edizioni il foglio

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EDIZIONI IL FOGLIO
COLLANA ISAGGI
Edizioni Il Foglio
Collana I SAGGI
Direttore: Gordiano Lupi
www.ilfoglioletterario.it
Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI)
© Edizioni Il Foglio - 2009
1a Edizione - Ottobre 2009
ISBN 978 – 88 – 7606 – 247 – 6
Copertina | [email protected]
Carlo Gambescia
METAPOLITICA
L’altro sguardo sul potere
Edizioni Il Foglio
Sommario
Prefazione
I – Che cos’è la metapolitica?
1. Del buon uso della metapolitica
2.Che cos’è la metafisica?
3. Del metodo della metapolitica
4. Intermezzo: Alain Badiou o della metapolitica totalitaria
5. Metapolitica: una definizione
II – Dell’azione metapolitica
1.Tradizione: la lezione di Edward Shils
2. “Tradizionalità” e metapolitica dell’azione
3. Il case study : i cattolici e l’azione metapolitica (I)
4. Il case study: i cattolici tra fondamentalismo e relativismo (II)
5. Il “problema Reinhold Niebuhr”
Pag. 7
Pag. 9
Pag. 12
Pag. 15
Pag. 21
Pag. 28
Pag. 39
Pag. 45
Pag. 51
Pag. 58
Pag. 61
III – Metapolitica e decadenza
1. Il rifiuto dell’ idea di decadenza
2. L’idea di decadenza fra moderni e postmoderni
3. Sorokin e la teoria metapolitica della decadenza
4. I principi del limite e del mutamento immanente
5. Il “super-ritmo” sorokiniano
Pag. 67
Pag. 74
Pag. 81
Pag. 86
Pag. 91
Conclusioni
Pag. 97
Appendice (sinossi dello schema sorokiniano)
Pag. 101
L’autore
Pag. 103
Prefazione
Questo libro è stato pensato e scritto in condizioni difficili,
segnate sul piano personale dalla perdita di due persone care,
e su quello pubblico dalla crescente insofferenza verso un pensiero e una pratica della politica sempre più volgari e servili.
E quel che peggio nella assoluta incoscienza, da parte dei suoi
protagonisti (chiamiamoli così) di comportarsi in modo tale.
Ma con questa osservazione non desideriamo assolutamente
catturare la benevolenza dei lettori, magari puntando sulla
qualunquistica retorica antipolitica, oggi imperante. Ma solo
scusarci, come si dice, per gli eventuali errori e omissioni presenti nel libro, nonché per qualche nostra asserzione che potrà
apparire sferzante.
In realtà la metapolitica, come altro sguardo sul potere,
può rappresentare, oggigiorno, la classica boccata d’aria fresca e pulita. Pur nella scontata assenza di risposte definitive
come impone il galateo della ricerca personale e scientifica.
Desideriamo ringraziare le carissime Rita ed Angela (le nostre personali altre due metà del cielo: moglie e figliola), che
hanno sopportato i nostri malumori di studiosi sempre scontenti del proprio lavoro . Ma anche il caro amico Nicola Vacca, che con passione sincera ha seguito e incoraggiato quotidianamente la stesura del libro.
Infine un ringraziamento non può non andare a tutti coloro
che ogni giorno seguono affettuosamente, ma senza fare sconti, il nostro blog, dove appunto ci occupiamo di metapolitica.
Ne ringraziamo uno per tutti: il fedelissimo Luca Ceccarelli.
C. G.
7
I
Che cos’è la metapolitica?
1. Del buon uso della metapolitica
La metapolitica non è una disciplina accademica. Per quanto
ne sappiamo, non esistono, almeno in Italia, cattedre di metapolitica. Senza ombra di dubbio il suo campo di studio rinvia
alla filosofia politica. Tuttavia di rado se ne parla, e bene, in
enciclopedie e manuali di storia del pensiero politico 1. Probabilmente perché su di essa pesa tuttora l’ accusa di pericoloso
dilettantismo romantico dalle tentacolari propaggini totalitarie.
Accusa in parte fondata, ma sfociata in un interdetto che risale
al famoso libro di Peter Viereck, storico delle idee ed eminente
rappresentante del conservatorismo nordamericano, pubblicato
nel 1941: Metapolitics: The Roots of the Nazi Mind 2. E il perché della scomunica lo spiegò il grande Delio Cantimori, eccellente storico della rivoluzione conservatrice tedesca3, in una
brillantissima recensione proprio al libro di Viereck:
“Per il romanticismo politico-sociale, per la politica dei filo1
Si legga, come eccezione che conferma la regola, la breve ma intrigante voce redatta da L. Bazzicalupo, “Metapolitica” in R. Esposito e C. Galli (a
cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Editori Laterza, Roma-Bari 2000,
pp. 444-445, c. Ma si veda anche l’agile volume di A. Carrino, Democrazia
e governo del futuro. Saggi di etica e metapolitica, Edizioni Lavoro, Roma
2000.
2
Alfred A. Knopf, New York 1941, 2° ed. (expanded edition, with a new
introduction by author), Transaction Publishers, New Brunswick and London
2004; trad. it. a cura di L. Astrologo e L. Pintor, Dai romantici a Hitler, Einaudi, Torino 1948. Su Peter Viereck si veda B. Frohnen, J. Beer J. O. Nelson ( eds), American Conservatism. An Encyclopedia, Isi Books, Wilmington
(Delaware) 2006. pp. 887-888.
3
A. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Einaudi, Torino 1991, Parte II , in particolare pp. 137-561.
9
sofi dilettanti (che però han trovato molti abili espedienti propagandistici), il Viereck ha creato, con vera genialità, un termine appropriato: ‘metapolitica’, riprendendolo dalla lettera di un
ammiratore di Wagner, ed usandolo consapevolmente per indicare ‘la ideologia semipolitica risultante dall’intreccio di quattro differenti fila: romanticismo [nel senso deteriore usato dal
Viereck…]4; la scienza razzistica; un vago socialismo economico, che a volte protesta demagogicamente contro il materialismo capitalistico a volte gli è sinceramente avverso; e le ipotetiche forze soprannaturali ed inconsce della collettività detta
Volk’ “(p. 4). E’ insomma , in politica, l’anticlassicismo, antirazionalismo, anticristianesimo. La parola è ben trovata ed efficace: indica bene sarcasticamente la pretesa superiorità della
meta-politica di fronte alla semplice politica degli avversari e
anche la pretenziosa vanità dei nuovi concetti. Del resto la parola era nell’aria, il che conferma la mano felice del Viereck
nell’averla usata, come dimostra la conclusione del libretto del
Lefebvre sul materialismo dialettico, cioè di uno che parte da
un punto di vista opposto al Viereck: ‘ … In filosofia questo
procedimento trasforma una parziale verità in errore proprio
ponendola sul piano dell’assoluto. Questo procedimento crea
un meta-qualcosa: il razzismo è una metabiologia; la teoria nazionalista è una metastoria o una metasociologia...” 5.
Si tratta di una critica, quella dello studioso americano, di
certo pericoloso romanticismo politico, da non prendere mai
sottogamba6. Tuttavia, come già allora notava Cantimori, Vie4
L’inserto tra parentesi quadre è di Cantimori.
D. Cantimori, La “Metapolitica”, “Aretusa”, anno II, ottobre 1945, ora in
Idem, Studi di storia ( 1959, d’ora in avanti la data tra parentesi indicherà
quella dell’edizione originale, se opera straniera nella lingua di origine), Einaudi, Torino 1976, pp. 738-739. Il libro citato di Henry Lefebvre è Le matérialisme dialectique ( 1939) Puf, Paris 1962, p. 38.
6
Curiosamente, la migliore opera sui limiti del romanticismo politico,
come forma di occasionalismo teso a privilegiare il movimentismo politico,
in “termini di romanzo senza fine”, senza perciò sottilizzare troppo sui mezzi
5
10
reck,
“dotto scrittore è incorso in quello che si può dire un errore
di impostazione (…): invece di chiarire e spiegare nel quadro
della storia (intesa nel senso più generale del termine) tedesca
il singolo fenomeno dell’ideologia nazionalsocialista, o di limitarsi a descriverlo, egli si è lasciato trascinare dall’argomento
stesso, e ha semplicemente riprodotto capovolgendola la impostazione propagandistica del Rosenberg e degli altri dottrinari
del nazionalsocialismo; cioè, in parole povere, ha preso sul serio la loro affermazione di essere discepoli ed eredi dei romantici, di Wagner e via dicendo, e ha creduto di poter risalire fino
ai romantici, fino a Wagner, fino a Herder. Quelli che per i nazionalsocialisti erano i precursori, i rappresentanti dello spirito
della razza, ecc, diventano ora per il Viereck nemico dei nazionalsocialisti i responsabili delle malefatte dei pronepoti. Questo
può essere un comodo sistema di propaganda (il libro è stato
pubblicato nel 1941), un abile ritorcere contro il nemico le sue
stessa armi; ma non possiamo dire che sia indagine criticamente valida”7.
In questo senso, cercheremo di mettercela tutta per non
commettere lo stesso errore di Viereck. Soprattutto perché il
nostro scopo è indagare la metapolitica in termini, se non
e i fini dell’azione politica, resta C. Schmitt, Romanticismo politico, Giuffrè
Editore, Milano 1981. Autore, a dir poco, non gradito a Viereck…
7
D. Cantimori, Op. cit., pp. 729-730. Va ricordato che Viereck mostra
tuttora di non aver mutato idea.Si veda la sua introduzione alla “expanded
edition” di Transaction Publishers (New Brunswick and London 2004). Una
curiosità: vi si parla anche dell’Italia. E di un suo incontro con Leo Longanesi, quando Viereck era in Italia con le truppe Usa, nei ruoli del PWB: “The
most bizarre character I met in Rome - scrive lo storico delle idee - was the
colorful journalist Longernesi, who applied for a job with the PWB as an
American propagandist. Till then, he had been Mussolini’s sycophant, inventing the phrase “Il Duce a sempre raggione” (the Duceis always right)”
(Ibid., p. 35). Ma cfr. anche qui: www.nhumanities.org/viereck16-2.pdf (p.
73, files visitato e pdf aperto il 12-7-09).
11
scientifici - parola grossa di questi tempi (decostruzionisti) - almeno oggettivi, tenendoci lontani da qualsiasi approccio ideologico alla “meta-qualcosa”8. Perché non riteniamo vi siano nemici contro i quali “ritorcere le stesse armi”, ma solo il bisogno
di capire.
Crediamo, insomma, nella necessità di elaborare una teoria e
una pratica della metapolitica, nella misura di una indagine
“criticamente valida” per dirla ancora con Cantimori: una sorta
di altro sguardo sul potere. Quel che qui vogliamo proporre,
per dirla alla francese, è un “bon usage”, un buon uso, teoricamente fondato, della metapolitica.
Ma prima di rispondere alla domanda su che cosa sia la metapolitica, riteniamo necessario proporre una definizione del
termine, partendo dalla sua analogia con quello di metafisica.
2. Che cos’è la metafisica?
Come scrive Giovanni Reale, il termine metafisica,
8
L’argomento esula dal nostro libro - perché rappresenta un capitolo della microstoria della destra culturale italiana neo e postfascista - ma non
escludiamo, per dirla en passant, che sia cosa di un certo interesse, anche
più generale, ricostruire i vari passaggi culturali e politici, che vanno dalla
recezione italiana al libro di Viereck, fino agli ostracismi ma anche alle aperture alla “Nuova Destra” italiana degli anni Settanta-Ottanta del Novecento.
Una corrente, composta all’epoca di giovani e vivaci missini, poi espulsi o
usciti dal partito di Almirante, che sull’onda della riscoperta della “metapolitica”, da parte della “Nouvelle Droite”, francese capeggiata da Alain de Benoist, riprese e propose le tematiche “metapolitiche” anche in Italia. Si veda, per
tutti, la testimonianza del suo maggiore esponente: M. Tarchi, Cinquant’anni
di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista a cura di A. Carioti, Rizzoli, Milano 1995, pp.122-124. Sull’esperienza francese si vedano A.
de Benoist, Vu de droit. Anthologie critique des idées contemporaines
(1978), Le Labyrinthe, Paris 2001 (con un’ importante “ prèface à la
nouvelle édition”, pp. XI-XXVII); Idem, Les idées à l’endroite, Libres-Hallier,
Paris 1979; Idem, Orientations pour des annés décisives, Le Labyrinthe,
Paris 1982.
12
“come è noto, è di genesi incerta. Fino a poco tempo fa si riteneva per certo che il termine fosse nato in seguito all’edizione di Andronico di Rodi (…), il quale dopo i libri di Fisica,
pubblicò in quattordici libri l’opera che venne detta appunto tà
metà tà physiká , che significherebbe alla lettera le cose che
vengono dopo quelle fisiche. Da qualche tempo, però, la tesi è
caduta in crisi, essendo stato accertato, in seguito agli studi degli antichi cataloghi, almeno la possibilità che il termine possa
essere molto più antico. L’oscurità dell’origine del termine
comporta, ovviamente, una conseguente oscurità circa il significato che colui che per primo lo coniò intese annettergli. Già
agli antichi commentatori peripatetici e neoplatonici propongono due differenti interpretazioni. 1) Meta-fisica significa la
scienza che viene dopo (metá) la fisica. 2) meta-fisica è la
scienza che si occupa delle realtà che sono oltre (metá) quelle
fisiche, ossia delle realtà sopra-fisiche. In effetti, le due interpretazioni, dal punto di vista aristotelico, non si escludono, ma
anzi si implicano a vicenda, giacché la conoscenza delle cose
che sono ulteriori ontologicamente rispetto a quelle fisiche, è
anche per l’uomo cronologicamente ulteriore, dato che noi conosciamo, per nostra natura, prima le cose fisiche, e solo dopo
ossia successivamente, quelle non fisiche, anche se queste sono
di per sé gerarchicamente anteriori rispetto a quelle fisiche
(…). Siccome il termine non è di conio aristotelico ed è divenuto insostituibile nella cultura occidentale, è lecito chiamare
metafisica non solo la dottrina contenuta nei quattordici libri
dell’opera aristotelica che porta questo suo nome, ma, in generale, quella problematica di tutti i pensatori che hanno indagato
intorno a questi oggetti discussi appunto nella sopraddetta opera di Aristotele, ossia la problematica dei principi delle cause
prime, dell’essere, della sostanza di Dio e del divino”9 .
9
G. Reale, Storia della filosofia antica. Lessico Indici Bibliografia, Vita e
pensiero, Milano 1983, pp. 171-172. I corsivi sono nel testo. Scrive Aristotele: “Ora conoscibili in massimo grado sono i primi princìpi e le cause; infatti
mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre,
13
Ma concentriamo l’attenzione sul prefisso metá, dal punto di
vista etimologico. Secondo Cortelazzo e Zolli,
“la preposizione greca metá (di origine oscura; il senso primitivo doveva essere ‘in mezzo a’, ma con successive e notevoli estensioni semantiche ‘fra’, ‘con’, ‘dietro’, ‘oltre’) entra
già in greco in numerosi composti, tra cui si ricordano metaphorá dal verbo metaphérein ‘trasportare oltre’ (passato anche nel latino metăphora(m)) con l’aggettivo derivato metaphorikós; metamórphŏsis , dal verbo metamōrphoun ‘trasformarsi’ (anche in latino metamorphŏsi(n)); metaplasmós, dal
verbo metaplássein ‘trasformare’ (in latino metaplasmu(m));
metástasis, dal verbo methistánai ‘porre altrove, spostare’; metatesi dal verbo metatithénai ‘trasporre’ (in latino tardo metăthesi(m)) (…) “10.
In questo senso la nostra scelta, che è quella di attribuire
alla preposizione metá il significato di qualcosa che è “dopo” e/
o “oltre”, benché filosoficamente consolidata, è solo una tra le
diverse accezioni etimologiche, alla cui ricchezza abbiamo appena accennato. Pertanto si tratta di una scelta che implica un
“sacrificio etimologico”. Ma anche, come vedremo, di contenuti. Perché implica una conseguente restrizione dell’ambito della
ricerca. Di cui è necessario onestamente prendere atto.
Del resto sul piano filosofico i due significati di “dopo” e
“oltre”, si integrano, ma solo fino a un certo punto. “Dopo” può
viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggetti. E
la più elevata delle scienze, quella che più deve comandare sulle dipendenti,
è la scienza che conosce il fine per cui viene fatta ogni cosa; e il fine, in ogni
cosa, è il bene, e, in generale nella natura tutta, il fine è il sommo bene. Da
tutto ciò si è detto, dunque, risulta che il nome [Metafisica] che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad un'unica e medesima scienza: essa deve
speculare intorno ai princìpi primi e alle cause: infatti anche il bene e il fine
delle cose è una causa”; Metafisica, A (I), 2, 982b5-10, trad. di Giovanni
Reale, Bompiani, Milano 2006. L’inserto tra parentesi quadre è nostro.
10
M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana
( 1983), Zanichelli, Bologna 1992, volume III, p. 748, ad vocem .
14
indicare una entità che è più avanti in senso temporale (tralasciamo qui il significato spaziale). Ad esempio, come quando
si asserisce che la filosofia di Croce viene “temporalmente”
dopo quella Vico. Ma non è tutto, perché “oltre” può indicare
invece un’entità che è più avanti, rispetto a un’altra, per la qualità dei suoi contenuti. Come quando si dice, ad esempio, la filosofia di Gentile, dal punto di vista teoretico, va oltre quella di
Croce.
Ma asserire che quella di Gentile sia una “metafilosofia” rispetto a quello di Croce, era già cosa opinabile a suoi tempi
perché dipendeva dalla “scuola” di appartenenza (gentiliana o
crociana). Inoltre, dal punto di vista della terminologia storiografica oggi in uso, definire un filosofo “più metafilosofo” di
un altro, può essere giudicato a dir poco eccentrico.
Però questa apparente divagazione può essere utile per capire come la definizione di metafisica, nel senso di quel che viene “dopo” le cose fisiche, non viene così facilmente fatta collimare (dagli studiosi, in primis) con l’altra definizione che si
sofferma invece su quel che è oltre o “più avanti” nei contenuti. Per un materialista convinto - solo per fare l’esempio più
facile - la “metafisica”, semplicemente non esiste. Mentre per
un idealista convinto, la fisica, continuerà ad essere gerarchicamente inferiore alla metafisica, a suo avviso, “molto più
avanti” per e nei contenuti indagati.
Pertanto l’ambito della metafisica ricade nella sfera dei giudizi di valore. Di qui la necessità di tenere conto della natura
fortemente assertiva di ogni definizione in merito, ma anche la
necessità di individuare, in tale ambito, uno spazio conoscitivo
libero, per quanto possibile, dai giudizi di valore.
3. Del metodo della metapolitica
Per ora si può asserire che la metapolitica è qualcosa che attiene alla politica, come la metafisica alla fisica, e abbiamo vi15
sto in che termini11.
Prima però di proseguire è necessario soffermarsi, visto che
si tratta di parola composta da una preposizione (meta), già sufficientemente indagata, e da un sostantivo (politica), proprio su
quest’ultimo.
Il termine politica non può non rinviare alla filosofia politica. Ora, lo studio della filosofia politica - e in termini di sinonimia metodologica lo studio teorico-sociologico della politica può essere condotto seguendo quattro percorsi cognitivi o euristici 12: 1) come determinazione dell’ottimo stato, o comunque
dello ottima istituzione politica; “ottima” perché dipendente da
un fondamento ultraumano; 2) come ricerca del criterio (o criteri) di legittimità del potere, che può essere interno o esterno
ad esso; 3) come individuazione della categoria del politico, e
perciò di qualcosa che è interno al politico; come dire: di “politicità” del politico, spesso nei termini di un’essenza; 4) come
metodologia che riguarda lo studio delle “scienze” politiche dal
punto di vista formale della loro decostruzione linguistica, concettuale e valoriale.
L’esempio più antico di una filosofia politica come determi11
Scrive la Bazzicalupo ( “Metapolitica”, cit., p. 444): “In analogia al termine ‘metafisica’, scienza del fondamento, il termine ‘metapolitica’ viene
usato per la prima volta da A. L. Schlözer [1735-1809]. Per denotare l’ambito
disciplinare che viene ‘prima’ della politica, avente per oggetto i principi generali che condizionano le teorie politiche (…). Utilizzato anche da Coleridge
[1772-1834], è con Dilthey [1833-1911], in ambiente storicistico, che il concetto acquisisce spessore perché si riferisce al contesto ermeneuticamente
condizionante delle teorie politiche (…)”. Gli inserti tra parentesi quadre sono
nostri. Ma si veda A. L. Schlözer, Allgemeines StatsRecht und StatsVerfassungsLere. Voran: Einleitung in alle StatsWissenschaften. Encyclopädie
derselben. Metapolitik, Anhang: Prüfung der v. Moserschen Grundsätze des
Allgem. StatsRechts, Göttingen 1793. Su Schlözer, di cui viene evidenziata,
benché criticamente, l’impostazione illuminista, si veda M. Peters, Altes
Reich und Europa: der Historiker, Statistiker und Publizist August Ludwig
(v.) Schlözer (1735-1809), Lit Verlag, Berlin-Hamburg-Munster 2003, in particolare, per la parte che a noi qui interessa, pp. 216-231.
12
Riprendiamo e sviluppiamo le considerazioni in argomento di A. Passerin d’Entrèves, Il palchetto assegnato agli statisti e altri scritti, Franco Angeli, Milano 1979, pp. 37-53.
16
nazione del de optimo statu è la Repubblica platonica, dove
l’idea di “stato ottimo” rinvia a un “modello ideale”. Ma si potrebbe citare anche il De regimine principum di Tommaso d’Aquino, dagli occhi euristici rivolti ancora più in alto.
Un esempio della filosofia politica come ricerca dei criteri
di legittimità del potere è Lo spirito delle leggi di Montesquieu
dove si analizzano i principi generatori delle istituzioni politiche che rendono efficaci e ubbiditi i governi, in chiave mondana. O, in chiave ultramondana, il Joseph de Maistre, Saggio sul
principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre
istituzioni umane.
Quanto alla filosofia politica come ricerca della categoria
del politico (la “politicità”), non possiamo non rinviare al Principe di Machiavelli: ai suoi sforzi di delimitare il politico,
come regno del conflitto, rispetto al morale e al religioso, terreni, questi due ultimi, di regola preferiti dai “profeti disarmati” e
perciò soccombenti. Senza dimenticare le geometriche Teologie politiche I e II, scritte in punta di spada da Carl Schmitt.
Infine un esempio di filosofia politica come metodologia volta
alla decostruzione dei suoi valori - idea tipicamente novecentesca, secolo analitico e fisicalista per eccellenza - è magnificamente rappresentato dalle due conferenze di Max Weber su La
scienza come professione - La politica come professione. Dove
si indaga la natura del giudizio di valore che è dietro ogni posizione filosofica e dalla quale lo studioso, a differenza del politico, deve metodologicamente tenersi lontano. Ubbidendo, in
certo senso, all’immortale massima shakespeariana: “Ci sono
più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non se ne sognino
nei vostri sistemi filosofici”.13
Ora, se si intende la filosofia politica come definizione dell’ottimo stato, come si dovrà intendere la metapolitica? Come
un sapere storico capace di studiare quel che viene “dopo”
(temporalmente) una certa forma di stato? O quel che viene
13
Amleto, Atto I, Scena V. Come è noto, è Amleto che parla.
