe estendere tale schema al rapporto tra l'atto di decidere di muovere un
braccio ed il muoversi di detto braccio?”
Federica sente quasi scoppiare la testa: non è abituata a discorsi così sofisticati, così sottili.
Una cosa, comunque, ha capito bene: le sembra di avere di fronte un problema immane, un
problema che nel momento in cui ti pare di aver risolto, ti rispunta sotto altra forma. Ma è mai
possibile che in tutta la storia del pensiero l’uomo – che ha effettuato scoperte sensazionali sul
cosmo – non ha ancora scoperto se stesso, il suo ‘io’ intimo, ciò che lo caratterizza come
uomo? Le pare assurdo. Di una cosa, poi, è certa: anche se non si concepisse più l’uomo
secondo l’immagine tradizionale di ‘anima’ e ‘corpo’, non si potrebbe non riconoscere una
qualche forma di ‘dualismo’ tra ciò che è ‘mentale’ e ciò che è ‘fisico’.
LA MIA LIBERTA’: UN’ILLUSIONE?
“Senti, Francesco: hai detto che noi - esseri umani – siamo liberi. Ma questo è certo? Se lo
fosse, mi sembrerebbe questo il segno della presenza nell’uomo di qualcosa di non fisico: tutto
ciò che è fisico, infatti, è soggetto a leggi inesorabili. No?”
“Il tuo discorso fila diritto. Ma si tratta, appunto, di un discorso ipotetico: se… allora. Si può
togliere il ‘se’?
“Lo chiedo a te che ha in mano i ferri del mestiere.”
“Macché ferri del mestiere! Qui, Federica, non siamo come nel campo della matematica: in
matematica una volta hai applicato le ‘regole’ in modo corretto, va bene. In filosofia, no.”
“Se non ho capito male, nella matematica si può parlare di ‘coerenza’, di ‘correttezza’, non di
‘verità’: no?”
“Credo che tu abbia ragione, Federica: in geometria i teoremi sono ‘dedotti’ da definizioni e
postulati. In altre parole, date determinate definizioni…, abbiamo determinati risultati. In
filosofia non è così facile. In questo caso non mi chiedi di dedurre dei teoremi da postulati, ma
di ‘dimostrare’ la libertà dell’uomo.”
“Vuoi dire che non si può?”
“Proviamo. Io non ti garantisco nessun risultato certo.”
“Perché, Francesco, parli di risultato? Perché si dovrebbe ‘dimostrare’ la libertà? A me pare
che la libertà faccia parte della nostra ‘esperienza’ quotidiana: è, infatti, evidente che io scelgo
tra alternative e questo vuol dire in modo inequivocabile che sono libero.”
“Che tu scelga è un fatto, ma che tu sia libero di scegliere è un altro fatto? Non potresti essere
determinato nello scegliere? Tu sei perfettamente cosciente di decidere (chi può negare un
fatto del genere?), ma hai la certezza che tu non sei determinato a decidere in un senso invece
che in un altro?”
“Sono sicuro di essere io libero di decidere: lo prova il fatto che mi capita di decidere in modo
opposto rispetto ad un tempo precedente.”
“Il fatto che tu il giorno dopo scegli l'opposto di quello che hai scelto ieri, prova che ieri avresti
potuto scegliere l’opposto di quello che hai scelto? Un conto è decidere in un momento y
l'opposto di quello che hai deciso nel momento x e un conto è affermare che nel momento x tu
avresti potuto scegliere diversamente da come hai scelto.”
“Francesco, che complicazioni! Questo vuol dire che la libertà non è evidente?”
“All’interno della logica che ti ho esposto no. Non solo: non potrà mai esserlo.”
Federica è proprio sconcertata: la sua coscienza di essere libera è troppo forte, troppo
radicata, per essere falsa. Ma basta questa consapevolezza come ‘prova’? Non potrebbe essere
un’illusione a cui si aggrappa?
Riconosce, comunque, a Francesco di averle fornito un aiuto. Certo da lui si aspettava delle
certezze, delle risposte e, invece, ha avuto solo qualche pista per continuare la sua ‘ricerca'. E’
poco rispetto alle attese, ma molto in termini di apertura al problema, di stimolo.
IL GIOCO DELLE IMMAGINI AMBIGUE
Uno stimolo che raccoglie. Si mette a leggere studi di psicologia. E qui trova non pochi spunti
di riflessione. Scopre quella che in gergo si chiama ‘psicologia della forma’. O meglio la riscopre
con un’ottica nuova, un’ottica che le sembra molto utile per la ricerca che ha intrapreso. Cos’è
la coscienza? Non si tratta della somma di tante percezioni particolari. Cos’è la percezione (ad
esempio di un albero)? Non viene più vista come il risultato dell'associazione di percezioni più
semplici - percezioni del tronco, delle foglie, del colore... - , ma come un dato globale: viene
percepito ‘l'insieme-albero’ prima delle singole componenti. Una stessa melodia musicale viene
considerata una struttura autonoma, per nulla riducibile alla somma dei singoli suoni, tant’è
che la si riconosce anche con tonalità diverse. Guarda con interesse una serie di immagini. Le
cosiddette figure ambigue: dalla coppa di Rubin alle parallele di Hering. Federica si diverte con
queste immagini. Si diverte a vedere nella stessa figura un’anatra o un coniglio, una giovane o
una vecchia, sei o sette cubi: basta che guardi un determinato particolare in un certo modo,
che il tutto si struttura diversamente.
