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Primo Piano
La riscossa dell’etica
di Paolo Pugni
È il tema più discusso degli ultimi anni in convegni
e tavole rotonde aziendali. Probabilmente anche il più evocato.
Specie in questi anni di crisi che, tutti dicono,
trova la sua radice nella cupidigia.
È anche l’argomento meno compreso e praticato nonostante molte aziende lo brandiscano come una bandiera
e si facciano scudo dietro di esso.
Stiamo parlando della business ethics, che a volte viene
impropriamente chiamata Responsabilità Sociale d’Impresa mostrando come ci sia un malinteso di fondo sul
senso stesso delle parole.
Etica viene fraintesa e ridotta ad un generico e politically
correct “non fare del male” “comportarsi in maniera onesta” mentre in realtà questa disciplina filosofica indica,
e costringe a, molto di più.
Nella sua definizione corretta l’etica è lo studio delle azioni dell’uomo in rapporto al bene e al male e che quindi
esprime un giudizio, partendo da basi oggettive, sul comportamento umano decidendo se è buono o cattivo, lecito o illecito.
C’è quindi molto di più che non inquinare, non accettare bustarelle, non fare pressione sui fornitori, rispettare
il servizio al cliente.
Intendiamoci, tutte cose buone e che trovano collocazione
dentro un’etica del lavoro, ma che non la esauriscono,
soprattutto se le aziende pensano che sia sufficiente appendere questi decaloghi alle pareti, reali o virtuali, dei
propri siti perché diventino carne e sangue del comportamento quotidiano dei propri collaboratori.
Dove nasce allora il senso della business ethics? Dall’uomo
stesso che non può non essere etico, non può cioè non
avere una misura fuori da sé che lo aiuti a misurare costantemente gli scostamenti, a confrontarsi con una testata d’angolo così da trovare fuori da sé la motivazione
e lo forza per modificare dentro di sé ciò che lo allontana dal bene, da ciò che in fin dei conti è bene per lui.
Nessuno sport è praticabile senza un regolamento che
ne disciplini il funzionamento, che ne determini la fina-
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lità, che chiarisca la liceità o l’illiceità dei comportamenti.
Nessuno sport, per continuare nella metafora, può accettare che i giocatori si diano regole da sé. Ciò generebbe il caos.
Infatti.
Proprio perché la società ha perso questo senso di qualche cosa che non può essere sottratto all’uomo, le aziende l’hanno riscoperta. Non se ne può fare a meno! E qui
si aprirebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
L’etica del lavoro dunque trova sì alcune sue applicazioni pratiche nelle regole enunciate dalle multinazionali nei
loro codici, ma questi non sono che i rami, e spesso i più
alti e giovani di una pianta che ha radici profonde e quasi mai, e temo volutamente, enunciate, perché ci porterebbero a riflettere sul senso del lavoro, e in ultima analisi sul senso della vita.
Rivedere insieme la breve storia della business ethics può
essere interessante dato che esplode, con questo nome,
appena dopo i grandi scandali finanziari di inizio millennio, quelli di Enron, Dot-com, Parmalat per dirne alcune, e che spingono commentatori economici, politici e letterari ad affermare che si è trattata di una crisi etica.
Per rispondere alla crescente sfiducia di finanziatori e
consumatori, le aziende si buttano sull’etica del lavoro:
come a dire che di loro ci si può fidare perché il loro
codice è esposto e chiarito a tutti. Il che sicuramente
è un elemento di rassicurazione, ma mostra una profonda ignoranza su che cosa sia l’uomo e come funzioni
il suo cuore.
Infatti neanche cinque anni dopo scoppia una nuova grave crisi, ancora più profonda, addebitata, come si diceva, alla cupidigia.
L’etica del lavoro vera è molto più quella che esprime-
vano le aziende italiane del dopoguerra, quelle descritte ad esempio ne Il Cavallo Rosso di Eugenio Corti, quelle che si preoccupavano del bene comune più che di
quello degli azionisti, comprendendo che il secondo sarebbe stato raggiunto se fosse stato raggiunto il primo
(come peraltro ha affermato in modo chiarissimo in anni recenti Herberth Kelleher fondatore di Southwestern
Airlines, l’unica compagnia aerea che ha sempre, sottolineo sempre, prodotto bilanci positivi: a me interessano i dipendenti, se infatti loro sono contenti, lo sono
anche i clienti. E se i clienti sono contenti lo sono anche gli azionisti).
Chi ha implementato correttamente l’etica sono quelle
aziende che hanno cercato di intervenire sull’uomo, nei
limiti della liceità e delle possibilità, ma senza sconti: partendo dalla selezione, a misura di valori interni ben definiti e ben esplicitati. A partire dal comportamento dei
capi. Come ha fatto molto bene notare Frank Navran, americano esperto di questo tema: uno dei miti della business ethics consiste nel credere che i parametri etici siano dettati dai proclami del vertice, quando invece sono
determinati dal comportamento del tuo capo diretto.
Hanno avuto successo quelle aziende che, una volta com-
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piuta la scelta etica, hanno accettato le conseguenze della loro decisione agendo sempre in conformità con il fine, il quale non può essere che il bene di tutte le persone coinvolte nell’azienda.
Eli Goldratt, lo studioso isreaeliano di recente scomparso, e fondatore della brillantissima Theory of Constraints,
spiega con altrettanta chiarezza che solo una azienda che
ha cura dei propri collaboratori può diventare everflorishing e crescere esponenzialmente, come è possibile dimostrare con molti casi concreti.
Il successo di una ben nota multinazionale nel settore dell’housecare è dovuto anche a questa scelta concreta che
si è tradotta in una affermazione di valori fondanti a partire dai quali tutto viene deciso: le assunzioni di persone
che rispecchiamo questi valori, la scelta e la formazione
di capi che vivano e guidino con questi valori, la misurazione dei comportamenti e la premiazione di chi porta risultati secondo questi valori.
Altrimenti vuol dire prendersi in giro.
L’etica è la misura dell’uomo, in tutte le sue azioni: il lavoro è una delle principali azioni dell’uomo e quindi non
è possibile immaginare un’attività professionale senza una
comprensione dell’etica.
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