17
“oltre” lo stato, nel senso di una esemplarità contenuti?
Nel primo caso la metapolitica sarebbe una pura raccolta
tesa a inquadrare temporalmente e giudicare, all’insegna del
“dopo”, i vari modelli storici di “ottimo stato” succedutisi nel
tempo.
Nel secondo caso la metapolitica sarebbe la ricerca del fondamento dell’ottimo stato, in chiave di “oltre”. Come dire di
raffronto tra i modelli storici di ottimo stato e un fondamento
ideale “ulteriore” che dovrebbe essere incarnato dallo stato
(già) ottimo (storico): saremmo perciò al cospetto dello stato
ottimo elevato al quadrato… 14.
Se invece si intende la filosofia politica come ricerca del criterio (o dei criteri) di legittimità del potere, come si dovrà intendere la metapolitica? Anche qui, solo in termini temporali di
“dopo”, come rassegna storica dei vari principi o criteri di legittimità succedutisi nel tempo? Oppure come ricerca di un criterio (“il criterio”) capace di andare “oltre” la legittimità reale o
storica, e di spiegarne il fondamento in termini di metalegittimità, anche qui elevata al quadrato 15?
14
I nomi degli studiosi citati in questa e nelle note successive ( 15, 16,
17), a esemplificazione dei diversi approcci alla metapolitica, non sono certamente famosi né molto noti; ciò ovviamente non significa che non siano
autorevoli. In realtà, questa è la “caratteristica” della metapolitica: che pare
tuttora agire come una calamita intellettuale sui marginali (si fa per dire) di
genio (escludendo ovviamente chi scrive, classica eccezione alla regola…).
Come esempio di approccio metapolitico all’insegna “dell’oltre”, nei termini di
“ stato ottimo” e di “fondamento”, si veda S. Panunzio, Metapolitica - La
Roma eterna e la nuova Gerusalemme , Edizioni Babuino, Roma 1979). Ma
cfr. anche il sito impegnato nella ricostruzione e diffusione del suo pensiero:
http://www.metapolitica.net . Sito, comunque ben documentato e ricco di utili rifermenti storici e bibliografici sullo sviluppo della metapolitica in generale, come qui: http://www.metapolitica.net/intro.html (sito visitato il 12/7/09).
Si veda infine A. Meliadò La Comunità dell’irreparabile. Saggio di metapolitica del Terzo, Angeli, Milano 2001, fortemente influenzato dal pensiero di
Lévinas, Blanchot, Nancy e Lévinas.
15
Come esempio di approccio in chiave di metapolitica della legittimità,
all’insegna dell’ ”oltre”, ma su un piano “terreno”, si veda A. Buela, Metapolitica y Filosofia, Ed. Theoría, Buenos Aries 2002. Manca tuttora nella letteratura contemporanea una buona opera, esplicitamente “metapolitica”, fin
18
Se, ancora, si intende la filosofia politica come individuazione del politico - come dire di una sua “politicità” - si dovrà intendere la metapolitica come raccolta storica dei diversi tentativi di individuare il politico, anche qui, “dopo”? Oppure come
individuazione di un criterio capace di andare “oltre” la pura e
semplice individuazione del politico (come manifestazione
della sua “politicità” storica), magari tentando di scovarne, anche qui, il fondamento, o essenza, nei termini di una “politicità” metapolitica, e dunque elevata al quadrato 16?
Infine, se si intende la filosofia politica come metodologia
delle scienze sociali, si dovrà intendere la metapolitica come
collezione storica, e perciò anche qui in termini di “dopo”, dei
tentativi - principalmente novecenteschi - di attribuire alla
politica, uno statuto di neutralità e di libertà dai giudizi di valore? Oppure come individuazione di un fondamento euristico,
metametodologico elevato, anch’esso, come nei casi precedenti, al quadrato, magari in chiave di un asettico, ma implacabile, decostruzionismo storico-linguistico ?17
dal titolo, che guardi al “piano ultraterreno”, ma con gli occhi però rivolti ai
problemi di oggi. Probabilmente il testo di riferimento, seppure incidentalmente, resta l’eccellente opera di filosofia politica pura di E. Voegelin, Order
and History ( 1956-1987), Louisiana University Press, Baton Rouge and
London 1986-1987, 5 volumi. Oltre, ovviamente all’opera di Pitirim A. Sorokin, antecedente a quella di Voegelin, e squisitamente sociologica (ma non
troppo come vedremo…) che tratteremo nel terzo capitolo.
16
Qui il riferimento obbligato è J. Freund (1965), L’essence du politique,
Dalloz, Paris 2004. Ma si veda pure A. J. Gregor, An Introduction to
Metapolitics: A Brief Inquiry into the Conceptual language of Political Science, Free Press, New York 1971. Autore attentissimo ai rapporti tra metapolitico, politico e scienze storico-sociali. Gregor, docente negli Stati Uniti, è
noto soprattutto come storico del fascismo italiano.
17
Come esempio di approccio rivolto a una scomposizione storico-linguistica, all’insegna, al tempo stesso, del “dopo” e dell’ ”oltre”, del concetto
di metapolitica, ma fino al punto negarne qualsiasi valore conoscitivo compiuto, interno all’agire politico, si veda M. Riedel, Metafisica e Metapolitica (
1975), il Mulino, Bologna 1990. Quanto alla questione “metodologica” dei
valori (ma non solo…), soprattutto in termini di metapolitica dell’ “oltre”
come anticipato e come vedremo meglio più avanti, il riferimento più importante resta M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi.
19
Non è facile dare subito una risposta. Si può però, provvisoriamente concludere, asserendo che la metapolitica sembra
muoversi tra due poli: quello storico, o storicistico, del
“dopo” , segnato da una pura logica della temporalità; logica
che viene rimessa in discussione generazionalmente dalle differenti scelte storiografiche. E quello dei valori: il “meta (ottimo) stato”; la metalegittimità, la metapoliticità, la metametodologia. Una sfera caratterizzata dalla logica dell’ “oltre”; logica
che attraversa le generazioni e le unisce nella comune volontà
della ricerca metapolitica (e in fondo metafisica) del fondamento.
Di riflesso, dal punto vista storicistico, la metapolitica rischia di risolversi in un sapere descrittivo: dove le varie teorie
sono messe le une accanto alle altre, inanimate, come si usa
fare nei musei con gli oggetti antichi. Per dirla con i versi della
Szymborska:
“C’è il ventaglio - e i rossori?/ C’è la spada - dov’è l’ira?/ E
il liuto, non un suono all’imbrunire/ In mancanza di eternità
hanno ammassato diecimila cose vecchie”18.
Mentre dal punto di vista valoriale la metapolitica rischia di
sconfinare nel normativo: dove l’analisi storica - ma anche sociologica - dell’elemento politico reale, viene considerata secondaria rispetto alla ricerca, e spesso accettazione, di un principio “ulteriore”: il metastato ideale; la metalegittimità ideale;
la metapoliticità ideale; il metametodologico ideale. E anche
qui tornano utili i sinceri versi della grande poetessa polacca:
“Quanto a me, credete sono viva./La gara col vestito non si
arresta./ E quanta tenacia mi dimostra!/ Vorrebbe vivere più
La scienza come professione (1917) - La politica come professione (1919),
Einaudi, Torino 1980.
18
W. Szymborska, Museo, in Idem, La gioia di scrivere. Tutte le poesie
(1945-2009), Adelphi, Milano 2009, p. 109.
20
della mia vita”19.
Insomma, una metapolitica, come un metavestito ideale, in
“gara” con noi. Solo per andare oltre le nostre vite. E poi finire
in un museo…
4. Intermezzo: Alain Badiou o della metapolitica totalitaria
E ora dalla poesia alla prosa.
Il libretto di Alain Badiou, Abrégé de Métapolitique20 fa
parte, come terzo volume, di una trilogia, uscita nel 199821.
Tuttavia non siamo ora interessati a ricostruire il pensiero integrale del filosofo francese, quanto a evidenziare come l’Abrégé
sia un buon esempio di come fare cattiva metapolitica22.
Ma procediamo per gradi. Che cos’è la metapolitica per Badiou?
“Per ‘metapolitica’ intendo gli effetti che una filosofia può
trarre, in se stessa e per se stessa, dal fatto che le politiche reali
sono pensieri. La metapolitica si oppone alla filosofia politica
per la quale è al filosofo che spetta pensare ‘il’ politico poiché
19
Ibid.
A. Badiou, Abrégé de Métapolitique, Éditions du Seuil, Paris 1998. Qui
citiamo, per comodità, dall’ottima traduzione italiana di Marina Bruzzese,
Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001.
21
A. Badiou, Court traité d’ontologie transitoire, Éditions du Seuil, Paris
1998 ; Idem, Petit Manuel d’inesthétique, Éditions du Seuil, Paris 1998.
22
A voler essere rigorosi, per la metapolitica di Badiou, poteva valere lo
stesso criterio già applicato alla metapolitica della nuova destra italiana e
francese (vedi nota n. 8 ): un capitolo interno alla microstoria della cultura
marxista e post-marxista, principalmente francese, e dunque da relegare in
nota. Tuttavia la presenza di un’opera dedicata fin dal titolo alla metapolitica
- cosa che a quanto ci risulta le nuove destre italiana e francese non hanno
ancora compiutamente prodotto - non poteva essere ignorata. Di qui la nostra decisione di dedicare a Badiou alcune pagine. Dure ma oneste.
20
21
le politiche non sono pensieri”23 .
Sembra dunque che la metapolitica per Badiou abbia una
valenza ideale-reale: di principio ulteriore e ideale (quello del
pensare) ma reale perché esteso a tutti. Secondo il filosofo
francese la metapolitica resta esito di una descrizione della
“politica soltanto sotto condizione della politica. Procedimento equivalente a ciò che chiamo qui metapolitica, ossia ciò
che, in filosofia, porta traccia di una condizione politica che
non è né un oggetto né ciò di cui bisognerebbe produrre il pensiero, ma soltanto una contemporaneità che produce degli effetti filosofici”24.
“Politica soltanto sotto condizione della politica”: il principio ulteriore sfocia in un pensiero decisionista (nel senso che la
decisione per Badiou finisce per essere l’essenza del metapoliticità ideale): un pensiero che si tramuta, forma e trasforma,
nell’azione delle masse reali, come vedremo più avanti.
Tuttavia con il termine filosofia politica, Badiou intende la
filosofia politica liberale lungo una linea che, grosso modo, da
Kant giunge alla Arendt. Linea negativa, da lui condannata.
Perché rivolta a difendere la democrazia rappresentativa. E perciò incapace di pensare la rivoluzione come “democrazia” delle
assemblee e dei comitati, terreno d’ azione delle masse reali.
Alla linea liberale, Badiou contrappone una genealogia positiva che da Rousseau, Saint-Just e Robespierre giunge a Lenin e
Mao. Passando per autori francesi come G. Canguilhem, S. Lazarus, L. Althusser, J. Rancière.
Ricapitolando: per Badiou la metapolitica non può non
avere una componente descrittiva, dove le filosofie sono assemblate in termini di “dopo” sulle base del dibattito storiogra23
24
A. Badiou, Metapolitica, cit., p. 7, “Esergo”.
Ibid., p. 71.
22
fico generazionale, da lui però assolutizzato in chiave di buoni
contro cattivi (antiliberali vs liberali). Il che significa che non
rinuncia a una componente normativa, in termini di “oltre”. A
questo scopo Badiou divide le filosofie politiche secondo la
loro funzionalità metapolitica, come quando parla di “politiche reali [che] sono pensieri”: scelta che implica decisamente,
come abbiamo detto, una svalutazione del pensiero liberale,
perché esso rifiuta di pensare il reale, e una rivalutazione di
quella che è la “metapolitica per Badiou: la “politica in atto”
della massa che pensa il reale, perché lo “agisce” nei termini di
“politica soltanto sotto condizione della politica”: Ma lasciamo
a lui la parola:
“La politica è una procedura di massa, perché ogni singolarità la richiede e perché il suo assioma, semplice e difficile a un
tempo, è che la gente pensa. La gestione non se ne preoccupa,
poiché essa considera soltanto gli interessi delle parti. Si può
anche dire che la politica è di massa, non perché prenda in considerazione gli ‘interessi della maggioranza’, ma perché si costruisce sull’ipotesi verificabile che nessuno è schiavo, nel suo
pensiero e nei suoi atti, del legame che gli impone di stare, al
suo posto, interessato”25.
Cosicché, dal punto di vista delle masse,
“ogni politica d’emancipazione, o politica che prescrive una
massima egualitaria, è un pensiero in atto. Ora, il pensiero è il
modo proprio secondo il quale un animale umano è attraversato
e sovrastato da una verità. In tale soggettivazione, il limite dell’interesse viene superato in modo tale che il processo politico
stesso vi sia indifferente. E’ quindi necessario, come dimostrano tutte le sequenze politiche che riguardano la filosofia, che
lo Stato non possa riconoscere niente, in un simile processo,
25
Ibid., pp. 88-89.
23
che gli sia conforme. Lo Stato è nel suo essere indifferente alla
giustizia. Al contrario, ogni politica che sia un pensiero in atto,
comporta, in proporzione alla sua forza e alla sua tenacia, gravi
disordini nello Stato. Ecco perché la verità politica si mostra
sempre nella prova e nel disordine. Ne discende che la giustizia, più che essere una categoria possibile dell’ordine statale e
sociale e ciò che nomina i principi all’opera nella rottura e nel
disordine”26 .
Quindi la metapolitica di Badiou, in definitiva, non guarda
né al “metastato” (“stato ottimo”), né alla metalegittimità (inutile dal punto di vista delle masse in azione), né alla metametodologia (disciplina puramente conoscitiva, e dunque estranea al
pensiero in azione delle masse) .
Si potrebbe però parlare di una “metapoliticità” del pensiero
rivoluzionario in atto (ideale-reale): Badiou infatti identifica
l’idea rivoluzionaria, trasformata in azione dalle masse, con
l’essenza del politico quale decisione in atto, ma sempre ad
opera delle masse, che attraverso la rivoluzione permanente,
come forma di pensiero, si trasformano e trasformano la società.
In realtà, Badiou è completamente fuori strada. Perché se è
vero come è vero che il ciclo politico è fondato sulla dialettica
tra istituzione e movimento27, nonché sulla “regolarità” della
26
Ibid., pp. 115-116.
Si veda F. Alberoni, Movimento e istituzione, il Mulino, Bologna 1977.
Ma si legga anche dello stesso, Genesi. Come si creano i miti, i valori, le istituzioni della civiltà occidentale, Garzanti, Milano 1989; una larghissima riscrittura del primo, utile anche per capire il cammino teorico di Alberoni, uno
dei due padri, l’altro è Franco Ferrarotti, della sociologia italiana post-1945:
studioso, anzi studiosi, di respiro internazionale. Ma torniamo al punto. Alberoni mostra come ogni società sia caratterizzata dal ciclico ed eterno contrasto tra i poli dell’ ordine “istituzionale” e del disordine “movimentista”. Un problema, questo, avvertito dalla grande sociologia tra Otto e Novecento ( si
pensi solo a Durkheim e Weber) e poi accantonata da una sociologia colonizzata nel secondo dopoguerra dal marxismo. Che preferiva occuparsi
esclusivamente della rivoluzione, o se si preferisce del “movimentismo” (ri27
24
“classe politica” come spiegheremo più avanti, Badiou rivela di
sopravvalutare il momento emozionale e movimentista su
quello razionale e istituzionale. Inoltre dà per scontato che le
èlite possano dissolversi nelle masse e viceversa, nel corso di
una rivoluzione vista come “permanente”, dove evento, masse
e pensiero dovrebbero fondersi insieme. Mentre come insegnano la scienza politica, a far tempo da Aristotele, e l’esperienza storica e sociologica, la fusione assembleare, immaginata da Badiou, rischia sempre di sfociare prima nella demagogia
dei comitati e poi nella tirannide di uno solo. Si noti, tra l’altro,
il suo disprezzo per la regola di maggioranza, retrocessa a volgare forma di rappresentanza degli “interessi della maggioranza”…
Quel che è peggio è che Badiou non sembra accorgersi della
forte carica totalitaria di certe affermazioni . Come quando celebra il valore paradigmatico del Terrore rivoluzionario del
1793-179428:
“Ciò ci permette di ritornare al Terrore. In realtà, preso isolatamente, ‘terrore’ è uno dei termini disarticolati dell’impensabile. Il progetto di ‘pensare il terrore’ è impraticabile in quanto
tale, poiché isolare la categoria del terrore è appunto un’operazione termidoriana (proprio come lo è il tentativo di pensare gli
Stati socialisti esclusivamente attraverso la loro dimensione
voluzionario) solo uno dei due poli di cui sopra. Invece Alberoni, riconduce
realisticamente le fasi rivoluzionarie, o movimentiste, nell’alveo di un processo sociale che si divide in due tempi: quello del movimento (disordine) e
quello dell’ istituzione (dell’ordine). Per farla breve: ogni rivoluzione, in certo
senso, finisce sempre per essere tradita: perché gli uomini, come sono capaci di ribellarsi e di organizzarsi in movimenti sociali, quando vedono calpestati i propri diritti, così chiedono, a crisi e/o rivoluzione avvenuta, un ritorno
alla normale vita di tutti di giorni. Una routine, che non può non essere basata sulle istituzioni, magari di nuovo conio, ma comunque, istituzioni. Cioè
inevitabilmente rispondenti a una logica istituzionale distinta dai criteri dell’
ordinalità, della prevedibilità e del mimetismo .
28
Badiou parla di “sequenza rivoluzionaria 1792-1794”. ( Metapolitica,
cit., p. 143 ).
25
terroristica). Cioè un’operazione destinata a produrre opacità e
impensabilità . Isolato, il terrore diventa un dato infrapolitico,
politicamente impensabile. Si apre così la via alla predica morale contro le violenze (…). Non è il tentativo maldestro di giustificazione o di chiarimento del terrore preso ‘in sé’ ciò che
può sottrarre all’operazione termidoriana (…). Bisogna esaminare l’opera rivoluzionaria come molteplicità omogenea, di cui
il terrore è una categoria inseparabile. In particolare, inseparabile dalla virtù. In politica, e trattandosi della Rivoluzione
francese, la condizione preliminare di ogni pensiero è disfare
la costruzione termidoriana “ 29 .
Al Termidoro liberale, di ieri e di oggi, rappresentato dalle
democrazie rappresentative, che pur garantiscono la libertà,
Badiou contrappone la “democrazia” delle assemblee e dei comitati che invece non ha mai garantito la libertà di alcuno. E
questo perché la metapolitica totalitaria di Badiou romanticamente non distingue il pensiero dalla realtà, la virtù dal terrore, la storia immaginata dalla storia reale, le vittime dai carnefici, e soprattutto, per venire all’oggi, strumentalizza quegli immigrati che non vogliono fare alcuna rivoluzione, ma chiedono
solo integrazione economica, diritti e rispetto. Come quando
scrive, proprio nella chiusa del libro:
“Ma qual è il momento della libertà in politica? Quello della
messa a distanza dello Stato (…) . Questa è la scrittura della
democrazia. I nostri due esempi mostrano che tale scrittura ha
avuto nomi singolari: ‘soviet’ al tempo della rivoluzione bolscevica, ‘zone liberate’ nel processo maoista. Essa ne ha alcuni
nel presente (ad esempio rassemblement des collectifs d’ouvriers sans-papier des foyers et de l’Organisation politique) e
ne avrà altri nel futuro. Per quanto rara sia la politica, dunque
la democrazia, è esistita, esiste, esisterà. E, con essa, sotto la
29
A. Badiou, Metapolitica, cit., p. 155.
26
sua condizione rigorosa, la metapolitica, ciò che una filosofia
dichiara ai fini del proprio effetto, essere degno del nome
di’politica’, O ancora: ciò che un pensiero, sotto la cui condizione esso pensa che cosa è un pensiero”30.
Concludendo: democrazia diretta ed egualitarismo come
motori del pensiero in atto, virtù e terrore rivoluzionario come
prolungamento storico e politico del pensiero in atto, sono le
quattro parole d’ordine del disegno metapolitico, all’insegna
dell’ ”oltre”, di Alain Badiou. Il quale però identifica la rivoluzione permanente con l’essenza del politico, approdando a
una sorta di paterno monoteismo rivoluzionario (robespierrista,
consiliare e maoista…), fondato sulla filiale e rassicurante certezza che la rivoluzione è salvifica come il padre celeste.
In realtà, Badiou scorge uno solo dei due volti del Giano Bifronte del politico: quello del disordine, o del movimento per il
movimento, che eleva a momento permanente e catartico. Cadendo nel puro romanticismo politico. Mentre ne ignora l’altro:
quello dell’ordine e dell’istituzione, che espunge in quanto
estraneo alla sua logica della rivoluzione permanente.
Il che ci conduce a riflettere su una questione fondamentale:
si può fare metapolitica, come accade a Badiou, ignorando le
costanti o “regolarità” del politico?
30
Ibid., p. 168. Per chi fosse interessato al dibattito suscitato, semplificando, nella cultura post-marxista contigua a Badiou, cfr. J. Barker, Alain
Badiou: A Critical Introduction , Pluto Press, London 2002. Barker, jeune
homme , studioso di filosofia, ha curato l’edizione britannica dell’ Abrégé (
Metapolitics, Verso, London 2005). Una curiosità: la voce “Metapolitics” di
Wikipedia, per quel che scientificamente possa valere, rinvia come in un
gioco di specchi solo a Badiou, Barker e Lazarus… Mentre per una seria ed
eccellente indagine filosofica e culturale sulle pseudomorfosi del comunismo
ideologico si veda R. De Benedetti, La fenice di Marx, Medusa, Milano 2003.
27
5. Metapolitica: una definizione
Ma quali sono le “regolarità” del politico? Lasciamo la parola a Gianfranco Miglio:
“Così, forse, è ormai possibile tentare - con una ipotesi più
generale circa la struttura e la dinamica della ‘sintesi politica’ l’unificazione, in un solo e comprensivo sistema delle ‘verità
parziali’ di Tucidide (la ‘regolarità’ della ricerca del dominio
‘esterno’), di Machiavelli (la ‘regolarità’ degli egoismi concorrenti), di Bodin (la ‘regolare’ presenza in ogni sistema politico
del capo decisivo), di Hobbes (il ‘regolare’ carattere fittizio di
ogni comunità, e la radice ultima della rappresentanza politica),
di Mosca e Pareto (la ‘regolarità’ della ‘classe politica’), di
Tönnies (la ‘regolarità’ della antitesi Comunità-Società), di
Weber (la ‘regolarità’ delle forme ideologiche di legittimazione), e infine di Schmitt (la ‘regolarità’ della contrapposizione
‘amicus-hostis’)” 31 .
