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Ana Grondona
Gino Germani e la questione razziale 1
Introduzione
La proposta di leggere la prospettiva di Gino Germani sulla modernizzazione, a partire dai modi in cui ha affrontato la questione razziale può sembrare arbitrario, almeno a prima vista. Infatti, questo non è un problema sul
quale il sociologo sia stato un punto di riferimento. Sappiamo, nonostante
questo, che nell’ottobre del 1974 è stato invitato all’incontro ‘Ethnic problems in the contemporary world’, sponsorizzato dall’Accademia Americana
di Arti e Scienze e coordinato da Nathan Glazer e David Moynihan, che
sarebbe poi diventato un libro (Ethnicity: Theory and Experience) a cui
Germani, alla fine, non partecipò. Tra i partecipanti c’erano, tra gli altri,
Daniel Bell, Talcott Parsons, Irving Horowitz, Immanuel Wallerstein e
Lucian W. Pye. Secondo gli atti che abbiamo trovato, la partecipazione di
Germani alla riunione si limitò a pochi commenti.
Al di là di questa partecipazione, poco più che un aneddoto, a ben
vedere è sorprendente la regolarità con la quale questo problema è apparso
nel corso dei suoi lavori: forse non come un tema centrale, ma piuttosto
come una melodia che risuona da lontano, ma in modo costante. La proposta di soffermarci ad ascoltare con maggior attenzione questo mormorio
è un invito a sfuggire al Germani che crediamo di conoscere e i cui interessi non sembrano ormai essere i nostri (chi potrebbe, dopo tutta l’acqua
passata sotto i ponti, illludersi con la promessa della transizione a una
società moderna?), per incontrarne (o, forse, per produrne) un altro che
possa conversare con noi e con le nostre problematiche attuali.
Come prima prova della ‘presenza’ di una questione razziale nei testi di
Gino Germani, è significativo che in vari degli esercizi di stabilizzazione
e sintesi della sua prospettiva sulla ‘transizione dalle società tradizionali a
quelle moderne’, mediante la costruzione di tabelle di due/tre 2 colonne, il
1
2
Traduzione di Andrea Fagioli.
Anche se la tabella contrapponeva la società tradizionale a quella industriale, la colonna
11
A. Grondona
sociologo troverà spazio per riferirsi alla questione. Nel caso dello Schema
di due tipi ideali contrapposti del quinto capitolo di Política y Sociedad en
una época de transición si legge, nella colonna di destra, lì dove si descriveva
la nuova società industriale:
«Affermazione della ragione, della volontà e del cambiamento (il
“progresso”), della libertà, della tolleranza […].
Appaiono tendenze cumpulsive a ridurre l’eterogeneità, l’accessibilità, la comunicazione; riduzione della tolleranza: razzismo, nazionalismo, intoleranza ideologica; classismo; reazione violenta al cambiamento: staticità compulsiva; tentativi di ristabilite vincoli primari
e sentimenti d’appartenenza. Nuove “mistiche”. Irrazionalismo” 3.
Così, la questione del razzismo e dei nazionalismi non occupava il
luogo della semplice sopravvivenza del passato, ma si iscriveva nel presente
delle società moderne, o almeno in alcune delle loro derive. Sarà proprio a
partire da questa iscrizione che noi proponiamo di verificare i modi in cui
appare 4 nei testi di Germani.
Le pagine che seguono sono il risultato di una ricerca di più ampio
respiro che lavora tanto sugli articoli scritti direttamente dall’autore,
quanto sugli appunti delle lezioni, sui testi di cui è stato curatore e sui
suoi progetti di ricerca. Questo insieme disperso di materiali forma una
prima serie di documenti che metteremo in relazione con altri a partire da
alcune ipotesi che preciseremo poco a poco. Questa maniera di affrontare
il problema è ispirata all’analisi materialista del discorso ed è stata oggetto
di un lavoro epistemologico-metodologico di sistematizzazione 5.
L’articolo è organizzato in quattro parti. Nella prima analizziamo la
disputa tra la «psicologia razziale» ancora in circolazione e la psicologia
sociale, in cui Germani inscriverà buona parte del suo lavoro. Nella seconda parte analizzeremo il modo in cui la questione razziale è stata affrontata
nelle ricerche sulla personalità autoritaria. A proposito dei modi in cui
questa si è articolata nel caso particolare dei movimenti nazional-popolari,
e in particolare nel peronismo, presenteremo, nella terza parte, l’ipotesi
corrispondente a quest’ultima era divisa in due: il modello ‘liberale’ e le trasformazioni recenti.
3
G. Germani, Política y sociedad en una época de transición. De la sociedad tradicional a la
sociedad de masas, Paidós, Buenos Aires 1971 (ed. originale 1962), p. 168, sottolineatura
aggiunta.
4
Nel quadro dei documenti analizzati, la questione razziale include il problema dell’antisemitismo.
5
P. Aguilar et al., ¿Qué es un corpus?, in «Entramados y Perspectivas. Carrera de Sociología»,
n. 4, 2014, pp. 35-64.
12
Gino Germani e la questione razziale
che certe forme di razzismo/razzialismo 6 dei ceti medi e delle élites argentine hanno costituito un punto cieco nell’analisi del sociologo. Infine,
nella quarta sezione lavoreremo sul modo in cui la questione razziale si è
coniugata con le sue indagini sulla marginalità.
Nonostante la centralità che ha la questione razziale in questo articolo
e nella ricerca dalla quale prende le mosse, questa non è altro che una
scusa, un modo alternativo di accedere alla prospettiva germaniana sulla
modernizzazione (nucleo fondamentale del nostro interesse), che cerca di
evitare sentieri già battuti. Più in particolare, nel corso del testo ci interesserà analizzare il modo in cui quella questione muove riflessioni sull’omogeneità/eterogeneità del sociale nelle società moderne, sui fondamenti di
un’universalità umana alla quale ancorare la promessa della cittadinanza
o dell’integrazione sociale e sui limiti/tensioni di queste società dovute
alla diseguaglianza. Lo sviluppo stesso dell’articolo servità a mostrare se si
tratta di una via pertinente.
1. Razza, psicologia razziale e psicologia sociale. Il problema degli universali
Delle dieci sezioni che componevano la raccolta di testi organizzata
da Gino Germani e Jorge Graciarena per il corso di Introduzione alla
Sociologia ce n’erano tre in cui la questione razziale/etnica era centrale, in
particolare la parte C. Il biologico e il culturale nel comportamento umano.
Lì si includevano tre testi: Il concetto di natura umana di Otto Klineberg 7,
Il tipo fisico e la cultura di Melville Herskovits e Razze e differenze razziali dell’Unesco. Al di là di queste parti, insistiamo, questa problematica
era presente in altre sezioni della raccolta, in particolare altri capitoli
di Herskovits, come Il problema del relativismo culturale in cui il tema
6
Con il termine ‘razzialista/razzialismo’ ci riferiamo alle posizioni che contemplano ‘la
razza’ come una variabile oggettiva e con ‘razzista/razzismo’ a quelle che in nome di
gerarchie razziali impulsano atteggiamenti discriminatori. D’altra parte, anche se l’uso
della parola etnia o razza era oggetto di importanti dibattiti, ci riferiamo indistintamente
a questione razziale/questione etnica, visto che manteniamo una distanza analitica con
entrambe le delimitazioni.
7
Otto Klineberg è stato uno psichiatra canadese che ha fornito argomenti fondamentali
per sviscerare l’argomento della superiorità intellettuale bianca negli Stati Uniti. I suoi
lavori sono stati importanti nel caso Brown contro il Board of Education, che è arrivato
alla Corte Suprema degli Usa nel 1954; a partire dalla risoluzione di questo caso, la
segregazione di scuole per afroamericani e altre per bianchi fu dichiarata incostituzionale.
Inoltre, Klineberg ha formato parte dell’avanzata dell’Unesco contro il razzismo, punto
sul quale torneremo più avanti.
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A. Grondona
dell’etnocentrismo occupava un posto di rilievo. Va detto che, dei 35 testi
inclusi nel compendio 5 erano di quell’autore, che diventava così quello con
la maggior presenza nel manuale (seguito da R. Linton, G. Germani e K.
Davis, tutti con tre testi). La presenza di questo antropologo – figura centrale degli studi africani negli Stati Uniti, noto per le posizioni anti-razziste e
promotore del relativismo culturale – costituisce un elemento a favore della
nostra ipotesi sulla presenza della questione razziale in Gino Germani.
Vorremmo soffermarci un istante sul testo dell’Unesco, uno dei tre che
compongono la parte C dell’antologia. In primo luogo, appare evidente
che questo segna una discontinuità con gli altri capitoli della raccolta,
visto che si tratta di una ‘dichiarazione firmata’ da un insieme di esperti,
nel 1951 8, e non di un saggio. In quel documento si ratificavano una serie
di tesi: 1) tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie; 2) le differenze tra gruppi umani, i cui limiti sono sempre difficili da tracciare, si
devono tanto a eredità biologiche quanto all’ambiente; 3) nessun gruppo
nazionale o religioso è una razza ‘ipso facto’ (né i francesi, né i musulmani,
né gli ebrei, per esempio, sono razze); 4) le classificazioni delle razze sono
state mobili nella storia e continueranno a esserlo; non c’è nessuna base
scientifica per l’idea corrente sulle relazioni di superiorità o inferiorità tra
di loro; 5) la maggior parte degli antropologi esclude che i profili mentali
o psicologici siano criterio di delimitazione dei gruppi razziali e diffida dei
test psicologici standardizzati; 6) i dati attuali sembrano indicare che le
differenze tra i gruppi non rispondono principalmente a fattori ereditari,
ma alla loro storia culturale; 7) non ci sono prove dell’esistenza di razze
pure, né prove che permettano di affermare che l’ibridazione (meticciato) generi effetti negativi; 8) l’uguaglianza di diritti di fronte alla legge è
un principio morale che non si fonda nel postulato che gli esseri umani
siano ugualmente dotati; 9) gli unici tratti a partire dai quali gli antropologi hanno potuto stabilire differenze tra gruppi sono caratteristiche
fisiche; 10) non ci sono prove scientifiche che i gruppi umani differiscano in quanto a intelligenza; 11) nessuna differenza biologica può essere
più importante ‘all’interno’ di una razza che ‘tra’ di loro; e infine, 12) le
differenze genetiche quasi non intervengono nella determinazione delle
8
In realtà fu la risposta di un insieme di antropologi, fisici e genetisti a una dichiarazione
previa, del 1949, in cui ‘i sociologi’ (questo era il modo in cui i nuovi esperti si riferivano ai loro predecessori) avevano realizzato affermazioni troppo tassative sulla categoria
di razza come semplice mito. Per un’analisi comparativa più dettagliata suggeriamo A.
Grondona, Saberes expertos en la encrucijada: razas, anti/racismo y ciencias en Unesco
1949-1950, in «Nómadas. Revista Crítica de Ciencias Sociales y Jurídicas», vol. 47, n.
1, 2016, pp. 215-241.
14
Gino Germani e la questione razziale
diseguaglianze sociali.
A ogni modo, gli esperti erano abbastanza lontani da un ‘consenso’ su
queste affermazioni. Così dimostrano gli stessi scritti di Germani in cui
discute con la «psicologia razziale» 9 come un discorso ancora vigente. Allo
stesso modo, un testo pubblicato dall’Unesco a un anno della dichiarazione del 1951 (Race. Results of An Inquiry) – nel quale si esponevano le
risposte a un’indagine sulla razza, fatta da quell’organismo a una varietà
di specialisti (in antropologia fisica, genetisti, medici, ecc.) – mostra la
circolazione di posizioni apertamente razzialiste, se non razziste, tra le
principali figure legittimate nel campo scientifico 10.
Più specificamente, comprendiamo che Germani partecipa attivamente a una ‘controffensiva’ di certi esperti di fronte all’avanzata di posizioni
razzialiste e razziste tanto nelle scienze biologiche quanto in quelle sociali;
posizioni che avevano costituito un elemento chiave nell’offensiva del
nazismo e del fascismo. Si dava, in quegli anni, una battaglia che ‘in nome’
della scienza pretendeva delegittimare la pretesa scientificità delle politiche
razzialiste/razziste. Ci riferiamo, in virtù di questo, a un ‘anti-razzismo
scientifico’.
Uno degli aspetti principali di questa controffensiva era lo spostamento dell’attenzione dalla razza e dalle determinazioni biologiche del
comportamento, alla delimitazione del ‘razzismo’ come oggetto di analisi,
inteso come atteggiamento socialmente e culturalmente determinato. In
quel movimento il problema della ‘natura umana’ si traduceva nella questione della relazione tra personalità, società e cultura. È in quella cornice
che è diventata centrale la polemica ‘naturale vs acquisito’ e in quel terreno
si sarebbero moltiplicate le menzioni a esperimenti o esperienze ‘bambini
lupi’ che, essendo cresciuti separati dalla società, mostravano che quasi
tutto quello che intendiamo come ‘umano’ è il risultato dell’interazione
sociale e dell’eredità culturale.