Sembra un gioco: a volte le riesce con facilità percepire la figura desiderata, altre volte,
invece, trova molta difficoltà e, solo dopo vari tentativi falliti, raggiunge lo scopo. Che sia
questione di volontà? E se si tratta di volontà, siamo di fronte ad una prova che la mente è in
grado di controllare il cervello (che presiede alle percezioni visive)? E’ questa la scoperta che
sta facendo: lo studio delle percezioni effettuato dalla ‘psicologia della forma’ le pare aprire un
orizzonte nuovo, una pista promettente.
Posso accelerare o rallentare il ribaltamento di una figura ambigua: questo vuol dire
che la mia mente controlla il cervello?
Se la mente è in grado di controllare il cervello – pensa - vuol dire che non solo essa non si
identifica col cervello, non solo che è autonoma rispetto al sistema nervoso, ma anche che è ad
un livello gerarchico superiore.
Continua con le sue prove: anche se non sempre riesce, ha la netta sensazione che è nel suo
potere rallentare o accelerare il ribaltamento di una figura ambigua. Che sia proprio qui – nella
psicologia e non nella filosofia – la prova sperimentale di ciò che sta cercando? Se è lei che
‘decide’ di ribaltare la percezione di una figura, vuol dire che la ‘decisione’ non è riducibile ai
processi cerebrali della percezione! Sia chiaro: non è una sua scoperta. Si tratta di una tesi che
trova in un bel libro (‘L’io e il suo cervello’, Armando) scritto da un grande epistemologo quale
è Popper e da un neurobiologo, premio Nobel, quale è Eccles, una tesi che le pare convincente.
Anzi fortemente convincente: l’io – come suggerisce il titolo – non è il cervello, ma ha il
cervello, un cervello a cui addirittura dà ordini. Federica si illumina davvero: ha trovato,
finalmente, la soluzione. Una soluzione che la può aprire alla speranza: se l’io ‘ha’ il cervello e
non ‘è’ il cervello, perché mai dovrebbe fare la stessa fine del cervello alla morte di un
individuo?
Una prova sperimentale dell’autonomia della coscienza?
Popper e Eccles, inoltre, tirano fuori come argomento anche gli esperimenti di Penfield:
stimolati da un elettrodo in determinate aree della corteccia cerebrale, i pazienti riferivano di
percepire esperienze visive ed uditive e nel medesimo tempo di essere perfettamente coscienti
di essere nella sala operatoria.
Sono esperimenti che - secondo i due autori - provano in modo inequivocabile che la coscienza
ha una sua autonomia rispetto ai processi cerebrali: la stimolazione dell'elettrodo produce
determinate percezioni, ma la consapevolezza rimane indipendente da queste percezioni.
Anche Federica non ha dubbi. Si tratta di un’altra ‘prova’ di cui va alla ricerca: considerato che
la consapevolezza di essere nella sala operatoria e le percezioni provocate dagli elettrodi
avvengono nello stesso tempo, non è possibile che si sia di fronte ad eventi tutti e due fisici.
Leggendo fino in fondo il testo, tuttavia, Federica scopre qualcosa che non quadra del tutto.
Per i due studiosi l'origine della coscienza è un evento che rappresenta un salto di qualità nella
storia della Terra, come l'origine della vita, l'origine del linguaggio. Tuttavia essi non negano la
possibilità che esistano vari stadi della coscienza e che quindi gradi di consapevolezza siano
presenti anche nel mondo animale (non vi sono dubbi, ad esempio, che animali sentano dolore
e che il cane provi gioia quando torna il suo padrone). Ma allora? Se la coscienza – anche se in
forma embrionale – è presente nel mondo animale, come potrebbe la coscienza umana non
essere un prodotto evolutivo? Come potrebbe, allora, essere considerata qualcosa di non fisico
e, quindi, di immortale? E poi che senso ha affermare che l'origine della coscienza è un evento
emergente e, nello stesso tempo, sostenere l’esistenza di forme di coscienza anche nel mondo
animale?
Ma c’è di più. Per Popper ed Eccles è stata la nascita del linguaggio che ha svolto un ruolo di
pressione che sta alla base della formazione del corteccia cerebrale e, con questa, della
coscienza. Allora vuol dire che la coscienza ha a che fare con la formazione della corteccia
cerebrale, con qualcosa – dunque – di fisico! Allora vuol dire che la coscienza è un’escrescenza
del cervello stesso: come si può, dunque, affermare che è la coscienza che controlla il cervello?
Federica legge sempre più incuriosita. E più legge, più le sorgono dubbi. Sia chiaro: è
pienamente consapevole di essere ben lungi dai livelli dei due autorevoli personaggi, ma ciò
nonostante la ricerca è ‘sua’ e lei la svolge con le carte che ha in mano, con le sue intuizioni o
anche solo con le sue sensazioni. Qua e là, comunque, si trova in sintonia con quanto
sostengono i due autori. Ad esempio là dove questi prendono le distanze da chi sostiene che
esiste una sorta di parallelismo tra fenomeni psichici e fenomeni fisici (ad esempio, l'evento
psichico della paura è associato all'evento della accelerazione del battito cardiaco). Si tratta per loro - di una spiegazione errata se si vuole estenderla alla coscienza: dato che la
percezione - e a maggior ragione la ‘coscienza’ - non è la somma di percezioni di parti, non è
costituita di parti, non può esistere una corrispondenza tra eventi mentali ed eventi cerebrali.