31
G. Miglio, Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati
dagli allievi, Giuffrè Editore, Milano 1988, vol. II, p. 600. Il problema di individuare nei termini di “verità parziali” - la cultura sociologica anglo-americana
probabilmente parlerebbe di “patterns” - quel che persiste e si ripete in
chiave di comportamenti collettivi (nello spazio e/o nel tempo) in campo politico, rinvia a una capacità di “pensare per millennî ” rivendicata appunto da
Gianfranco Miglio (cfr. Op. cit., vol. I. p. XXXII); approccio oggi purtroppo
completamente dimenticato da larga parte della politologia e sociologia accademiche. Sull’importanza del “metodo” indicato da Miglio (segnato dall’analitica delle “regolarità”) si leggano le interessanti osservazioni di Lorenzo
Ornaghi, brillante prefatore a G. Miglio, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Giovanni Maria Lampredi e Ferdinando Galiani, Nino
Aragno Editore, Milano 2009, nota 27 pp. XXV-XXVI. Ma su questi aspetti
si veda anche - scusandoci per l’immodestia di affiancare il nostro nome a
quello di un gigante della scienza politica - C. Gambescia (a cura di), Che
cos’è il politico? Nuove ipotesi e prospettive teoriche, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2006. Questo volume è un primo tentativo teorico, a più mani
(ospita infatti scritti di L. Arcella, C. Bonvecchio, T. Klitsche de La Grange,
J. Molina, C. Polin, C. Preve, A. Segatori) nell’ ardita, forse troppo, direzione
di una teoria generale del politico.
28
A queste regolarità storiche e sociologiche ne aggiungiamo
altre tre. La prima, cui abbiamo già accennato discutendo Badiou: la “regolarità” individuata da Francesco Alberoni, tra
“istituzione” e “movimento”. La seconda: quella ravvisata da
Pitirim A. Sorokin, per così dire, tra progresso e decadenza ( o
se si vuole dell’ordine e del disordine: della “arché” e della
“anarché”), sulla quale ritorneremo nel terzo capitolo. E infine
quella proposta da Edward Shils: sulla “regolarità” circa la presenza in ogni società di una “tradizione”, o meglio “tradizionalità”, come centro di irradiazione di valori intorno ai quali poi
ruotano i comportamenti sociali; argomento che affronteremo
nel secondo capitolo.
Del resto la presenza di queste “regolarità” o costanti, storiche e sociologiche, non può essere negata. Si pensi a quel che
scriveva Michels, a proposito della “tendenza all’oligarchia”,
che potremmo tradurre in termini migliani di “regolarità” della
“classe politica”:
“Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. È insito nella natura stessa dell’organizzazione un elemento profondamente aristocratico. Il meccanismo dell’organizzazione,
mentre crea una solida struttura provoca nella massa organizzata mutamenti notevoli, quali il totale capovolgimento del rapporto del dirigente con la massa e la divisione di ogni partito o
sindacato in due parti: una minoranza che ha il compito di dirigere ed una maggioranza diretta dalla prima”32.
Ora rischia molto, chi non tenga presente questa e altre “regolarità”. Come avvertiva, già più di un secolo fa, Gaetano
Mosca, a proposito della necessaria costituzione di una “vera
scienza politica” :
32
R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna
(1911), il Mulino, Bologna 1966, pp. 56-57.
29
“Ci sembra evidente che opera assai più efficace si potrà
svolgere mercé la conoscenza esatta delle leggi che regolano la
natura sociale dell’uomo; la quale conoscenza se non altro insegnerebbe a distinguere ciò che può avvenire da ciò che non
può e non potrà mai avvenire, evitando così che molti intenti
generosi e molte buone volontà si disperdano improficuamente,
e anche dannosamente, nel volere conseguire gradi di perfezione sociale che sono irraggiungibili, e renderà inoltre possibile
di applicare alla vita politica lo stesso metodo che la mente
umana mette in pratica quando vuole padroneggiare le altre
forze naturali. Metodo che, come già si è accennato, consiste
precisamente nel comprenderne il meccanismo mediante un’attenta osservazione e nel saperne dirigere l’azione senza mai
brutalmente violentarle”33.
Ed è ciò che accade a Badiou, il quale fonda impropriamente la sua metapolitica su “ciò che non può e non potrà mai avvenire”: la dissoluzione di ogni forma organizzativa e politica.
Mentre, in realtà, solo una società capace di reggersi sull’equilibrio tra organizzazione e libertà può favorire lo sviluppo
delle classe inferiori, come già notava, a suo tempo, Michels:
“In un’epoca in cui tutti coloro che si trovano allo stesso livello economico e sociale e condividono le stesse idee tendono
a unirsi (persino i milionari si sono convinti della necessità di
un’intesa), l’organizzazione costituisce un presupposto per la
classe dei lavoratori, senza del quale è a priori da escludere un
successo tattico di qualsiasi portata. Da un punto di vista culturale, psichico, economico, fisiologico, il proletario è l’elemento
più debole della nostra società. L’individuo isolato, se fa parte
della classe lavoratrice, è abbandonato senza alcun aiuto all’arbitrio di chi è economicamente più forte. In un’epoca come la
33
G. Mosca, Elementi di scienza politica (1896), in Idem, Scritti Politici, a
cura di G. Sola, Utet, Torino 1982, vol. II, p. 1081.
30
nostra diviene addirittura esiziale per il lavoratore rifiutare di
prendere parte alla vita collettiva delle propria classe.
Solo nella misura in cui si organizzano in massa e danno al
loro aggregato una struttura, i proletari acquistano capacità di
resistenza politica e dignità sociale. Quando i socialdemocratici, fanatici assertori del principio dell’organizzazione, contrappongono alle teorie dell’individualismo anarchico l’assunto che
gli imprenditori nulla vedrebbero con maggior piacere che la
disgregazione e la dissoluzione delle forze di lavoro, si servono
quindi di un argomento che trova conferma nei dati forniti dallo studio scientifico del carattere dei partiti. Il significato e
l’importanza del proletariato risiedono solo nel suo numero.
Ma per dare espressione a questa forza numerica occorre che il
proletariato si schieri compatto e che mantenga la disciplina, Il
principio della organizzazione deve quindi considerarsi la conditio sine qua non della direzione sociale delle masse”34.
Ora, ripetiamo la domanda, è possibile una metapolitica che
non tenga conto delle “regolarità” del politico? No. Di qui,
sulla base delle concettualizzazioni proposte, la necessità di
una formulazione più accurata e obiettiva del concetto di metapolitica.
Intanto, partiamo da alcune osservazioni fondamentali.
In primo luogo, la metapolitica studia la realtà politica nei
termini di ciò che essa è, e non di ciò che dovrebbe essere. Di
conseguenza non ricerca il fondamento dell’ottimo stato, magari elevato al quadrato, come abbiamo visto. La metapolitica
non è un’etica della politica, studia la realtà così come si presenta.
In secondo luogo, la metapolitica si occupa delle questioni
legate alla legittimità del potere (radici e forme) così come si
presentano, senza risalire ad alcuna causa prima ultraterrena.
Ad esempio tra le “regolarità” individuate da Miglio è
34
R. Michels, Op. cit., pp. 55-56.
31
inclusa“la
regolarità
delle
forme
ideologiche
di
legittimazione”: punto e basta. Tutte le “regolarità”, a loro volta, hanno carattere trans-storico: nel senso che le ritroviamo all’interno di regimi politici ispirati a principi diversi, come nel
caso ad esempio, della “regolarità classe politica”.
In terzo luogo, la metapolitica ha una valenza metodologica,
nel senso che individua e relativizza i giudizi di valore.
Riportiamo qui un passo di Max Weber che esemplifica
bene il ruolo dello studioso metapolitico e il senso e il significato della metapolitica:
“Ma fortunatamente l’opera della scienza non è ancor finita,
bensì noi [studiosi e insegnanti] siamo in condizioni di aiutarvi
a conseguire un ulteriore risultato: la chiarezza . A patto, naturalmente di possederla noi stessi . Ciò posto, questo possiamo
rendervi chiaro: rispetto al problema del valore, intorno al quale sempre ci si aggira - per comodità vi prego di riferirvi, come
esempio, ai fenomeni sociali - si possono prendere praticamente diverse posizioni. Se si prende l’una o l’altra, bisogna applicare, secondo i risultati della scienza, certi mezzi o certi altri,
per attuarla praticamente. Ora questi mezzi possono essere di
per sé tali che voi crederete di volerli respingere. Allora, bisogna, appunto scegliere tra il fine e i mezzi indispensabili. Il fine
‘giustifica’ o no questi mezzi? L’insegnante può mostrarvi la
necessità di questa scelta, ma non può far di più, in quanto voglia rimanere insegnante e non divenire demagogo (…). E con
ciò siam giunti al più alto servigio che la scienza possa rendere
alla chiarezza, e contemporaneamente tocchiamo anche i confini di ogni scienza, vale a dire, noi possiamo - e dobbiamo - anche dirvi: questa o quest’altra posizione pratica può dedursi
con intima coerenza e serietà, conforme al suo significato, da
questa o quest’altra fondamentale concezione del mondo (…) da una soltanto o forse anche da più - , ma non mai da quella o
da quell’altra. Voi servite questo dio - per parlare figurativa32
mente - e offendete quell’altro, se vi risolvete per questo atteggiamento. Giacché perverrete a queste ed a quest’altre estreme
ed importanti conseguenze intrinseche, se rimarrete fedeli a voi
stessi. Quest’opera, almeno in linea di principio, può essere
compiuta. A ciò tendono la disciplina speciale della filosofia e
le discussioni, per loro essenza filosofiche, sui principi delle
singole discipline. Possiamo quindi, se abbiamo ben capito il
nostro compito (il che deve essere qui presupposto), costringere il singolo - o almeno aiutarlo - a rendersi conto del significato ultimo del proprio operare” 35.
Sotto questo aspetto la metapolitica, in senso weberiano, accetta la sfida di quella che Carl Schimtt definiva la moderna
“tirannia dei valori”, quando il vecchio saggio di Plettenberg
notava che
“poiché l’elemento specifico del valore consiste propriamente in ciò, che esso invece di un essere ha soltanto una validità. Pertanto il porre i valori non è niente, se esso non si fa
valere; la validità deve essere continuamente attualizzata, cioè
fatta valere, se non si deve risolvere in mera apparenza. Chi
dice valore, vuole far valere e imporre. Le virtù vengono praticate; le norme vengono applicate; i comandi vengono eseguiti;
ma i valori vengono posti e imposti. Chi sostiene la loro validità, li deve far valere. Chi dice che essi valgono, senza che qualcuno li faccia valere, vuole ingannare”36.
Insomma la metapolitica, come viene qui intesa, se non vuo35
M. Weber, La scienza come professione, in Idem, Il lavoro intellettuale
come professione. Due saggi, cit. pp. 35-37. Il corsivo è nel testo.
36
C. Schmitt, La tirannia dei valori ( 1959 e 1967), Antonio Pellicani Editore, Roma 1987, p. 61. Come nota il compianto Giano Accame nella densa
presentazione, secondo Schmitt, che ricorre intellettualmente prima a Nicolai Hartmann e poi al Max Scheler de Il Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori: “il risultato è che ora la filosofia dei valori (Max Scheler)
‘permette di ripagare il male con il male, e di trasformare in tal modo questa
terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori’ ” (Ibid., p. 14).
33
le “risolversi” in contabilità filosofica della mera apparenza,
deve prendere atto del fragore che produce la battaglia dei valori. Ma anche del sangue e delle lacrime. E delle menzogne
umane.
Si deve nutrire della consapevolezza che dietro ogni valore
c’è sempre qualcuno che si impegna a farlo valere. Lo sguardo
della metapolitica sul potere deve squarciare il velo delle apparenze e posarsi dritto e severo sul cuore delle cose.
Riassumendo, e per metterla in termini meno letterari: la
metapolitica può essere definita come un approccio generalizzante che studia i mezzi sociali concreti attraverso i quali si
conquista, si detiene, si perde il potere, nonché i significati effettuali dei differenti fini o valori collettivi professati dai diversi attori sociali37. Di riflesso la metapolitica, viene temporalmente “dopo” la politica, nel senso che parte dallo studio storico della realtà politica, sociale, culturale, economica come è, e
non come dovrebbe essere. Ma va anche “oltre” la realtà storica, perché in quanto scienza dei mezzi e dei fini, si avvale concettualmente delle “regolarità” sociologiche più sopra ricordate. E perciò studia gli effetti di ricaduta dell’uso di certi mezzi
e fini sociali in luogo di altri. E ciò perché la metapolitica è una
riflessione generale sulle diverse e numerose divinità terrene
che si rischia sempre di servire e offendere al tempo stesso,
quando si vuole fare politica, per usare l’efficace espressione di
Max Weber. E perciò la metapolitica è consapevolezza della
natura ferrea e conflittuale dei valori, che se disconosciuta può
trasformarsi in quella tirannia intuita da Carl Schmitt.
37
Quanto al significato sociologico del termine potere rinviamo alla classica definizione descrittiva di Max Weber, da noi qui condivisa: “Per ‘potere’
deve quindi intendersi il fenomeno per cui una volontà manifestata (“comando”) del detentore o dei detentori del potere vuole influire sull’agire di altre
persone (del ‘dominato’ o dei ‘dominati’) ed influisce effettivamente in modo
tale che il loro agire precede in un grado socialmente rilevante, come se i
dominanti avessero per loro stesso volere, assunto il contenuto del comando
per massima del loro agire (‘obbedienza’).” (M. Weber, Economia e società
(1922), Edizioni di Comunità, Milano 1968, vol. II, pp. 250-251).
34
Per fare un esempio: le vicende politiche di Roma antica
possono essere studiate dal punto di vista della loro evoluzione
temporale: questa è storia politica; possono essere studiate dal
punto di vista del funzionamento delle istituzioni politiche:
questa è sociologia politica; possono essere studiate dal punto
di vista del ripetersi storico delle regolarità sociologiche più sopra ricordate: questa è metapolitica.
Come già ricordato, la metapolitica si avvale delle “regolarità” sociologiche, senza naturalmente vantare alcuna pretesa di
assolutezza scientista. Una “regolarità” non prevede un evento
singolo, e neppure la sua probabilità. Ma l’ individuazione e
l’uso della “regolarità”, per dirla con Weber, ci permette di capire che per ottenere certi fini “bisogna applicare, secondo i risultati della scienza, certi mezzi o certi altri, per attuarla praticamente”. Il che significa che la metapolitica ci mette nelle
condizioni di affermare, “che questa o quest’altra posizione
pratica può dedursi con intima coerenza e serietà, conforme al
suo significato, da questa o quest’altra fondamentale concezione del mondo”38.
Saremmo, insomma, per dirla con Scardovi, al cospetto di
“una sorta di asserzione ipotetica del tipo ‘se…, allora…; e se,
posto l’ ‘antecedente’, il ‘conseguente’ previsto non si invera
nel reale, la previsione racchiusa nella regolarità, può sempre
valere come schema di riferimento”. O altrimenti detto: nell’indagine metapolitica, fondata sull’uso concettuale delle “regolarità”, “la previsione razionale si traduce in un ventaglio aperto
sui futuri possibili, sebbene la ragion pratica di ogni procedura
previsiva ponga l’esigenza di decidere, di richiudere il ventaglio”39. In certo senso l’uso della regolarità attiene più a uno
spazio strategico-decisionale che probabilizzato40.
Restano infine tre punti.
38
M. Weber, La scienza come professione, in Idem, Il lavoro intellettuale
come professione. Due saggi, cit., p. 36.
39
I. Scardovi, Previsione, in AA.VV, Enciclopedia delle scienze sociali,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1996, vol. VI , p. 786.
35
Il primo è quello del rapporto tra metapolitica e fede religiosa. Nel senso che oltre le numerose divinità terrene, sempre “a
rischio” in senso weberiano, per il credente esiste un Dio ultraterreno. Su questo aspetto torneremo nelle conclusioni. Benché
nel prossimo capitolo ci occuperemo dei cattolici, ma dal punto
vista, come dire, “empirico” (ma fino a un certo punto…). Fermo restando che in questo libro la nostra attenzione è rivolta all’analisi della metapolitica in senso effettuale.
Il secondo punto è quello del rapporto tra metapolitica e istituzioni democratiche (libertà individuali e associative, democrazia rappresentativa, diritti di proprietà e libertà economica).
Abbiamo già notato che la metapolitica delle “regolarità” ( e
dunque dei concetti) ha un valore trans-storico: nel senso che le
“regolarità” abbracciano le forme più diverse e opposte di regime politico. Ad esempio la “regolarità” della classe politica, la
ritroviamo sia in ambito democratico che non democratico.
Stessa osservazione si può fare per la “regolarità” delle forme
ideologiche di legittimazione, per la “regolarità” della contrapposizione amicus-hostis, e così via.
Naturalmente la forma democratica offre spazi di libertà intellettuale e politica e di ricambio, che altre forme non offrono.
Spazi che dunque vanno difesi. Tenendo però presente che se si
serve il dio democratico, altre divinità potrebbero offendersi e
viceversa. Difendere la democrazia, metapoliticamente, come
40
Il che significa che se la regolarità storica e sociologica, come ciò che
nell’ordine dell’esperienza scientifico-investigativa può ripetersi, viene accostata alla previsione, come ciò che nell’ordine di uno spazio probabilizzato
(si pensi alle previsioni economiche) può verificarsi nuovamente, né per l’una né per l’altra si deve parlare di predizione: nel senso di una perfetta e
irrevocabile simmetria tra passato e futuro. Del resto la predizione appartiene più all’ordine della divinazione che della scienza. Al riguardo si veda I.
Scardovi, Op. cit., pp. 786-790. Non è inutile qui ricordare - chiudendo il cerchio metapolitico - come la decisione, strategica o meno, rientri pienamente
nell’ambito di quelle “categorie del politico”, studiate da Carl Schmitt. Si
veda ad esempio C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, (ed. or. 1932), a
cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1988, in particolare pp.
260-264 (“ Pensiero fondato sulla decisione/ Decisionismo”).
36
ogni altra forma di regime politico, implica sacrifici e rinunce
intellettuali, che spesso possono nuocere alla analisi metapolitica, che deve essere sempre spassionata. Crediamo perciò che
l’ideale da perseguire sia quello di trovare un punto di equilibrio tra passioni e interessi. Il che però richiede doti caratteriali
che non tutti gli studiosi possiedono. Infatti molti chierici dei
nostri giorni, spesso vittime delle proprie insicurezze esistenziali, preferiscono ripiegare su un apollineo monoteismo politico, respingendo il dionisiaco politeismo metapolitico. Come ha
sufficientemente mostrato la nostra analisi del monoteismo rivoluzionario di Alain Badiou. Eppure si deve tentare. Un equilibrio va comunque perseguito. Dal momento che senza l’altro
sguardo della metapolitica sul potere, si rischia solo di fare cattiva politica teorica e pratica.
Il terzo punto, che in certo senso prende spunto da quest’ultima osservazione, riguarda l’azione metapolitica. Fin qui ci
siamo concentrati sulla teoria e non sull’azione. La teoria metapolitica concerne l’osservatore: lo studioso - per fare un
esempio - che “pensa” (e spiega) a un uditorio, per così dire di
studenti, che cosa sia la metapolitica. E che studia, come dire,
“in vitro” l’ agire cooperativo o conflittuale degli attori sociali .
Però questo non basta. Perché è anche interessante capire, a
completamento di quanto fin qui detto, che cosa sia la metapolitica - e ci scusiamo per la ripetizione - dal punto di vista dell’azione metapolitica, ovvero degli attori sociali: di coloro che
non spiegano, ma agiscono, “fanno” metapolitica41.
Ed è ciò di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
41
Non vorremmo essere qui trascinati nell’annosa diatriba filosofica circa
la consonanza o meno tra teoria e azione. E dunque sulla necessità di trovare o meno un raccordo in chiave di una suggestiva filosofia della prassi. Diciamo che la nostra distinzione è di tipo analitico, e non costitutivo. E che
tuttavia sullo sfondo di essa, come il lettore si accorgerà (soprattutto nel terzo capitolo e nelle conclusioni), si può scorgere la nostra aspirazione a una
visione integrale, unificante. Visione che, ovviamente, è fuori dalla portata
della sociologia, e perciò della nostra preparazione, come di questo libro, i
cui intenti come già chiarito sono altri.
37
38
II
Dell’azione metapolitica.
1. Tradizione: la lezione di Edward Shils
Che cosa distingue la teoria metapolitica dall’azione metapolitica? Lo abbiamo già anticipato: il diverso ruolo dei suoi attori. La teoria metapolitica rinvia all’osservatore: all’attore sociale che osserva e pensa. Mentre l’ azione metapolitica rimanda all’uomo d’azione: all’attore sociale che agisce in situazione. Il miglior modo di chiarire che cosa sia l’azione metapolitica è quello di spiegarla attraverso l’analisi di un caso concreto.
Un case study, per usare il linguaggio delle scienze sociali, capace di illustrare al tempo stesso sia il significato di azione metapolitica, sia quale può essere il ruolo di una minoranza attiva
che oggi aspiri “a fare azione metapolitica”. La riposta però potrà essere data solo dopo aver indagato il concetto di tradizione
- che qui affronteremo in termini di totale “neutralità affettiva”
per dirla con Talcott Parsons - nelle sue implicazioni con la
metapolitica teorica e dell’azione.
Perché solo l’ analisi preventiva di questo concetto, consentirà di ragionare in seguito sul significato e sulle motivazioni
dell’ azione metapolitica in termini di case study (ricordiamo
che ci occuperemo dei cattolici). Ma veniamo alla tradizione.
Se come abbiamo osservato nel capitolo precedente, la metapolitica si occupa (anche) dei principi di legittimità del potere e
del politico, interpretandoli come “regolarità” trans-storiche e
sociologiche, allora non esiste alcuna tradizione con l’iniziale
maiuscola. Ma tradizioni che afferiscono a differenti “divinità”
da servire e offendere, perché non si può essere servitori al
tempo stesso di due padroni.
Il punto fondamentale è però che ogni società non può non
ruotare sociologicamente intorno a un insieme di idee, valori
39
norme che ne rappresentano il centro di irradiazione. E qui la
parola chiave è “centralità” non “diversità”. La definizione di
“centro” ha un valore fondamentale perché la “centralità” del
sistema di idee-valori-norme è quella che permette alla collettività l’ attribuzione di senso al mondo. Come una sorgente di
acqua cristallina, o di “pozza fra la roccia” per dirla con Eliot,
il “centro” garantisce, vivificando istituzioni e comportamenti
collettivi, la riproduzione della vita sociale: la continuità di
una società nel tempo. E ciò è una “regolarità” storica e sociologica, e dunque metapolitica. O per dirla ancora con i versi di
Eliot - soprattutto per chi sappia riconoscerla - “suono d’acqua
sopra una roccia”42. Come è noto il termine tradizione, viene
dalla voce dotta latina traditione(m) che a sua volta proviene
dal verbo tradere nel suo significato di “consegnare” (dare)
“oltre” (tra)43. Il “consegnare oltre”, in genere come passaggio
da un gruppo generazionale a un altro, indica, di per sé (almeno
sul piano sociologico e storico) la necessità di una persistenza
sociale di quelle idee-valori-norme che incarnano il fulcro intorno al quale non può non ruotare la vita sociale. Ma indica
anche un altro fatto: se le società vogliono persistere nel tempo
hanno bisogno di una “tradizione-centro” che ne favorisca la
regolarità della vita sociale. E qui veniamo all’importante studio che Edward Shils ha dedicato al concetto di tradizione
come sostanziale “regolarità” storica e sociologica pur non
usando questo termine44.
