30 Spettacoli Teatro & Musica 7 giorni sul palco di Claudia Provvedini STEIN Il naso Di Shostakovic dalla novella di Gogol’, regia di Peter Stein, dirige Alejo Pérez (oggi, Opera di Roma) RONCONI Il Panico Di Spregelburd. Lo spaesamento di Iaia Forte è la chiave. Con Bini, Ghiaurov, Paiato, Pierobon (fino al 10, Piccolo Strehler, Milano) WILSON Macbeth Di Verdi. Di Bob Wilson — che il 4 racconta il suo Amleto al Parenti di Milano — la regia; dirige Roberto Abbado (Dal 5, Comunale di Bologna) VALDOCA Ora non hai più paura Gioco di corpi di donne (foto), regia Cesare Ronconi, progetto sonoro Malatesta (dal 6, Palladium, Roma) DIALOGO Reality Tagliarini e Deflorian ricreano il diario di vita quotidiana di Janina Turek (dal 9, PimOff, Milano) UNDERGROUND Concerto Macbeth I belgi Theater Zuidpool su musiche di Pawloski, Delbeke, Cassier (6,9, Teatro Studio, Bolzano) OPERA ROCK Il muro «The Wall» dei Pink Floyd e un amore, con E. Bassi e E. Ivone. Di Angelo Longoni (fino al 10, Lo Spazio, Roma) Domenica 3 Febbraio 2013 Corriere della Sera italia: 515658495855 In libreria LA SERATA A COLONO di Elsa Morante (Einaudi, e 9,50) Viaggio all’interno del mito di Edipo: sapienza, dolore, vita, morte LUCIANO LIGABUE, LA STORIA DIETRO OGNI CANZONE di Marcello Ubertone (Barbera Editore, e 16,90) Il racconto di tutte le canzoni scritte da Ligabue La coscienza di Zeno Lo stile Scaparro e la raffinata recitazione di Pambieri Palermo Svevo, una tragica quotidianità Il potere e i vizi nella corsa all’Oro visti da Vick di FRANCO CORDELLI N ell’intervallo dello spettacolo di Luca Ronconi, Il Panico, un amico distratto e non troppo aduso alle cose di teatro, riferendosi a una recensione di due giorni prima, con aria di rimprovero mi ha detto: «Ho letto che hai elogiato Pambieri». «No — ho risposto — era Pagliai». Quell’errore, o quel lapsus (per introdurci nel mondo di Svevo-Zeno), era però una profezia: mi accingevo a vedere la sera dopo proprio Pambieri, protagonista de La coscienza di Zeno, che Tullio Kezich adattò dal romanzo di Italo Svevo che ora Maurizio Scaparro riporta in scena. Mi accingevo a vedere, ovvero a rivedere (dopo tanti anni) un attore che non sapevo avrei ammirato quanto Pagliai, sebbene per ragioni diverse. Se a Pambieri si può imputare una imprecisione, che forse riguarda di più la struttura dello spettacolo, è nell’oscurare l’amarezza: i lapsus, gli atti mancati, le gaffes, il problema del rapporto tra la lingua e il dialetto, lo stesso impatto con la psicanalisi, costituiscono il fulcro della storia di Zeno ed è difficile non leggervi (non leggere nel romanzo) quel quid di disillusione che nel finale esplode con il monologo sull’apocalisse prossima ventura. Pagliai lo ammirai per la sua capa- © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA La coscienza di Zeno Italo Svevo/Maurizio Scaparro Teatro Carcano di Milano Furie de sanghe - Emorragia cerebrale La ricerca del gruppo Fibre Parallele Rabbia e degrado (in dialetto pugliese) AMICIZIA Art Yasmina Reza vs l’intesa maschile. Alberti, Boni, Haber regia, Giampiero Solari (fino al 10, Ambra Jovinelli, Roma) SERATA FUTURISTA Papini Finazzer Flory in «Perché son futurista», musiche Stravinskij (il 5, H. Vesuvio, Napoli; 6, T. Arti, Salerno) © RIPRODUZIONE RISERVATA di MAGDA POLI U na vetrina al Nord per le giovani compagnie pugliesi ha permesso di rivedere uno dei gruppi baresi più interessanti, conosciuti in Italia e all’estero, Fibre Parallele, guidato da Licia Lanera e da Riccardo