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SANDRO ANSELMI: DALL’AFORISMA ALL’ALLEGORIA
di Mario Manieri Elia
Anselmi entra nell’agone della progettazione romana in veste di
corresponsabile dei messaggi iniziatici del gruppo GRAU. Di cinque anni
più anziano di lui, vi entravo anch’io, nel pieno di quegli anni Sessanta,
facendo parte di un altro gruppo, più moderato ma altrettanto ideologico
e teleologico (lo STASS). Erano iniziazioni a un mondo da cui volevamo
distaccarci, animati da un antagonismo velleitario che si coniugava con la
comune intenzionalità tenacemente rifondativa. Nel caso del GRAU,
questa intenzione di trasmettere valori e di incidere, si presentava più
drastica e geniale che negli altri gruppi dell’avanguardia presessantottina, giungendo al paradosso di una forte determinazione a
comunicare attuata con linguaggio sostanzialmente criptico. E il
paradosso, come sempre, diveniva impedimento: una gabbia labirintica il progetto per la Camera dei Deputati ne era una lucida
rappresentazione - che non risolveva al suo interno la carica oppositiva,
visto che il nemico - il Minotauro da uccidere - era fuori e non al centro
del labirinto.
Per i giovani come Anselmi, appena trentenne, si rischiava di
restare impaniati in quel recinto di coerenza logica, votata ad una storica
marginalità. I messaggi ermetici delle iper-forme del GRAU andavano
sciolti, ma senza perdere la forza dell'autonomia e del rifiuto ad ogni
concessione al 'sistema' (come si diceva allora). C’era comunque da fare
i conti con la storia e con il contesto. Ma la storia poteva rimanere come
sfondo immanente, ad offrire repertori di segni e di immagini da
risignificare e da reimmaginare; e questa manipolazione riusciva meglio
nella trasposizione grafica, divenuta egemone; e il contesto era meglio
usarlo, magari come pre-testo, che esserne usati.
Nel corso degli anni Settanta, la ricerca progettuale diviene essa
stessa iter evolutivo, storia, e il processo si responsabilizza, assumendo
impegni pedagogici e autopedagogici. Ciò aiuta Anselmi ad uscire dalla
pania dell’autoreferenzialità ma con cautela: dal diagramma apodittico
del GRAU si può passare all’ideogramma propositivo. Il progetto di
Firenze del 1972 è un esercizio di assemblaggio di codici diversi, che la
traduzione in grafemi rende agibile da e verso un contesto esorcizzato.
Fuori dal labirinto, la pania dei limiti può riproporsi nella forma di una
serie di sbarramenti ondulati che difendono comunque dall'esterno. A
Sanremo e a Santa Severina si fa finalmente strada l’ipotesi concreta di
una contestualità autereferenziale: ci siamo. Questa volta il paradosso è
produttivo, per la vitalità di una carica critica che investe a tutte le scale i
vecchi moduli compositivi e tipologici. L'uso dell'anamorfosi apre a un
orizzonte manieristico: il progettista ora è fuori da ogni gabbia ma ritiene
di mantenere la garanzia scontrosa della prevalenza del significante sul
significato (con il senso ancora fortemente implicito).
Con gli anni Ottanta, i tempi del referente assoluto del GRAU sono
ormai lontani, mentre cresce la voglia di storia e di contesto e
l'impazienza di interloquire. All’onnipotenza della decontestualizzazione,
subentra la maturità dell’esser-ci. Immancabile, in questo passaggio di
crescita, la crisi di separazione. Se-parare = prepararsi: preparare
strumenti attivi sul contesto ma condizionati dall’orgoglio di una non
dismessa e tuttora fondante autoreferenzialità. Si fa fatica ma ci si arriva:
siamo a Rezé le Nantes. Il messaggio scontroso è divenuto messaggio
aperto, squadernato e vitale. Il contesto entra nel progetto e in esso
riprende forma, attraverso un uso forte del limite fisico, ancora come al
tempo del GRAU, ma non più come arroccamento difensivo: si apre con
ampia gestualità, includendo la storia (fino a Le Corbusier). E' la forza
performativa della parete, usata piana o ricurva a negare il volume e ad
agganciare il contesto spaziale. L'iperforma originaria è divenuta
iperpresenza. Il gesto, che il grafismo (fino a Santa Severina) aveva
tradotto in segno, ora diviene piena contestualità.
A Venezia - siamo nel 1988 - si riaprono i giochi: il gesto, già
rivolto al mondo esterno, è ora divenuto segnale. La vecchia sinusoide
(più volte sperimentata come improbabile limite, da Parabita a Firenze e
ad Imperia) si cala nel sito, imponendosi come idea-madre. Il ponte
assume il senso del 'passaggio' ma anche dell'acqua lagunare. La
complessità del contesto è tutta sussunta in quel segno che ha la densità
semantica del simbolo (Sym-ballo).
Da Scilla in poi - siamo negli anni Novanta - Anselmi vanta una
padronanza del simbolo/segnale, che lo abilita ad entrare spavaldamente
nel gioco delle contraddizioni urbane, trionfando a Rouen con l'arco
spinoso della sua parete volante. Il progetto come 'adattamento
all'ambiente mutevole' sembra farsi elastico, deformabile. Il pieno
possesso degli strumenti progettuali induce ad un rapporto scomplessato
con la progettazione contemporanea, che si traduce in un uso insistito
ma selettivo della citazione e dell'autocitazione. Mentre l'autonomia
compositiva dei piani tesi o sfogliati nell'aria si fa egemone e potente: a
Trento, a Bologna, a Riccione e a Roma: dalla stazione di San Pietro,
all'EUR, a Fiumicino.
E' la fine del modello assertivo: sia di quello istituzionale e
oggettuale del modello classico, che di quello ribellista e teleologico
dell'avanguardia antagonista. Il progetto ora spalanca i suoi piani liberi ad
accogliere e rilanciare positivamente le dinamiche mutevoli dello spazio
sociale. Dall'aforisma siamo passati all'allegoria, che come ci avverte W.
Benjamin, è «l'ultimo divertimento che si offre al melanconico». Ma se si
entra nel gioco, tanto vale condurlo.
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