Popper e Eccles, tuttavia, non escludono che i due tipi di eventi (mentali e cerebrali) siano
associati. Federica condivide tale tesi: perché mai, infatti, una persona con una profonda
lesione cerebrale cadrebbe in coma, cioè perderebbe la coscienza, se in qualche misura i
processi mentali coscienti non andassero di pari passo con stati e processi cerebrali?
Se l’io fosse associato a processi cerebrali, come si potrebbe attribuirgli una natura
spirituale?
Ma cos’è, allora, l’io? Come può essere autonomo dal cervello se le sue manifestazioni sono in
qualche misura associate a processi cerebrali? Federica sa che è qui il nodo del problema: se
l’io è associato a tali processi cerebrali, come si potrebbe attribuirgli una natura spirituale? E
rimane sconcertata quando legge che per i due studiosi domande sulla natura dell’io e della
coscienza sono poste male. Perché mai? Non è un'esigenza profonda dell'uomo scoprire qual è
la natura della coscienza? L’io è ‘spirito’ o, in ultima analisi è riducibile a ‘materia’ o,
comunque, a qualcosa di ‘fisico (o chimico)’? Federica si rifiuta di pensare che si tratti di quesiti
formulati male. E rimane ancor più sconcertata quando legge che l’io – sempre per i due
personaggi in questione – non è altro che il risultato dell'esplorazione da parte del bambino
dell'ambiente circostante (distinto da lui) e, soprattutto, delle relazioni con le altre persone da
cui viene chiamato con il proprio nome, viene approvato, disapprovato. Federica fa fatica a
capire. Se è così, se l’io, cioè, nasce dall’esplorazione dell’ambiente, come può avere un suo
spessore? E come potrebbe avere un suo spessore se fosse semplicemente il prodotto dei
rapporti con altre persone? Il papà e la mamma, è vero, chiamano il bambino per nome, lo
approvano se si comporta secondo certe regole e lo disapprovano se agisce in modo diverso:
ma questo c’entra con la presa di coscienza che ha il bambino del proprio ‘io’! Ma l’io si
identifica con la presa di coscienza di essere distinto dall’ambiente circostante e dalle persone
vicine? Federica ha la sensazione che la questione – così impostata – escluda già in partenza
che possa essere qualcosa di spirituale: come potrebbe esserlo, se fossimo di fronte a qualcosa
che si forma nell’evoluzione della psiche del bambino? E se l’io si identificasse con questa presa
di consapevolezza di essere distinti dalle cose e dagli altri? Ma come potrebbe esserlo? Se
fosse così, dove metteremmo l’intelligenza e dove metteremmo quell’attività che gli stessi
Popper e Eccles attribuiscono all’io? Se nelle stesse percezioni sensibili l’io è selettivo
(percepisce, cioè, non dei dati ‘oggettivi’, ma sulla base di interessi) e se questi interessi si
basano anche – come sostengono i due autori - sulla conoscenza ereditata (dieci miliardi di
neuroni della nostra corteccia non sono altro che delle tracce materiali), come si può
considerare l’io qualcosa di autonomo dalla base neuronale? E poi l’io si identifica con le
percezioni? Come potrebbe esserlo?
Le illusioni ottiche: una prova della distinzione tra percezioni e coscienza?
Gli stessi Popper ed Eccles smentiscono una identità del genere. Una prova, secondo loro? Di
fronte alle "illusioni ottiche" noi avvertiamo la nostra impotenza di liberarci da tali illusioni, ma
nello stesso tempo siamo convinti che non dobbiamo prestare alcuna fiducia ad esse: questa
nostra consapevolezza che non dobbiamo dare fiducia alle illusioni ottiche da cui dipendiamo è
la verifica che un conto è la mente (la coscienza) ed un conto sono le percezioni visive. A
Federica sembra che si apra ancora uno spiraglio: la consapevolezza è qualcosa di chiaramente
distinto dalle percezioni dei sensi, dalle percezioni, cioè, che hanno a che fare con i sensi e, in
ultima analisi, con processi cerebrali.
Momenti di euforia, di delusione, anche di sconcerto: questi i suoi sentimenti che prova in
questa lettura. Una lettura che la stimola a leggere altri autori.
Legge qualcosa, ad esempio, della cosiddetta scuola comportamentista (o ‘behaviorismo’
all’inglese).
LA COSCIENZA, IL RAPPORTO MENTE-CORPO: PROBLEMI DI CUI DISFARSI?