Germani è entrato molto presto in questi dibatti del Dopoguerra. In
un seminario del 1946 e in una conferenza del 1947, affrontava e metteva
in discussione gli aspetti centrali della «psicologia razziale» e, più in generale, del biologicismo come prospettiva di analisi della condotta umana.
Dopo varie rielaborazioni, la conferenza del 1947 fu pubblicata, nel 1956,
9
«Secondo la tesi biologicista, quello che abbiamo denominato psicologia sociale dei
gruppi dovrebbe costituire, al contrario, una psicologia razziale», G. Germani, Estudio
sobre sociología y psicología social, Paidós, Buenos Aires 1966 (ed. originale 1956), p. 27.
10
A. Grondona, Anti-racismo y discurso científico para las masas (1948-1960). Reflexiones
en torno de la ‘divulgación’, in «Tabula Rasa», n. 24, julio de 2016. In quell’articolo, si
analizzano anche alcune contraddizioni all’interno della dichiarazione.
15
A. Grondona
come primo capitolo di Estudios sobre sociología y psicología social (Biologia
e società in psicologia sociale). Abbiamo lavorato su quel capitolo (e su tutto
il libro), però anche su alcuni appunti, tra i quali un corso dato nel 1946
(Bosquejo de psicología social para una época en crisis) in cui si possono leggere, sotto l’allusivo titolo Problema de las razas, una serie di annotazioni contro la «psicologia razziale» e il suo tentativo di spiegare differenze culturali a
partire dalle delimitazioni dei gruppi etnici:
«La nozione di razza – dal punto di vista dell’antropologia fisica,
manca completamente di precisione. Gli antropologi non si sono messi d’accordo sul significato preciso, d’altra parte, anche ammettendo
la possibilità di classificazione biologica di gruppi umani, questa
non ha niente a che vedere con la differenziazione culturale, alla fine,
quei gruppi biologici appaiono come estremamente plastici» 11.
Molto in sintonia con le dichiarazioni dell’Unesco del 1949 e del
1951, Germani scartava la spiegazione delle differenze tra gruppi umani
a partire da determinanti razziali. Per questo ha esplorato, probabilmente
seguendo una recensione di Pitrim Sorokin 12, prospettive razziste ma
classiche come quelle di J.A. Gobineau, H.S Chamberlain o O. Ammon,
così come altre più recenti. In particolare gli interessavano le discussioni
riguardo alle misurazioni del coefficiente intelettuale (Ci), che si erano
generalizzate negli USA come conseguenza della loro applicazione durante
il reclutamento di soldati per la Prima Guerra Mondiale. Su questo punto,
il sociologo rimandava a diverse ricerche (di Otto Klinenberg, George
Murdok, ecc.) che avevano tentato di relativizzare le interpretazioni razzialiste/razziste di quei testi mediante paragoni di Ci tra gruppi afroamericani
del Nord e del Sud degli Stati Uniti, popolazioni rurali e urbane, ecc.;
inoltre, rimandava a indagini in cui veniva paragonata l’intelligenza di fratelli e gemelli cresciuti in ambienti diversi (per esempio Frank Freeman).
11
G. Germani, Bosquejo de psicología social para una época en crisis, documento dell’Archivio Germani, 1946, p. 38, sottolineatura aggiunta. In quella stessa nota segue una
citazione di W.M. Krogman – un antropologo fisico statunitense – che sottolinea le
eterogeneità all’interno di uno stesso gruppo razziale, così ampie come quelle ‘tra’ diverse
razze. Nei seguenti punti, Germani riprendeve altri degli argomenti classici dell’antirazzismo scientifico: non ci sono razze pure, gruppi simili dal punto di vista biologico
producono culture diametralmente opposte, i test di intelligenza mostrano che le differenze
sono dovute all’ambiente.
12
Abbiamo anche lavorato sulle schede del libro Modern Sociological Theories del 1928,
nelle quali Germani analizzava le teorie razziste di Arthur Gobineau, Francis Galton,
Houston Chamberlain, Georges de Lapouge e Otto Ammon, recensite in quel libro, nel
capitolo Anthropo-racial, selectionist, and hereditarist school.
16
Gino Germani e la questione razziale
In ogni modo, i risultati mostravano il rilievo delle condizioni ambientali ben oltre l’eredità 13. Anche lì dove i test sembravano indicare determinanti biologiche, uno sguardo più attento sui dispositivi di esame mostrava che questi partivano da una certa prospettiva e tendevano a convalidare
determinati saperi e pratiche (come quella dello stesso esame scolastico).
Nel classico lavoro sulla struttura sociale argentina (1955), Germani
avrebbe affermato che quei test misuravano, in realtà, «quel tipo speciale
di intelligenza (urbano, classi medie)» e che descrivevano «caratteristiche
socioculturali e non potenzialità innate» 14.
D’altra parte, il sociologo chiarisce la sua critica al ‘biologicismo’
in un senso ‘più generale’. In primo luogo, discuteva con le teorie della
corrispondenza che assegnavano univocamente certi comportamenti e/o
atteggiamenti a determinate caratteristiche biologiche. Anche se il sociologo sosteneva che negare l’esistenza di condizionamenti biologici «sarebbe
insensato», sottolineava che «tra il biologico e l’empiricamente osservabile,
cioè l’attività umana, c’è la societa; […] ogni condizione biologica non
agisce se non attraverso questa» 15.
Germani è stato particolarmente tenace nella disputa contro le prospettive
che facevano dell’‘istinto’ la pietra miliare dell’analisi della condotta. Così, in
sintonia con Abraham Kardiner, Otto Klinenberg e Meleville Herskovitz 16,
insisteva nel ridicolizzare le posizioni disposte a trovare un istinto per qualsiasi atteggiamento e moltiplicarle addirittura «fino a 5.648» 17. In realtà, dice
Germani, queste posizioni catalogavano come ‘instinto’ una serie di comportamenti osservati senza una descrizione seria della struttura fisiologica. In
questo modo, non sarebbe altro che la naturalizzazione o l’assegnazione di
una causalità biologica a condotte effettivamente percepite. Questa tendenza non solo sollevava sospetti teorico-scientifici, ma era rischiosa in termini
politici. In particolare era stato il caso dell’‘istinto di guerra’ e del suo uso
durante il fascismo. Germani negava il carattere scientifico all’ipotesi della
13
Gino Germani ha portato questo argomento fino alle ultime conseguenze e ha incluso nella sua riflessione lavori in cui ‘l’ambientale’ aveva effetti anatomici o fisiologici.
Infatti, gli studi di Franz Boas, Harry L. Shapiro (firmante della dichiarazione del 1951)
e Wilton Krogman mostravano che ‘anche’ le misurazioni dell’‘indice cefalico’ o della
pressione arteriale, tanto cari agli occhi della antropologia fisica nella sua variante razzialista,
variavano in diversi contesti tra gruppi di eredità biologica simile.
14
G. Germani, Estructura social de la Argentina. Análisis estadístico, Ediciones Solar,
Buenos Aires 1987 (ed. originale 1955), p. 240.
15
Germani, Estudio sobre sociología y psicología social, cit., p. 33.
16
Ci siamo già riferiti a Otto Klinenberg. Abraham Kardiner (psicologo) e Meleville
Herskovitz (antropologo), da parte loro, sono stati due esponenti della scuola di Franz Boas.
17
Germani, Estudio sobre sociología y psicología social, cit., p. 30.
17
A. Grondona
‘lotta per l’esistenza’ e sosteneva che quella funzionasse in un modo ideologico addirittura nella teoria di Darwin. Dall’altra parte, al contrario della
spiegazione che assegnava all’irrazionalità la causa delle guerre, il sociologo
sottolinea che come fenomeno politico e storico è stato portato a termine
«con grande sangue freddo e attraverso calcoli elaborati», cioè in un modo
«completamente razionalizzato»18.
L’analisi di Germani penetra addirittura più a fondo. Così prese nota
che la teoria degli istinti rappresentava un modo di rendere conto di una
certa universalità della condotta umana in nome di un insieme di fattori
ereditati. In questo modo si riprendeva la prospettiva secondo cui sarebbe
esistita una natura umana fissa e immutabile; tesi che aveva conosciuto
una storia sinuosa, con capitoli idealisti e altri materialisti e prospettive
più o meno ottimiste. Inoltre, nel pensiero popolare, sosteneva Germani,
l’ipotesi di una ‘natura’ umana era molto generalizzata.
Al di là degli argomenti per criticare tanto la «psicologia razziale» quanto
la ‘teoria degli istinti’, il nostro autore si mostrava molto cosciente che il
rifiuto delle prospettive biologiciste non chiudeva la questione né dava una
risposta alle sue domande né (1) sulla questione della definizione di una
’natura umana’ universale, né (2) per quanto riguarda la spiegazione delle
differenze di personalità tra gruppi, e nemmeno (3) di quella degli individui tra loro. La ‘psicologia sociale’, disciplina verso cui Germani aveva un
indubbio interesse, doveva essere capace di affrontare questi interrogativi se
voleva essere all’altezza della battaglia che affrontava. Comprendiamo che
l’insistenza nell’erigerla ad ambito di studi oggettivo andava al di là della
necessità di delimitare o convalidare certi ‘campi intellettuali’ o determinate
credenze, si trattava di una fredda disputa ‘per’ la scienza e ‘attraverso’ essa.
Come approfondiremo nei prossimi paragrafi, le risposte di Germani
alle domande sull’universalità dell’‘umano’, sulla differenza tra gruppi e
sulla singolarità psicologica individuale si tessero a partire da alcuni concetti e questioni fondamentali: la nozione di ‘necessità basica’, quella di
‘personalità sociale basica’ o ‘carattere sociale’ e la centralità dell’esperienza
familiare nello sviluppo dell’apparato psichico.
Germani, come buona parte dell’antropologia anti-razzista del Secondo
Dopoguerra, mise mano al concetto di ‘necessità basiche’ (di ossigeno, alimenti, riproduzione, scarica muscolare, riposo, vocalizzazione, espressione
esteriore di stati interni) che insieme ai meccanismi di apprendimento e
di interazione sociale costituivano condizioni biologiche ‘universali’ 19. Nel
18
Ivi, p. 35.
Un esempio evidente è quello di Ashley Montagu – alma mater della prima e più
radicale dichiarazione delle razze del 1949 –, che in un lavoro pubblicato in inglese nel
19
18
Gino Germani e la questione razziale
testo pubblicato come primo capitolo di Estudios sobre sociología y psicología social si rifiresce a «imperativi biologici» senza la cui soddisfazione
l’essere umano non potrebbe sussistere, però che, a differenza degli istinti,
non risultano essere ‘essi stessi’ motivi di azione 20. Questo modo di concepire l’universalità umana era compatibile con il relativismo culturale, in
quanto tali necessità erano molto generali e configuravano una condizione
fondamentalmente ‘plastica’, capace di organizzarsi storicamente in modi
molto diversi. Le necessità erano capaci di trasformarsi
«in mille modi diversi non solo assegnandole la specificità e la realtà
della motivazione psichica, ma attraverso una serie di modifiche fisiologiche che incidono profondamente nella loro espressione esterna di
esperienza interna”21.
Inoltre, Germani sottolineava che «lo stato di smarrimento in cui si trova
la creatura umana» è «il primo elemento nell’universalità dell’interazione
sociale»22.
Per quanto riguarda la spiegazione delle ‘differenze’ tra la psicologia
di diversi gruppi, come emerge da quanto esposto sopra, osserviamo
una chiara scommessa per la ‘debiologicización’ dell’analisi della condotta
umana. Ciò non supponeva solo la critica ai determinismi razziali, ma
anche quelli dovuti all’età e quelli sessuali. L’insistenza con cui l’autore
si riferiva ai lavori di M. Mead sull’adolescenza a Samoa, così come il
ruolo centrale che ebbe il libro di V. Klein sul carattere femminile come
bibliografia del corso di introduzione alla sociologia – uno dei suoi tre
libri obbligatori, insieme a quelli di R. Linton e di E. Fromm – sono segni
chiari dell’interesse del sociologo. Né la personalità ‘femminile’ né quella
‘adolescente’ erano il riflesso di determinanti biologiche, ma il risultato di
certe configurazioni culturali.
In questa operazione teorica i cosiddetti Cultural and Personality
1955 (The direction of human development), si dedicava a delimitare necessità basiche
e acquisite, con l’obiettivo chiaro di fondare in base a quelle nuove garanzie di un’universalità anti-razzista. Un altro buon esempio può essere trovato in uno dei testi più
tardi inclusi nell’Antología di Introducción a la sociología: Los universales en la civilización
humana. Lì, Meleville Herskovitz delimitava la condizione umana, riprendendo in particolare Malinowski, a partire da una descrizione delle necessità basiche e il suo ruolo
nella cultura.
20
Germani, Estudio sobre sociología y psicología social, cit., 37.
21
Ivi, pp. 37-38.
22
G. Germani, La psicología social y el problema de las relaciones entre biología y sociedad,
documento dell’Archivio Germani, 1947, p. 7.