42
T.S. Eliot, La terra desolata”, in Idem, Opere (1904-1939), Bompiani,
Milano, vol. I., p. 613.
43
Si veda ad vocem M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della
lingua italiana, cit. , vol. V, p. 1357.
44
E. Shils, Tradition (1981), The University Chicago Press, Chicago
2006. Edward Shils, scomparso nel 1995 alla venerabile età di ottantacinque anni, ha insegnato sociologia negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Di origine russo-ebraica, naturalizzato americano, attento studioso di Max Weber
e Karl Mannheim e collaboratore di Talcott Parsons. Shils ha goduto di un
momento di celebrità in Italia: nel 1983, infatti, ricevette il premio Balzan, e
sempre nello stesso periodo su invito di Giovanni Paolo II, partecipò agli incontri estivi di Castel Gandolfo, tra il Papa e importanti uomini di cultura.
40
Shils “seziona” la tradizione freddamente. Non è interessato
a nessuna concezione ab aeterno . Insomma, non cerca di giustificare con la sua sociologia visioni provvidenzialistiche di
qualsiasi tipo, o ancora peggio, di risuscitare, come uno sciamano delle idee, all’insegna di un nibelungico Ur-qualchecosa
istituzioni storiche, morte e sepolte migliaia di anni fa. Shils,
invece, distingue, ottimamente, fra la tradizione in quanto tale
(la “tradizionalità”, “substantive traditionality”), che obiettivamente garantisce la continuità sociale attraverso la trasmissione
dei valori, e i contenuti delle diverse tradizioni, sui quali di solito si appuntano gli strali valoriali delle critiche ideologiche
“tradizionaliste” e “antitradizionaliste”. Critiche che, spesso
per partito preso, finiscono per gettar via il bambino (la “tradizionalità) con l’acqua sporca, del “tradizionalismo” o dell’
”antitradizionalismo”, secondo le rispettive preferenze. Ma lasciamo parlare l’autore:
“La tradizionalità è compatibile con qualsiasi contenuto sostanziale. I modelli di pensiero, di credenze e relazioni sociale,
le pratiche, le tecniche, gli oggetti, creati o meno dall’uomo, e
suscettibili di essere trasmessi, possono diventare una tradizione”45.
Non tutto però “è tradizione”: provare
“un sentimento non è tradizione: è solo qualcosa che avverDopo di che scivolò in una specie di limbo intellettuale. Del resto uno studioso, non cattolico, ma apprezzato dal Papa, non poteva incontrare il favore
di una sociologia, come l’italiana, che in quegli anni, pendeva ancora dalle
labbra di Marx ed epigoni, in varie salse liberal. E così l’ unico suo libro tradotto resta Centro e Periferia. Elementi di macrosociologia (Morcelliana ,
Brescia 1984), dove svolge alcuni degli argomenti sviluppati in Tradition .
Un testo esaurito da anni. Ed è un peccato, perché Shils è stato l’unico sociologo, della seconda metà del Novecento, a occuparsi esplicitamente di
tradizione.
45
E. Shils, Tradition , cit., p. 16.
41
tiamo all’improvviso. Un giudizio razionale non è tradizione: è
un’asserzione di tipo logico (…) . Un processo di produzione
industriale non è tradizione: è una pura e semplice organizzazione di alcune azioni individuali (…). L’esercizio dell’autorità
non è tradizione: è un insieme di parole scritte e parlate volte a
promuovere o meno alcuni adempimenti individuali. L’esecuzione di un rito, sia che si tratti di un atto (…) celebrativo di
un anniversario(…), o di lealtà nei riguardi di un sovrano, magari attraverso un banchetto, non è tradizione: è solo un insieme di parole e movimenti fisici espressivi di fugaci credenze e
sentimenti”46.
E allora? Per parlare di tradizione serve qualcosa di più: non
basta la pura “riproduzione (o trasmissione) sociale” di una
certa cerimonia. Occorre che ogni società abbia un “centro”: un
“Guiding Pattern”. Un “modello-guida” capace di indirizzare
il comportamento che viene reiterato, dando agli uomini la consapevolezza storica, sociale e morale che “quel che stanno facendo sia intrinsecamente giusto”47 . Dal momento che le “tradizioni sono la ‘componente tacita’ delle azioni razionali, morali e cognitive”48. Senza le quali l’uomo precipita nell’individualismo anomico. Per dirla in modo immaginoso: se la fonte
si dissecca, l’uomo rischia di morire di sete. E pur di continuare a vivere a qualunque costo, si dichiara pronto a uccidere il
proprio vicino, amico o fratello, anche per una sola goccia
d’acqua.
Ma Shils sviluppa pure una serie di analisi molto acute.
Come, ad esempio, il suo esame delle più diverse e opposte
tradizioni religiose, politiche, culturali: dal monoteismo al politeismo, dal liberalismo al socialismo, solo per citarne alcune.
Paradossalmente, secondo Shils, la necessità umana di punti ri46
Ibid., p. 31.
Ibid., p. 32.
48
Ibid., p. 33.
47
42
ferimento costanti avrebbe addirittura creato nei secoli moderni
(antitradizionali per eccellenza), una “tradizione dell’antitradizione”, fondata sulle idee di progresso e scienza democrazia e
individualismo 49. Un atteggiamento “perfettista” che secondo
Shils si estendeva anche al marxismo, come intreccio di evoluzionismo, storicismo ed economicismo50, culminante in una altrettanto paradossale “tradizione rivoluzionaria dell’antitradizione”51. E promotrice dell’eguaglianza di tutti i popoli della
Terra… Tuttavia nella Russia sovietica, come fa notare l’autore, il marxismo “dovette adattarsi ai pregiudizi nazionalisti”, e
dunque passatisti, “dei suoi effettivi aderenti”52. Per Shils, infatti, fare i conti con la realtà, con quel che realmente pensa la
gente, significa fare i conti con le tradizioni, o meglio con la
“tradizionalità”: con quelle credenze che mescolando passato e
presente nella vita quotidiana delle persone, rendono loro chiara, l’altrimenti incerta, navigazione nel mondo dei significati
sociali.
Particolarmente interessante è l’analisi dei modelli di “stabi49
Ibid., pp. 235-237. Shils parla di una “tradizione dell’antitradizione” di
stampo democratico-progressista con propensione a sconfinare nel democraticismo. Va detto, a chiosa della tesi di Shils, che pure in ambito liberale
si è tentato di costruire una “tradizione dell’antitradizione”, soprattutto nella
seconda metà del Novecento, con propensione a sconfinare nel culto accademico dell’esistente. Si vedano, ad esempio, Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945), Armando, Roma 1973 e Friedrich August von
Hayek, Legge legislazione e libertà (1973-1979), Il Saggiatore, Milano 1989.
Opere comunque interessanti, a prescindere… La prima imperniata sul tentativo di costruzione, per contrasto con le società chiuse, di una “tradizione”
della moderna società aperta, la seconda sull’edificazione, altrettanto moderna, di una “tradizione” della “grande società”.
50
Una delle migliori critiche dell’evoluzionismo storicista marxiano, da affiancare alla critica di Shils, è quella di un eclettico “marxologo” italiano: C.
Preve, Marx inattuale, Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri Torino 2004,
pp. 32-60. Piace ricordare, come ci è stato riferito dallo stesso autore, che il
libro fu fortemente voluto dal compianto Alfredo Salsano - eclettico quanto e
più di Preve - all’epoca direttore editoriale della casa editrice torinese.
51
E. Shils, Tradition, cit., p. 237.
52
Ibid., p. 238. Shils parla di “nazionalismo associato al marxismo”; in
parole povere nazional-marxismo…
43
lità e cambiamento”. Secondo Shils una tradizione scompare
quando non è più grado di soddisfare il naturale bisogno nell’uomo di regolarità sociale. Il suo “centro” si inaridisce spiritualmente, come fu nel caso delle religioni precristiane, e non
riesce più a gratificare moralmente i suoi fedeli e seguaci. Anche se - ecco l’aspetto interessante delle sua tesi - il politeismo in quanto “tradizionalità”, in realtà non è mai scomparso
totalmente, anche all’interno dello stesso cristianesimo, quale
“centro” di irradiazione, come ad esempio mostrano i culti “periferici” dei santi.
In realtà, Shils mostra che la “tradizionalità” come impasto
di passato e presente non potrà mai scomparire, perché se ciò
accadesse verrebbe meno la stessa socialità umana, e di riflesso ogni forma di vita civile. Pertanto l’uomo, soprattutto se
istruito e colto, vive, senza saperlo, immerso nella “tradizionalità”: quando legge l’Iliade di Omero, per poi magari spiegarla
agli altri; quando risolve un complesso problema giuridico,
usando categorie che derivano dal diritto romano; quando si
sposa e mette su famiglia, assentendo tacitamente al valore
della monogamia, che ha origini antichissime. E così via53…
53
A questo punto ci si chiederà, se Shils aveva una sua “tradizione” politica di riferimento. Certo, quella liberale e moderatamente illuminista. Si tratta di un liberalismo alla Raymond Aron che teme gli eccessi dello stato ma
anche quelli del mercato. E di un illuminismo ben temperato dalla conoscenza storica e sociologica, come in Ortega y Gasset e Berlin. “Una società scrive Shils - è un fenomeno “trans-temporale. La sua esistenza non è rappresentata dal vivere in un certo preciso momento. Ma dall’ esistere nel
tempo. Ogni società si costituisce temporalmente. ” (Ibid., p. 327). E chiunque la privi della sua storia la condanna a morte. Sotto questo aspetto un
illuminismo liberale che continui in futuro a deificare il progresso e disprezzare le tradizioni “è un errore colossale”. Mentre il suo compito dovrebbe essere quello di aiutarci, iniziando a scoprire storicamente “quel che è vivo o
morto nell’illuminismo stesso, visto che si è sviluppato a dismisura, perdendo la sua vitalità fino al punto di divenire ingombrante” ( Ibid. p. 330). In
questo senso Shils, si allontana, dal pensiero di Popper e Hayek. Per avvicinarsi a quello di un liberalismo, realista e fautore della “mano visibile” della
politica, che rinvia alla figura di Wilhelm Röpke (ma anche a Ortega, Croce,
Einaudi, Aron, Freund, Berlin e come vedremo Niebuhr). Sul liberalismo politico, come alternativo al liberalismo della “mano invisibile” di un Hayek, si
44
Una società priva di tradizione, nel senso della tradizionalità”, cui fa riferimento Shils, è una società incapace di attribuire
senso al mondo. È come un essere umano privo delle sue capacità intellettive. O peggio ancora: un uomo decerebrato.
2. “Tradizionalità” e metapolitica dell’azione
Una volta stabilita la persistenza della “tradizionalità”, come
“regolarità” metapolitica, la si può definire dal punto di vista
dell’azione metapolitica.
E qui dovremo essere molto schematici.
Sotto l’aspetto della teoria dell’azione metapolitica il concetto di tradizione può essere scomposto in tre fattori: 1) un sistema di significati socioculturali coerenti; 2) i soggetti sociali,
fisicamente e psichicamente in grado di interagire; 3) i veicoli
sociali in grado di favorire la diffusione dei significati socioculturale tra i soggetti in grado di interagire54.
Ad esempio una tradizione religiosa può essere decostruita
analiticamente in questo modo: 1) in un sistema dottrinario dal
significato coerente, 2) nei sacerdoti e fedeli, ai vari livelli, che
attraverso le loro interazioni la mettono in pratica, 3) in luoghi
di culto, riti, oggetti sacri, libri, eccetera, che facilitano la sua
diffusione tra i soggetti sociali. Se manca uno solo di questi
elementi non è possibile parlare di tradizione religiosa vivente55.
Dal punto di vista dell’azione metapolitica deve essere sempre ben chiaro che un sistema dottrinario, per quanto coerente
veda l’ottimo J. Molina, Röpke. Edizioni, Settimo Sigillo, Roma 2007.
54
Su questa tripartizione rinviamo a P.A. Sorokin, Society, Culture and
Personality. Their Structure and Dynamics. A System of General Sociology
(1947), Cooper Square Publisher, New York 1962 , pp. 39-66.
55
Su questo concetto, che implica quello di “creazione perenne” sulla
base però di “elementi permanenti”, si rinvia a G. Le Bras, La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche ( 1955), il Mulino,
Bologna 1976, pp. 28-85.
45
ma privo di seguaci, rappresenta una tradizione morta. Seguaci, privi di un sistema dottrinario coerente, finiranno nelle braccia del sincretismo più volgare. Luoghi di culto privi di fedeli
rinviano anche fisicamente a una tradizione morta, o al massimo, a luoghi di ritrovo per turisti curiosi o amanti della storia
dell’arte.
Di conseguenza una tradizione religiosa per essere tale deve
essere vivente e dunque riprodursi continuamente attraverso
l’adesione dottrinaria, l’interazione e l’uso di veicoli. E per restare vivente ed effettiva deve coinvolgere una quantità crescente di persone. Perché il ruolo sociologico della tradizione,
o della “tradizionalità” per dirla ancora con Shils - a meno che
non la si voglia sminuire a puro fattore costrittivo esterno non è quello della testimonianza, all’interno di circoli ristretti,
bensì quello di plasmare, secondo i suoi valori, la realtà sociale: di trasformare le attribuzioni di senso in comportamenti collettivi. E quando non vi riesce più è praticamente finita56.
Sotto questo aspetto, dal punto di vista sociologico e dell’azione metapolitica, il “tradizionalismo”, nelle sue varie osservanze (anche non cristiane), è un fenomeno che sociologicamente ha natura transitoria (per quanto a lungo possa storicamente durare). Perché intorno ad esso si raccolgono le idee e le
pratiche di un gruppo sociale, che va a collocarsi negli interstizi del presente: in una situazione, come dire, di passaggio o
di transizione.
In realtà però i “tradizionalisti” finiscono per accettare passivamente questa condizione “transitoria” e di vivere come sospesi tra passato e futuro. Probabilmente perché spesso, troppo
innamorati di se stessi e/o delle convenzioni , diventano incapaci di scegliere tra le due possibilità “direzionali”, di fatto, che
hanno loro davanti: o regredire trasformandosi in “setta” (che
56
Anche il ricorso continuativo e/o residuale alla pura forza può essere
interpretato come un segno di crisi e debolezza. Su queste tematiche è di
qualche utilità C. Prandi, La tradizione religiosa. Saggio storico-religioso,
Borla, Roma 2000.
46
poi spesso è quel che avviene), o progredire, crescendo fino a
diventare un “movimento sociale”. E, dunque, trasformarsi ma non è sempre detto - in un soggetto capace di influire sul
mutamento delle istituzioni esistenti57.
Ogni società provvede a trasmettere e diffondere il suo sistema di significati socioculturali coerenti attraverso la socializzazione. Il processo di socializzazione implica un graduale
“addestramento” a vivere in società secondo il sistema di significati egemone. Ogni epoca ha seguito metodiche diverse. In
linea generale la socializzazione implica sempre nei soggetti
atti a ricevere un principio di adesione, in termini di conseguente conformità e obbedienza. Il soggetto ne può essere consapevole o meno. Pertanto, a grandi linee, abbiamo forme di
adesione per fede, per convinzione razionale, per convenienza,
per imitazione 58.
La chiave di volta del sistema è costituita dalla trasformazione del sistema di significati coerenti in memoria sociale.
Una lenta metamorfosi che al tempo stesso è veicolata da e
sfocia in un comportamento che viene ripetuto automaticamente, senza più interrogarsi sulle sue origini. In questo modo la
memoria sociale funziona come un insieme di rappresentazioni
e pratiche che vengono recepite e messe in atto automaticamente: “Si fa così perché si è sempre fatto così”. E tanto più
nel tempo la memoria sociale, come effettivo serbatoio di informazioni comportamentali che riflette un preciso sistema di
significati, darà prova di saper garantire stabilità, quanto più la
57
Piace qui ricordare, perché ancora oggi utile alla ricerca sociologica,
non solo in campo delle tradizione religiosa, la partizione classica di E.
Troeltsch tra tipo-chiesa e tipo-setta in termini di adattamento o meno al
mondo, da lui esposta ne Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani ( 1912), La Nuova Italia, Firenze, 1941, pp. 463-483.
58
Si veda S. Moscovici (a cura di), Psicologia sociale (1984),Borla
Roma 1996, 2° ed., pp. 25-159. Sul piano storico, ma anche come modello
insuperabile di ricerca, si rinvia a H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità (1950), Studium, Roma, 1978.
47
vita sociale scorrerà linearmente59. Il ruolo della tradizione, o
“tradizionalità”, è quello di assicurare regolare governo degli
uomini e delle cose, attraverso la continua l’iterazione. E, ovviamente, la memoria sociale si rafforza proprio attraverso la
reiterazione simbolica e comportamentale. Inoltre, quanto più
una società sarà priva di rappresentazioni e pratiche alternative
a quelle della tradizione egemone, tanto più sarà facile favorire
lo sviluppo di una memoria sociale collettiva e unitaria. Il che
significa che la tradizione è più forte e rispettata nelle società
meno complesse.
Facciamo qualche esempio (magari esasperando i termini
della questione), per far capire meglio il “funzionamento” sociale della tradizione o “tradizionalità”.
Una società guerriera porrebbe il valore militare come unico centro del suo sistema di significati. Di qui la formazione di
una memoria sociale fondata sulle gesta eroiche del passato,
ma anche un sistema unitario di rappresentazioni e pratiche
collettive, dove, ad esempio, le varie forme di iniziazione sociale rinvierebbero alle capacità dei figli di mostrare di essere
all’altezza del valore dei padri.
Per contro, una società per metà guerriera e per metà pacifista, avrebbe invece due centri, imperniati su due valori contrastanti come la pace e la guerra. Di qui la formazione e lo sviluppo di una memoria sociale non condivisa, dove, ad esempio,
le gesta eroiche del passato, verrebbero mitizzate da alcuni e
considerate crimini da altri. Inoltre, alcuni figli sarebbero portati a distanziarsi dall’eroicità dei padri, e viceversa. Di qui
fratture generazionali, conflitti valoriali, eccetera.
59
Sappiamo bene che il concetto di memoria sociale è molto complesso
e soprattutto analiticamente diversificato. Qui per ragioni di sintesi siamo
perciò costretti a semplificare, parlando appunto di memoria sociale, in termini molto generali. Per una visione esaustiva del concetto si rinvia a P.
Connerton, Come ricordano le società (1989), Armando, Roma 1999, pp.
28-32, nonché per la rigorosità delle numerose definizioni di memoria, N.
Pethes e J. Ruchatz ( a cura di), Dizionario della memoria e del ricordo,
(2001), Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 308-340.
48
E le cose sarebbero ancora più complicate, sotto l’aspetto
della “funzionalità” del “Guiding Pattern”, se i “centri” fossero tre, quattro, cinque… Più una società diventa culturalmente
policentrica più diviene difficile conseguire la formazione di
un comune memoria sociale: troppe divinità da servire e offendere… E perciò diviene ancora più difficile favorire una corretta e lineare socializzazione dell’individuo.
Quanto appena detto non significa che un forte centro non
possa coesistere con altri centri situati all’interno della stessa
società. Il problema è rappresentato dalla distanza in termini di
valori, tra i diversi centri. Uno dei problemi della società contemporanea è quello di confondere il pluralismo sociale e politico con il policentrismo dei valori. Ovvero di confondere il libero pluralismo delle forme politiche ed economiche con il tirannico policentrismo culturale di derivazione relativista.
Facciamo, di nuovo, un esempio.
Nella società europea tardo medievale (secoli XI-XII-XIII),
alla pluralità delle forme politiche ed economiche (comuni, regni, signorie, imperi, economie autarchiche, di scambio, mercantili), corrispondeva un’unica tradizione culturale e religiosa, di tipo cattolico alla quale tutti i contendenti si riferivano,
condividendo una reale unità di fondo: al pluralismo politico e
sociale non corrispondeva dunque il policentrismo dei valori.
La tradizione condivisa da tutti era unica60.
Nella società attuale, invece, il policentrismo dei valori sta
avendo la meglio sul pluralismo politico e sociale. Da un lato
infatti la globalizzazione uniforma il mondo economicamente
e politicamente, cancellando ogni forma di pluralismo, ma dall’altro lato il “conflitto di civiltà”, reinventato culturalmente
60
Su questi aspetti rinviamo al classico contributo storico, oggi poco citato, di C. Dawson, Progresso e religione (1929), Edizioni di Comunità, Milano
1948, in particolare pp. 156-182, nonché sul piano politologico, S.E. Finer,
The History of Government. The Intermediate Ages, (1997), Oxford University Press, Oxford 1999, vol. II, pp. 855-1051.
49
negli Stati Uniti61 del dopo-Prima Guerra del Golfo, si va
estendendo allo stesso Occidente, provocando un inarrestabile
e aggressivo monocentrismo valoriale dell’Occidente 62. Nella
nostra società per un verso, al suo interno confliggono, all’insegna del “nichilismo gaio”63, i valori più diversi: liberali, libertini, socialisti, anarchici, cattolici, ecologisti, eccetera. Per
l’altro, al suo esterno, si assiste al conflitto tra il monoteismo
(in senso valoriale non strettamente teologico) occidentalista e
altri monoteismi, religiosi o meno.
In definitiva - e la nostra è una presa d’atto non un giudizio
di valore - il rischio, in parte già realizzatosi, è quello della perdita di qualsiasi tradizione unitaria, sia all’interno (in Occidente), sia all’esterno (fuori dell’Occidente). In buona sostanza
ogni tradizione oggi è giudicata e respinta, al pari di tutte le altre. Ma alcune, che si profilano all’esterno dell’Occidente,
quando necessario (secondo una logica per alcuni di autodifesa
per altri di potenza), vengono respinte con la forza delle armi.
In certo senso, si potrebbe sostenere che l’Occidente non possiede più neppure una solida tradizione relativista, visto che ricorre alla logica dei due pesi due misure, alternando al relativismo (nichilista e gaio) all’interno, il monoteismo (quando occorre armato) all’esterno.
Comunque sia, in queste condizioni parlare di memoria sociale comune ( e di rappresentazioni e pratiche comuni) è impossibile. E quanto più in Occidente si proseguirà nel comportamento schizofrenico, segnato per un verso dal propagandare all’ interno i vantaggi sociali del multiculturalismo (che
tra l’altro non è che una forma di policentrismo valoriale senza
61
Ovviamente ci riferiamo a S. P. Huntington. Lo scontro delle civiltà e il
nuovo ordine mondiale (1996), Garzanti, Milano 1997.