Ed ha subito una reazione di rigetto. Si rifiuta di pensare che il rapporto mente-corpo sia un
problema di cui disfarsi. Si rifiuta di pensare che la “coscienza” sia da escludere dall’indagine in
quanto non… misurabile, non riducibile ad un “comportamento”. No: per lei non è ammissibile
che si applichi alla coscienza, alla mente umana la metodologia delle scienze naturali, non è
ammissibile ridurre l’uomo a dei comportamenti (anche linguistici) che non sono altro che…
‘reazioni’ a ‘stimoli’ dell'ambiente, reazioni-risposte sostanzialmente prevedibili. Federica legge
e rilegge perché non crede ai suoi occhi: non crede possibile ridurre ciò che più caratterizza
l'uomo (la coscienza, i valori morali, le intenzioni, i fini) a meri comportamenti ‘esterni’, tra
l'altro prevedibili e quindi determinati, in barba alla libertà umana; non ritiene applicabili alla
ricchezza della psiche umana i celebri esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati; considera
inaccettabile la tesi di Skinner che tende a sottolineare così tanto la condizionabilità dell'uomo
da arrivare a dire che l'uomo non è adatto a vivere in un regime democratico (regime che può
esprimere sia condizionatori ‘buoni’ che condizionatori ‘cattivi’). Federica, certo, non nega che
in un regime liberal-democratico vi sia la possibilità che dei demagoghi trascinino le masse, ma
non vuole credere che la presenza di tali demagoghi possa addirittura annullare la libertà
umana. In un regime democratico – pensa – la demagogia può accadere, ma, se accade, la si
può denunciare, ciò che è impossibile in un regime illiberale.
LA MENTE: QUALCOSA DI LEGATO ALLO SVILUPPO BIOLOGICO?
Federica prosegue la sua ‘ricerca’ e legge l’ormai classico Piaget. La colpisce subito il suo
approccio all’intelligenza. La mente umana è caratterizzata dalle idee astratte? Macché! Le idee
astratte non appartengono alla mente in quanto tale, ma sono il risultato di una lunga
evoluzione dell’intelligenza: dalla fase senso-motoria a quella intuitiva a quella operatorioconcreta a quella ipotetico-deduttiva che fa, appunto, leva su idee astratte. Una lunga
evoluzione che si può spiegare solo con lo sviluppo del cervello. Un approccio del genere le
sembra metta in crisi il lungo discorso che ha affrontato con l’amico studente di filosofia: come
si può vedere nel pensiero umano qualcosa di unico, originale se l’intelligenza ‘operatorioconcreta’ del bambino, fino ad una certa fase, non è superiore a quella di uno scimpanzé? Altro
che la presenza dell’anima nell’uomo! Piaget vede lo sviluppo delle funzioni mentali legato allo
sviluppo biologico dell'individuo, secondo fasi, cioè, naturali.
L’IO: IL PRODOTTO DEL CONTESTO STORICO-SOCIALE?
Non minore delusione prova leggendo qualcosa della cosiddetta scuola ‘storico-sociale’. Non
vuole pensare che l’uomo si sviluppi esclusivamente grazie ai fattori ambientali, sociali,
culturali. Ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una mistificazione di matrice marxista, ad un
tentativo – cioè – di applicare la concezione di fondo di Marx - il cosiddetto ‘materialismo
‘storico’- a qualcosa come la ‘coscienza’ che non è intrappolabile in tale schema. Con questo
non vuole dire che i fattori ambientali non siano importanti. Non può negare, infatti, che tali
fattori siano fondamentali nello sviluppo del linguaggio, sviluppo senza il quale non si
spiegherebbero essenziali funzioni mentali quali l’attenzione e la memoria e, in ultima analisi,
lo stesso io: come potrebbe un uomo cogliersi un ‘io’, se non avesse memoria, se non fosse
consapevole di essere lo stesso di ieri? Così come non può negare il supporto “materiale” della
memoria: cos’è la memoria se non qualcosa di fisico, qualcosa che ha come supporto una base
cerebrale?
A questo punto della ricerca Federica ha l’impressione che i vari approcci da lei scoperti siano
riduttivi visti singolarmente, ma utili se collegati agli altri: si tratta, cioè, di punti di vista che
vanno integrati tra loro. Anche in questa ottica, però, non vede alcuna necessità di tirare fuori
un’anima spirituale per spiegare la mente, per spiegare la stessa coscienza umana.
MENTE E CERVELLO SONO COSI’ DIVERSI CHE E’ DIFFICILE COGLIERNE LE
SOMIGLIANZE
Ma la sua curiosità non si ferma qui: Federica si tuffa nella lettura di altri autori che – come
Popper e Eccles – appartengono all’ultima generazione.
Richard Gregory, ad esempio. Il libro: “La mente nella scienza” (Est Mondadori). Scopre subito
che lo psicologo inglese è tutt’altro che incline a sposare l’interpretazione di Popper e Eccles di
quei fatti ed esperimenti che proverebbero l’autonomia della mente rispetto al cervello. Il
nostro potere di frenare o accelerare il ribaltamento di una figura ambigua e l’esperimento
effettuato sul paziente con degli elettrodi? Per lui non provano per nulla che si è di fronte ad
una mente autonoma: non si può escludere, infatti, che regioni cerebrali diverse possano
operare contemporaneamente (anzi: esistono diverse attività cerebrali che si svolgono
contemporaneamente). Federica non ha certo elementi per parteggiare per l’una o per l’altra
tesi. La colpisce, tuttavia, il fatto che gli stessi dati (od esperimenti) non hanno
un’interpretazione univoca. E la colpisce anche la prudenza di Gregory che non si azzarda a
dare per certa la sua interpretazione che presenta semplicemente come un’ipotesi.