19
A. Grondona
Studies 23 hanno occupato un posto di rilievo; in particolare, la nozione
di personalità sociale basica o ‘carattere sociale’; questa segnava un nuovo
sentiero attraverso cui si poteva rispondere alla questione sulle regolarità
delle condotte di certi gruppi e sulle loro ‘differenziazioni’ rispetto agli
altri (nazionali, comunali, religiosi, ecc.) al di là degli essenzialismi biologici. L’inclinazione di Germani verso questa prospettiva è chiara se osserviamo il modo in cui almeno sei dei quattordici capitoli del libro Estudios
sobre sociología y psicología social propongono diversi percorsi (attraverso
la teoria degli atteggiamenti, l’opera di Malinowski, la teoria delle relazioni umane, ecc.) che conducono a una stessa conclusione: il valore dei
contributi di autori come Margaret Mead, Ruth Bendict, Ralph Linton,
Abraham Kardiner ed Eric Fromm come istanza superatrice delle contraddizioni dello psicologicismo, del sociologicismo e del ‘biologicismo’ 24.
Questa prospettiva lavorava sui criteri culturali del comportamento, sui
processi di formazione della personalità (in particolare, del ruolo delle esperienze infantili) e sulla relazione tra atteggiamenti sociali e tessuti istituzionali.
Attaverso nozioni come personalità sociale basica (PSB), struttura di personalità o carattere sociale, nominavano la configurazione psicologica propria
dei membri di una società (il ‘carattere nazionale’, per esempio) sulla quale
23
R. Levine, Culture and Personality Studies, 1918–1960: Myth and History, in «Journal
of Personality», 69, 2001, pp. 803-818. È interessante notare che nella sua recensione ai
Culture and Personality Studies, Robert Levine include molti degli autori e dei riferimenti
che Germani aveva articolato nei suoi lavori. Addirittura, entrambi iscrivono questa prospettiva nel cammino aperto dai lavori del sociologo di Chicago W.I. Thomas. Secondo
Levine, si è trattato di un campo di studi, più che di una scuola, che ebbe origine negli
USA tra il 1918 e il 1960 e che comprende molti dei già menzionati discepoli di Franz
Boas, ma anche Erik Erikson o David Riesman e il suo interesse per la moltitudine.
Germani avvicina Eric Fromm a questa corrente. Si è trattato di una figura chiave tanto
per l’insieme degli studi che si sono sviluppati negli USA, quanto per la sua ricezione
in America Latina. Fromm rappresenta, infatti, un nodo in una densa rete di intellettuali, visto che ha mantenuto legami diretti con M. Mead, A. Kardiner, K. Horney, D.
Riesman, M. Lipset, così come con l’Istituto di Richerche Sociali di Francoforte a NY
(al quale faremo riferimento a breve); su questo punto, si veda la tesi del 2010 di M.E.
Reyna Chávez: Erich Fromm en México. El psicoanálisis humanista y sus aportaciones a la
cultura mexicana, 1949-1973. Fromm, è stato, senza dubbio, uno degli autori prediletti
di Germani. Va detto che già Alejandro Blanco, nel suo lavoro del 2006, aveva avvertito
circa la rilevanza di questo autore e dei suoi studi di cultura e personalità nella sociologia
dell’italo-argentino.
24
Conviene aggiungere che in diversi passaggi, Germani fa riferimento a ‘certe critiche’
che gli erano state mosse a quegli studi. In particolare le teorie sul ‘carattere nazionale’ che
tendevano a semplificare eccessivamente l’analisi nel caso di società complesse. Inoltre, in
lavori successivi, Germani avrebbe criticato l’indifferenza relativa di queste prospettive,
rispetto alla classe sociale come variabile rilevante per analizzare la personalità autoritaria.
20
Gino Germani e la questione razziale
gli individui producevano varianti di gruppo (status) e singolari 25; la PSB era
definita come un insieme di tratti, atteggiamenti, credenze, emozioni che conformavano una certa eredità ‘sociale’, che variava e si trasmetteva attraverso i
gruppi primari (famiglia, scuola, vicinato) e secondari (mass media).
Tutte queste indagini partivano dall’ipotesi dell’‘integrazione della
cultura’ che comprandeva certe forme di essere; modi di vita determinati
che potevano dare maggior o minor spazio all’individualità, alla plasticità
e alla riflessività. La premessa era che la cultura – più specificamente, le
culture ‘o sotto’-culture – erano composte da diversi aspetti (materiali,
immateriali, modelli normativi, estetici, economici, aspetti manifesti e
latenti, elementi personali e non personali, ecc.) che conformavano un
tutto con qualche forma di coerenza interna. Nello specifico, la questione
della PSB è sempre una questione sull’‘adeguamento’ rispetto a una certa
totalità culturale; sui modi in cui questa riesce – o, più spesso, ‘non’ riesce
– ad adattarsi a nuove sfide, per via di, per esempio, certe crisi economiche
o trasformazioni sociali (disoccupazione, inflazione, ecc.).
Dall’altra parte, gli studi della PSB erano, immediatamente, un modo
in cui la questione della psicologia razziale si smontava criticamente per
proporre un’altra agenda di questioni: se in quella il problema si centrava
nell’oggetto dei pregiudizi (i negri, gli ebrei) gli studi della PSB si interrogavano sui ‘soggetti’ portatori di pregiudizio. Più specificamente, addirittura, nelle indagini sulle configurazioni di atteggiamenti di certi gruppi,
soggiaceva la problematica urgente dei processi di defascistizzazione delle
classi medie europee. Gli appunti del corso Bosquejo de psicología social para
una época en crisis ci permette di comprendere meglio lo scivolamento cui
abbiamo fatto riferimento e il modo in cui questo lavora, nella riflessione
germaniana. A pagina 38 in maiuscolo troviamo:
«La supposta esistenza di una psicologia razziale ha […] un significato sociologico di prima importanza: l’ideologia razziale – basata
generalmente nello stereotipo – costituisce un meccanismo per assicurare soddisfazioni Ersatz nei casi di tensioni psicologiche […].
L’ideologia raziale + etnocentrismo constituisce la prima e più fondamentale prospettiva di gruppo, che vede se stesso come unità e in
primo luogo, come unità biologica».
Inoltre, più avanti negli stessi appunti, Germani cita come esempio tipico
25
Risulta sempre più enigmatica la spiegazione sulle singolarità ‘individuali’. Queste si
aggiudicavano a una combinazione sui generis di eredità, ambiente, biografia familiare e
‘fattori accidentali’.
21
A. Grondona
di risposta di gruppo/collettiva di fronte a un cambiamento nella situazione
oggettiva il caso della «vecchia classe media e della bassa classe media tedesca
nel dopoguerra. In Italia: lo stesso»26. Al riguardo, si può leggere anche:
«Certe ideologie sono proprie di certi gruppi, per quanto si trovano
adattate alle strutture della personalità sociale, rispondono alle necessità psicologiche del gruppo […] Esempio: carattere sado-masochista
della piccola borghesia tedesca. Necessità di orientamento e direzione
degli individui in una democrazia» 27.
La questione delle determinazioni delle razze muta, così, fino a diventare un’indagine sulle condizioni ‘culturali’ soggettive e oggettive del razzismo (e, soprattutto, dell’antisemitismo) contemporaneo. Questo Ersatsz
era il risultato dell’esperienza della paura totale di fronte alla sconnessione
dei sistemi di credenze e alla frustrazione di non poter realizzare le aspettative associate al ruolo in un mondo sociale che cambiava in un modo
troppo rapido (piuttosto, in processo di disintegrazione). Così, in assoluta
sintonia con l’anti-razzismo scientifico dell’epoca, Germani denunciava
l’etnocentrismo come una patologia sociale, parte della sindrome della
personalità autoritaria che, paradossalmente, rispondeva alle domande e
ai valori moderni attraverso valori contrari. Su questo torneremo tra poco.
Come risultato di questa prima sezione (in cui abbiamo affrontato la
critica alla «psicologia razziale» e la teoria degli istinti, cosi come la problematizzazione/patologizzazione del pregiudizio razziale), intendiamo
che ci sono nuovi elementi per analizzare la veemenza germaniana rispetto
alla ‘scientificità’ della sociologia e/o della psicologia sociale. Se, come
sostenevamo all’inizio, la sociologia, la psicologia e l’antropologia sociale,
erano all’epoca in disputa con quelli che da altre discipline pretendevano
restituire peso alle variabili fisiologiche e genetiche nella determinazione
del carattere o dell’intelligenza, l’insistenza nel fare della prospettiva sociale una ‘scienza’ acquisisce un altro aspetto. Va detto che le memorie delle
posizioni che avevano legittimato scientificamente le politiche razziali in
Europa continuavano a risuonare con particolare odio, per esempio, contro l’avanzata dell’Unesco 28. Germani partecipò, come molti altri della sua
generazione, a una disputa per ‘liberare’ la scienza. Così, M. Herskovitz,
per esempio, aveva avvertito – in un passaggio il cui tono, indubbiamente
26
Germani, Bosquejo de psicología social para una época en crisis, cit., p. 56.
Ivi, p. 58, sottolineatura aggiunta.
28
Tra questi detrattori, spiccava Corrado Gini. Su questo punto si veda F. Cassata,
Against Unesco: Gedda, Gini and American scientific racism, in «Medicina nei Secoli», 20,
3, 2008, pp. 907-935.
27
22
Gino Germani e la questione razziale
politico, rimane molto lontano da certe pretese di neutralità valorativa –
sul «mostro del razzismo» 29. Dalla prospettiva di R. Linton, la battaglia nel
campo esperto si sovrapponeva nettamente a quella che si era data nelle
trincee della Seconda Guerra Mondiale:
«È probabile che le società piccole, […] differiscano in quanto al
potenziale psichico congenito. D’altra parte, i membri delle società
più popolose, come di tutte quelle civilizzate, sono così eterogenei
rispetto all’eredita che è assolutamente insostenibile ogni spiegazione
fisiologica rispetto alle differenze osservate nei modelli di personalità di
queste società […] Addirittura i tedeschi, i più razzisti di tutti, si sono
visti obbligati a introdurre il mistico concetto di anima nordica […]
per sostenere le loro idee sulla superiorità razziale.
Gli antropologi nordamericani, guidati dal Dr. Boas […] sono stati
i primi a riconoscere l’inadeguatezza di spiegare con fattori fisiologici congeniti le differenze dei modelli di personalità che le diverse
società presentano» 30.
2. Autoritarismo, antisemitismo e tradizione
Se nel paragrafo precedente abbiamo lavorato con alcuni appunti del
‘Germani docente’, in questa seconda sezione sarà particolarmente rilevante
menzionare il suo lavoro sul ‘fronte editoriale’ (per riprendere una formula
di A. Blanco 31), visto che questo è stato un ambito in cui il passaggio ‘dalla
razza’ al ‘razzismo’ come oggetto di preoccupazione scientifica risultava
particolarmente chiaro. Tra i libri curati dal sociologo troviamo Psicoanálisis
del antisemitismo di Nathan Ackerman e Marie Jahoda (1954), El miedo a la
«Ogni popolo ha la convinzione di godere di superiorità di qualche tipo sugli altri […]
Però questa convinzione risulta pericolosa quando assume una consistenza patologica e
degenera in teorie di superiorità biologica che trovano la loro espressione nella volontà
aggressiva di imporre uno status inferiore agli altri. Allora è quando quell’orgoglio, essenzialmente salutare e costruttivo si trasforma in una condotta distruttrice e ci troviamo di
fronte al mostro del razzismo. Questo razzismo è quello che, basato in argomenti pseudocientifici e appoggiato nella forza cerca di imporre la sedicente superiorità razziale di un
gruppo a tutti quelli che rimangono fuori dai suoi arbitrari limiti». M. Herskovitz, El
tipo físico y la cultura, in G. Germani, J. Graciarena, Antología de la sociedad tradicional
a la sociedad de masas: Introducción a la sociología, Universidad de Buenos Aires. Facultad
de Filosofía y Letras. Departamento de Sociología, Buenos Aires 1964, p. 109, sottolineatura aggiunta.
30
R. Linton, Cultura y personalidad, Fce, Buenos Aires 1965, pp. 142-143.
31
A. Blanco, Razón y Modernidad. Gino Germani y la Sociología en Argentina, Siglo XXI,
Buenos Aires 2006.
29
23
A. Grondona
libertad, di Erich Fromm (un testo fondamentale per le ricerche su antisemitismo e pregiudizio di Adorno e Horkheimer32), El Estado democrático y
el autoritario di Franz Neumann, La libertad y el estado moderno ed El peligro
de ser ‘genetlman’ y otros ensayos di Harold Laski. Inoltre, è necessario menzionare la pubblicazione di La naturaleza del prejuicio di Gordon Allport
(Eudeba) nel 1962, sotto la responsabilità di Eliseo Verón, direttamente
associata a una linea di indagine dell’Istituto diretto da Gino Germani e che
ha dato luogo al lavoro Teoría y metodología de la investigación del prejuicio.
Infatti, insieme allo sviluppo di una linea editoriale, la questione del razzismo, dell’antisemitismo e, più in generale, del pregiudizio è stata oggetto di
indadine per Germani; secondo D. Lvovich33, uno dei primi precedenti in
questo campo in Argentina.