62
Sulla globalizzazione e i suoi ambigui effetti distorsivi si veda l’utile rassegna di D. Zolo, La globalizzazione. Una mappa dei problemi, Editori Laterza, Roma-Bari 2004.
63
La definizione è di Augusto Del Noce. Nel capitolo terzo vi torneremo
sopra chiarendola.
50
reale pluralismo sociale e politico), e dall’altro dall’ esportare
all’esterno, con le armi, il monoteismo occidentalista, tanto
più diverrà difficile assicurare continuità, anche di funzionamento, a una società come quella europea. Almeno apparentemente sempre più a rimorchio di quella americana, nonché
disorientata e divisa sulle ragioni della pace e delle guerra.
3. Il case study: i cattolici e l’azione metapolitica (I)
Ci scusiamo per il tour de force sociologico, imposto al lettore nel paragrafo precedente. Ma era concettualmente e “storicamente” necessario. Proprio per mostrare come oggi sia in
crisi la stessa idea di “tradizionalità”, in termini di memoria
comune.
Ora, in tale situazione, quale spazio può esservi per una minoranza attiva in termini di azione metapolitica? Esaminiamo
il caso dei cattolici.
Gli studiosi di sociologia delle religioni non sono d’accordo
sui livelli di secolarizzazione raggiunti dalla società attuale. Per
alcuni la religione non avrebbe perso significato sociale. Per altri invece sì. Per altri ancora, saremmo addirittura in una fase di
ripresa64.
Da un punto di vista generale si può sostenere che stiamo vivendo una fase di transizione, dove, all’interno di una società
completamente secolarizzata, gli individui lentamente iniziano
ad avvertire, seppure in modo confuso, la necessità di guardare
con occhi diversi se stessi e la vita di relazione. Il che però non
si è ancora tradotto in un ritorno alla religione istituzionalizzata, ma non è neppure un reciso rifiuto di credere nel soprannaturale. Ovviamente, vanno separati i diversi livelli di realtà. Sul
piano politico è ancora la secolarizzazione a farla da padrona,
64
Per una panoramica delle varie posizioni cfr. A. Aldridge, La religione
nel mondo contemporaneo ( 2000), il Mulino, Bologna 2005, pp. 85-171.
51
come su quello economico è il materialismo puro a trionfare.
Mentre su quello culturale e sociale, si sono aperte le prime
crepe nel muro di una cultura grettamente individualistica e
consumistica. E qui si pensi a fenomeni in sviluppo come il
“volontariato sociale”, e a ciò che in termini di cultura spirituale del dono, vi ruota intorno. Il donarsi esprime probabilmente un primo segno di ravvedimento: un rifiuto del materialismo utilitaristico (specie quando il dono è senza contropartita
materiale) e del secolarismo statale ( e in particolare di certo
individualismo assistito dallo stato)65.
Crediamo pertanto che il volontariato sociale, pur con le dovute cautele, esprima una prima apertura, certo imperfetta, a un
sacro, fondato sull’ aiuto verso un altro da sé (“sacralizzato”),
in quanto essere al quale è dovuto rispetto. Apertura che potrebbe trasformarsi nel tempo, attraverso l’auto-riflessione sulla
“apparentemente misteriosa” sacralità dell’uomo, in apertura al
trascendente: al fondamento di tale sacralità. E ciò potrebbe avvenire attraverso la mediazione della religione istituzionalizza,
In tal modo, alla fase sacrale, che potrebbe essere considerata
di stato nascente, ne potrebbe seguire una istituzionale, di consolidamento, aperta al trascendente66.
Sotto il termine di minoranza attiva (attiva, come forza trasformatrice ma anche rispetto all’altrui e maggioritaria passività, nei riguardi del mondo), possiamo ricondurre concettualmente un gruppo di persone, numericamente inferiore a quelle
che condividono una norma sociale di maggioranza, e dotata di
sua contro-norma, o norma di ricambio67. La minoranza vuole
65
Su questi aspetti si veda F. Bertini, S. Paliaga, A. Segatori, Il volontariato come dono, ribellione e militanza sociale, pref. di C. Gambescia, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2003.
66
Sul rapporto tra statu nascendi ( o stato nascente), processi collettivi,
genesi delle istituzioni sociali si veda il già citato F. Alberoni , Movimento e
istituzione, cit., nonché Idem, Genesi. Come si creano i miti, i valori, le istituzioni della civiltà occidentale, cit.
67
Per il concetto di minoranza attiva, ma anche per gli altri aspetti qui affrontati, oltre ai classici contributi di Pareto, Trattato di Sociologia Generale (
52
cambiare il mondo perché normativamente in contrasto con il
“suo” mondo. Di qui, all’inizio, il suo isolamento e la sua scarsa influenza sugli eventi. Ma anche la conferma delle sue difficoltà oggettive a farsi ascoltare dal mondo. Conferma che,
nella minoranza attiva, genera tre conseguenze sociologiche :
a) rifiuto (strategico) del mondo; b) accettazione (strategica)
del mondo; c) compromesso ( strategico o tattico) con il mondo68.
a) Nel primo caso la minoranza attiva si muta in setta. Trasformando così l’isolamento sociale in auto-isolamento. E qui
si pensi, in ambito cattolico e non, a certo tradizionalismo esoterico69. Solo esso crede di possedere la “verità” e soprattutto
la “ritualità” per “accedervi”. Di riflesso, il lavoro culturale,
che finisce per essere una pura reiterazione spesso esclusivamente rituale dei “sacri” principi, riguarda esclusivamente i
membri della setta. La conversione procede dall’esterno all’interno.
b) Nel secondo caso, la minoranza attiva, si trasforma, in
agente attivo, della stessa norma che all’inizio voleva contrastare. E qui si pensi, sempre in ambito cattolico, a certo tradizionalismo filoamericano. La verità è posseduta dagli altri:
dai difensori dell’Occidente (americano)70. Di conseguenza, il
1916) , Utet, Torino 1989, Mosca, Elementi di scienza politica, cit., Michels,
La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, cit., abbiamo tenuto particolarmente presente, tra i contemporanei, S. Moscovici, Psychologie des minorités actives ( 1976), PUF, Paris 1996.
68
Una buona trattazione delle varie conseguenze e relative tipologie qui
analizzate è in A. Aldridge, Op. cit., pp. 64-79.
69
Si veda per la ricchezza bibliografica e di esempi il brillante saggio di
P. Zoccatelli, AAA. Sociologia dell'esoterismo cercasi, “La Critica Sociologica”, n. 151, autunno 2004, pp. 84-92. Di grande utilità la raccolta curata da
Edward A. Tiryakian (ed.) On the Margin of the Visible: Sociology, the Esoteric, and the Occult, WileyInterscience/John Wiley and Sons, New York
1974. Piace qui ricordare che Tiryakian è stato allievo e collaboratore di Pitirim A. Sorokin, studioso di cui ci occuperemo estesamente nel terzo capitolo.
70
Per un ritratto impietoso di questa corrente “filoamericana”, di qualche
utilità sociologica, si veda L. Copertino Spaghetticons. La deriva neoconser53
lavoro culturale, che finisce per essere adattamento dei principi interni a quelli esterni, riguarda i membri della minoranza.
La “conversione” procede dall’interno verso l’esterno.
c) Nel terzo caso la minoranza attiva punta sulla propria
crescita culturale: il compromesso può essere definitivo (strategico) o provvisorio (tattico). Nel senso che la crescita per la
minoranza attiva può essere fine strategico, oppure mezzo tattico, per poi estendersi all’esterno. E qui si pensi sempre in ambito cattolico, a quei movimenti di tipo carismatico, dove si
punta a rinvigorire la vita spirituale degli adepti, con un occhio
rivolto anche alla società. Ora qui la conversione, può restare
all’interno, oppure proiettarsi verso l’esterno. Dipende dalle
circostanze, dalla solidità in cui si crede nella forza esteriore
dei principi animatori del gruppo, e dalle capacità dei capi “carismatici”71.
Il punto è che una minoranza attiva può esercitare un’influenza sulla maggioranza a condizione di avere una soluzione
di ricambio coerente. E soprattutto di riuscire a rendersi visibile, presentando il proprio punto di vista in maniera risoluta,
con sicurezza e impegnandosi con convinzione. Il vero punto
della questione non è lavorare spiritualmente su stessi (o almeno non solo), ma come veicolare le proprie convinzioni individuali.
Il che costituisce il lato più complicato, se non tragico, della
questione. Perché, come scrive Moscovici, se una minoranza
vatrice della destra cattolica italiana, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini
2008.
71
Solo una piccola riflessione aggiuntiva: sugli aspetti carismatici si
veda F. Alberoni, Leader e masse, Rizzoli, Milano 2007, in particolare pp.
77-85. Secondo Alberoni, Don Giussani, fondatore di “Comunione e liberazione”, aveva qualità di capo carismatico, e non solo in senso sociologico. A
nostro avviso questo movimento rappresenta un buon esempio del terzo
caso: c) minoranze attive che accettano il compromesso (tattico, crediamo)
con il mondo. Purtroppo in questa sede non possiamo approfondire lo studio della “questione-CL”, sociologicamente interessante. Rinviamo, ma con
cautela, a S. Abbruzzese, Comunione e Liberazione, il Mulino, Bologna
2001.
54
“attiva”, qualunque essa sia, vuole guadagnare influenza sociale deve metter in conto la possibilità del conflitto, in tutti i sensi. Di un conflitto fondato, ci permettiamo di aggiungere, sulla
la “regolarità” della contrapposizione “amicus-hostis”72 .
Ma ascoltiamolo:
“Avant d’essayer de persuader une personne de nous croire,
nous tentons d’abord de la faire douter de ses propres opinions.
Lewin a parlé de ‘dégel cognitif’. Les auteurs de la théorie de
la dissonance font le même lorsqu’ils demandent aux sujets de
leurs expériences de se contredire, de défendre un point de vue
qui n’ est pas le leur, ou de faire quelque chose qu’ils
répugneraient normalement à faire. Si le conflit entraîne
l’incertitude, et s’il est une condition préalable à l’influence,
alors plus le conflit est grande, plus l’influence est profonde”73.
Di qui però sorgono i problemi della ricerca dell’autorevolezza e delle conquista dell’ egemonia socioculturale. Problemi
di azione metapolitica.
Con ricerca dell’autorevolezza, intendiamo riferirci alla se72
Certo, sappiamo benissimo, che dal punto vista della democrazia liberale (almeno “teoricamente”) non esistono nemici, ma solo avversari, da affrontare dialetticamente, secondo precise procedure giuridiche e politiche,
per poi giungere a una sintesi di governo. Il che è certamente segno di progresso civile e politico, quantomeno sul piano delle intenzioni. Se non che
dal punto di vista sociologico, le intenzioni non bastano, La politica purtroppo
non è solo civile dibattito pubblico. Dal momento che di regola è il nemico a
sceglierci, prescindendo dalla nostra benevolenza nei suoi riguardi. Come
del resto mostra a sufficienza la storia novecentesca delle stesse democrazie liberali, “proceduralizzanti”, ma in realtà poi costrette a difendersi con le
armi o con altri mezzi non pacifici, sia sul piano infrasistemico (al suo interno, si pensi ai movimenti rivoluzionari), sia sul piano intersistemico (al suoi
esterno si pensi alla sfida dei totalitarismi). E perciò obbligate a imitare i
comportamenti e i metodi aggressivi del nemico (interno ed esterno). Di qui,
riteniamo, la conferma della natura di “regolarità” della contrapposizione
“Amico-Nemico”, con cui tutti devono fare conti, cattolici “irenisti” inclusi.
73
S. Moscovici, Psychologie des minorités active, cit., p. 113. Il corsivo
è nostro.
55
rietà della proposta normativa, frutto di studio e di competenze,
date, acquisite e soprattutto riconosciute all’esterno. E dunque
anche come capacità di cooptare membri autorevoli. Dal momento che le opinioni e le azioni non conformiste hanno possibilità di essere accettate quanto più è elevata l’autorevolezza di
coloro che le propongono.
Con egemonia intendiamo la conquista della supremazia socioculturale in termini di capacità di direzione intellettuale e
morale. Una minoranza attiva, può e deve diventare dirigente,
in termini di controllo di quel “centro” socioculturale, individuato da Shils, in chiave di prolungamento della “tradizionalità”, già prima di conquistare il potere vero e proprio74.
74
E’ d’obbligo citare Antonio Gramsci, che qui però riprendiamo e sviluppiamo liberamente: “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due
modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione morale e intellettuale’. Un gruppo
sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati.
Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare
il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa
conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene
fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche ‘dirigente’ “ (Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975 pp. 2010-2011).
È rinvenibile l’influenza, sicuramente ambientale e indiretta , di due grandi
sociologi, pur criticati da Gramsci, come Gaetano Mosca (padre del concetto
di “formula politica” come forma di legittimazione culturale) e Vilfredo Pareto
(studioso delle “derivazioni”, come giustificazioni ideologiche del potere). In
un punto, però, Gramsci si distanzia da Mosca e Pareto. Il pensatore comunista non accetta il carattere immanente della divisione della società in governanti e governati: crede nella socializzazione del potere, come “bene”
che va distribuito equamente fra tutti i cittadini. Di conseguenza, l’egemonia
culturale, proprio perché ha una valenza sociologica, deve condurre al riassorbimento della politica nella società. Nel senso, scrive Gramsci, che “si
tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non
può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività ed è appunto ciò che rende difficile il problema (…), si tratta insomma di avere una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente” (Op. cit., p. 892). La vera questione, almeno per il Gramsci “sociologo” suo malgrado (nella misura di un pensiero che riconduce
sempre ogni problema al “sociale”), resta come creare una élite con un’anima sociale e generosa che, al tempo stesso, non la faccia sentire élite. Rendendola perciò capace di annullare, e per sempre, le distanze “sociali” tra
56
Il problema dell’egemonia rinvia a quello del politico. Cercheremo di essere più chiari.
Come abbiamo già osservato, la metapolitica della teoria
rinvia a una “regolarità” metapolitica: quella “Amico-Nemico”.
Mentre, sul piano pratico, la metapolitica dell’azione implica la
rappresentazione del nemico.
Il processo è il seguente:
a) la teoria metapolitica, ci ricorda l’esistenza e la necessità
del nemico, ma anche, citando di nuovo Weber, che “questa
o quest’altra posizione pratica può dedursi con intima coerenza
e serietà, conforme al suo significato, da questa o quest’altra
fondamentale concezione del mondo”75. Sotto questo aspetto la
metapolitica, che dovrà guidare l’uomo d’azione, partendo da
un norma valoriale, rinvia almeno a due rappresentazioni del
mondo, significative del comune modo di pensare (si pensi alla
“regolarità” delle “forme di legittimazione ideologica”): quella
egemone e quella non egemone;
b) il senso comune può essere cambiato, sulla base di una
convincente rappresentazione della norma metapolitica, che
delegittima la norma dominante, quella nemica;
c) la politica, infine, cambia, nei fatti, la realtà, imponendo
la sostituzione finale di un’élite con un’altra.
Tuttavia quanto più il senso comune, muta in termini socioculturali, condizionando il potere politico, tanto più la possibile eliminazione cruenta dei rappresentanti perdenti del potere
politico si allontana. Di qui il ruolo fondamentale delle minogovernanti e governati. Per Gramsci l’egemonia culturale rimane finalizzata
alla “socializzazione” assoluta, o se si preferisce alla costruzione della società socialista. Il che è moralmente nobile ma sociologicamente ingenuo. Perché, come accade anche a Badiou, ci si rifiuta di fare i conti con “ciò che
non può e non potrà mai avvenire” (Mosca): la dissoluzione di ogni forma organizzativa e politica. Per una sintetica guida pensiero di Gramsci, comunque interessante e ricco, cfr. U. Cerroni, Lessico gramsciano , Editori Riuniti,
Roma 1978.
75
M. Weber, La scienza come professione, in Idem, Il lavoro intellettuale
come professione. Due saggi, cit., p. 36.
57
ranze attive nel puntare in primis sulla ricerca dell’autorevolezza e dell’egemonia socioculturale. Un nemico, semplicemente
rappresentato, in termini di senso comune, è un nemico sublimato: un avversario. E di conseguenza, anche se il conflitto
“radicale” non può mai essere escluso, grazie alla sublimazione
(in termini di purificazione e incivilimento del conflitto socioculturale e politico ), il cambiamento può arrivare a essere indolore e graduale e nel rispetto delle regole democratiche76.
4. Il case study : i cattolici tra fondamentalismo e relativismo(II)
Prima di procedere ulteriormente sono necessarie alcune
precisazione teoriche.
La resistenza al cambiamento, come resistenza all’opera di
una minoranza attiva, è di due tipi: a) strutturale; b) psico-sociale.
La resistenza strutturale in genere è legata ai rapporti di forza tra minoranze attive e minoranze dominanti conformiste,
nonché alla differente distribuzione delle risorse, che favorisce
sempre le minoranze conformiste al potere.
La resistenza psico-sociale in genere è legata a problemi di
conservazione dell’identità culturale. Ad esempio la resistenza
all’innovazione è tanto più forte, quanto più “frammenti” sociali (piccoli gruppi economicamente declassati), dipendenti in
qualche modo da minoranze conformiste al potere avvertono,
più o meno consapevolmente, la fondatezza di quel che sostengono le minoranze attive, ma al tempo stesso non vogliono essere culturalmente declassate e messe sullo stesso piano di queste ultime… Ancora oggi, un classico esempio a riguardo, è
l’atteggiamento dei “bianchi poveri” del Sud degli Stati Uniti,
76
Sui problemi del ciclo politico, come succedersi delle varie forme egemoniche (in termini di rapporto tra contenuto e forma), si veda C. Gambescia, Introduzione a Che cos’è il politico?Nuove ipotesi e prospettive teoriche, cit., pp. 27-32 .
58
la cui accesa difesa dell’identità bianca, cara anche alla ricca
élite Wasp, è così virulenta perché sovente vicina socialmente,
economicamente e spesso spazialmente ai neri: l’ “identità di
bianchi”, è tutto quel che loro resta…77.
C’è, insomma, un problema di “tempistica”: la minoranza
attiva, deve capire quale può essere il momento giusto per rivolgersi alle maggioranze conformiste (inclusive delle minoranze al potere) o a frammenti di esse. Il che spesso si scontra
con la sua povertà di risorse, legata alle resistenze strutturali.
Povertà che rende difficile, per una minoranza attiva programmare i tempi giusti. E ogni errore, riguardo alla tempistica, rischia di provocare defezioni, o mancate adesioni di personalità
autorevoli. Il problema di fondo è non solo quello dell’esteriorizzazione, in termini strutturali, dell’influenza minoritaria, ma
anche di individuare le circostanze propizie in cui individui e
gruppi possano accettare di affrancarsi da codici sociali o trasgredire norme nelle quali non credono più e così sfidare i pregiudizi di altri gruppi sociali. E qui entrano di nuovo in gioco
le capacità previsionali della minoranza attiva, che punta al
cambiamento, e in alcuni casi, quelle immaginative dei suoi
possibili capi carismatici. Ma anche di altri fattori 78.
Perciò - e finalmente veniamo al punto - per una minoranza
77
Su questi aspetti si veda S. Moscovici (a cura di), Psicologia sociale,
cit., pp. 423-444.
78
Nota Alberoni: “Per produrre la fusione [il movimento collettivo] non
basta nemmeno avere in comune interessi, vantaggi potere, non basta nemmeno l’odio verso lo stesso nemico. Occorre che prima si crei uno spasimo,
una intolleranza fatale verso le formazioni sociali entro cui vivi, una insofferenza viscerale, e poi la speranza, altrettanto fatale, di un rinnovamento e la
fede di una rinascita, e una meta, e un capo e la capacità di sacrificarsi per
un ideale” (Leader e masse, cit., p. 17). In tale contesto, per quel che riguarda l’atteggiamento dei “capi”, aggiungiamo che si dovrebbe parlare weberianamente di vivere “per” la politica, in senso ideale e non di vivere “di” politica
in senso grettamente professionale. Cfr. M. Weber, La politica come professione, in Idem, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, cit., pp.
57-59. Nonché le eccellenti puntualizzazioni di C. Bonvecchio, “Vivere per
la politica” e “vivere di politica”, in C. Gambescia (a cura di), Che cos’è il politico?, cit. , pp. 91-110.
59
attiva, di formazione cattolica, è d’obbligo difendere i principi
assoluti, in un’epoca in cui l’intellettuale “laico” teorizza, sempre più spesso, un arrogante relativismo. Difesa che può rappresentare un buon punto di partenza, per attirare coloro - tra
gli intellettuali e le masse - che siano già pronti, o quasi, per
entrare nella fase “sacrale”: parliamo di coloro che attribuiscono a se stessi e agli altri un valore non puramente materialistico. Per contro, la stessa minoranza, rischia però di perdere,
puntando solo sul conflitto culturale, quei frammenti, più o
meno grandi, di maggioranze conformiste, che non vogliono
perdere o rinunciare a quel poco che hanno, in termini di consumi e stili di vita. Le personalità e i gruppi sociali più bisognosi di aiuto (perché vittime della disgregazione sociale79)
sono quelli che spesso non vogliono sentirsi dire che sono sulla
strada sbagliata. Di qui l’importanza, come nel volontariato sociale, dell’aiuto puro e semplice, senza chiedere alcuna immediata “conversione”… Un scelta che richiede pazienza e dunque capacità di saper attendere.
Pertanto due sono le strade che i cattolici possono seguire:
difesa rigida dei principi sul piano del confronto culturale, moderazione e attesa su quello delle penetrazione sociale. Si tratta
di un equilibrio molto difficile da raggiungere perché resta sospeso tra il rischio del fondamentalismo ( esclusiva difesa dei
principi e contrattacco a tutto campo) e quello del relativismo
universalista (rinuncia totale a qualsiasi battaglia sui principi) .
Dei tre esempi fatti all’inizio, quello a nostro avviso più promettente, e da seguire, è il “compromesso (tattico) con il mondo”. Nel senso di unire la crescita spirituale, basata sulla difesa
dei principi in ambito culturale, al compromesso tattico col
mondo sociale, in attesa che le logiche del dono e dell’ esempio
trasformino spiritualmente colui che riceve…
79
Si pensi ai Miserabili di Victor Hugo. In particolare allo stupore di Jean
Valjean, quando un fervente cristiano, come monsignor Myriel, davanti alle
guardie dichiara di avergli donato, i due candelabri, da lui invece rubati… Di
lì, grazie a questa scintilla di luce, inizia la redenzione dell’ex forzato.
60
La sfida culturale, infine, deve essere basata, sulla modernità di strumenti, ricorrendo alle scienze sociali. Si pensi ad
esempio alle categorie coniate da Danièle Hervieu-Léger, benché le sue analisi sociologiche per certi aspetti siano discutibili.