Rimane, poi, fortemente scioccata da un’affermazione sostenuta da lui: quando noi ci
scottiamo una mano, la consapevolezza arriva troppo tardi per essere la causa dello
spostamento della mano; noi reagiamo ad uno stimolo (ritiriamo la mano se ci scottiamo) e
solo dopo diventiamo consapevoli dei cambiamenti fisiologici che si sono verificati
nell'organismo.
Ma come si fa – si interroga Federica – a sapere esattamente che la consapevolezza di essere
scottati arriva dopo il ritiro della mano? E, poi, se fosse così, a cosa servirebbe all’uomo la
consapevolezza? Perché mai l'evoluzione sarebbe approdata alla coscienza, se questa non
servisse nella lotta per la sopravvivenza, se non fosse quindi causa di qualcosa?
Una risposta al primo interrogativo la trova. Gregory non è categorico: dice solo che non è
sempre possibile stabilire esattamente il prima ed il poi, ma aggiunge che ‘spesso’ la coscienza
arriva dopo la reazione ad un movimento. E indica questo obiettivo (misurare esattamente la
sequenza temporale degli eventi ‘mentali’ e dei corrispondenti eventi ‘cerebrali’) come primario
per risolvere il problema del rapporto mente-cervello considerato che la causa precede
l’effetto: se non vi fossero differenze temporali, si avrebbe la prova dell’identità tra i due tipi di
eventi. Un obiettivo, questo, ancora lontano in quanto gli studi in questa direzione sono
appena iniziati.
Una risposta al secondo interrogativo? Gregory sostiene che è un dato di fatto che la
consapevolezza non è indispensabile per rimanere in vita (vedi la persona in coma) e che è un
dato di fatto che noi non siamo consapevoli delle nostre azioni abitudinarie: diventiamo
consapevoli, invece, quando ci capita qualcosa di imprevisto, di insolito, di non familiare. E
aggiunge che forse non siamo consapevoli neanche nei momenti di maggiore creatività.
Federica conosce a grandi linee Freud, la sua scoperta dell’inconscio, ma la lettura di Gregory
la turba non poco: che “io” sarebbe l’io che non fosse consapevole neanche nei momenti di
maggiore creatività? E cosa sarebbe allora la genialità? Qualcosa che ha a che fare con
semplici processi cerebrali? Per fortuna – anche qui – vede in Gregory una posizione
possibilista. E, per fortuna, lo vede tutt’altro che favorevole alla teoria dell'identità: la
consapevolezza non occupa alcuno spazio, mentre gli stati cerebrali hanno un'estensione
spaziale; anzi, mente e cervello sono così diversi che è difficile coglierne delle somiglianze (la
mente, infatti, non ha nulla a che fare con le classiche proprietà degli oggetti quali la massa, la
solidità, l’energia…).
Federica ha la sensazione di vedere in Gregory (psicologo) la conferma delle intuizioni dei
filosofi del passato: che, cioè, tra pensiero (o anima, come si diceva una volta) e cervello non
vi è nulla in comune. Ma di questo passo non si ricadrebbe - anche se con un approccio
psicologico e non più filosofico – nel cosiddetto ‘dualismo’ (oggi si direbbe tra ‘mind’ e ‘body’)
con tutti i problemi che questo comporta? Gregory afferma di conoscere bene la trappola del
dualismo e, per questo, cerca di starsene fuori: mente e cervello non sono due realtà (o
sostanze, come si diceva una volta). E allora? Lo psicologo inglese formula un'ipotesi: tra
mente e cervello potrebbe esserci una ‘identità di significato’, un'identità che può esserci anche
senza una corrispondenza spaziale. Un esempio, tanto per avere un punto di riferimento? Se si
scrive 6x9=54, i segni che appaiono prima e dopo il simbolo uguale (=) sono molto diversi
sotto il profilo fisico e spaziale, eppure hanno il medesimo significato. In altre parole Gregory
congettura che determinati stati cerebrali esprimono idee ed esperienze che sono formalmente
identiche a tali stati del cervello, anche se fisicamente diverse. Una congettura che Gregory
cerca di applicare anche alle figure ambigue: sarebbe molto interessante – sostiene - scoprire
quali mutamenti cerebrali si registrano e quali no quando di fronte a figure ambigue si ha
l'alternarsi delle percezioni. Forse – aggiunge - gli stati cerebrali da cui provengono le
rappresentazioni non mutano col mutare della percezione come una proposizione ambigua
permane immutata anche se viene percepito un altro significato.
Federica prova un certo fascino di fronte a queste ricerche, ma ha l’impressione che qualcosa
non quadri, che la congettura della ‘identità di significato’ sia uno stratagemma per eludere il
problema, non un tentativo di soluzione del problema stesso. Per lei il problema di fondo (che
è anche il ‘suo’ problema) è chiaro: la coscienza appartiene ad una sfera diversa o no rispetto
a ciò che è fisico (o chimico)? Se esiste una identità di ‘significato’ tra stati cerebrali ed eventi
mentali, come si può caratterizzare il concetto di ‘significato’? Siamo di fronte a qualcosa di
‘fisico’ o ‘mentale’? Trova con piacere che lo stesso Gregory è consapevole della limitatezza del
suo approccio quando sostiene di aver cercato di spiegare un ‘mistero’ (il mistero della
coscienza, il mistero del rapporto tra consapevolezza e cervello) con un altro mistero.