La scrittura germaniana inibisce l’esercizio di costruire cronologie troppo
precise su questa, come su altre questioni. Così, per esempio, uno dei testi a
cui dobbiamo fare riferimento in questo paragrafo figura, allo stesso tempo,
come un intervento presentato nel 1957 nel IV Congresso Latinoamericano
di Sociologia e come il primo capitolo del quaderno nº 24 dell’Istituto
di Sociologia, pubblicato nel 1963 (Ideologías autoritarias y estratificación
social ), nel quale si includevano due testi di Martín Lipset. Alla fine è stato
pubblicato anche come capitolo IV del libro del 1962, Política y sociedad
para una época de transición. De la sociedad tradicional a la sociedad de masas.
Questo testo è particolarmente rilevante, perché lì delimita quella che
sarebbe stata la via d’accesso privilegiata per la riflessione sul pregiudizio
razzista e sul vincolo con le ideologie autoritarie. In sintonia con quanto
esposto nel paragrafo precedente, si tratterebbe di un’analisi psicosociale,
interessata allo studio di atteggiamenti che caratterizzavano (insieme a
emozioni e credenze) certe forme di personalità sociale. La questione del
razzismo e l’etnocentrismo, da questa prospettiva, sarà immancabilmente
unita alle ricerche sugli atteggiamenti autoritari. Ora bene, il ‘caso’ dell’Argentina era, secondo Germani, paradossale se lo si confrontava, per esempio, con gli studi sulle tendenze sadomasochiste della piccola borghesia
tedesca a cui abbiamo fatto riferimento alla fine della parte precedente.
L’emergenza di atteggiamenti autoritari in settori ‘popolari’, che l’Istituto
di Sociologia Dell’Uba (Università di Buenos Aires) avrebbe constatato
32
Si veda J. Baars, P. Scheepers, Theoretical and methodological foundations of the authoritarian personality, in «Journal of the History of the Behavioral Sciences», 29, 1993, pp.
345-353.
33
D. Lvovich, Gino Germani, Argentine Sociology and the Study of Antisemitism, in M.
Stoetzler (a cura di), Antisemitism and the origin of sociology, University of Nebraska Press,
Nebraska 2014, pp. 296-313.
24
Gino Germani e la questione razziale
attraverso studi a cui faremo riferimento più avanti, era, dal punto di vista
del sociologo, un’‘anomalia’ o una ‘deviazione’.
Germani si interrogava, quindi, sulle circostanze che potevano contribuire a spiegare il fatto che in deteminati paesi, come l’Argentina, «le classi
popolari avevano adottato un atteggiamento modale differente da quello che
si registrava in generale nelle società di tipo ‘urbano-industrializzato’» 34. Gli
atteggiamenti che ci si aspettava da parte dei settori popolari (in termini
di ‘adeguamento sociologico’) erano l’adesione a ideologie di sinistra e il
dare valore a ideali democratici.
Tra i fattori rilevanti per spiegare quella deviazione, Germani includeva che la tradizione della sinistra, legata alle libertà civili e dei diritti individuali (di fronte a uno Stato troppo potente), si era vista recentemente
modificata da ideologie capaci di includere elementi nazionalisti dissonanti
con il suo internazionalismo classico. Questo era particolarmente rilevante
nei paesi a industrializazione tardiva e di recente indipendenza, in cui la
questione nazionale aveva avuto un segno emancipatorio. D’altra parte,
le destre avevano incorporato elementi che prima erano stati patrimonio
del socialismo o, almeno, di posizioni collettivistiche. Questo ultimo, nel
quadro di un cambio generale del clima di idee, più incline al totalitarismo
e a una nuova relazione tra élites e masse che accentuava i pericoli della
spersonalizzazione e manipolazione. Infine, c’era la famosa «differenziazione interna delle classi popolari» 35 come variable che spiegherebbe gli
atteggiamenti autoritari di ‘certi’ settori, anche al di là di quelli più poveri
(sottoproletariato) in cui quegli atteggiamenti erano radicati.
Germani distinse con cautela gli atteggiamenti autoritari dei settori
popolari latinoamericani/argentini da quelli dei ceti medi europei. Mentre
i primi erano il risultato di un processo di ‘folklorizzazione’, i secondi
rispondevano a tensioni inerenti alla stessa modernizzazione, le cui conseguenze erano indubbiamente più esplosive. Così l’autoritarismo tradizionale che aveva accompagnato l’adesione dei settori popolari al caudilloPerón ‘non era’ omologabile all’autoritarismo ideologico dei settori medi
europei, impauriti dalla mobilizzazione degli strati inferiori. A ogni modo,
il rischi che implicava l’autoritarismo tradizionale era quello di fondersi
con gli atteggiamenti ideologici e propriamente moderni.
Se sottolineiamo questa differenziazione è perché il sociologo la riprenderà per uno studio successivo sugli atteggiamenti e i pregiudizi antisemiti, il
34
G. Germani, Las clases populares y las actitudes autoritarias”, in G. Germani, S.M.
Lipset, Ideologías autoritarias y estratificación social, «Cuadernos de Sociología», 24, t.
XIII, 1961, p. 354, corsivo nostro.
35
Ivi, p. 355.
25
A. Grondona
cui titolo sarà sommamente eloquente: Antisemitismo ideológico y antisemitismo tradicional. In questo saggio, del 1960, vengono esposti i risultati di una
ricerca iniziata due anni prima e sulla quale dovremo puntualizzare alcune
questioni. L’Istituto di Sociologia dell’Universidad de Buenos Aires, sotto
la direzione di Germani, aveva pianificato una ricerca su etnocentrismo
e antisemitismo che originariamente avrebbe dovuto essere divisa in due
fasi: la prima, un’esplorazione, e la seconda un gruppo quasi-sperimentale.
Nonostante questo, la coincidenza dello studio con altri due, sollecitati
dall’Agenzia dell’Unesco in America Latina (Rio de Janeiro), ha suscitato
una modifica nel disegno del dispositivo. I ricercatori dell’istituto hanno
lavorato allo stesso tempo su vari progetti, ma utilizzando uno stesso campione rappresentativo, formato da 2000 famiglie 36. Così, in un periodo di
20 mesi sono state realizzate tre indagini parallele: una sulla stratificazione
sociale, un’altra sull’assimilazione di immigrati nelle aree urbane e l’indagine su etnocentrismo e antisemitismo, che ci interessa particolarmente.
Come conseguenza, i questionari dovettero essere ridotti, per non estendere irrazionalmente il tempo di ogni intervista. La maggior parte delle
domande erano per il capo-famiglia e ce ne erano altre, più brevi, per i
restanti membri. Le domande sui pregiudizi erano esclusivamente per i
primi 37. Lo strumento tentava diversi approcci al problema dell’antisemitismo e dell’etnocentrismo, formulando domande inizialmente più aperte
e poi più dirette a valutare, esattamente, gli atteggiamenti verso gli ebrei 38.
L’Istituto di Sociologia contava, per avanzare in questa ultima linea di
ricerca, con il finanziamento dell’American Jewish Committee, Istituto di
Relazioni Umane di New York, che aveva già finanziato parte del famoso studio sulla personalità autoritaria diretto da T. Adorno nella cornice
dell’Istituto di Ricerche Sociali.
Secondo l’analisi di Germani dei risultati – e paragonando le risposte
36
Secondo un documento posteriore, del 1963, il totale di famiglie consultate era di
2078. È possibile che queste 78 rispondessero alla necessità di ampiare il campione dei
settori ad alto reddito.
37
G. Germani, Authoritarian and ethnecentric attitudes, Ffyll-Uba Publicazione interna
n. 2, Buenos Aires 1960.
38
La prima domanda mirava a far sì che l’intervistato definisse, a partire da una formulazione generale e senza opzioni, quali erano le persone o i gruppi che portavano più
problemi al paese. Dopo, gli si proponeva di identificare all’interno di una lista di 12
gruppi quelli che avrebbero portato benefici, quelli che trovava problematici e quelli che
gli erano indifferenti. Alla fine, gli si domandava, proponendo anche in questo caso una
lista di opzioni (tra loro: italiani, francesi, russi, spagnoli), che gruppo di immigrati era
pertinente ‘attirare’, quali ‘lasciare entrare’, in che caso era necessario ‘procedere secondo
le persone’ e quando ‘escluderle’.
26
Gino Germani e la questione razziale
con le domande semiaperte –, lo studio ha evidenziato un’incidenza relativamente bassa di antisemitismo (22.1%) in relazione a studi simili realizzati
negli Stati Uniti (35%), Germania (28%), New York (27%), Inghilterra
(23%) e Francia (24%). L’indagine mostrava maggior ostilità verso altri
gruppi, per esempio, i terratenenti (44.8%), i militari (38.4%), i politici
(30.2%) e i sacerdoti (23.5%). Inoltre, emergeva una relazione tra antisemitismo e xenofobia. In termini anagrafici, eccetto una concentrazione del
26.6% di antisemiti tra i nati dal 1912 al 1921, l’età non riusciva a consolidarsi come una variabile esplicativa. Al contrario, il livello socioeconomico
ha fatto registarte un’alta incidenza nel comportamento analizzato39.
Il sociologo segnalava che i dati sembravano «smentire un’ipotesi
comunemente accettata secondo cui l’antisemitismo è soprattutto un
fenomeno di classe media». Ora bene, in consonanza con la differenziazione alla quale abbiamo fatto riferimento qualche paragrafo più su, sottolineava anche che «le espressioni più violente dell’antisemitismo nel nostro
paese non si sono originate nei settori popolari e meno illuminati ma al
contrario, in gruppi di miglior posizione sociale de educazione». Al fine di
«introdurre una razionalità in questo panorama apparentemente confuso»
distingueva, a partire dai diversi tipi di risposta ottenuti, tra quelli che
credevano che «gli ebrei» fossero «un gruppo che avrebbe potuto causare
problemi» e quelli che pensavano che «gli ebrei avrebbero dovuto essere
esclusi come immigrati» 40. La distanza tra queste due forme è rilevante per
la nostra analisi:
«La prima sarebbe costituita da quello che chiamiamo antisemitismo tradizionale: si tratta dell’accettazione passiva di certi stereotipi
che sono abbastanza comuni nel gruppo in cui uno vive. L’antisemitismo della popolazione rurale è soprattutto di questo tipo. La
seconda forma consisterebbe in un atteggiamento ideologico molto
più preciso ed elaborato. Mentre la prima non corrisponde necessariamente a un tipo speciale di personalità, nel secondo caso l’antisemitismo sarebbe l’espressione di quella che è stata chiamata “sindrome
autoritaria”» 41.
39
I settori alti registravano un 6.9 % di antisemitismo, le classi medie superiori un
18.3%, i ceti medi un 18.7%, i medio-bassi un 19.2%, i settori popolari superiori un
27.7% e, infine, un 27.6% per i ceti inferiori. Prendendo come riferimento il livello
educativo, l’incidenza era del 29.3% per quelli senza istruzione o con le scuola elementari
non completate, del 21.3% per quelli che avevano terminato le elementari e del 13.7%
tra quelli che avevano finito le scuole medie superiori e oltre.
40
Questa e le citazioni precedenti del paragrafo si riferiscono a G. Germani, Antisemitismo
ideológico y antisemitismo tradicional, in «Cuadernos de Comentario», n. 1, 1963, p. 9.
41
Ivi, p. 11, sottolineatura aggiunta.
27
A. Grondona
Entrambi i tipi di antisemitismo erano distribuiti differenzialmente tra
i livelli economico-sociali; nei settori popolari le contestazioni erano più
‘generiche’ e di tipo ‘tradizionale’, cioè, di ripetizione passiva di stereotipi.
Al contrario, nei livelli medi e alti, l’ostilità verso gli ebrei si associava a
posizioni più attive che auspicavano, per esempio, politiche migratorie
escludenti. L’‘antisemita ideologico’ (più frequente nei settori alti e medi)
si differenziava dal suo ambiente, dal clima di idee che lo circondava; il suo
pregiudizio era espressione di autoritarismo, etnocentrismo e di tendenze
all’ostilità più generalizzate, si trattava, inoltre, «di una persona frustrata,
con atteggiamenti irrazionali verso l’autorità», aggressiva e incline alla
«ribellione senza causa» 42. L’‘antisemita tradizionale’, al contrario, non si
distingueva così chiaramente dal suo ambiente, visto che questo risultava
più autoritario.
Entrambe le forme del pregiudizio (il tradizionale e l’ideologico)
avevano, come abbiamo indicato sopra, diverse probabilità di «passare
all’azione» 43. Le esperienze di declassamento e frustrazione, legate a processi di modernizzazione e i suoi mali, disponeva di più alla (re)azione che
all’accettazione passiva di stereotipi tradizionali. A partire da questi risultati, Germani concludeva che il maggior pericolo risiedeva nella possibilità
che gli antisemiti ideologici usassero i gruppi di classi popolari portatori
di un ‘antisemitismo tradizionale’ 44. Quel 27% delle classi popolari in cui
si registravano atteggiamenti antisemiti non costituiva una minaccia in se
stesso, anche se indubbiamente costituiva una pericolosa ‘riserva’ (di circa
l’11% della popolazione totale consultata).