Spagnulo, nello spettacolo Furie de sanghe - Emorragia cerebrale. Qui la ricerca espressiva — si è parlato per questo gruppo di «antropologia espressionista» — scandaglia l’universo di una società degradata e repulsiva e lo fa con pennellate pesanti e sicure, con un deciso tratteggio paradossale e grottesco, in un linguaggio oscuro e forte come il dialetto pugliese: parole-sassi che i personaggi si scagliano addosso. Protagonisti di questo spettacolo aspro e ironico sono: il padre (Corrado La Grasta), dalla finta pancia strabordante, ignorante, bestiale padrone del telecomando; la vecchia zia (Sara Bevi- In scena Corrado La Grasta e Riccardo Spagnolo lacqua), col naso posticcio da strega che alleva amorevolmente un capitone in un acquario melmoso; il figlio (Riccardo Spagnolo), orecchie alla Star Trek, «gratta e vinci dipendente», ottuso e sconfitto quanto il padre; la nuora, Licia Lanera, forza scatenante di torbide pulsioni che si rassegnerà ad accettare un futu- S ro chiuso in una lobotomia di sentimenti e desideri. Lo spettacolo, ben recitato, è riuscito a sfuggire al ritratto di un disagio sociale definito e quindi per certi versi lontano e estraneo, ma ad evidenziare come le generazioni si avvicendino salendo una sulle spalle dell’altra. Il disperante degrado dei protagonisti, la loro assoluta miseria che si esprime in una perenne rabbia, in un esagerare pesante e deforme, la loro desolata, esasperata nudità dell’anima riescono però a toccare corde profonde e tragiche per diventare segno di un’umanità cui è negata la possibilità di sperare, sognare, vivere, e disperata boccheggia nell’acquario melmoso di un presente, eterno futuro senza riscatto. mata: i «veterani», come li ha definiti Claudia Cannella, Giancarlo Condè, Enzo Turrin e Anna Paola Vellaccio, che è la futura suocera del protagonista e in realtà la maliziosa direttrice d’orchestra del reparto femminile e forse di tutta la famiglia, e i giovani Francesco Wolf, Raffaele Sukovic, Antonia Renzella, Guenda Goria, Lidia Cascarano, Silvia Altrui e Marta Ossoli: tutti recitano e si muovono con uno humour e una grazia d’altri tempi, ma pur sempre uno humour e una grazia. Ancora pensando a Ronconi e a Scaparro. Difficile immaginare due registi coetanei più dissimili. Se il primo in BECKETT Finale di partita Sfida tra i fratelli Cauteruccio: Giancarlo/Hamm, Flavio/Clov (dal 5, T. Studio Scandicci) di ENRICO GIRARDI e il buongiorno si vede dal mattino, che bella avventura sarà assistere al ciclo dell’Anello del Nibelungo varato dal Massimo di Palermo, unico teatro italiano oltre alla Scala a buttarsi nell’onerosa/esaltante impresa, per il bicentenario wagneriano. Perché l’edizione in scena dell’Oro del Reno, prologo della Tetralogia, è tra le più avvincenti che si siano viste in Europa in questi ultimi anni. È un’edizione politica, critica, corrosiva, incentrata sul tema della maledizione (la rinuncia all’amore) arrecata dal possesso dell’oro, ossia dall’esercizio del potere. Gli dèi viziosi e debosciati, i nibelunghi come operatori di borsa cocainomani, i giganti come repellenti operai sui carrelli elevatori: così Graham Vick, che in parte riprende le idee già messe in scena nel Ring a Lisbona, rappresenta il filo dell’azione escludendo dallo sconfortante scenario le figure femminili (le Ondine come collegiali tonte; Erda come una Anita Ekberg felliniana consolatrice di Wotan), non perché migliori ma perché estranee a questa devastante guerra di potere. Niente moralismi, tuttavia. Nella