SI PUO’ ESSERE NE’ MATERIALISTI NE’ SPIRITUALISTI?
Il mistero. Federica sta toccando con mano questo mistero. Più ricerca, più si rende conto che
la mente è un enigma. Una consapevolezza che trova diffusa in quegli autori che oggi vengono
chiamati ‘philosophers of mind’. Dello stesso Sergio Moravia, ad esempio, che ha scritto
proprio un libro dal titolo ‘L’enigma della mente’ (Laterza), un’opera in cui arriva a considerare
il cosiddetto "mind-body problem" come un problema che andava bene in altri ambiti culturali,
ma non più oggi. Come? Federica è molto perplessa: come non potrebbe essere un problema
ciò che sta faticosamente ricercando da tempo? Non sta cercando proprio di definire i confini
tra il ‘mentale’ ed il ‘fisico’ (o il chimico)? Non sta cercando se, in qualche misura, il mentale
abbia una sua specificità rispetto al fisico? Per Moravia la drammatizzazione dei rapporti tra
mente e corpo poteva valere ai tempi in cui si usavano categorie culturali quali "materia" e
"spirito", categorie che oggi sono venute meno. Sono venute meno? Come? Lei appartiene a
mondi culturali sorpassati? Non vuole crederci. Sono, forse, superati i concetti di ‘materia’ e di
‘spirito’? Se un evento mentale si differenzia in modo radicale da uno cerebrale, cosa sarebbe
se “non fisico”, cioè ‘non materiale’? Non è già assodato – l’ha appena letto in ‘La mente nella
scienza’ di Gregory – che un evento mentale non ha né massa, né energia, né spazialità,
caratteristiche che, invece, appartengono ai corpi fisici?
L'uomo - precisa Moravia - non viene più letto come ‘homo duplex’: la mente non è entità in sé
che è giustapposta al corpo. Cos'è, allora, la mente? Lo studioso italiano, come esclude il
dualismo, esclude pure il ‘materialismo’. Federica non riesce a capire: come si fa ad escludere
il materialismo senza ricadere nello spiritualismo, senza cioè ricorrere a concetti che Moravia
ritiene superati?
Cerca la risposta. E la trova: Moravia non crede che la mente si riduca a processi cerebrali, ma
non crede neppure che si tratti di una realtà spirituale. Prove? Cita una serie di argomenti
(degli autori che prende in considerazione) contro la teoria dell'identità: quando, ad esempio,
elaboriamo una credenza, senza dubbio entrano in funzione dei circuiti neuronali, ma questo
non significa che la credenza si riduca a tali circuiti (questi ultimi sono il supporto della
credenza, non la credenza stessa); uno scienziato sordo potrebbe sapere tutto della fisiologia
dell'udito, ma questo non significa che tale scienziato avrebbe l'‘esperienza’ dell'udito;
l'esperienza del dolore non è riducibile ai suoi presunti micro-componenti cerebrali (le cellule
cerebrali non sono in modo assoluto ‘parti’ del dolore); un evento mentale non ha parti (quali
sarebbero le parti della malinconia?), non ha uno spazio (dov'è la malinconia?), è del tutto
‘privato’ (nessuno prova il ‘mio’ mal di testa come lo sperimento io), non è misurabile.
Federica prova una sensazione di sollievo. Le sembra di trovare una conferma di quanto si
aspetta in questo suo ‘viaggio’ per certi aspetti avventuroso: la mente ha una sua specificità
che è del tutto irriducibile alla sfera cerebrale. La disturba, però, che si conferisca l’attributo di
‘privato’ alla mente: se fosse qualcosa di ‘privato’, come potrebbe essere oggetto della scienza,
essere, cioè, sperimentabile da tutti? A riflettere, però, non considera forzata tale
caratteristica. Come potremmo noi entrare nella coscienza degli altri? Non diciamo, forse, che
gli altri hanno la coscienza perché la arguiamo dal fatto che gli altri parlano..., cioè esprimono
dei suoni a cui noi attribuiamo determinati significati?
Continua a leggere e trova altre conferme: un conto è provare la vergogna ed un conto il
rossore della pelle; è improbabile che vi sia qualche stato neurofisiologico ogni volta che una
persona pensa a Vienna (persone differenti possono pensare a Vienna in modo diverso e, così,
la medesima persona); non è possibile, poi, suddividere un evento mentale (si può dividere
l'allegria?), né si può trasferire come si può trasferire una cosa; non vi è, inoltre, nessuno stato
cerebrale che fa riferimento ad un oggetto esterno, mentre la coscienza è sempre la coscienza
di qualcosa di altro dalla coscienza.
Ma se la mente è tutto questo, se è così diversa dalla sfera fisico-chimica, che cosa è in
concreto? Cos'è il pensiero, una volta si rifiuta il dualismo? Se non è una ‘cosa’, cos’è? Moravia
invita ad andare oltre la philosophy of mind per approdare alla philosophy of the subject, alla
filosofia della “persona”. Un ritorno ad una concezione tanto cara, ad esempio, ai cattolici? No:
siamo lontani da una lettura spiritualistica. La via indicata è un’altra: siamo di fronte ad un
soggetto (persona) intessuto di simboli, valori, bisogni storicamente dati. Una via di uscita
dalla trappola materialismo-dualismo? Federica ha qualche perplessità: ha l’impressione che
sia una fuga, un modo elegante per bypassare il problema.