È importante insistere sul fatto che Germani aveva a disposizione ‘altri’
modi per interpretare i dati forniti dal suo studio. Martin Lipset, con cui ha
condiviso il citato quaderno 24 dell’Istituto di Sociologia, aveva sottolineato
i tratti autoritari dei settori popolari e i paradossi che questo significava per
un certo senso comune benpensante di sinistra (che si sarebbe fatalmente
sbagliato)45. Il sociologo italo-argentino, al contrario, (1) ha distinto tra
tipi di autoritarismo/antisemitismo, (2) ha caratterizzato l’autoritarismo
42
Ibid.
Ibid.
44
Ibid.
45
«Si è messo gradualmente in evidenza che le predisposizioni autoritarie e il pregiudizio
etnico emanano più naturalmente dalla situazione delle classi più basse che dalla situazione
delle classi medie e alte, nella moderna società industriale, e questo ha posto un dilemma
tragico a quegli intellettuali della sinistra democratica che ormai non possono credere nel
proletariato come forza favorevole alla libertà, la uguaglianza razziale o il progresso sociale»,
M. Lipset, El autoritarismo de la dase obrera y la democracia, in Germani, Lipset, Ideologías
autoritarias y estratificación social, cit., p. 367, sottolineatura aggiunta.
43
28
Gino Germani e la questione razziale
dei settori popolari come ‘anomalia’, (3) ha valutato che l’autoritarismo
e l’antisemitismo dei settori medi e alti era politicamente più rischioso.
Queste operazioni risultano significative in quanto l’antisemitismo
osservato nei settori popolari avrebbe permesso di spingere più a fondo
le analogie tra l’autoritarismo europeo e il populismo argentino. Contro
una lettura di questo tipo, segnalava che «per adeguarsi alla base umana
del movimento», il peronismo aveva delimitato un panorama ideologico
diverso, «al lemma fascista di ‘Ordine, Disciplina, Gerarchia’, che sostituì
con quello di ‘Giustizia Sociale’ e ‘Diritti dei Lavoratori’» 46. Inoltre, i miti
mobilitati erano stati diversi: «“nazionalismo e razzismo” da una parte,
“giustizia sociale” dall’altra» 47. Germani, ovviamente, non era cieco agli
effetti di tali sostituzioni:
«Il peronismo presenta un interesse teorico straordinario, visto che
è stato iniziato e diretto da un gruppo di orientamento chiaramente
fascista e nazi. Nonostante questo, siccome le circostanze storicosociali del paese non gli offrivano i ceti medi che avevano formato
la base del modello europeo, sono dovuti ricorrere ai ceti popolari,
risultato soprattutto delle grandi migrazioni interne. Però questo
non ha rappresentato un mero cambio di terminologia, di miti, di
superficie ideologica. Non si è trattato solamente di sostituire le parole “ordine, disciplina, gerarchia” con “giustizia sociale” o “governo
dei descamisados”. Quello che è successo è stato che la manipolazione
ha avuto una certa reciprocità di effetti. Il peronismo ha differito dal
fascismo europeo proprio per il fatto essenziale che, per ottenere l’appoggio della base popolare, ha dovuto sopportare, da parte della sua
base umana, una certa partecipazione effettiva, anche se ovviamente
limitata»48.
Questa partecipazione ‘effettiva’ si contrapponeva all’esperienza dei
settori sedotti dal fascismo europeo, che «non solo non modificava la
situazione oggettiva, e le cause strutturali che avevano rovinato le classi
medie, ma tendeva a rafforzarle (aumento della concentrazione monopolista, dei controlli, ecc.)» 49. Invece di migliorare queste condizioni oggettive, si era data a queste classi qualche soddisfazione capace di «placare
l’espressione (soggettiva) irrazionale della crisi che stavano attraversando:
affermazione dell’orgoglio nazionale, conquiste militari, disuguaglianza
46
Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 340.
Ivi, p. 343.
48
G. Germani, Autoritarismo, fascismo y populismo nacional, Utdt, Buenos Aires 2003,
(ed. originale 1978), p. 212, enfasi nostra.
49 Ivi, p. 252, sottolineatura aggiunta.
47
29
A. Grondona
legale, gerarchia e, in particolare, razzismo» 50. Non avevano ricevuto altro
che «soddisfazioni psicologiche, Ersatz (prestigio, rispetto, “legge e ordine”)»
e non «guadagni concreti»51.
Germani propone una descrizione dell’autoritarismo in cui le ‘sostituzioni’ e gli ‘spostamenti’ occupano un posto centrale. Il gioco degli autoritarismi moderni è, precisamente, quello di presentare una cosa per l’altra. In
questa logica si iscrive il problema del ‘razzismo’, come un modo di dare una
soddisfazione psicologica lì dove non arrivano esperienze concrete di libertà,
partecipazione o sicurezza. Ora bene, nel caso dell’autoritarismo argentino
lo spostamento/sostituzione era ‘doppio’ in relazione all’‘originale’ europeo.
Diversi elementi si presentano lì sfasati. Però questo non era una mera pantomima o una semplice farsa. In questo gioco di spostamenti e sostituzioni
(che faceva della scena politica argentina una sorte di commedia di equivoci)
si produceva un’esperienza certa di partecipazione e libertà dei settori popolari in questione52. Quasi come se la sostituzione della sostituzione operasse
come la doppia negazione di un superamento dialettico.
Al rispetto, è notevole come, ripetutamente, Germani si incarica di
precisare che per paradossali che fossero tali spostamenti erano molto
meno irrazionali e pericolosi che quelli delle classi medie europee che
avevano abbracciato il fascismo 53. Al contrario, la sua attenzione è stata
massima sui movimenti autoritari che, dopo il golpe del 1955 contro Juan
D. Perón, sono stati guidati da settori reazionari dell’esercito che agivano
‘in nome’ delle élites e di alcuni settori medi; per loro riserverà il nome
di «sostituti funzionali del fascismo». Su questo punto torneremo alla
fine della prossima parte, quando avanzeremo nell’analisi di quello che a
nostro giudizio si presenta come uno dei punti ciechi della sociologia di
Germani: il razzismo dei settori medi e/o illuminati dell’Argentina.
In questa sezione abbiamo lavorato su un secondo modo in cui la questione razziale si tesse attraverso i testi germaniani; non più sotto il profilo
della battaglia contro la psicologia razziale, ma come nuovo oggetto per
una sociologia che pretende illuminare gli angoli più oscuri del comportamento umano. La domanda riguarda, quindi, la personalità autoritaria;
50
Ivi, p. 256.
Ivi, p. 252.
52
S. Amaral, La experiencia de la libertad: Gino Germani y el significado del peronismo,
in «Anuario del Centro de Estudios Históricos “Carlos S. A. Segreti”», nn. 2-3, 2003,
pp. 263-283.
53 «Siamo arrivati alla conclusione che l’“irrazionalità” delle classi medie europee è stata
senza dubbio maggiore che quella delle classi popolari in Argentina», Germani, Política y
sociedad en una época de transición, cit., p. 344.
51
30
Gino Germani e la questione razziale
però questa è, nei lavori di Germani, attravesata da una prospettiva nettamente sociologica sui modi in cui le sindromi autoritarie si coniugano in
certe ‘classi’. Precisamente, in virtù di queste variabili, i paragoni tra le diverse forme di autoritarismo sembrano diventare più complesse e dare luogo a
una serie di argomenti in cui la ‘sostituzione’ occupa un posto centrale, che
minacciano di corrodere le fondamenta stesse di quel paragone.
3. Etnocentrismo e classi medie argentine: un punto cieco?
Germani è stato associato al mito del «melting pot» 54 e in base a buone
ragioni. In diversi testi ha sottolineato che il processo di integrazione
dell’alluvione migratoria europea tra la fine del XIX secolo e l’inizio del
XX aveva dato come risultato un nuovo tipo sociale, prodotto dal sincretismo, e dalla virtuale sparizione (almeno nelle regioni centrali) del
‘tipo nativo’. Questo processo contrastava con altri, in particolare con la
segregazione ecologica delle città negli USA. In Argentina mancavano o
erano molto deboli «gli effetti di atteggiamenti discriminatori, differenze
di prestigio e tensioni ostili tra i diversi gruppi etnici e con la popolazione
nativa in generale» 55. Nei contesti urbani «certi tipi di abitazioni – per
esempio il ‘conventillo’» 56 aveva esercitato «una funzione integratrice delle
diverse nazionalità» 57. Addirittura le associazioni di volontari di origine
nazionale o regionale, invece di segregare, erano servite come veicolo per
questa integrazione. Così, a differenza di quello che denunciava buona
parte della sociologia di Chicago, il pluralismo di queste istituzioni
non aveva impedito l’«esercizio adeguato di ruoli di carattere universale
dentro la struttura globale»; queste avevano favorito l’assimilazione alla
nuova società nazionale in un ambiente «libero da tensioni e antagonismi
etnici» 58. D’altra parte, i valori di quelle organizzazioni, e di buona parte
dei nuovi settori popolari, coincidevano con quelli «che avevano orientato
54
F. Devoto, H. Otero, Veinte años después. Una lectura sobre el Crisol de Razas, el
Pluralismo Cultural y la Historia Nacional en la historiografía argentina, in «Estudios
migratorios latinoamericanos», n. 50, 2003, pp. 183 ss.
55
Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit. p. 292.
56
I conventillo erano case grandi, situate soprattutto nel Sud della città di Buenos Aires,
le cui stanze venivano subaffittate, di solito a immigrati. In ogni stanza poteva arrivare a
vivere una famiglia completa. Queste abitazioni si caratterizzavano per la poca privacy e
preoccupavano i medici sociali dell’epoca, per la trasmissione di epidemie e per la promiscuità morale.
57
Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 292.
58
Ibid.
31
A. Grondona
il compito dell’organizzazione nazionale; e questa coincidenza, nei principi
democratici, liberali o progressisti» 59.
Ora bene, in altri passaggi, Germani si riferiva ad aspetti più oscuri
del progetto liberale della generazione del 1837 e il suo impulso verso la
politica migratoria:
«L’intenzione per molti è stata quella di modificare il “carattere nazionale” del popolo argentino in modo da adeguarlo alla realizzazione
dell’ideale politico a cui aspiravano quelle élite dell’“organizzazione
nazionale”: uno stato nazionale moderno, secondo il modelo offerto
da alcuni paesi europei e soprattutto dagli Stati Uniti. Era necessario
“europeizzare” la popolazione argentina, produrre una “rigenerazione
di razze”, secondo l’espressione di Sarmiento. L’istruzione stessa – l’altro poderoso mezzo di trasformazione – aveva un limite insuperabile
nelle caratteristiche psicosociali della popolazione esistente: non meno
necessario era portare fisicamente l’Europa in America se si desiderava
una trasformazione radicale della società e degli uomini»60.
Osservato dalla prospettiva della prima parte di questo articolo, risulta
indubbio che quello che mettevano in gioco quelle élites era una forma
(più o meno raffinata) di «psicologia razziale»: il modo di intervenire sul
carattere di una nazione si dava attraverso la riconfigurazione della sua
popolazione. Il determinismo ‘biologicista’ e razzialista/razzista viene alla
luce. Fino al punto che Germani gli recrimina di aver confuso la transizione da una struttura a un’altra con un cambiamento razziale 61. Infatti,
nel frammento citato osserviamo tracce testuali che mostrano che il
sociologo manteneva una relazione ambigua con quelle posizioni. Le virgolette (“carattere nazionale”, “organizzazione nazionale”, “europeizzare”,
“rigenerazione di razze”), per esempio, segnano una distanza enunciativa
con certe formulazioni; indicano l’apparizione di altre voci con cui la voce
principale del testo non si confonde 62. Nonostante questo, in altri passaggi
59
Ivi, p. 289, sottolineatura aggiunta.
Ivi, p. 242, sottolineatura aggiunta.
61
«Abbiamo già visto quello che è successo con l’immigrazione. Riassumendo quanto
abbiamo detto: il suo proposito era doppio, in primo luogo ‘popolare il deserto’, secondo
una frase famosa. In secondo luogo, trasformare il carattere sociale della popolazione, per
darle quei tratti che si consideravano necessari allo sviluppo di una nazione moderna. Si
trattava, in fondo, di sostituire il tipo sociale “tradizionale” con un tipo più adeguato a
una struttura industriale moderna. In quell’epoca questa trasformazione era percepita
come un cambio ‘razziale’ e non come l’effetto della transizione da una struttura sociale
a un’altra», Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 311.
62
Seguiamo su questo punto due lavori: J. Authier, Palabras mantenidas a distancia, in B.
60
32
Gino Germani e la questione razziale
questa distinzione si fa meno nitida
«Per queste [élites] non si trattava solo di organizzare uno Stato nazionale moderno fondato su un ordinamento democratico rappresentativo, ma che tale democrazia fosse concepita – esplicitamente o
implicitamente – come l’espressione di una volontà politica limitata
ai ceti “colti e responsabili” della società, cioè, a quella stessa classe
media nascente e alla borghesia che si erano fatte carico dell’iniziativa rivoluzionaria. Per i ceti popolari, al contrario, non si sarebbe
potuto parlare in nessun modo di un’ideologia democratica, ma di
sentimenti democratici, sentimenti che cercavano la loro espressione
in forme anche concrete e immediate (come succedeva con i loro
sentimenti di nazionalità), e che si sono esteriorizzati, alla fine, con
l’adesione a caudillo locali, di tipo autoritario, e che erano portatori degli stessi tratti psicologici e sociali che caratterizzavano i suoi
sostenitori» 63.