La studiosa parla di dimensioni di accettazione di una determinata tradizione (dimensione comunitaria, etica, culturale, emotiva), che combinate insieme, permettono di giungere a sei diversi tipi di cristianesimo: emotivo (quello dei pellegrinaggi);
culturale-comunitario ( quello delle tradizioni cristiane nazionali); umanitario (quello che agisce tramite l’azione sociale);
politico ( quello militante); umanista (che fa appello agli intellettuali); estetico (che fa appello all’eredità estetica del cristianesimo: musica, letteratura, eccetera)80.
Ora, una minoranza cattolica attiva dovrebbe avere consapevolezza di questi aspetti, in termini di analisi e di comunicazione, soprattutto nel caso della pianificazione alleanze e/o lanciare sfide. E modulare, senza per questo annacquarli, i suoi
principi in base ai diversi tipi di cristianesimo che si può trovare davanti. E’ necessario che le sollecitazioni sociali raggiungano una certa soglia di intensità perché l’individuo si ponga certi
problemi, raccolga informazioni, si faccia un’idea, e infine
prenda una posizione e agisca in modo coerente. Quanto più
la minoranza attiva riuscirà a interpretare i diversi bisogni, tanto più riuscirà ad andare oltre le apparenze per giungere alla
compenetrazione sociale con i vari, gruppi.
5. Il “problema Reinhold Niebuhr”
Si tratta di osservazioni che possono essere estese ad altre
80
D. Hervieu-Léger, The Transmission and Formation of Socio-religious
Identies in Modernity: An Analitical Essay, “International Sociology”, 1998,
n. 2, pp. 213-228. Ma si veda la discussione che ne fa A. Aldridge, op. cit., ,
pp. 285-287. Ma sui limiti del suo approccio si veda C. Barthe, recensione a
D. Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d’un monde, “Catholica”, 2004, n. 83,
p. 158.
61
minoranze di orientamento culturale differente. E basate su
fattori sociologici, che pur partendo dalla realistica accettazione della sempre incombente possibilità del conflitto amico-nemico, possono conciliarsi, in un quadro pluralistico, con regole liberali e democratiche. E soprattutto con quello che piace
qui chiamare il “problema Reinhold Niebuhr” nel senso di
una fondamentale questione posta dal grande teologo americano81. E ci spieghiamo subito.
Nel pensiero di Niebuhr l’essere uomini sociali e morali,
nel senso di nutrire rispetto per l’altro, implica sempre un
conflitto tra l’uomo moralmente motivato e le strutture economiche, sociali e politiche: tra “uomo morale e società immorale”, come recita il titolo di un suo celebre libro. Tuttavia per
Niebuhr prendere atto di questo conflitto non significa, sul piano della metapolitica (teorica e dell’azione) sposare la causa
dell’utopismo sociale.
In questo senso, il suo realismo sociale, rappresenta ancora
81
Reinhold Niebuhr nasce nel 1892 a Wright City, nel Missouri, da una
famiglia di immigrati tedeschi. Il padre è un pastore luterano. Fin da adolescente manifesta il suo desiderio di abbracciare la vita religiosa. Studia teologia all’Eden Theological Seminary . E dopo aver conseguito nel 1913 il diploma in teologia prosegue gli studi presso la Yale University, dove nel 1915
si addottora. Pur essendo portato per la ricerca pura, preferisce accettare
l’incarico di pastore a Detroit presso la Bethel Evangelical Church
(1915-1928). Viene così a contatto con le durezza della vita operaia, scoprendo bruscamente i limiti del capitalismo, in una città che proprio in quegli
anni sta diventando capitale mondiale dell’automobile. Nel 1928 accetta di
insegnare Etica cristiana all’Union Theological Seminary di New York. Inizia
a svolgere attività politica, dopo essersi impegnato negli anni precedenti in
un’intensa attività pubblicistica. Negli anni Trenta fonda il “Movimento dei cristiani socialisti”. Ma guarda con simpatia, nonostante alcune perplessità iniziali, anche al New Deal. E, a poco a poco, si allontana dal socialismo “rivoluzionario”. Nel 1941 diviene presidente nazionale dell’Unione di azione democratica, movimento vicino al Partito democratico, partito con il quale inizia
a collaborare, ricoprendo incarichi di prestigio e responsabilità. Nel 1952, la
salute malferma, lo costringe a sospendere gli impegni politici, pur continuando a insegnare e scrivere. In questo periodo riceve riconoscimenti prestigiosi da parte di università americane e straniere. Muore nel 1971. Niebuhr ha scritto una trentina di libri e alcune centinaia di articoli.
62
oggi un ottimo antidoto a ogni forma di attivistico e pericoloso
romanticismo politico.
Niebuhr pone un problema fondamentale: l’uomo può essere educato alla libertà? E, se sì, quale può essere il ruolo del
potere in questo processo? Di più: nell’ambito dell’accezione
weberiana del potere come rapporto tra comando e obbedienza82, l’ uomo può essere “comandato” a diventare libero?
A questa domanda Niebuhr risponde negativamente. A suo
avviso il potere va suddiviso e imbrigliato: perché ogni forma
di costrizione non consensuale, che non provenga dal basso, e
magari anche a“fin di bene” (come la stessa educazione “obbligatoria” alla “libertà” teorizzata dal liberalismo progressista)
rischia di avere implicazioni totalitarie. Ma per quale ragione?
Perché l’educazione dall’alto, può dare frutti solo se riguarda
l’individuo preso singolarmente. Mentre non ne può dare, se
concerne il rapporto tra individuo e gruppi sociali (in particolare quelli economici e politici). Perché si tratta di un rapporto
segnato, soprattutto nella società moderna, da una evidente
sproporzione delle forze in campo. Perciò un individuo può anche essere “educato” alla libertà, ma, ad esempio, una volta
“immesso nel circuito produttivo” scopre , e subisce, “differenze sociali”, spesso ingiustificabili. E così finisce regolarmente
per restare prigioniero di un enorme squilibrio di potere (come
nella Detroit degli anni Venti, vennero trovarsi i singoli operai,
privi di rappresentanze collettive sindacali riconosciute). E magari vittima di pulsioni anarcoidi e distruttive. Pertanto il problema concerne la distribuzione del potere del sociale. Prima
dell’educazione, che comunque è importante, viene l'equa divisione del potere politico ed economico , affinché anche gli individui socialmente deboli possano finalmente essere “giustamente” rappresentati da un gruppo sociale specifico e dotato di
sufficiente (e dunque non invasivo...) potere contrattuale. Il liberalismo perciò non può non essere politico: nel senso di crea82
Vedi, più sopra, capitolo I, nota 37.
63
re, attraverso la politica come decisione, le condizioni economiche e sociali per favorire l’auto-educazione dei singoli. Alla
mano invisibile del mercato si deve perciò sempre preferire
quella visibile di un potere politico, attento ma non oppressivo,
e soprattutto capace di delegare potere di contrattazione, in
condizioni di parità non solo formale, a tutti i gruppi sociali.
Si dirà, ecco un’altra impossibile quadratura del cerchio. E
soprattutto l’individuo che fine farà? Non rischia di finire oppresso non più dallo stato, ma dai gruppi sociali e professionali
di appartenenza? . Il pericolo sussiste. Del resto secondo Niebuhr, le società pur non reggendosi solo sull’amore o sul puro
altruismo individuale, non possono non dipendere da una più
giusta (non perfetta…) distribuzione del potere sociale: scopo
che non può essere affidato solo al mercato e al puro gioco degli interessi economici, ma che va perseguito puntando sulla
sussidiarietà e sulla rappresentanza contrattata degli interessi.
Per dirla con una formula: se la società è immorale (perché
il potere è gestito da sempre più ristrette oligarchie) anche l’uomo morale è destinato, prima o poi, a divenire immorale (perché comunque, pena l’isolamento totale o la morte per inedia,
sarà in qualche modo costretto a servire la élite del potere…).
Perciò la sfida della quadratura del cerchio sociale e politico va
accettata… Puntando su una riforma in senso pluralistico e
democratico della società moderna. Senza però esagerare… Infatti, secondo Niebuhr,
“la futura pace della società dipende pertanto non da una ma
da molte strategie sociali nelle quali tutti i fattori morali e quelli coercitivi si compongano in varia misura. E’ così difficile
però evitare la Scilla del dispotismo e il Cariddi dell’anarchia
che è ragionevole azzardare la profezia che il sogno della pace
perpetua e della fratellanza nella società umana sia uno di quelli che non potranno essere pienamente realizzati. E’ un sogno
questo che può essere prospettato dalla coscienza e dall’intui64
zione dell’uomo singolo, ma che l’uomo collettivo non è capace di far diventare realtà. Esso, come tutti gli ideali veramente
religiosi, è passibile nella storia attuale di approssimazione ma
non di realizzazione. La vitalità di tale ideale è la misura della
ribellione dell’uomo contro un destino che lega la sua vita collettiva a quel mondo della natura che ripugna alla sua anima.
Ma l’uomo collettivo, che opera sulla scena storica e mondana,
si deve contentare di mete più modeste. La sua preoccupazione
per alcuni secoli a venire non sarà quella di creare una società
ideale in cui siano spontaneamente pace e giustizia perfette per
tutti, ma una società in cui ci sia abbastanza giustizia, e in cui
la coercizione sia sufficientemente non-violenta da impedire
che il suo ordinario impiego porti al completo disastro. Una simile meta sembrerà troppo modesta ai romantici; ma i romantici capiscono così poco i pericoli che la società moderna corre,
e sopravvalutano così facilmente le risorse morali di cui l’uomo dispone per la sua vicenda collettiva, che non c’è meta giudicata da loro degna d’esser perseguita che non sia nello stesso
tempo impossibile a conseguirsi”83.
Pertanto una buona metapolitica, dovrà sempre tenersi lontana da quel romanticismo dell’azione, sul quale, pur nei limiti
evidenziati da Cantimori, non va assolutamente sottovalutato il
giudizio negativo di Viereck, come accennavano all’inizio del
libro84.
Ma soprattutto vanno sempre tenuti presenti il principio dell’auto-educazione dal basso e del pluralismo politico, sociale
83
Niebuhr, Uomo immorale e società immorale ( 1932), Jaca Book, Milano 1968, pp. 23-24. Su di lui si veda per un rapido inquadramento l’antologia
curata da E. Buzzi, Reinhold Niebuhr, Il destino e la storia, Rizzoli, Milano
1999.
84
E neppure quello di Carl Schmitt, Romanticismo politico, cit., in particolare pp. 22-25. Ma sulla questione si veda anche dal punto vista strettamente sociologico A.W. Gouldner, Romanticismo e Classicismo: strutture profonde nella scienza sociale, in Idem, Per la sociologia (1973), Liguori Editori,
Napoli 1977, pp. 407-457.
65
ed economico difesi da Niebuhr. Del resto la “regolarità” della
“classe politica” non implica l’assenza di fattori come la selezione, la preparazione e il periodico ricambio delle élite politiche al comando, attraverso i meccanismi della democrazia politica ed economica. Anzi, li richiede tassativamente .
Inoltre Niebuhr, come si evince dal lungo passo citato, invita a riflettere sulla necessità di perseguire quel ragionevole - e
per questo liberale - equilibrio tra passioni e interessi cui accennavamo nella chiusa del precedente capitolo. Che in questo
caso rinvia a un auspicabile equilibrio tra mano visibile della
politica e mano invisibile del mercato.
Equilibrio, certo non sempre facilmente conseguibile. Ma per tornare alla metapolitica - richiesto sia allo studioso-osservatore, quale “uomo individuale”, che si occupa di teoria metapolitica, sia a coloro, che in veste di “uomo collettivo”, “fanno” azione metapolitica, a cominciare dai “capi”. Entrambi,
come il poeta, per riprendere e sviluppare un bellissimo aforisma di Nicola Vacca, non devono mai dimenticare che, innanzitutto, “stanno a guardia dei fatti”85.
E in questo consiste, non ci stancheremo mai di ripeterlo,
l’altro sguardo della metapolitica - sia teorica che dell’azione sul potere, così come viene esercitato da, tra e sugli uomini:
stare a guardia dei fatti.
Ma è possibile perseguire questo obiettivo in una società
come quella attuale che sembra considerare se stessa come immersa nell’eterna giovinezza di un presente senza fine?
Di qui la necessità, di ritornare, dopo avere affrontato la
questione dell’azione metapolitica, sulla teoria metapolitica, allargando l’analisi critica, all’ attuale oblio della regolarità progresso-decadenza, o se si vuole dell’ordine e del disordine: della Arché e della Anarché.
Argomento che affronteremo nel prossimo capitolo.
85
N. Vacca, Frecce e pugnali, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2008, p.
35.
66
III
Metapolitica e decadenza
1. Il rifiuto dell’ idea di decadenza
Eccoci finalmente giunti a un punto fondamentale: quello
dell’oblio dell’ idea di decadenza. Una dimenticanza assoluta e
duratura che però ha un peso decisivo sotto l’aspetto metapolitico. E che proviene da un rifiuto della storia che ormai è nelle
cose di ogni giorno. Probabilmente, come abbiamo già notato,
proprio perché viviamo in una società immersa nel presente
che rifiuta il legame storico nel senso del concetto di “tradizionalità” shilsiano, si reputa inutile studiare la decadenza86. Che
invece andrebbe analizzata come inevitabile e necessaria parte
di una più ampia ciclicità che anima le vicende storiche, politiche e sociali. Ma questo oblio si manifesta principalmente,
come vedremo più avanti, nel ripudio della “regolarità” “progresso-decadenza”. E perciò quale rifiuto della teoria metapolitica, come fin qui l’abbiamo affrontata ed esplicitata.
Perché il vero punto della questione è che senza un consapevole approfondimento metapolitico della realtà che ci circonda,
sarà molto difficile, se non impossibile, perseguire l’idea di
Niebuhr di una società giusta: salvare insomma l’utopia possibile, senza cadere però nell’utopismo87.
86
E se la si studia, la considera “inventata” a tavolino, per ragioni di potenza - una “tradizione”, di regola, posticcia e passiva - come nel caso del
forse fin troppo celebrato lavoro di E. J. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione (ed. or. 1983), Einaudi, Torino 1994, pp. 3-4.
87
Sulla distinzione tra utopismo (negativo) e utopia (positiva) rinviamo a
G. F. Lami, Tra utopia e utopismo. Sommario di un percorso ideologico, a
cura di G. Casale, il Cerchio Iniziative editoriali, Rimini 2008. La tesi di Lami
ha come fulcro la dicotomia utopia/utopismo, considerata nei termini di passaggio dall’interno all’esterno: da un lato la riforma interiore di se stessi,
come base positiva di un’ utopia a misura dell’ uomo della Città degli Antichi;
67
Ma che cos’à la decadenza? Secondo uno dei maggiori studiosi dell’argomento, il sociologo Julien Freund:
“La décadence est une catégorie fondamentale de notre
perception immédiate, qui correspond à notre expérience
quotidienne, au même titre que la naissance, l’ordre des
choses, la nuit étoilée, les dénivellements du terrain. Le soleil
se lève et puis décline, les arbres verdissent puis perdent leurs
feuilles, l’ homme naît et meurt. Il y a le cycle des jours et des
nuits, celui des saisons ou encore celui des travaux. Le
phénomène de décadence est à la fois d’observation
cosmologique, organique et historique. Il est des peuples qui
ont disparu, d’immenses empires qui se sont effondrés, il est de
gouvernements qui se forment et s’épuisent. La décadence
n’est qu’un des nombreux termes du vocabulaire pour exprimer
l’état de choses que nous venons d’ évoquer, à côté de ceux de
déclin, ruine, chute, perte, dégénérescence, affaissement,
écroulement, délabrement, destruction, corruption, déchéance,
etc. Certes, il existe de nuances sémantiques entre ces divers
vocables, mais ils expriment tous un phénomène analogue.
Quand les historiens parlent de la chute de Rome, de son déclin
ou de sa décadence chaque lecteur comprend aisément qu’il
dall’altro la riforma del mondo esterno, come fondamento negativo di un
pensiero utopico, teso a costruire l’uomo emancipato da ogni legame terreno
e celeste. Va comunque detto che il libro, ottimo sotto l'aspetto descrittivo e
concettuale, sembra non rispondere a una questione di metapolitica dell’azione: se oggi, come pare ritenere correttamente Lami, vi è più che mai necessità dell' utopia, e se alla base della genuina utopia, secondo la lezione
platonica, “deve esserci una virtù individuale, la quale si faccia carico di questa realizzazione utopica”, come insegnarla e trasmetterla agli altri? Come
"irradiare" l'energia dell'utopia tra gli uomini, evitando però di cadere nel costruttivismo sociale, tutto esteriore, dell’ utopismo? Possono bastare soltanto
la forza dell'esempio e il carisma dei capi in una società complessa, narcisista e segnata dall' individualismo assistito come la nostra? A Lami, la non facile, crediamo, risposta. Che potrebbe essere materia di un altro suo libro
sull’utopia dal punto di vista della sociologia della prassi di un’ utopia non
utopica.
68
s’agit chaque fois de la même chose”88.
Sembra perciò che questa “catégorie fondamentale de notre
perception immédiate” si sia oggigiorno a dir poco appannata,
soprattutto sul piano intellettuale. Grosso modo, le ultime
grandi sintesi sulla “crisi della civiltà” risalgono agli anni Venti
e Trenta del Novecento89 .
Dobbiamo ad Augusto Del Noce la spiegazione di questo silenzio della cultura laica e illuminista sulla vita e la morte delle
civiltà. A suo avviso, alle origini del “periodo profano” dell’età della secolarizzazione, sviluppatosi dopo il 1945, si celava il
turbamento provocato dagli orrori della guerra mondiale appena finita, con la quale sempre secondo Del Noce si chiudeva
la fase sacrale, dei totalitarismi, apertasi negli anni Venti e
Trenta. Orrori, che invece di essere ricondotti alla cultura immanentista che aveva generato il totalitarismo moderno, vennero imputati all’irrazionale scatenamento di malefiche forze spirituali premoderne. Alle quali si volle associare anche la “pericolosa” letteratura, soprattutto di stampo antiprogressista sul
declino dell’Occidente, fiorente tra le due guerre.
In questo modo però cultura e società borghesi, per usare il
linguaggio delnociano, prigioniere di una unilaterale visione
illuministica “progressiva” della storia manifestarono la fuor88
J. Freund, La décadence. Histoire sociologique et philosophique d’une
catégorie de l’expérience humaine, Edition Sirey, Paris 1984, p. 5.
89
I primi nomi che vengono alla mente sono quelli di Spengler, Sorokin
e Toynbee. Su Sorokin, torneremo nella seconda parte del capitolo. Ma su
questo aspetto rinviamo all’eccellente trilogia di M. Serra, L’esteta armato. Il
poeta-condottiero nell’Europa degli anni Trenta, il Mulino, Bologna 1990; La
ferita della modernità. Intellettuali, totalitarismo e immagine del nemico il Mulino, Bologna 1992; Al di là della decadenza. La rivolta dei moderni contro l’idea della fine, il Mulino, Bologna 1994; una vera miniera di informazioni e di
spunti critici. Non va però neppure dimenticata l’opera del grande storico del
cristianesimo e della cultura antica, nonché geniale epistemologo e teologo
della storia H.-I. Marrou, La fine del mondo non è per domani, (1953), Medusa, Milano 2000; Idem, Saggi sulla decadenza (raccolta di saggi pubblicati
tra il 1938 e il 1975), Medusa, Milano 2002.
69
viante convinzione che con i totalitarismi, proliferati in un clima di critica alla “decadente” società democratica, si consumasse una fase della civiltà europea, vista come una nuova Babilonia totalitaria e reazionaria. Accomunando però nella condanna dell’universo spirituale premoderno, sia quel mondo di
verità eterne e universali che è alla base della civiltà europea
fin dall’antichità classica, sia qualsiasi critica all’idea di progresso, persino di stampo liberal-conservatore90 , sia infine la
loro ambigua strumentalizzazione totalitaria, che invece ne rappresentava e rappresenta l’esatta antitesi91. Minando così qualsiasi volontà di cimentarsi, onestamente, con l’idea di decadenza come con quella di progresso92.
Di conseguenza, nella seconda metà del Novecento, per così
dire, si è passati dall’osservazione della foresta a quella degli
alberi: si è preferito ricondurre lo studio del ciclo politico all’interno di prudenti approcci settoriali e non di coraggiose
analisi metapolitiche, fondate sullo studio comparato dei processi di civiltà. Perché, per dirla con Del Noce, si temeva che
qualsiasi accenno alla questione della decadenza avrebbe potuto mettere in discussione la nuova civiltà, borghese e tecnologica, sorta dalle cenere della corrotta Babilonia totalitaria.
Non ci si deve perciò stupire se oggi si preferisce studiare la
decadenza, in termini di asettici processi di organizzazione/ disorganizzazione sociale e politica nel quadro parcellizzato dei
90
E qui si pensi, solo per fare qualche nome, ad autori come Ortega y
Gasset, Röpke, Élie Halévy, Mosca, nonché per certi aspetti anche Einaudi
e Croce. Ci riferiamo di nuovo al liberalismo politico.
91
Su quanto detto fin qui si veda A. Del Noce, Tradizione e innovazione
(1969) e Appunti per una definizione storica di fascismo (1969), in L’epoca
della secolarizzazione, Giuffrè Editore, Milano 1970; per il primo cfr. pp.
44-50; per il secondo pp. 116-117. Un piccolo gioiello da ristampare, magari
proprio in questo 2009, per ricordare i venti anni trascorsi dalla morte del filosofo.
92
Un buon documento di questa difficoltà, ma anche di sprone a superarla, resta il volume di P. A. Sorokin, Social Philosophies of an Age of Crisis, The Beacon Press, Boston 1951, in particolare pp. 3-9.
70
processi politici democratici93 o delle dinamiche tra democrazia, autoritarismo e totalitarismo94, nonché dal punto di vista
della ricostruzione storica delle teorie in argomento, ma in
chiave valutativa, addirittura fin dai titoli95 .
In buona sostanza l’interdetto sull’idea di decadenza è legato al predominio di una cultura neo-illuminista, diffusa capillarmente quasi nella misura di un “illuminismo spicciolo”. E
che celebra soltanto l’organizzazione sociale e il progresso infinito, essendo avversa a qualsiasi idea di reversibilità ciclica dei
fenomeni sociali e di civiltà96. Insomma, guai a contrastare, anche in ambito accademico, in nome di una naturale ciclicità
delle vicende storiche e sociali, la marcia trionfale della civiltà
post-1945 verso il “Paradiso in Terra”97 .
93
Si veda come esempio, seppure di altissimo livello, G. Sartori, Democrazia Cosa è (1993), nuova edizione aggiornata, Rizzoli, Milano 2007.
Nonché le riflessioni contigue all’approccio sartoriano di G. Pasquino, La
scienza politica della democrazia, “Nuova Informazione Bibliografica”, n. 2,
Aprile-Giugno 2009, pp. 213-220.
94
Altro esempio, pur di notevole qualità: J.J. Linz, Democrazia e autoritarismo, il Mulino, Bologna 2006. Si tratta di una raccolta di saggi usciti tra il
1976 e il 1999, a cura di M. Tarchi.