LA MENTE: PERCHE’ NON POTREBBE STARE AL CERVELLO COME IL SOFTWARE STA
ALL’HARDWARE?
Ricerca ancora. Si immerge nella lettura di Daniel C. Dennett, uno dei philosphers of mind di
maggior successo degli ultimi anni. Due, tra le numerosissime opere, trova in qualche misura
alla sua portata, alla portata, cioè, dei non addetti ai lavori: ‘L’io della coscienza’ (Adelphi) e
‘Coscienza Cos’è’ (Rizzoli).
Le trova per certi aspetti affascinanti, ma anche provocatorie. Il Leit-motiv: la coscienza è un
mistero, praticamente l’ultimo mistero che ha ancora di fronte l’uomo. Cos’è un mistero? Per
Dennett è un fenomeno su cui l’uomo non sa ancora come ragionare. L’uomo ha affrontato altri
grandi misteri: l'origine dell'universo, della vita e della riproduzione, l'evoluzione finalistica
della natura, la gravità, il tempo… Si tratta – secondo Dennett – di problemi a cui non è stata
data ancora una soluzione definitiva, ma sui quali si sa come ragionare. In altre parole, si
tratta di misteri che non sono svaniti, ma sono stati in qualche misura domati. Di fronte alla
coscienza, invece, anche gli studiosi più sofisticati rimangono ancora ammutoliti.
A Federica sembra un buon avvio: niente certezze dogmatiche, ma umiltà di fronte ad un
enigma. Ma se tale enigma venisse domato, come sono stati domati altri misteri? Se si
arrivasse a demistificare la coscienza, non si profanerebbe quanto un patrimonio millenario ha
considerato ‘sacro’, cioè, l’unicità, l’originalità di detta coscienza? Oppure la demistificazione
potrebbe essere salutata come la liberazione da un’illusione e, quindi, come una grande
scoperta che renderà l’uomo più libero (libero dall’ignoranza)?
Qual è la posizione di Dennett di fronte al mistero? Vi è, ad esempio, interazione tra mente e
corpo? Per il philosopher of mind americano è un fatto che la mente trasmette messaggi al
corpo e viceversa. Ma come sono i messaggi che lancia la mente? Sono onde
elettromagnetiche, acustiche, raggi cosmici, fasci di particelle subatomiche? No: nessuna
energia e nessuna massa sono associate ai messaggi della mente.
Federica continua ad essere speranzosa: gli argomenti a favore della specificità degli eventi
mentali le sembrano ormai numerosi. Ma come riescono, allora, i messaggi che la mente
trasmette ad influenzare il cervello, ad inviargli, ad esempio, un ordine? Dennett è un
‘funzionanalista’: per lui la mente non è una cosa, non è una sostanza, ma è una ‘funzione’.
Cioè? Un po’ come il software (i programmi) di un computer. Il software non ha nulla di fisico
(fisico è l'hardware), non ha nulla a che fare con circuiti elettrici, con diodi...: esprime una
funzione che è fisicamente neutra. Federica ha l'impressione che l'esempio del software sia
fuori luogo: come può essere la mente una sorta di software se è consapevole, mentre il
software no? E rimane fortemente perplessa di fronte ad altre provocazioni di Dennett. Per lui
occorre fare per la coscienza la stessa operazione radicale che è stata fatta a proposito del
‘calorico’ e del concetto di ‘etere’: demolire presunti oggetti ed introdurne dei nuovi. Quali
oggetti nuovi? E quali spazzare via? Federica non vede che cosa d’altro vi sia da smantellare
una volta sono stati fatti cadere l’anima tradizionale, il concetto di spirito. Comincia ad
avvertire una sorta di paura: la paura di perdere, invece di ‘scoprire’ il proprio ‘io’. La strada
indicata da Dennett? Smantellare, ad esempio, l'idea che il cervello abbia un ‘centro’. Per lui
non vi è alcun centro che riceve gli stimoli provenienti dall'esterno, che ne prende coscienza (li
coglie come ‘esperienza’) e che risponde con reazioni: tale idea - precisa - è una delle idee più
ingannevoli che impediscono a noi di cogliere in modo autentico la coscienza. Federica è
letteralmente scioccata. Come? Cosa resterebbe dell’io, se non ci fosse un punto di
convergenza che riceve ed elabora gli stimoli dell’esperienza? Il philosopher of mind americano
arriva a congetturare l'esistenza di ‘quasi sé’ o ‘sé sui generis’ nello stesso individuo. Come?
Federica ha una reazione stizzita: se ci fossero più ‘io’, cosa rimarrebbe della ‘responsabilità’ e
della ‘libertà’ dell’uomo? Le pare una prospettiva inquietante. Come è possibile perdere le
caratteristiche inalienabili dell’uomo? Cosa succederebbe in una società, se venisse meno il
concetto di responsabilità morale? Federica non ha dubbi: se venisse meno la concezione
unitaria dell’uomo, se venisse meno, quindi, l’idea di una volontà propria di ‘una’ persona, se si
considerasse l’uomo non come una ‘persona’, ma come un amalgama di ‘sotto-persone’,
ciascuna con una volontà propria, se venisse meno il concetto di ‘libero arbitrio’, crollerebbe
tutto: l’uomo, il vivere civile.