Mentre nella prima frase si segna una distanza con la auto-percezione
delle élites come strati «colti e responsabili» 64, la caratterizzazione dei settori popolari, in cui risuona la voce che più sopra si attribuiva a quelle
stesse élites, viene da Germani. È particolarmente significativa la coincidenza nella caratterizzazione dei tratti intellettuali e psicologici dei settori
popolari, la stessa che aveva sostenuto il programma di riforma razziale.
Precisamente, lo stesso Germani in Estructura social de la Argentina aveva
stabilito che anche se quelle differenze intellettuali e psicologiche esistevano, queste non rispondevano a caratteri ereditati o genetici, ma alle
determinazioni ambientali 65.
Conein et al. (a cura di), Matérialités discursives, Presses universitaires de Lille, Lille 2003
e J. Authier, Hétérogénéité(s) énonciative(s), in «Langages», n. 73, 1984, pp. 98-111.
63 Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 241, sottolineatura
aggiunta.
64 Qui un passaggio in cui Germani segnala, in modo critico, le contraddizioni delle élites:
«I) L’educazione; II) l’immigrazione straniera, e III) lo sviluppo economico. In questi tre
punti si può riassumere il piano della chiamata “generazione del 1837”, dei Sarmiento, gli
Alberdi, gli Echeverría e altri che lo hanno formato e, in parte, lo hanno portato a compimento, dal momento in cui hanno esercitato il potere nel paese. Però l’azione dei gruppi
dirigenti nella realizzazione di questo programma non è stata meno contraddittoria di
quello che erano state le élites rivoluzionarie di Mayo: ai debe ricordare che si trattava,
alla fine, di quella che più tardi sarebbe stata chiamata “la oligarchia”, una borghesia
latifondista, anche se di ispirazione liberale e sinceramente preoccupata per trasformare
l’Argentina in uno Stato moderno. La sua posizione nella struttura sociale doveva costituire
senza dubbio la principale fonte di contraddizioni nella sua azione riformatrice» Germani,
Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 310.
65
Germani, Estructura social de la Argentina. Análisis estadístico, cit, p. 239.
33
A. Grondona
In qualsiasi caso, l’ipotesi del melting pot convive con segnalazioni
in cui si prende nota delle inquietudini razziali/razziste delle élites liberali della generazione del 1837. Nonostante ciò, queste non allarmano
Germani che, a tratti, sembrerebbe accettare alcuni dei loro enunciati,
anche se relativizzandoli sempre. Bisogna domandarsi, quindi, le ragioni
di questo paradossale posizionamento. Da una parte, ci sono elementi che
permettono di supporre che l’inquietudine razziale del progetto liberale si
dissolveva, nell’analisi del sociologo, in un certo clima generale dell’epoca,
in virtù di «idee, molto diffuse in quel momento, rispetto al ruolo dei fattori razziali nel carattere nazionale» 66. Così la contestualizzazione di quelle
espressioni finiva per sottovalutare il loro tono razzista; come se si trattasse
di cose che ‘si pensavano’, però che non andavano necessariamente associate
a pratiche concrete.
Un altro elemento che, ci sembra di capire, opera nella sottovalutazione,
da parte di Germani, delle posizioni razziste/razzialiste delle élites di fine
’800 è che l’autore non prendeva nella dovuta considerazione l’esistenza di
differenze etniche ‘oggettive’ tra gli abitanti dell’Argentina. Su questo punto,
l’analisi del sociologo dell’interpellazione/ingiuria ai ‘cabecitas negras’67 in
relazione al fenomeno del peronismo è significativa. Vediamo.
In un passaggio di Política y sociedad en una época en transición
Germani affermava, spiegando i modi di delimitazione di un «gruppo
sociale», che «una categoria definita in base a criteri etnici», poteva constituire un gruppo sociale laddove l’appartenenza etnica fosse rilevante
(per il comportamento o la percezione del gruppo) però che poteva anche
costituire una categoria senza effetti osservabili. Chiariva, nonostante
questo, che determinati processi potevano «trasformare in ‘gruppo’ quello
che prima era una categoria» 68. In un’estesa nota a piè di pagina questa
questione veniva approfondita
«Un nero, un ebreo, un italiano, non sono tali per il colore della loro
pelle, o per la maniera di parlare, ma lo sono sociologicamente 69, in
66
Id., Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 242, sottolineatura aggiunta.
L’espressione ‘cabecita negra’, che apparentemente, è cominciata a circolare in Argentina
nel decennio del 1940 allude al colore della pelle degli immigrati del Nord del paese verso
la zona del litorale. Questa espressione è stata ripresa come rivendicazione dal peronismo e
usata in maniera dispregiativa degli antiperonisti, per riferirsi alle masse che erano confluite
nel movimento nazionale e popolare.
68
Questa e tutte le citazioni testuali del paragrafo sono tratte da Germani, Política y
sociedad en una época de transición, cit., p. 44.
69
Risuona in questa affermazione la prima dichiarazione dell’Unesco, che, ispirata da
Ashley Montagu, arrivava ad affermare che la razza era un mito.
67
34
Gino Germani e la questione razziale
quanto li si percepisce come diversi e in quanto questa percezione
influenza in qualche modo il comportamento, le aspettative reciproche e la maniera di dargli valore. In alcuni paesi la differenziazione etnica assume una grande importanza, mentre in altri possono
essere sociologicamente omogenei (qualunque sia la composizione
etnica). Inoltre la situazione può variare nel corto e nel lungo termine. Per esempio, le grandi migrazioni interne sud-nord in Italia, ed
entroterra-Buenos Aires in Argentina, hanno dato luogo a una certa
visibilità o percezione differenziale di gruppi originari di differenti regioni (i “terroni” in Italia, i “cabecita negra” in Argentina). Questo fenomeno in Argentina sembra essere stato di breve durata, e solo come
risposta all’impatto dell’immigrazione massiva dall’entroterra» 70.
Germani prende nota della demarcazione etnica del ‘cabecita negra’
come una differenza sociale intellegibile, però non le dà importanza. In
lavori posteriori questo tema assume maggiore ampiezza. Così, in un testo
del 1978 (1975 nella versione italiana) sul problema dell’autoritarismo,
del fascismo e del populismo, il sociologo si mostra più incline ad analizzare la complessità che porta quello stereotipo e la sua sinonimia con
‘peronista’. Riconosce, dunque, che anche se era distorto, come tutti gli
stereotipi, «aveva una base di realtà» ed era accettato tanto dagli operai
quanto dalla classe media, da peronisti e antiperonisti, anche se in sensi e
«reazioni emotive opposte». Mentre per i «nazionalisti di destra e parte dei
peronisti» rappresentava un «ritorno all’Argentina autentica» e il «trionfo
su Buenos Aires e il Litorale, stranieri e cosmopoliti», per i liberali «del
vecchio stile» rappresentava un ritorno alla «‘barbarie’, che si supponeva
cancellata dall’immigrazione europea». Secondo quanto analizza l’autore,
«in un paese notevolmente libero da pregiudizi etnici, lo stereotipo ha acquisito peso emotivo a causa del suo significato politico e ideologico», anche se
era sparito nella fase postperonista in virtù dell’estensione del peronismo
negli ceti medi e «i cambiamenti culturali nella società» 71.
Anche se, nuovamente, Germani sottovalutava la persistenza dello
stereotipo etnico-razziale, questa volta riconosceva che aveva rafforzato
gli «effetti traumatici dello spostamento strutturale e la crisi che significò
la ammissione nella società nazionale di un settore, fino allora, marginale» 72.
Questo elemento marginale era quel ‘tipo nativo’ che era scomparso dalle
70
Germani, Política y sociedad en una época de transición, cit., p. 44, sottolineatura
aggiunta.
71 Questa e tutte le citazioni testuali del paragrafo sono tratte da Germani, Autoritarismo,
fascismo y populismo nacional, cit., p. 193.
72 Ibid.
35
A. Grondona
città con le ondate migratorie europee e che adesso si dirigeva a loro. Così,
in un enunciato peculiare, si sostiene che
«La cultura argentina è stata modificata dall’incorporazione della società creola, e i nuovi arrivati sono stati assorbiti subito nella “crogiolo” della cultura nazionale. Anche la loro differente cultura politica
si è fusa ed è stata assorbita, però ha lasciato un segno duratura nella
vita politica del paese. La sua espressione è stata il peronismo e la sua
successiva evoluzione» 73.
L’affermazione secondo la quale la società creola ha un impatto sulla
cultura argentina/nazionale/del paese suona strana. Nel paragrafo anteriore
‘creolo’ si differenzia da ‘nazionale’. A partire da quello estraniamento ci
domandiamo a che ‘cultura argentina’ si riferiva Germani. Per rispondere
a questa domanda senza ricadere nella logica dell’interpretazione, possiamo
domandarci per quali elementi potrebbe sostituirsi ‘cultura argentina’ e per
quali no. Sembra sensato postulare che ‘cultura argentina’ equivalga qui a
‘cultura moderna urbana’, a Buenos Aires e al Litorale. Così come vedremo
nella prossima parte, in altri testi ‘germaniani’, centrali per la delimitazione
della questione razziale, questo punto di vista sarà radicalmente messo in
discussione.
In un altro passaggio del libro del 1978, Germani riprendeva la questione dei ‘cabecita negra’ nella cornice di un paragone tra il fascismo
italiano e l’esperienza populista. Anche se sottolineava le distanze tra le
due configurazioni, in questa circostanza il sociologo si mostrava disposto a riconoscere che «l’Argentina non era del tutto libera da elementi di
risentimento in una serie di circoli della classe media» 74; questi settori si
mostravano a disagio con «l’‘invasione’ di ‘cabecita negra’» nel centro e nei
luoghi ricreativi, e in generale, nelle pratiche di consumo della piccola
borghesia» 75. Precisamente nello sviluppo di questo argomento colloca un
elemento molto fecondo per la nostra analisi:
«Però il loro risentimento di classe poteva occultarsi dietro la differenza tra il proletariato reale e il sottoproletariato in modo tale che la
tradizione democratica e vagamente di sinistra che, in generale, predominava in quei circoli sarebbe in qualche modo stata preservata.
Anche se questo elemento era quantitativamente limitato, possiamo
immaginare che può aver influito in maniera indiretta nel tipo di
73
Ibid., sottolineatura aggiunta.
Ivi, p. 249.
75
Ibid.; da notare, nuovamente, l’uso delle virgolette.
74
36
Gino Germani e la questione razziale
alleanza che la dirigenza dei partiti di classe media hanno accettato
nella lotta contro il peronismo» 76.
Si tratta di un passaggio molto succulento. Da una parte, il risentimento delle classi medie argentine (e non più italiane) è accettato come
un dato. Dall’altro, in questa parte l’operazione che ‘presenta una cosa
per l’altra’ non viene più dai fascismi europei (come abbiamo visto precedentemente), ma dai settori medi argentini, che per ‘preservare’ la loro
tradizione democratica e ‘vagamente’ di sinistra facevano passare il loro
pregiudizio di classe per una distinzione tra il proletariato reale (e morale)
e il sottoproletariato. È possibile analizzare alcuni passaggi del libro del
1962 a partire da questa ipotesi?
Da quanto analizzato in questa parte, abbiamo compreso che nei
testi di Germani, o almeno in alcuni passaggi, operava una certa ‘cecità’
per quanto riguarda il razzismo dei settori medi e alti in Argentina. In
indagini posteriori ci interesserà lavorare su diverse congetture rispetto a
questa miopia. A ogni modo, ci interessa anche sottolineare che abbiamo
trovato (ed esposto) tracce di un’‘altra’ prospettiva più disposta a considerare i pregiudizi di queste classi. Ciò sembra coincidere con una riformulazione parziale delle cornici del paragone tra le forme dell’autoritarismo
in Europa e in Argentina di fronte all’emergenza, dalla metà degli anni
Sessanta, di regimi autoritari di natura ‘anti’-populista nella regione e al
ruolo che in questo hanno avuto le classi medie 77. I testi che si riferivano
a quella congiuntura lasciavano intravvedere una certa delusione verso
questi settori, anche se abbastanza parziale e sfumata nel caso particolare
delle classi medie argentine, che vengono assolte fino alla fine:
«Esiste una relazione inversa tra il ruolo delle classi medie organizzate e il ruolo dei militari […] Questo vale per la Germania e per
l’Italia, dove la partecipazione militare è stata “mascherata” o indiretta; per la Spagna e per il Cile, dove è stata manifesta e decisiva; e
76
Ibid., sottolineatura aggiunta.
Così: «La posizione delle classi medie nei paesi più avanzati della ragione si avvicina
ora a una condizione simile a quella delle loro controparti europee durante la prima metà di
questo secolo. La posizione ambigua di questi ceti – catturati tra la forza cresciente delle
classi basse organizzate e della borghesia monopolista nazionale e straniera – produce
ambivalenza, contraddizioni e frammentazione. In alcuni paesi il golpe militare, come
un sostituto funzionale del fascismo, è appoggiato dalle classi medie, anche se raramente
raggiunge la condizione intensa della mobilitazione secondaria che fornisce le basi sociali
del fascismo classico», ivi, p. 64, sottolineatura aggiunta.