95
Come R. Guiducci, Storia delle concezioni di progresso e regresso,
Franco Angeli, Milano 1993.
96
Su questo aspetto, senza complicare troppo le cose sul piano filosofico, si veda l’ottima ricostruzione di F. Valjavec, Storia dell’illuminismo
(1961), il Mulino, Bologna 1973, pp. 378-384. Ma in argomento, e in particolare sulle matrici sadiane di certo neo-illuminismo contemporaneo, si
veda l’ottima sintesi di R. De Benedetti, La Chiesa di Sade. Una devozione
moderna , Medusa, Milano 2008. Testo che sarebbe piaciuto a Del Noce.
97
Cfr. C. Lasch, The True and Only Heaven. Progress and Its Critics,
Norton & Co., New York and London 1991, pp. 40-81; R. Nisbet, History of
the Idea of Progress (1980), Transaction Publishers, New Brunswick and
London 1998, pp. 317-351. Ad esempio, Lasch e Nisbet, come del resto lo
stesso Shils, non hanno mai goduto negli Stati Uniti, secondo alcuni patria
elettiva della sociologia mondiale, di quella popolarità di storici e sociologi,
in linea con il culto ufficiale del progresso, come Schlesinger jr e Parsons. Il
che spiega pure, come vedremo più avanti la totale emarginazione subita
dal sociologo russo-americano, Pitirim A. Sorokin, trasferitosi negli USA all’inizio degli anni Venti. Il quale aveva osato criticare, in maniera sociologicamente documentata l’idea di progresso. Su questa vicenda rinviamo al nostro Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002, in
71
Tuttavia a questa placida visione modernista negli ultimi
anni, come in una sorta di gioco delle parti storiche, se ne è affiancata una di natura postmodernista. Parliamo del cosiddetto
pensiero debole, o postmoderno, totalmente immerso in un nichilistico “presentismo” 98 . E perciò incapace addirittura di
pensare la storia e di prevedere non tanto quel che accadrà, ma
almeno quel che non accadrà mai99. Insomma un pensiero
“anti-metapolitico per eccellenza e prigioniero di un “nichilismo gaio”, come abbiamo già anticipato. Ma questa volta lasciamo la parola ad Augusto Del Noce:
“Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due
sensi che è senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’ inquietum cor meum agostianiano) e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (si può infatti
dire che intende l’amore sempre omosessualmente anche quando mantiene il rapporto uomo-donna). Non per nulla trova i
suoi rappresentanti in ex cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo.
Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a valore di scambio; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei
sensi, del processo che comincia con la prima guerra mondiale.
Il peggiore annebbiamento che il nichilismo genera è la perdita
del senso dell’interdipendenza dei fattori nella storia presente;
infatti a ben guardare, non è che l’altra faccia dello scientismo
e della sua necessaria autodissoluzione da ogni traccia di valori
particolare pp. 13-21.
98
Sul concetto di “presentismo”, come risposta, spesso a doppio taglio,
dell’individuo a una crisi di senso storico, si veda il non banale M. Maffesoli,
La conquista del presente (1979), Editrice Ianua, Roma 1983.
99
Un’utile rassegna in K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società post-moderna (1995), Einaudi, Torino 2000, in particolare pp. 204-273. Ma dello stesso autore si
veda anche Prophecy and Progress. The sociology of Industrial and Post-Industrial Society, Penguin Books, London 1978, pp. 301-328.
72
che non siano strumentali…”100.
Un capitolo culturale a parte, e minore dal punto di vista
meta politico, - che qui ci limitiamo a segnalare - è invece rappresentato dalle cosiddette teorie “della crisi”101 e dall’approccio ecologista102, nonché dalle cosiddette teorie del declino economico, molto diffuse in Italia103. Pochissimi perciò - a quanto
ci risulta - sono stati gli studiosi, soprattutto nell’ambito delle
scienze sociali capaci di confrontarsi direttamente con il tema
100
Il passo proviene da una lettera di Del Noce del gennaio 1984 a Rodolfo Quadrelli. La citazione è ripresa da M. Tringali, Augusto Del Noce interprete del Novecento, Le Château Edizioni, Aosta 192, p. 142. Ma si veda
anche C. Gambescia, Viaggio al termine dell’Occidente. Nichilismo, sociologismo americanismo nella critica di Augusto Del Noce, Edizioni Settimo Sigillo Roma 2007, pp. 40-44.
101
Sulle teorie della “crisi”, come possibilità di comprensione culturale di
una decadenza che viene vista come “transizione” a un nuovo modello sociale, e al tempo stesso come teatro di necessarie decisioni cfr. P. Calegari.
Osservatori della crisi. Letture da Elias, Buber, Lazslo, Maturana, Teilhard
de Chardin, Liguori Editore, Napoli 1992.
102
Si veda in particolare J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono
di morire e vivere (2005), Einaudi, Torino 2005. Per una rassegna delle teorie del progresso (e indirettamente della decadenza) alla luce della questione ecologica, o meglio di una inesorabile ciclicità eco-sociale, si veda R.
Wright, Breve storia del progresso (2005), Mondadori, Milano 2006. Due
opere che vanno però ricondotte culturalmente nell’alveo di certo immaginoso “neo-catastrofismo”, ottimamente studiato da F. Walter, Catastrofi. Una
storia culturale, Angelo Colla Editore, Vicenza 2009, pp. 291-315, in particolare.
103
Spesso sono lavori giornalistici, come ad esempio R. Petrini, Il declino
dell’Italia, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, e dunque destinate a usi politici.
Oppure, pur collocandosi a un livello più alto di scientificità, si tratta di analisi
che rifiutano di considerare il capitalismo come uno fra i sistemi storici possibili: si veda ad esempio P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri 2007. Un buon lavoro, diremmo
classico. che invece affronta la questione della decadenza (economica) all’interno di una visione se non proprio storico-ciclica, comunque accettabile
per lo sforzo interpretativo, resta S. B. Clough, Grandeur et décadence des
civilisations, Payot Paris 1954. Citiamo l’edizione francese che abbiamo sott’occhio. Esiste una traduzione italiana (Giannini Editore, Napoli 1969), intitolata Storia della civiltà e sviluppo economico.
73
della decadenza. Ricordiamo qui due storici, Pierre Chaunu104
Arthur Herman105 e un sociologo, il già citato Julien Freund106.
Comunque sia, anche se in misura criticamente avvertita, questi
studiosi non sono andati oltre la rassegna storica e sociologica
della questione. Resta insomma tuttora accesa sotto la cenere la
necessità di lavorare più a fondo all’elaborazione di una teoria
metapolitica della decadenza, attenta alle lezione della sociologia culturale e della storia comparata107. Ma come? E in quali
condizioni?
2. L’idea di decadenza fra moderni e postmoderni
Tuttavia, come sempre accade, la verità rinnegata e calun104
P. Chaunu, Histoire et décadence, Libraire Académique Perrin, Paris
1981.
105
A. Herman, The Idea of Decline in Western History, The Free Press,
New York and London, 1997.
106
J. Freund, La décadence. Histoire sociologique et philosophique
d’une catégorie de l’expérience humaine, cit.
107
Dispiace dirlo, ma oltre alla difficoltà di “pensare” la decadenza, al di
là dei pur meritori risultati, anche in autori del calibro di Freund, Chaunu,
Herman, sembra essere mancata, e pensiamo soprattutto al sociologo
Freund, la volontà di sviluppare una teoria metapolitica della decadenza capace di condurre, come secondo passo, alla formulazione di concetti operativi suscettibili di essere usati in analisi di taglio storico-comparativo. Magari anche riallacciandosi alle teorie di autori come Pareto, Mosca, Michels,
Spengler, Sorokin. I quali, pur da punti di vista diversi, hanno dato un contributo notevole allo studio della decadenza, intanto, come costante politica
e sociale, con la quale vanno sempre fatti i conti. Per contro i libri, pur importanti, come quelli di Francis Fukuyama The End of History and the Last
Man (1992) e di Samuel P. Huntington The Clash of Civilizations and the
Remaking of World Order (1996), sembrano invece aver ricondotto il concetto di decadenza, non alla naturale ciclicità endogena dei fenomeni sociali
(ad esempio, cattiva selezione delle élite, crisi morale, corruzione economica, burocratismo), in termini di “regolarità” metapolitiche, ma soltanto a fattori esogeni, come il conflitto con civiltà esterne o il confronto ideologico e
militare fra liberalismo e totalitarismo. Il che è solo una parte della storia. Di
regola, il crollo è sempre preceduto dalla consunzione interna, endogena, di
un sistema sociale e politico, al quale i “barbari”, di turno, danno “semplicemente” il colpo di grazia “militare”.
74
niata, alla fine si è vendicata. Andando ben oltre il segno. Per
dirla con un bellissimo aforisma di Alda Merini: “La calunnia/
è un vocabolo stentato/ che quando arriva/a destinazione/ mette
mandibole di ferro”108 : il XXI secolo, appena iniziato, ha subito posto la questione del destino metapolitico dell’Occidente, e
dunque di una sua possibile decadenza. E lo ha inserito “nell’
agenda della storia” in maniera traumatica, opponendo al morso maligno e reciso delle mandibole di ferro di un progresso
vantato come infinito, le fiamme e il fuoco delle Torri Gemelle, costruite per sfidare il tempo e sbriciolatesi in poche ore,
l’11 settembre 2001.
Il che però ha dato nuova linfa a certa fin troppo compiaciuta letteratura postmoderna sulle “rovine”109 . Ma anche a opere
meno corrive. Ad esempio il libro di Marco Belpoliti, Crolli110.
Dove prendendo spunto dai fatti dell’11 Settembre, ci si confronta finalmente con il tema della decadenza, facendola finita,
almeno in parte, con gli anatemi modernisti. In modo avvincente e dotto al tempo stesso. Vale la pena soffermarsi su questo
lavoro.
Il libro si dipana intorno al tema dei crolli, due in particolare: Muro di Berlino e Torri gemelle. Crolli che condensavano,
secondo Belpoliti i due temi principali del nostro tempo: da un
lato il terrore, improvviso e tagliente come quelle sciabolate di
luce, che colgono all’uscita di un cinema negli assolati pomeriggi estivi; dall’altro la banalità di un’ età post-moderna, priva
di idee e perciò prigioniera del sentimentalismo kitsch. Con
una citazione da Mao II di Don DeLillo, Belpoliti chiariva bene
la nostra condizione di postmoderni. E’ una reporter dei nostri
giorni che parla:
108
A. Merini, Aforismi, in Idem, Fiore di Poesia (1951-1997), Einaudi, Torino 1998, p. 235.
109
Per tutti si veda M. Augé. Rovine e macerie. Il senso del tempo
(2003), Bollati Boringhieri, Torino 2004.
110
M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino 2005.
75
“Qualunque cosa io fotografassi, realtà miseria, corpi distrutti, facce insanguinate, per grande che fosse l'orrore, alla
fine mi ritrovavo con delle stronzissime immagini carine. Capisce?”111 .
Ogni decadere delle cose umane, ecco il punto che ci sta a
cuore, porta con sé la cognizione del dolore, come “fuga” o “rifiuto” dal e dell’ottimismo illuminista: quella consapevolezza
che si nasce, si vive e si muore, tutti, gli uomini come le civiltà.
E magari all’improvviso, come i colletti bianchi delle Torri Gemelle. E ciò è un’occasione di consapevolezza che fino all’ 11
Settembre 2001 mancava alla nostra epoca: dove invece tutto
sembrava essere “carino”. E per molti aspetti, almeno in apparenza, continua ad esserlo… Come del resto anche Belpoliti finisce per notare, crogiolandosi però in un benevolo cinismo da
film pulp americano, molto postmoderno: intuisce ma non sviluppa 112.
Un passo ulteriore, anzi cronologicamente indietro, rispetto
a Belpoliti (dal postmoderno al moderno) è invece rappresenta111
Ibid., pp. 71-72. Lo stato d’animo postmoderno, che poi dal punto di
vista della letteratura e delle scrittura è uno stile, fu profeticamente ben
colto, già alla fine dell’Ottocento, da P. Bourget, Décadence. Saggi di psicologia contemporanea(1883), Nino Aragno Editore , Torino 2009. Scriveva
Paul Bourget: “Uno stile di decadenza è quello in cui l’unità del libro si decompone per lasciare posto all’indipendenza della pagina, dove l’indipendenza della pagina si decompone per lasciare posto all’indipendenza della
frase e la frase per lasciare posto all’indipendenza della parola. Gli esempi
che corroborano questa feconda ipotesi abbondano nella letteratura contemporanea” (Ibid., pp. 19-20). E di oggi…
112
Va comunque ricordato che il libro di Belpoliti è ricco di riferimenti,
anche bibliografici (pp. 137-142) al clima “del prima e dopo 11 Settembre”.
Sul singolare rapporto tra decadenza, caduta del comunismo e imprevedibili
reazioni della memoria collettiva si veda F. Modrzejewski e M. Sznajderman
( cura di), Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo (2001-2002), Bruno
Mondatori, Milano 2003. Sull’intrigante tema delle “cadute” cfr. il raffinato M.
Serra, Dopo la caduta. Episodi del Novecento, Ideazione editrice, Roma
2004 , nonché in particolare sul clima morale del ”dopo cadute” si veda W.
Schivelbusch, La cultura dei vinti ( 2001), il Mulino, Bologna 2006.
76
to da un altro lavoro, quello curato dagli storici Jean_Yves Frétigné e François Jankowiak, La décadence dans la culture et la
pensée politique. Espagne, France et Italie ( XVIIIe-XXe
siècle).
Lo studio offre una panoramica completa dell’entroterra culturale moderno e del suo confronto con il pensiero della decadenza: grosso modo dai controrivoluzionari francesi al periodo
tra le due guerre mondiali. I contributi, infatti, si fermano alle
soglie del secondo dilacerante conflitto mondiale113.
Sostanzialmente l’impianto del volume, pur nella diversità
degli specialismi, riflette un progetto teorico ambizioso, e in
certo senso contraddittorio.
Per un verso si vagheggia di rappresentare sostanzialmente
l’ idea di decadenza, sulla scia di un grande sociologo come
Julien Freund, attento studioso della decadenza come potentissima “catégorie de l’expérience humaine”114, ma per l’altro ci si
illude di ricondurla, criticandola, all’interno di debolissime categorie illuministiche. Si pensi solo all’ accettazione dell’ idea
113
J.-Y. Frétigné e F. Jankowiak (a cura di), La décadence dans la
culture et la pensée politique. Espagne, France et Italie (XVIIIe-XXe siècle),
École Française de Rome, Roma 2008. Per completezza va ricordato che il
testo raccoglie gli atti dell’omonimo convegno, tenutosi a Roma il 20-21 giugno 2003. Il volume si articola in quattro parti: il XVIII secolo ( Le XVIIIe
siècle avant la Révolution française , pp. 21-95); dalla rivoluzione francese al
1870 (De la Révolution française à 1870, pp. 99-144) ; “Fine secolo” (La “fin
de siècle” 1870-1914, pp.147-237); il periodo tra le due guerre mondiali (L’
entre-deux-guerres, pp. 241-338). E offre 18 densi contributi, italiani, francesi, spagnoli (introduzione inclusa) Si vedano in particolare , ai fini del nostro
discorso, quelli di C. Cesa, Synthèse: XVIIIe siécle avant la Révolution française , pp. 21-33; di J.-F. Dunyach, Les Lumiéres face à la décadence: l’histoire entre mythe et prophétie, pp. 73-95 ; H. Multon, Un vecteur de la
culture politique contre-révolutionnaire: la décadence dans la littérature
apocalyptique, 129-144 ; P. Milza, L’idée de la décadence en Europe entre
les deux guerres: synthèse, pp. 241-253; D. Saillard, La Belle Époque, une
période de décadence? Le jugement sur ‘L’avant-guerre’ en France et en
Italie,1920-1935 , pp. 299-320.
114
J.-Y. Frétigné e F. Jankowiak, Introduction, in J.-Y. Frétigné e F.
Jankowiak (a cura di) La décadence dans la culture et la pensée politique.
Espagne, France et Italie (XVIIIe-XXe siècle) , cit., pp. 5-6.
77
di progresso unilineare, senza intralci, che aleggia in quasi tutti
in contributi; si vedano, ad esempio i saggi già citati di Cesa,
Dunyach, Milza115.
Ora delle due l’una: o l’idea di decadenza, come senso della
caducità delle cose umane ha effettivamente caratterizzato tutte
l’epoche, oppure si tratta di un’invenzione dell’uomo, come sostiene certa letteratura postmoderna (a partire dal testo di Belpoliti). Che ne parla come di un prodotto letterario della tarda
modernità relativista: una meta-narrazione da gustare, come un
giornale, con il caffè mattutino.
Ci spieghiamo meglio. Se la consideriamo una categoria
dello spirito umano, l’idea di decadenza non può non rinviare,
per dirla con Gadda, alla lucida cognizione dell’uomo come
parte di una comune condizione di sofferenza universale, alla
quale non ci si può mai sottrarre neppure attraverso una ricercata e metodica opera individuale di autodistruzione116 . Se invece la giudichiamo, in chiave postmoderna una meta-narrazione, non può non diventare una specie di gioco di specchi da
intellettuale blasé… Cosa, quest’ultima, che non accade, perché in modo paradigmatico, Frétigné, Jankowiak e collaboratori, non sciolgono il nodo, se non in termini di “modernistica”
(non postmoderna) erudizione illuminata, fiduciosa delle umane sorti, ieri dell’Europa e domani dell’Occidente. Addormentandosi, se ci si passa l’immagine fin troppo facile, con un bel
sorriso stampato sulle labbra.
Ma perché insistiamo sulla cognizione sociologica del dolore? Decadere, anche per le civiltà, implica un conflitto, a livello intellettuale fra i diversi gruppi cognitivi, fra la sensazione
del dolore e la sua rappresentazione sociale. E decadere implica
anche la possibilità di perdere, perfino nella quotidianità, la
115
Si veda nota 113.
Ovviamente ci riferiamo a C. E. Gadda, La cognizione del dolore
(1963 e 1970), Einaudi, Torino 1976. Opera che qui riprendiamo e interpretiamo liberamente.
116
78
rappresentazione del male, e dunque del dolore che esso provoca come condizione universale. Sotto questo aspetto il postmoderno è un pensiero in fondo crudele ( come ogni persona che
si finge debole) e sentimentale, perché privo di vere idee e dunque di autentiche passioni legate a confrontarsi con il vero
male e il vero dolore. Tutto è meta-narrazione, invenzione, e
immaginario. Mentre per il moderno la realtà resta trasformazione continua: non c’è tempo per il dolore e il male, se non
come puri fatti organizzativi e/o tappe verso un inevitabile
mondo migliore.
Tuttavia nei moderni e nei postmoderni la catastrofe o il
crollo, ma anche la stessa decadenza, sono comunque elementi
di un processo dinamico, dove la “fine”, anche se resta in virtù
del presentismo imperante una mera possibilità, può essere
spostata sempre in avanti.
In buona sostanza la “fine” entra a far parte di un processo
(per i moderni), o di un gioco (per i postmoderni), pressoché
infinito. Una visione, quest’ultima, che ricorda la fin troppo pacificante teoria della “ruota del carro avanzante” di Toynbee,
che pur girando su stessa, o rompendosi qualche volta, non impedisce al carro (della storia umana) di avanzare sempre più
avanti 117 . E in ogni caso: perché provare dolore e per chi, se la
storia “rischia” di non finire mai? Rendendoci di conseguenza
eterni, almeno come “specie”?
Se ci si passa la caduta di stile, per certa cultura postmoderna, una catastrofe può essere occasione di sciarade filosofiche.
Mentre per lo storico modernista un’occasione per celebrare illuministiche grandezze, da difendere, anche se scomode, a tutti
i costi. Come un’eredità di famiglia.
117
A. J. Toynbee, A Study of History, Oxford University Press, London
1962, VI vol. (1939), p. 324: “The perpetual turning of a wheel is not a vain
repetition if, at each revolution, it is carrying a vehicle that much nearer to its
goal”. Su Toynbee si veda l’acuta critica dello storico H.-I. Marrou, Saggi
sulla decadenza. Trasformazione e continuità dell’Antico, cit., in particolare
pp. 135-157.
79
Tuttavia moderni e postmoderni non riescono a pensare la
fine, perché ritengono di non farne parte: il postmoderno gioca alla roulette della storia; lo storico moderno osserva, scrive,
registra fiducioso118… Ma chi non è parte o carne di qualcosa,
soprattutto dopo l’11 settembre, non può mai capire cosa sia il
vero dolore. E quindi il significato della decadenza. Significato
che dal punto di vista delle scienze sociali non può non rinviare alla questione del limite racchiuso nei processi politici e storici.
Perché quando si indaga il destino delle civiltà, la vera domanda è questa, ed è metapolitica per eccellenza: esiste un
punto di saturazione? Un punto limite in cui le società e le culture toccano il fondo per poi iniziare a risalire, ma sulla base di
valori completamente opposti a quelli in cui si credeva in precedenza? Uno dei pochi sociologi che sia stato in grado di
confrontarsi “metapoliticamente” con tale tematica, Pitirim A.
Sorokin , riteneva che quando una concezione del mondo domina in modo totalitario, per reazione i membri della società
ormai satura, tendono a volgersi in numero crescente verso valori contrari a quelli dominanti: ad esempio rifiutando il materialismo per l’idealismo, e viceversa119.
Ecco, lo studio dell’opera di Pitirim A. Sorokin - certo nei
limiti dello spazio concessoci dall’economia di questo libro può rappresentare la chiave di volta di questo nostro percorso
metapolitico. La pietra intagliata, a forma di cuneo, che viene
posta alla sommità del nostro arco argomentativo, per chiudere
e tenere ferme tutte le altre pietre.
118
Sul nesso tra postmodernità-antimodernità si veda un curioso testo,
dove tra l’altro si affronta indirettamente la questione della decadenza, di un
modernista critico molto particolare come A. Compagnon, Les Antimodernes: de Joseph de Maistre à Roland Barthes, Gallimard, Paris, 2005.
119
Piace ricordare come l’importanza del “principio di saturazione” sorokiniano sia stata riconosciuta da Michel Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, Per un’etica dell’estetica (1990), Garzanti, Milano 1993, p. 249.
80
3. Sorokin e la teoria metapolitica della decadenza120
La sociologia di Pitirim A. Sorokin 121 può essere studiata
dal punto di vista metapolitico, come una sociologia che si occupa della regolarità progresso-decadenza, ma che finisce per
sfociare, come vedremo, in una gigantesca filosofia sociale
dell’ordine e del disordine: della Arché e della Anarché.
Il discorso è teoricamente complesso. Dobbiamo di nuovo
tornare ad Aristotele. Quindi se ci si passa la caduta di stile: il
lettore si allacci le cinture…
Riteniamo infatti sia corretto partire dalla classica definizione consuntiva aristotelica della Arché quale “principio degli
120
Abbiamo potuto approfondire queste tematiche, discutendole, nel corso del convegno “Arché e Anarché” tenutosi a Roma e Alatri (29-30 maggio
2009), grazie al patrocinio del Dipartimento di Studi politici - Facoltà di
Scienze Politiche - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Ringraziamo perciò di nuovo gli amici Gian Franco Lami e Giovanni Sessa del gentile invito.