QUALI I RISULTATI DEL VIAGGIO?
E allora? A quali risultati è arrivata con questo viaggio? Un risultato chiaro, inequivocabile, le
pare questo: la teoria dell’identità tra eventi mentali ed eventi fisici non ha alcun fondamento.
Gli eventi mentali, infatti, presentano delle caratteristiche (non hanno spazio, né massa, né
carica, né velocità… ) che li distinguono nettamente dagli stati e dai processi cerebrali. Ma
allora – se sono così distinti – perché mai interagiscono tra loro? Perché mai ogniqualvolta
decido di parlare, la bocca si muove? Non vi sarà passaggio di onde elettromagnetiche…, ma
qualche forma comunicativa ci deve pur essere ! Che cosa? E’ qui il nodo. E’ qui il cuore
dell’uomo. E se l’idea della mente come qualcosa che non ha massa, né carica fosse un’idea
illusoria? Perché la coscienza non potrebbe essere qualcosa di ‘fisico’ (o di ‘chimico’), anche se
di un genere diverso dal ‘fisico’ studiato oggi dalla scienza? Perché – per spiegare la coscienza
– non si dovrebbero introdurre concetti nuovi, come è successo nelle discipline scientifiche?
Federica è consapevole che sta scivolando nella prospettiva inquietante di Dennett, ma non
vede altri spiragli. Del resto come si potrebbe pensare ad un ‘salto’ nella natura? L’uomo non si
trova in una continuità evolutiva rispetto agli animali? Non vi sono forti analogie a livello di
struttura e di funzioni dei neuroni tra l’uomo e l’animale? Perché allora non si dovrebbe
pensare alla coscienza come a qualcosa che accomuna animali e l’uomo? Non scodinzola
contento il cane quando capisce che il padrone lo porta a passeggio? E non scodinzola contento
perché - quando vede il suo padrone prepararsi ad uscire immagina (e quindi simula in
anticipo) le avventure che l'attendono con la passeggiata, utilizza cioè una funzione (la
simulazione) che è alla base dell’intelligenza umana? Certo, non vi è alcun motivo per pensare
che la coscienza dell’animale sia identica rispetto a quella dell’uomo, come – del resto – non vi
è alcun motivo per pensare che la coscienza del bambino sia identica a quella dell’adulto. Ma
perché l’uomo avrebbe una coscienza (una consapevolezza) – si presume – più chiara rispetto
a quella degli animali? Perché non potrebbe essere lo stesso linguaggio ad aver esercitato una
pressione selettiva molto forte sul cervello e ad aver creato le condizioni per la creazione di un
mondo di ‘simboli’ senza il quale l’uomo, oggi, non sarebbe uomo? Un mondo di ‘simboli’ tra
cui l’io, la volontà…
Federica prova di nuovo paura. Ha la sensazione di precipitare. Di non avere più un punto di
riferimento. Di essere in una sorta di labirinto. L’io, un semplice simbolo? Qualcosa di creato
dall’uomo? E cosa sarebbe questo uomo che ha creato l’io? Cosa sarebbe questo uomo che ha
creato la credenza dell’io, l’illusione dell’io?
Dove sei, Giulia? Federica ha effettuato un lungo ‘viaggio’, ma non ha una risposta certa: la
morte le pare un mistero, come un mistero le pare lo stesso uomo. Le sembra un paradosso il
fatto che l’uomo ha accresciuto notevolmente la sua conoscenza dell’universo, la sua stessa
conoscenza di quel centro meraviglioso che è il cervello ed ha accresciuto in modo spropositato
il suo potere, il suo dominio, ma non ha ancora le idee chiare su chi è il ‘soggetto’ di questi
progressi. Sa bene che la sua intelligenza non rappresenta un salto rispetto a quella di un
animale superiore, ma solo un grado diverso, un grado fortemente sviluppato grazie al
linguaggio e – tramite questo – grazie alla trasmissione di una ‘cultura’ fortemente ‘simbolica’.
Ma sa anche bene che la coscienza (come del resto i ‘simboli’) non è riducibile a circuiti
elettrici, a stati cerebrali, anche se ha bisogno di un supporto cerebrale. Sa bene che la
coscienza (e, quindi, il suo essere “persona”) non è riducibile a quell’1,6% di diversità che vi è
tra il suo DNA e quello di uno scimpanzé. Sa bene di non aver alcuna percezione
dell’invecchiamento del suo ‘io’, mentre percepisce – eccome – l’invecchiamento del suo corpo.
E’ perfettamente consapevole che l’esperienza delle sue emozioni, dei suoi sentimenti è
qualcosa di completamente diversa dall’attività bioelettrica dei suoi neuroni. E allora? Allora si
trova senza via di uscita. Quasi quasi invidia chi si aggrappa a delle ‘credenze’, chi crede, ad
esempio, che nell’uomo vi sia una scintilla divina: è tremendo vivere in perenne situazione di
dubbio. Ma… non le sembra onesto rifiutare la ‘ragione’. Ah, la ragione: ma cos’è?