77
37
A. Grondona
per il Brasile (1964), l’Uruguay (1966) e l’Argentina (1976), dove
è stata l’unico agente visibile. In modo simile, le classi medie hanno
appoggiato dovunque i regimi fascisti o di tipo fascista, però il grado
del loro intervento è variato in maniera inversamente proporzionale
al ruolo dei militari: è stato centrale in Germania e in Italia; complementare in Spagna e un po’ meno in Cile; e più passivo in Brasile,
Uruguay e in Argentina in questo ordine» 78.
La relazione di Germani con le classi medie argentine (come oggetto
e come posizione di enunciazione) potrebbe essere oggetto di indagini
più amplie. In ogni caso, questa sembra aver operato fortemente nell’analisi della questione etnica nei populismi latinoamericani, in particolare
nell’argentino e nei suoi ‘cabecita negra’, come nel progetto liberale dell’oligarchia illuminata all’inizio del XX secolo. In entrambi i casi, c’è una
disputa (silenziata) per la definizione del nazionale, il suo legame con ‘il
creolo’, ‘l’urbano’, ‘il moderno’, ‘il litorale’, che abbiamo segnalato più su.
Ora bene, come analizzeremo nella prossima parte, la problematizzazione
della marginalità ha portato Gino Germani a una ridefinizione radicale di
queste questioni.
4. Marginalità e gruppi etnici. Le trappole del “pluralismo”
Come svilupperemo in questa parte, le riflessioni sulla marginalità,
durante gli anni Settanta, sono state un altro degli ambiti in cui ha lavorato sulla questione razziale. Sicuramente, già nelle indagini precedenti di
Germani sulle classi sociali questa questione era apparsa, anche se in modo
tangenziale e inesplorato.
In un altro lavoro abbiamo affrontato in maniera più estesa la prospettiva del sociologo sulla marginalità 79. In questo articolo ci interessa
sottolineare che nella cornice di questa problematizzazione si intrecciano
molto strettamente classe ed etnia. Così, in uno dei primi paragrafi di un
testo pubblicato nel 1979, titolato La marginalità come esclusione dai diritti, prende nota del fatto che «la selezione dei marginali era fatta in termini
etnici, visto che si riscontrava soprattutto nei paesi con forti discriminazioni tra i cosiddetti indigeni e non indigeni» 80. Nuovamente, in linea con
78
Ivi, p. 100, sottolineatura aggiunta.
A. Grondona, Gino Germani: tra narrativa della transizione e critica alla modernità, in
«Rivista di Politica», 3, 2016, pp. 83-93.
80
G. Germani, La marginalità come esclusione dai diritti, in A. Bianchi, F. Granato, D.
Zingarelli (a cura di), Marginalità e lotte dei marginali, FrancoAngeli, Milano 1979, p. 23,
79
38
Gino Germani e la questione razziale
quello che abbiamo visto nella parte precedente, l’Argentina sembrava
essere esente da questa discriminazione, visto che lì le «differenze etniche
sono dubbie per l’omogeneità somatica della popolazione» e che l’«oggetto
dell’emarginazione erano gli emigrati dalla campagna verso la città o, ad
esempio, nel caso dell’Argentina, dal Nord verso il Sud» 81. Ci interessa
anche sottolineare che nella delimitazione del fascio di interrogativi associati alla marginalità Germani torna sulla questione della società moderna
e della società nazionale, però in una chiava singolare, molto lontana dal
mito di W.W. Rostow sul ‘decollo’ con cui, anche se sempre in un modo
ambiguo, Germani aveva flirtato. Così in un lavoro del 1973 sosteneva:
«Il ruolo della differenziazione culturale all’interno della nazione e
della coesistenza di gruppi etnici diversi, nella genesi e nel mantenimento di situazioni di marginalità, è stato sottolineato da molti osservatori dentro e fuori l’America latina. Non si tratta secondo queste
concezione di un mero “pluralismo”, per cui popolazioni differenti
culturalmente vivono su un piano formale e sostanziale egualitario,
ma come spiega uno dei gruppi di studiosi latino-americani che più
hanno insistito sulla centralità di questo fattore, di una “sovrapposizione culturale”. La radice storica della marginalità nel continente,
senza dimenticare gli altri fattori di ordine politico, economico e sociale, risiederebbe nella dominazione di un gruppo culturale (una minoranza europea ed europeizzata) sulla grande maggioranza, formata,
in molti paesi, da popolazioni autoctone»82.
Nonostante la critica alle prospettive che facevano di questa dimensione un fattore esplicativo ‘escludente’ della marginalità in America Latina,
Germani gli ha attribuito un ruolo centrale nella sua concettualizzazione.
Per quello, ha controllato le ipotesi di autori che non aveva considerato
in lavori precedenti 83. Il sociologo ha ripreso, per esempio, il concetto di
colonialismo ‘interno’ di Pablo Casanova. Addirittura, la principale critica
che ha mosso a questa prospettiva, invece di minimizzare la questione
etnica e il suo legame con il problema della marginalità, la enfatizzativa.
sottolineatura aggiunta.
81
Ibid., sottolineatura aggiunta.
82
G. Germani, Aspetti teorici e radici storiche del concetto di marginalità con particolare
riguardo all’America Latina, in G. Turanturi (cura di), Marginalitá e classi sociale, Savelli,
Roma 1976, pp. 40-41, sottolineatura aggiunta.
83
Sia la versione italiana come la spagnola del suo libro sulla marginalità (1972 e 1973,
rispettivamente) si osserva una singolare attenzione al dibattito sulla marginalità. Per
quello, ripassa i lavori fondamentali di Aníbal Quijano, Rodolfo Stavenhagen, José Nun,
Roger Vekemans, Pablo Casanova, tra gli altri.
39
A. Grondona
Così, Germani si mostrava in disaccordo con quelli che preferivano analizzare il fenomeno ‘al di là’ delle stratificazioni sociali e delle delimitazioni di
diverse classi. Al contrario, il problema doveva essere preso come un invito
a ripensare le molteplici dimensioni della stratificazione. Anche se il settore marginale non avesse costituito propriamente una classe, doveva essere
definito a partire dalla sua posizione in relazione a molteplici dimensioni e,
nel caso di paesi con minoranze etniche o nazionali discriminate si poteva,
addirittura, parlare di ‘etnoclasse’ 84. Dall’altra parte, Germani riprendeva
anche la proposta d’analisi della stratificazione sociale in America Latina
sviluppata da Carlos Delgado per analizzare il caso del Perù. In questa, le
posizioni erano definite dall’articolazione della variabile strutturale e da
quella culturale. A partire da ciò, si riconoscevano settori assolutamente
emarginati che, praticamente, non appartenevano alla società nazionale
(come nel caso di certe tribù isolate), settori marginali rurali e «indigeni»,
settori intermedi che abitavano il mondo urbano («meticci») e settori di
potere o «bianchi» 85.
Un altro degli elementi costitutivi del problema della marginalità era,
dalla prospettiva dell’autore, la consolidazione di uno spazio ‘nazionale’ integrato. Infatti, il primo gruppo di condizioni per l’emergenza di questa problematica era stata la configurazione della cittadinanza come orizzonte politico e la sua progressione verso nuove sfere. Era ‘di fronte’ alla cittadinzanza
che si delimitava la figura della marginalità ed era lo spazio della ‘nazione’
quello in cui la cittadinanza si inscriveva e dal quale certi gruppi sono rimasti esclusi 86. Il dramma delle due nazioni che denunciava Benjamin Disraeli
era un ‘problema’ solo se si presupponeva (normativamente) la necessità di
‘una’ nazione integrata87.
La questione dell’alterità 88 e di unità culturale e nazionale, a cui abbiamo fatto allusione, analizzando i modi in cui Germani studiava lo stereotipo del ‘cabecita negra’, appare illuminata qui da un altro angolo; dal quale
84
Germani non specifica dove prende questa nozione, anche se in una nota aggiunge che
Rodolfo Stavenhagen utilizzava un concetto molto simile.
85
G. Germani, El concepto de marginalidad, Nueva Visión, Buenos Aires 1980, pp. 67-69.
86
Secondo quanto spiega il nostro autore: «Perché il settore escluso fosse percepito come
tale – e quindi fosse considerato “marginale” – era necessario anche che il concetto di
nazione arrivasse effettivamente (e non solo formalmente) ad ampliarsi fino a includere
la totalità della popolazione», ivi, p. 37.
87
Ivi, p. 38.
88
L’antropologia sociale torna a essere impostante per Germani, in questo caso perché i
suoi studi ci avevano avvicinato a sperimentare e pensare l’alterità culturale e, a partire
da quelle esperienze, poter riconoscere le differenze culturali all’interno di ognuno degli
spazi nazionali.
40
Gino Germani e la questione razziale
l’integrazione e l’assimilazione smettono di essere semplicemente un processo di omogeneizzazione e dal quale comincia a delimitarsi in un modo
più chiaro il problema delle ‘gerarchie’. Sotto questa luce immaginiamo
che lo stesso Germani avrebbe altre cose da dire rispetto alla relazione tra
‘cultura nazionale’ e ‘società creola’.
In questa stessa linea, la seconda condizione per l’emergenza della
marginalità come problema era che questa costruzione normativa della
cittadinanza e della nazione convivessero con una ‘disparità’ di fatto.
Ciò supporrebbe la «coesistenza di settori di popolazione culturalmente
diversi che vivono dentro una stessa nazione, città o territorio» 89. Questa
coesistenza che poteva avere diverse origini (conquista, importazione di
schiavi, migrazioni volontarie, ecc.) implicava relazioni di ‘diseguaglianza’
tra gruppi. Vediamo emergere qui la figura di una società costitutivamente conflittuale che si contrappone all’immagine del ‘punto d’arrivo’ della
società-moderna-integrata che ci prometteva l’‘assimilazione’. Infine, la
terza condizione per l’emergenza della marginalità come problema era la
generalizzazione dell’‘ideologia della modernità’ o ‘ideologia dello sviluppo’.
Come si può osservare, nello schema che propone Germani, la marginalità opera in un modo ‘contrastante’ come elemento ‘escluso’ che,
giustamente, mediante la sua posizione esterna (negativa) definisce quello
di cui non è parte: la nazione e la modernità. Così:
«L’origine storica della “modernità” fa diventare inevitabilmente
ambigue le caratteristiche ‘moderne’. Infatti, siccome il complesso
urbano-industriale è sorto dentro la cultura occidentale e si è imposto nel resto del mondo attraverso il potere e l’espansione culturale,
economica, politica e militare appartenente a quell’ambito storico,
moderno ha cominciato a essere sinonimo di europeo o occidentale […]
[L]a nascita o l’intensificazione della coscienza nazionale in tutti
i paesi in via di sviluppo – particolarmente in America Latina –
stimola sempre di più l’affermazione delle caratteristiche culturali
nazionali, e la resistenza ad accettare modelli esterni. Il problema di
questi paesi è costruire il proprio modello di “modernità”, in modo
da non tradire la loro eredità culturale» 90.
Risulta particolarmente interessante che Germani assegni all’America
Latina una «doppia origine, europea da una parte e autoctono (o africano)
dall’altro» 91. In questo senso, esiste una doppia tradizione messa in moto
89
Germani, El concepto de marginalidad, cit, p. 39.
Ivi, p. 80, sottolineatura aggiunta.
91
Ivi, p. 81.
90
41
A. Grondona
per definire «il nazionale» in cui l’europeo «si è imposto materialmente»
sull’autoctono o sull’africano, «dalla Conquista e l’epoca coloniale, prolungandosi in vari modi fino ai giorni nostri»; quella cultura dominante
era legata contemporaneamente ai settori alti e medi urbani. Di fronte a
questa cultura legittima si produceva allo stesso tempo «la marginalità dei
‘tradizionali’ rispetto ai parametri ‘moderni’, e la marginalità delle culture
dominate rispetto alla cultura dominante». A partire da questa configurazione della dominazione culturale, il recupero dei valori autoctoni e l’affermazione dell’individualità culturale della nazione (della società creola,
nei termini della parte precedente) ricorrerebbe a componenti «preservati
nei settori popolari» 92. Quella preservazione, sfruttata da alcune élites
intellettuali e politiche locali, era il sintomo di un’‘iscrizione diseguale’
nella società nazionale che
«si riflette inevitabilmente nello schema normativo che i ceti medi e
alti (e anche i settori operai pienamente incorporati) applicano di
fatto al giudicare la viabilità della partecipazione delle sottoculture
dominate o di meno potere nella società nazionale e di “funzionamento” nelle strutture moderne. Da qui che il “pluralismo culturale” è discriminatorio (invece di egualitario) rispetto ai settori meno
potenti» 93.