sua astrazione (il Reno è una fila di sedie di plastica trasparente Palco Un momento illuminata ad hoc), dell’«Oro del Reno» questa messinscena, seppur estranea a ogni hic et nunc, è realismo nudo e crudo. Il bello, l’alternativo non è il vessillo multicolore della pace. È nel gusto di ben raccontare e recitare, di non tralasciare alcun dettaglio tra i mille, espliciti o meno, che formano l’immensità dell’universo wagneriano. C’è un’idea trainante ma non c’è solo quella. Perciò è uno spettacolo politico ma non ideologico. Come dire che Wagner non è riducibile a un’idea. Gli interpreti sono eccezionali nel dar vita, corpo e spessore a questa messinscena, che si basa su di loro assai più che sull’impianto scenografico (infatti è povero). Vocalmente c’è qualcuno però che mostra la corda, in primis il Wotan di Franz Hawlata ormai pallido parente del cantante che fu. Bene Sergei Leiferkus (Alberich), Robert Brubaker (Mime), Will Hartmann (Loge), i giganti Keel Watson e Christian Hübner. Così Anna Maria Chiuri (Fricka) e Ceri Williams (Erda). Nulla da dire sull’esecuzione orchestrale di Pietari Inkinen perché non ha senso parlare di tempi, articolazioni e dinamiche quando manca la materia prima, il suono. Passi un Wagner «leggero» all’italiana ma liofilizzato fino all’impalpabilità no. Vivissimo successo di pubblico. Protagonista Giuseppe Pambieri, 68 anni, in un momento dello spettacolo cità di mutare se stesso, Pambieri per la sua fedeltà al proprio modo di stare in scena. Tutto nella sua recitazione è in un certo senso convenzionale (penso in specie alla gestualità), ma tutto è calibrato al millimetro, equilibrato, raffinato. In più, se si ha un’idea di Zeno Cosini, egli ci costringe a riconoscere che era quella che lui ci offre, soppesando uno spasmodico timore della malattia e un gusto principesco d’esser malati cronici (malati cioè di vita); mescolando bonomia (o forse bontà) e ironia. Al pari di Pambieri ciò accade agli altri interpreti di una compagnia perfettamente amalga- continuazione cerca il nuovo e l’instabile, il secondo si affida alla tradizione e a ciò che appare ancor solido. Ronconi è in duello con l’argentino Spregelburd, Scaparro è immerso nel nostro Novecento: Brancati, Svevo, tra poco Viviani. Se lo «stile» Ronconi resta straniato, o meglio dissonante, lo «stile» Scaparro resta dovizioso, di offerta di sé e del proprio sentimento. Non basta. Contrariamente al solito, questa volta Scaparro non ha svuotato la scena, la scena del suo Svevo è piena, ottocentesca — con la luce di Trieste, con quelle strade in pendio e quei muretti delle passeggiate di Zeno; mentre in quella di Ronconi non c’era nemmeno una delle sue «macchine» bensì ondeggianti, eloquenti e bianche tende. E infine: se Spregelburd sostiene che nel nostro tempo è difficile concepire una Trascendenza se non con i mattoncini della Banalità, Kezich (ma qui prendo partito, sono con lui), parlandoci del lavoro di riduzione del romanzo e descrivendo la sua specie di disincanto ci dice che «Svevo non ci insegna solo a trovare il tragico nel quotidiano, ma anche il quotidiano nel tragico». Furie de sanghe - Emorragia cerebrale di Fibre Parallele Teatro Elfo Puccini, Milano L’oro del Reno di Richard Wagner Teatro Massimo di Palermo Dischi CLASSICA Amore contraffatto JAZZ Without a net POP Sun RAP Guerra e pace L’originalità di Cresta esprime lo spirito religioso Il quartetto di Shorter in un’avventura originale La voce calda di Biondi e i duetti internazionali Le