In questa nuova problematizzazione, in cui Germani colloca la questione della diseguaglianza in un posto centrale, la questione etnica mostra
che le società nazionali e moderne sono attraversate da una frattura. Non
sono né possono essere piene né omogenee, e nemmeno possono diluire
il conflitto della propria eterogeneità costitutiva nella celebrazione del
pluralismo.
Ora bene, questo secondo sguardo di Germani sul problema della
modernità e sulla costituzione di società nazionali non si limita alla
descrizione delle sempre eccezionali condizioni di una periferia che ‘arriva
tardi’ e che è, proprio per questo, sottomessa ai paradossi dell’asincronia.
Invertendo il regime di prospettive che caratterizza buona parte della
teorie della modernizzazione, Germani costruisce un avvertimento che
interpella anche i paesi centrali (de te fabula narratur!). La marginalità non
è un problema meramente latinoamericano e nemmeno esclusivamente
dei paesi sottosviluppati. Anche se Germani è disposto a concedere alcune
92
Questo e tutti riferimenti testuali del paragrafo corrispondono a Germani, El concepto
de marginalidad, cit., p. 81.
93
Ibid.
42
Gino Germani e la questione razziale
caratteristiche specifiche, come l’intensità quantitativa del fenomeno 94, si
tratta di un problema più generale e particolarmente acuto nel neocapitalismo. Anzi: la marginalità e le contraddizioni che comportava (quelle
di una società che normativamente promette spazio per tutti, però che
risulta escludente nelle sue diverse sfere) non solo rispondeva al ‘sistema
economico-sociale basico’ dei paesi capitalisti ma si constatava anche nei
socialisti. Non si trattava nemmeno di un problema che aveva interessato
i paesi centrali nel passato – argomento che avrebbe rafforzato la narrativa
della transizione –, ma una realtà ‘persistente’ in molti di loro. Era, quindi,
un problema ‘associato alla modernità’. Tale argomento si esprime ancora
più chiaramente quando, nel 1979, l’autore preferisce parlare di ‘marginalizzazione’, un ‘processo’, che possiamo pensare come l’altro lato della
‘modernizzazione’.
In particolare, Germani si riferisce al problema negli USA. Oltre a
esporre alcune cifre ‘impressionanti’, segnala che l’articolazione di fenomeni era simile al caso dell’America Latina, visto che venivano associate
insufficienze del mercato del lavoro (la ‘disoccupazione’) e «la discriminazione razziale, soprattutto contro i negri, i portoricani e altre minoranze
etniche in proporzione molto più alta che per il resto della popolazione
del settore ‘periferico’» 95. Ora bene, negli USA, non solo si presentava una
coincidenza nell’associazione delle due questioni, ma questa era lì addiritttura
più ‘intensa’96.
94
Germani tenta di spiegare questa singolarità: «Le cause di questa intensità erano legate
alla crescita demografica senza la valvola di sfogo delle migrazioni di massa come quelle
del XIX secolo. Inoltre, l’importazione di tecnologia dai paesi centrali, risponde a necessità di produttività e di insificazione dell’uso di capitale, cosa che non si combina bene con
la necessità di assorbire più manodopera. Alla fine e in relazione a quest’ultimo punto,
la questione della dipendenza e il modo di inserimento dei paesi sottosviluppati nella
divisione internazionale del lavoro erano fattori chiave per spiegare le singolarità della
marginalità in questi contesti», ivi, pp. 54-55.
95
Germani, Aspetti teorici e radici storiche del concetto di marginalità con particolare riguardo
all’America Latina, cit., p. 40, sottolineatura aggiunta.
96
«Il sistema di dominazione di classe, che, in molti paesi dell’America Latina si fonde
con le discriminazioni di tipo etnico-culturale, le quali, anche quando non acquisiscono il
carattere più nettamente razziale che si osserva per esempio negli Stati Uniti, e si appoggiano
specialmente su differenza culturali piuttosto che su differenze somatiche, generano alla
fine forme simili di marginalità che coincidono in parte con l’ordine etnico», Id., El
concepto de marginalidad, cit., pp. 26-27, sottolineatura aggiunta. Germani paragonava
il sistema ‘nettamente razziale’ di dominazione di classe negli Stati Uniti con quello
del Sudafrica e della Rodesia, in Id., Marginality in Latin America. On Some theoretical
Aspects, documento del Archivo Gino Germani, 1970.
43
A. Grondona
In un senso opposto a quello della citazione con la quale abbiamo
cominciato l’introduzione di questo articolo, la questione razziale non
operava, nella sua articolazione con il problema della marginalità, a partire
da un imperativo di omogeneizzazione culturale, ma a partire da una tendenza immanente delle società moderne a produrre strutture eterogenee/
duali in cui le diseguaglianze si sovrapponevano alle differenze etniche.
Una sorte di razzializzazione della diseguaglianza sociale che riceve, inoltre, come risposta e resistenza una rivalorizzazione dei fattori culturali
associati a questi gruppi etnici. Le tensioni messe in moto da questa struttura
non potevano essere gestite mediante il mero ‘pluralismo’ culturale.
5. Riflessoni finali. Univarsalità, differenza ed esclusione
«Deutsch si riferisce alla mobilitazione come a un processo attraverso il quale le componenti principali di lealtà e modelli di comportamento preesistenti sono distrutte nell’ordine sociale, psicosociale
e politico e la popolazione si rende disponibile con l’accettazione
di nuove forme di comportamento […] Questo punto di vista si
vincola direttamente con uno studio precedente, dello stesso autore,
dedicato all’assimilazione di minoranze etniche (di diverse culture e
differente lingua, soprattutto) all’interno della comunità nazionale,
nel quale distingue popolazione assimilata da popolazione non assimilata e i tassi di assimilazione e considera che il processo di mobilitazione verso il settore moderno comporta il conflitto, la differenziazione e l’integrazione secondo i casi, delle minoranze etniche.
[…] Questo esempio illustra la connessione della problematica della
modernizzazione con quello dell’assimilazione culturale e della integrazione nazionale, in relazione a problemi simili o molto vicini alla
marginalità come si conosce in America latina» 97.
Nella cornice del percorso proposto dall’articolo, questa ultima citazione di Germani acquisisce maggior spessore di quanto si potrebbe vedere
a prima vista. Legare la questione etnica a quella della ‘mobilitazione’ è un
gesto di enorme rilievo, in virtù del ruolo che questo concetto ha avuto
nella prospettiva del sociologo italo-argentino. Sembrerebbe addirittura un
cenno che ci conferma che questa preoccupazione è stata ‘da sempre’ nella
sua agenda. Però non è la storia di una permanenza invariante ciò che abbiamo cercato di formulare in questo lavoro. Al contrario, abbiamo visto che
97
Id., Aspetti teorici e radici storiche del concetto di marginalità con particolare riguardo
all’America Latina, cit., pp. 54-55.
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Gino Germani e la questione razziale
‘l’etnico/razziale’ si è articolato in modi diversi. Addirittura alcuni elementi, che appaiono regolarmente, cambiano senso e direzione. Questo è, per
esempio, il caso della ‘nazione’: un mito in nome del quale avanzano soluzioni autoritarie, mentre nel fascio di questioni su cui si è lavorato nella
terza sezione, è piuttosto un’unità impossibile e attraversata da tensioni.
Nella prima parte abbiamo lavorato sul modo in cui, a partire dalle
dispute con la «psicologia razziale», la sociologia di Gino Germani (e la sua
rivendicazione di scientificità) si inscriveva in un campo di lotte nel quale,
tra molte altre questioni, era in gioco la riappropriazione del dire scientifico legittimo da parte dell’antifascismo. Il dibattito sulle determinazioni
dell’ereditario e dell’ambientale hanno costituito una delle arene centrali di
quella disputa. Secondo quanto abbiamo visto, si giocava su quel terreno la
possibilità di fondare un’universalità solida ancorata in certe necessità comuni che delimitavano un’umanità plastica e sempre già-sociale. Precisamente
questa plasticità dava luogo alla spiegazione delle differenze tra popoli e
nazioni, a partire dalle singolarità di ogni cultura, prima delle invarianti
biologiche ereditate. Gli studi di cultura e personalità cercavano di rendere
conto di queste diverse psicologie collettive dei popoli. La questione delle
forme del carattere sociale o la personalità sociale basica sono state un modo
nel quale, molto rapidamente, le domande razziste/razzialiste sono state
sostituite da interrogativi che miravano a scandagliare le cause dei pregiudizi, degli atteggiamenti di discriminazione e sospetto nei confronti dei gruppi
etnici minoritari. In questo caso, l’etnocentrismo si mostrava come uno dei
tratti fatali della personalità autoritaria, quello in cui il gruppo primeggiava
sull’individuo e che finiva per accettare sostituti irrazionali di fronte alle
esperienze di paura e frustrazione della società di massa; in particolare per
quei gruppi il cui status era stato, improvvisamente, minacciato. Le forme
populiste dell’autoritarismo si mostravano, in questo punto, molto distanti
dai modelli europei, visto che in quelle non era in gioco un’immagine/
promessa di omogeneita nazionale o razziale e i miti convocati erano altri.
Come abbiamo segnalato nella terza parte, ciò che da un’ottica più
contemporanea potrebbe pensarsi come la razzializzazione delle relazioni
di classe presente nell’antiperonismo, e che era anche un elemento nel progetto oligarchico-liberale dei primi del secolo, arrivano a un punto cieco
nello sguardo di Germani. In questo senso, le ricerche sulla marginalità
sono risultate essere un terreno più fertile e un cammino nel quale il sociologo è avanzato con più forza. Comprendiamo che la possibilità di dare
questi passi è legata direttamente alla messa in discussione di una premessa
che aveva operato in buona parte dei testi precedenti: l’evidenza dell’‘integrazione sociale’. A questa questione vorremmo dedicare le parole finali.
45
A. Grondona
Anche se sempre con sfumature e chiarimenti, buona parte dei testi
germaniani (ri)producono una narrativa della transizione secondo la
quale le società, in particolare quelle periferiche, stavano soffrendo una
serie di paradossi e asincronie in quanto si trovavano, precisamente, tra
due modelli di società, senza aver completato interamente il transito.
L’‘integrazione’, una parola densa in senso sociologico e antropologico,
era la promessa del futuro, momento in cui il nuovo ordine si sarebbe
adeguato alla sua stessa logica in tutte le sue dimensioni (culturale, politica, popolazionale, ecc.). Secolarizzazione, democratizzazione, sviluppo e
urbanizzazione, sarebbero confluite, finalmente (!), in maniera armonica.
Buona parte delle riflessioni germaniane di metà e della fine degli anni
’70, sembrano meno fiduciose rispetto a quelle promesse; in particolare
per ciò che riguarda il processo di ‘democratizzazione’ delle società, un
punto fondamentale per il problema della marginalità, visto che questa si
delimita sullo sfondo della cittadinanza come invito universale. Nel suo
testamento teorico, Germani si mostra sommamente pessimista.
«Sfortunatamente l’analisi sviluppata finora non suggerisce conclusioni ottimistiche, né sopra il destino della democrazia, né sopra
quello della società moderna e del genere umano in generale. Questo scritto si colloca, senza volerlo, nella già abbondante letteratura della catastrofe […]. L’autore non ha rinunciato ai Valori della
società moderna, ma neppure alla logica e al senso della realtà. Le
scienze dell’uomo non sono in condizione ancora (e forse non lo saranno mai) di affermare se questi valori siano o no realizzabili […].
Sembra senza dubbio ragionevole supporre che le potenzialità umane sono molto maggiori e diverse di quelle finora realizzate dalla
cultura occidentale e dalle altre grandi culture. Però quello che si
deve affrontare ora non sono le limitazioni della “natura umana”
in generale, bensì quelle dell’uomo così come si è realizzato finora.
È questa particolare visione storica della realtà che deve essere affrontata. E le considerazioni precedenti suggeriscono una diagnosi
negativa. Forse mi sono sbagliato. O forse si troveranno soluzioni
non previste che l’immaginazione molto limitata dell’autore non ha
saputo intravedere» 98.
L’allusione alla ‘natura umana’ e alle ‘scienze dell’uomo’ ci rimanda
alle discussioni dell’Unesco del Secondo Dopoguerra, ma senza quell’ottimismo che alimentava l’antifascismo scientifico. Al di là della critica,
98
Id., Democrazia e autoritarismo nella società moderna, in R. Scartezzini, L. Germani, R.
Gritti (cura di), I limiti della democrazia: autoritarismo e democrazia nella società moderna,
Liguori, Napoli 1985, p. 217.
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Gino Germani e la questione razziale
profonda e malinconica, dell’Occidente e del suo fallimento, rimane
aperta la domanda su quel meccanismo che fonda il ‘sociale’. Vorremmo
suggerire (e si tratta di un suggerimento basato quasi su un’intuizione) che
Germani scorge che prima che per i propri meccanismi di integrazione, o
meglio, insieme a quelli come un’ineludibile altra faccia della stessa moneta, le società mettono in moto processi di marginalizzazione o, per dirlo nei
termini di uno dei suoi (inconfessati) discepoli, meccanismi di ‘esclusione’.
Accettare l’immanenza e l’irriducibilità di questi meccanismi avrebbe implicato abbandonare per sempre l’utopia liberale di una democratizzazione
progressiva verso la pace perpetua.
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