rime di Fabri Fibra fra cronaca e autoanalisi Che la ricetta musica antica + contemporanea funzioni bene è fatto assodato, soprattutto quando il nuovo non è riscrittura del vecchio ma è nuovo per davvero. E questo è il caso dell’accostamento di Devequt II, opera del 36enne Gianvincenzo Cresta che alterna brani vocali e strumentali ispirati a Jacopone da Todi, e di sei «Tenebrae Responsoria del Sabbato Sancto» di Carlo Gesualdo. Di quest’ultimo è inutile dire. Di Cresta, che è autore originale e fuori dagli schemi armonici e contrappuntistici odierni. Tra l’altro esprime una religiosità che pare autentica, sentita. Musica meditabonda che non pesa sulla digestione, ma che anzi arriva fluida. Il tutto si regge sull’eccellente livello esecutivo dell’ensemble Solistes XXI e della Cresta/Gesualdo viola di Christophe Desjardins. Il quartetto di Wayne Shorter, con «Without A Net» al terzo documento discografico, è uno dei grandi gruppi jazz del XXI secolo; fatto tanto più notevole se si pensa che il sassofonista che fu con Art Blakey, Miles Davis e i Weather Report sta per compiere 80 anni. Certo, al suo fianco ci sono tre giovani di vaglia, Danilo Perez al pianoforte, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria; ma è il leader che li costringe a inerpicarsi lungo percorsi mobili, dove brillano i suoi due sassofoni (tenore e soprattutto soprano). Perfino il lungo «Pegasus», cui si aggiunge un quintetto di fiati d’apparenza neoclassica, si rivela un’avventura sonora affatto originale. Negli album precedenti Shorter sembrava sposare Davis e Coltrane; ora segue strade tutte Wayne Shorter sue. È fra le voci italiane che più ci invidiano all’estero. In questo disco — registrato tra Milano, Los Angeles, New York e Londra — si coglie un’impronta internazionale. La produzione è di Bluey, leader degli Incognito. L’artista catanese duetta con Chaka Khan (in «Lowdown») e Al Jarreau (in «Light to the world»). Il sound è ricco di soul, jazz, funky e spiccano raffinati arrangiamenti orchestrali. La sorpresa arriva nel brano «La voglia, la pazzia, l’idea», unico nella nostra lingua, in cui Biondi dimostra come si possa cantare in italiano su musiche lontane dalla nostra tradizione, come la bossanova e il samba. Album ben strutturato in cui domina il timbro vocale caldo di un interprete che, partendo da un gusto retrò, Mario Biondi approda a soluzioni attuali. Fabri Fibra allunga il passo. Il nuovo album del rapper rafforza un primato che non è solo nei numeri. Per le basi Fibra ha fatto il giro del mondo, collaborando con produttori Uk, Usa, francesi e i nostri Michele Canova e Neffa. Si va dalle atmosfere più dure, quasi dubstep («Tutto in un giorno», «Frank Sinatra») alla melodia («A me di te», il delicato duetto con Elisa «Dagli sbagli si impara»), dalla cassa dritta da tormentone («Ring, ring») alla suggestione retro di «Panico» (con Neffa). Nelle rime Fibra sposta il punto di vista. Restano i flash di cronaca da un Paese per vecchi, dove le donne in tv sono quello che sono e la politica non è certo alta, ma c’è anche spazio a una maggiore riflessione su stesso. Lasciatevi sorprendere dai giochi di parole e di immagini nelle rime, in questo resta Fabri Fibra imbattibile. Amore contraffatto Digressione Without a net Blue Note Sun Sony Music Guerra e pace (Universal) E. Gir. © RIPRODUZIONE RISERVATA Claudio Sessa © RIPRODUZIONE RISERVATA Mario Luzzatto Fegiz © RIPRODUZIONE RISERVATA Andrea Laffranchi © RIPRODUZIONE RISERVATA Codice cliente: 279096