121
È possibile definire Sorokin, magari rischiando di semplificarne il
complesso profilo, una specie di Oswald Spengler della sociologia. Ci riferiamo, infatti, a un sociologo russo, nato nel 1889, con una cultura mostruosamente enciclopedica, che a seguito della Rivoluzione d’Ottobre - da lui, militante social-rivoluzionario, vissuta in termini di conflitto con il nascente potere bolscevico - è costretto prima a prendere la via dell’esilio a Praga, per poi
trasferirsi nel 1923 negli Stati Uniti. Qui si dedica alla “sprovincializzazione”
intellettuale della sociologia americana, aprendola alla tradizione europea.
Fino al punto di essere chiamato a Harvard (1930), dove fonda il Dipartimento di Sociologia. E scrive Social and Cultural Dynamics (1937-1941) la sua
grande opera in 4 volumi. Dove - per semplificare - dà consistenza e coerenza statistica e sociologica alle tesi di Spengler sulla natura ciclica delle civiltà e sul valore euristico della regolarità Progresso-Decadenza, pur interpretando queste tesi in misura meno rigida e culturalmente più ampia dello
studioso tedesco. Tuttavia la critica di Sorokin all’illuminismo materialistico
dell’Occidente, americano in particolare - da lui chiamato “sensismo“ - ne
provoca la progressiva “ghettizzazione” accademica. Dagli anni Quaranta
fino alla morte, nel 1968, Sorokin vive nell’ isolamento intellettuale. La cultura statunitense, dopo avergli aperto le porte, lo scaccia come un corpo estraneo… Se ci si riflette bene è lo stesso destino toccato a un altro grande esiliato russo in America, ricco di una pari “carica metapolitica”: Aleksandr Solgenitsin.
81
esseri”, e per estensione della realtà122. Definizione che porta
con sé l’attribuzione a tale termine di un valore ordinativo, o
se si preferisce, di fondazione e persistenza della realtà.
Inoltre si tratta di una scelta che implica due inferenze filosofiche strumentali. Ma per quale ragione strumentali? Perché
il formularle, per certi versi ci allontana dal pensiero di Aristotele, per altri però consente di trasporre - ecco spiegata la strumentalità - la sua definizione nell’ambito della metapolitica
sorokiniana dei sistemi di socioculturali.
Ecco, le due inferenze:
La prima: interpretiamo la Anarché come negazione della
Arché, da noi aristotelicamente inquadrata - ripetiamo - quale
principio ordinativo, o se si preferisce, di fondazione e persistenza della realtà.
La seconda: tuttavia, andando oltre Aristotele, ipotizziamo,
che in Sorokin, sia presente l’esistenza di una polarità filosofica Arché-Anarché, quale contrapposizione tra le due entità,
alla quale per così dire è “attaccata” quella “progresso-decadenza”. Ma non in termini dialettici, non essendo data sintesi a
posteriori. Il che però, come subito vedremo, non esclude una
consustanzialità a priori.
Il discorso qui si fa teoreticamente complesso e chiediamo
122
“La maggior parte di coloro che per primi filosofarono pensarono che i
princìpi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermarono
che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio (άρχή , arché) degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E per questa ragione, essi credono che nulla si
generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva
sempre. E come diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando
diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di
essere, per il fatto che il sostrato - ossia Socrate stesso - continua ad esistere, così dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna
delle altre cose: infatti, deve esserci qualche realtà naturale ( o una sola o
più d’una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad
esistere immutata. Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il
numero e la specie di tale principio.” (Metafisica, A (I), 3, 983b5-15, trad. di
G. Reale, Bompiani, Milano 2006).
82
al lettore un briciolo in più di pazienza e attenzione.
Parliamo di una “regolarità”, quella Arché-Anarché , rappresentata dall’incessante contrasto - come detto non dialettico
- tra due principi opposti di persistenza della realtà, interni ai
sistemi socioculturali, ma di natura consustanziale: da un lato
una “sostanza” o “realtà” mutamento (Arché) che distingue il
progresso sociale e culturale; dall’altro una “sostanza” o “realtà” disordine (Anarché), che segna le fasi di decadenza dei sistemi socioculturali. E ciò perché mentre il progresso tende a
privilegiare naturalmente il mutamento incessante, che può essere ordinato o meno, la decadenza mostra una altrettanto naturale presenza in ogni organismo sociale e culturale di limiti al
mutamento sociale, che si manifestano in termini di puro avanzare del disordine. Di qui la dicotomicità, che finisce per esaurire, attraverso i due contrari consustanziali (progresso e decadenza) , l’intera estensione dinamica della vita sociale e culturale. Dinamica bipolare che ne resta la Arché profonda, capace di inglobare, come vedremo più avanti, in termini di “sostanza della sostanze” (o “realtà delle “realtà) sia la “sostanza
mutamento” sia la “sostanza disordine” , “retrocesse” per ragioni scalari ad “affezioni”, probabilmente “forzando” ancora
una volta la terminologia aristotelica.
Fermo restando che, già di per sé e nei termini più prosaici
dei concetti operativi fin qui usati, la “regolarità” della “dicotomia progresso-decadenza”, storicamente comprovata da quel
gigantesco e inquietante cimitero delle civiltà che caratterizza
le vicende umane, non poteva non andare a far parte della lista
di “regolarità” o “verità parziali” o meta politiche, intuite a
suo tempo dal geniale Gianfranco Miglio, già enumerate nel
primo capitolo, oltre a quelle da noi aggiunte nel corso delle
argomentazioni fin qui sviluppate 123.
123
A costo rischiare l’accusa di pedanteria le ricordiamo di nuovo tutte: la
‘regolarità’ della “ricerca del dominio esterno” (Tucidide); la “regolarità” degli
“egoismi concorrenti” (Machiavelli); la “regolarità” della “presenza in ogni sistema politico del capo decisivo” (Bodin); la “regolarità” del “carattere fittizio
83
Ma veniamo finalmente alla teoria sorokiniana. In Sociology of Revolution, uscito nel 1925124, Sorokin matura l’ipotesi
che i fenomeni sociali non abbiano andamento unilineare, ma
fluttuino nel tempo: nel sociale non sarebbe possibile rinvenire
alcun regresso o progresso illimitato.
Ogni processo sociale, pur mutando incessantemente, (rivoluzione, stratificazione, urbanesimo, ecc.) ha un punto di saturazione o limite, oltre il quale - di regola - non può procedere,
pena con il suo superamento, la sparizione di ogni vivere sociale. Perciò una volta raggiunto il punto limite, a meno che l’uomo non voglia suicidarsi come del resto è accaduto e accadrà
sempre nella storia, la società può tuttavia generare da sé le
forze positive rivolte alla ricostruzione delle forme di organizzazione politica, sociale, territoriale precedentemente irrigiditesi. Ma, come accennato, una civiltà può anche “scegliere” di
scomparire.
di ogni comunità, e la radice ultima della rappresentanza politica” (Hobbes);
la “regolarità” della “classe politica” (Mosca, Pareto e Michels ); la “regolarità” della antitesi Comunità-Società (Tönnies); la “regolarità” “delle forme
ideologiche di legittimazione” (Weber); la “regolarità” della contrapposizione
“amicus-hostis” (Schmitt). Alla “lista” di Miglio abbiamo già affiancato il
nome Michels (che condivide con Mosca e Pareto l’intuizione della “regolarità” “classe politica”). Seguono infine le “regolarità” aggiunte da noi: “movimento-Istituzione”(Alberoni); “tradizionalità” (Shils); “progresso-decadenza” o
Arché-Anarché, nel senso di ordine-disordine (Sorokin). Naturalmente le undici “regolarità” individuate non racchiudono - né potrebbero mai racchiudere - tutto lo scibile politico e sociologico, ma rappresentano una griglia di
massima, molto imperfetta, per favorire, in modo altrettanto manchevole,
quello sguardo metapolitico “altro” sul potere come appunto recita il titolo
del nostro libro. Lungi da noi, insomma, qualsiasi pretesa di compiutezza, o
addirittura perfezione, del sapere. Diciamo solo, che tale formulazione di
massima, rappresenta un altro timido passo in direzione di quella teoria generale del politico, cui abbiamo accennato alla nota 31, capitolo primo. Di
cui questo libro indaga, per quanto imperfettamente, i collegamenti con il
pensiero metapolitico.
124
P.A. Sorokin, Sociology of Revolution, J.B. Lippincott Co., Philadelphia and London 1925, pp. 4-16; 360-413.
84
A suo parere:
“il processo storico, sotto questo come altri riguardi, assomiglia a un uomo che si muove in varie direzioni, eseguendo
cerchi senza scopo definito e senza punto di arrivo” 125 .
Di conseguenza il compito della sociologia quando indaga
“il misterioso mondo degli eventi sociali” è quello di farsi teoria generale dei sistemi sociali e storici tentando di risolvere il
“grande problema sociologico” cioè di scoprire, nell’ “incessante” generarsi e rigenerarsi della vita sociale,
“che cosa è relativamente permanente e che cosa è assolutamente temporaneo, che cosa è relativamente universale e che
cosa è assolutamente locale, nonché quali relazioni fra due o
più fenomeni sono accidentali e quali autenticamente causali.
Soltanto per questa via la sociologia potrà trasformarsi sempre
di più in quella scienza nuova, che il grande Vico andò a vagheggiando e tentò di fondare”126.
In questo senso Sorokin mostra di aver sempre scorto nella
sociologia, per dirla con Aristotele, una scienza dedita allo studio della “sostanza” o “realtà” profonda delle cose sociali, e
non delle sole “sostanze” o “realtà” inferiori, spesso retrocedibili ad “affezioni”, una volta conquistate le vette del sapere sociale, come appunto mostra la natura ascensionale di ogni vero
sapere. Dal momento, che “salendo” si vede sempre più chiaro, grazie all’allargamento della prospettiva, che rende periferi125
P. A. Sorokin, La mobilità sociale ( 1927, 2° ed. 1959), Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 79. La traduzione italiana è condotta sulla seconda
edizione americana.
126
P. A Sorokin, Storie delle teorie sociologiche, intr. di T. Sorgi, Città
Nuova Editrice, Roma 1974, 2 voll., vol. I, p. 721. Si tratta della traduzione
italiana delle due storie della sociologia scritte da Sorokin, rispettivamente
nel 1928 [Contemporary Sociological Theories, vol. I dell’edizione italiana], e
nel 1966 [Sociological Theories of Today, vol. II dell’edizione italiana].
85
co quel che prima appariva centrale.
Si potrebbe perciò parlare, in termini filosofici e metodologici, di una sociologia sorokiniana, molto particolare, della Arché, rivolta a spiegare le ragioni ultime (la “sostanza” delle sostanze”) del mutamento socioculturale e dei suoi limiti, secondo l’ eterna lezione dello Stagirita.
E così Sorokin cercherà di dare una riposta alla questione
dell’ ”incessante” generarsi e rigenerarsi della vita sociale,
come dei suoi limiti, scrivendo Social and Cultural Dynamics.
Dove le forze profonde del progresso e della decadenza - universali e immanenti ai processi sociali - verranno ricondotte
nell’alveo della dinamica dei sistemi di idee e mentalità.
4. I principi del limite e del mutamento immanente
I primi tre volumi di Social and Cultural Dynamics escono
nel 1937, il quarto nel 1941127. Nel primo volume sono date le
principali definizioni concettuali (forme di integrazione, sistemi socioculturali, sistemi culturali e di mentalità, concetto di
fluttuazione socioculturale) e studiate in termini quantitativi,
per periodi di 25/30 secoli, le fluttuazioni in Occidente delle
forme artistiche, musicali e di letteratura. Nel secondo volume
sono descritte le fluttuazioni dei sistemi di verità e conoscenza
127
P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, American Book Co., New
York 1937-1941; vol. I: Fluctuations of Forms of Arts ( 1937); vol. II: Fluctuations of Systems of Truth, Ethics and Law ( 1937); Fluctuations of Social
Relationships, War, and Revolution ( 1937); Vol. IV: Basic Problems, Principles and Methods ( 1941). Ristampa inalterata: The Bedminster Press,
New York 1962, 4 voll. Edizione, quest’ultima, da noi qui utilizzata. Nel
1941 Sorokin pubblicò The Crisis of Our Age, in cui volgarizzò per un pubblico più ampio, le circa tremila pagine della Dynamics. Opera di cui chi scrive ha curato l’edizione italiana (La crisi del nostro tempo, Arianna Editrice,
Bologna 2000). Inoltre nel 1957 Sorokin curò un’ altra edizione ridotta, ma
molto più lunga, poco più di 700 pagine contro le circa 300 di The Crisis, intitolata come l’opera maggiore, Social and Cultural Dynamics (trad. ital. La
dinamica sociale e culturale, a cura di C. Marletti, Utet. Torino 1975).
86
e di quelli etici e giuridici. Nel terzo sono esaminate le fluttuazioni nel campo delle relazioni sociali, politiche, economiche e
l’andamento di guerre e perturbazioni interne (rivoluzioni, rivolte, sommosse). Nel quarto volume, uscito nel 1941, Sorokin risponde alle critiche e completa la sua teoria epistemologica e del mutamento sociale, riprendendo e sviluppando con
maggiore ampiezza l’analisi del principio di limite (principle
of limit) e di quello del mutamento immanente (principle of
immanent change): i due principi, come vedremo, che sono
alla base della polarità progresso-decadenza, o se si preferisce
della più profonda dinamica a sociale e culturale, a sfondo dicotomico, dell’ordine e del disordine: Arché-Anarché.
Sorokin riconduce le forze profonde nell’ambito di accurate
coordinate concettuali e dunque qualitative (sistemi di cultura e
mentalità) perché vuole misurarle, e perciò valutarle, non solo
in chiave qualitativa ma anche quantitativa.
Che significa, si chiede, affermare come gli storici, che una
data epoca è segnata dal declino o dalla crescita di idealismo,
religiosità, guerre e rivoluzioni ? Come comprovare, insomma,
la polarità progresso-decadenza ? O, per dirla nei termini qui
approfonditi, quella Arché-Anarché?
Traducendo - sostiene Sorokin - le quantificazioni discorsive (minore, maggiore, massimo, ecc.) in quantificazioni numeriche, ossia in cifre, individuando però prima alcune unità concettuali di base.
Di qui però la necessità di alcuni “parametri” socioculturali
qualitativi. Da Sorokin ricondotti nell’alveo di tre sistemi
idealtipici, da cui fa poi discendere le tre forme di mentalità
culturale, da lui individuate e indagate: ideazionale, sensistica,
idealistica128.
Su queste basi, ad esempio, quando si occupa delle fluttua128
In realtà, Sorokin individua, suddividendole in sottoclassi, sette tipi di
mentalità: ideazionale ascetica e attiva; sensistica attiva, passiva e cinica;
pseudo-ideazionale, idealistica. Cfr. lo schema in P.A. Sorokin, Social and
Culturale Dynamics , cit., vol. I, pp. 97-99.
87
zioni nei sistemi di verità e conoscenza, Sorokin rivela l’andamento di tali forme, calcolando il numero degli autori che hanno parteggiato per una certa corrente filosofica, e aiutandosi
con una “scala”, misura l’influenza relativa di ciascuno di questi autori129 per ogni periodo (generalmente di venti anni in
venti e di secolo in secolo) dei 2500 anni presi in esame130.
Sorokin perciò parte dal presupposto che le correnti cui appartengono i pensatori incorporano i principi, o Arché di rango
inferiore, delle tre forme idealtipiche di cultura e mentalità. Ad
esempio, razionalismo religioso, misticismo e fideismo riflettono la verità di fede (ideazionale); il razionalismo idealistico, la
verità di ragione (idealismo); l’empirismo, la verità dei sensi
(sensismo). I risultati ottenuti, quanto al numero e al peso dei
pensatori, corroborati da analoghe fluttuazioni in altri campi
(arte, musica, relazioni sociali, ecc.) consentono a Sorokin di
affermare che in Occidente (ovvero nel “supersistema” costituito dalle culture greco-romana ed europea), i tre sistemi ideazionale, idealistico e sensistico si sono ripetuti seguendo appunto tale ordine, più volte. Attualmente il sistema socioculturale sensistico, dopo aver dominato per alcuni secoli è entrato
in crisi, dando così inizio, per la quinta volta in tremila anni a
129
La scala d’influenza va da 1 a 12 e tiene conto dei seguenti dati: numero di monografie su ogni pensatore; quantità di citazioni da parte dei contemporanei e posteri; numero di scuole fondate, quantità di citazioni nei trattati e manuali più elementari; numero di discepoli e seguaci; traduzioni in lingue straniere; numero delle edizioni delle loro opere; originalità e compiutezza dei loro sistemi (cfr. P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, cit., vol.
II, p. 17).
130
In genere il periodo preso in considerazione da Sorokin va dal VI secolo a.C. (580 a.C.) al XX scolo (1920 d.C.), come nel caso dei sistemi di verità
e conoscenza. Tuttavia talvolta, come accade per le forme artistiche, in particolare pittura e scultura, la cui disamina inizia dall’arte cretese-micenea
(XII sec. a.C.) il periodo studiato è più ampio. Sorokin inoltre analizza l’arte
primitiva e si occupa, quando affronta ad esempio le concezioni del tempo o
delle forme di governo, anche delle culture orientali, islamiche, e pre-elleniche, pur restando al centro della sua analisi la cultura greco-romana, ed
euro-occidentale.
88
una tormentata fase di transizione verso un altro sistema131: la
Arché sensistica, ormai semidivorata dalle forze scatenate della
Anarché, starebbe per cedere il posto a un’ altra Arché …
Questi tre sistemi culturali, che non possono essere separati
dal sistema sociale, se non per ragioni analitiche (una cultura
presuppone una società e viceversa), sono fondati su tre diverse premesse socio-gnoseologiche.
Ogni premessa o principio di integrazione logico-significativo, designa la natura ultima della realtà, o la “sostanza” ma di
“rango inferiore” perché corruttibile come vedremo più avanti,
intorno alla quale ruota la vita socioculturale, in termini di
mentalità e comportamenti diffusi, del gruppo che si riconosce in tale premessa132.
Semplificando al massimo: nel sistema culturale ideazionale, la natura della realtà, o Arché (ma di rango inferiore, come
già accennato) è spirituale e sovrasensoriale; in quello sensistico, risiede nei sensi o nei loro prolungamenti (strumenti, microscopi, ecc.), in quello idealistico, che connota le età auree
della storia, la natura della realtà è integrale (spirituale, di ragione e sensoriale).
131
In pratica, l’attuazione di un disegno metodologicamente così ambizioso, richiese tra gestazione ed esecuzione più di dieci anni di lavoro (più o
meno dal 1929-1930 al 1941), e uno staff di collaboratori specialisti (messo
insieme nel 1932),scelti soprattutto tra gli immigrati russi, che raccolsero i
dati nei vari campi. Tra questi vi erano intellettuali di chiara fama come N.O.
Loskij. I.I. Lapshin, N.S. Timasheff, P, Struve, e tra gli americani un giovanissimo R.K. Merton e altri, i cui nomi sono in calce ai capitoli cui hanno contribuito. Verranno schedate oltre centomila opere d’arte, l’intera Encyclopedia Britannica, e le più accreditate opere di storia politica, militare, sociale,
economica, ecc., i principali manuali di filosofia, di storia della scienza, nonché le principali raccolte di leggi penali ed civili, antiche e moderne.
132
Questi principi di integrazione culturale e sistemica rinviano al metodo
“logico-significativo”, la cui “essenza conoscitiva”, scrive Sorokin, “ è nella
scoperta di un principio centrale” , la ragione o motivo, “che permea tutti i
componenti, dà senso e significato a ciascuno di essi, facendo così un cosmo, di un caos di frammenti non integrati” (P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, cit., vol. I, p. 32). E’ in questo senso che la sociologia di Sorokin può essere definita, al tempo stesso, fenomenologica e olistica.
89
Se queste tre forme o sistemi socioculturali (ideazionale,
sensistica, idealistica) rappresentano con il loro succedersi ciò
che vi è di universale e permanente nella storia e nella società (
l’incorruttibilità della Arché sociologica, della “sostanza succedersi nel tempo”) , la polarità Arché-Anarché, o progresso-decadenza, rivela anche, come accennato, la corruttibilità di ogni
singola forma socioculturale, offrendo così una spiegazione al
succedersi di progresso e decadenza.
Ma come avviene questo processo? O meglio, dal punto di
vista sociologico, come funziona il “super-ritmo” - come lo
chiama Sorokin - di avvicendamento fra i diversi sistemi socioculturali ? Come si struttura l’incessante alternarsi Arché-Anarché-Arché-Anarché-(…) ?
Come già accennato Sorokin individua la causa della dinamica dicotomica progresso-decadenza, o Arché-Anarché, nei
principi del mutamento immanente (principle of immanent
change) e del limite (principle of limit), già intuiti nei suoi libri precedenti, dove parlava, come abbiamo visto, di un punto
limite ma anche di un incessante generarsi e rigenerarsi della
vita sociale.
Secondo il principio del mutamento immanente ogni fenomeno socioculturale (che risponda al principio di integrazione
logico-significativa), fin tanto che esiste e funziona, muta incessantemente, come ogni altro organismo in attività, recando
in sé il seme del proprio mutamento (una ghianda, si sviluppa
in quercia, un bambino in uomo, ecc., ma non una ghianda in
uomo e viceversa). Il che significa che la Arché ideazionale
non può trasformarsi in Arché sensistica, senza perdere tutte le
sue caratteristiche ideazionali. E così via. In questo senso le tre
forme integrate, che sono anche fasi storiche e sociologiche,
del “supersistema” Occidente, non possono non sviluppare, tutte le proprie potenzialità interne, fin tanto che sono in vita e fin
90
dove lo consente il principio del limite133.
Infatti in base al secondo principio, quello del limite, tutti i
fenomeni socioculturali hanno un numero di possibilità, più o
meno grande ma finito, di assumere forme diverse e di avere
mutamenti quantitativi e qualitativi.
Ciò implica, in primo luogo, che se il numero dei sistemi socioculturali è di tre, il numero di fasi del ritmo (o del “superritmo”) sarà eguale a tre, non essendovi altre possibilità. Questo esclude qualsiasi evoluzione lineare illimitata, perché le tre
forme, non possono non alternarsi ritmicamente nella storia
dell’Occidente.
In secondo luogo, poiché - ripetiamo - le rispettive premesse, o Arché di rango inferiore dei sistemi socioculturali non
possono tradursi le une nelle altre senza snaturarsi, ogni sistema, una volta sviluppate tutte le sue possibilità, invecchia e
muore, appunto come un organismo che sia passato, indenne,
attraverso le fasi fondamentali della vita, dalla nascita alle porte della vecchiaia134.
L’esatto contrario di quel che sostengono moderni e post
moderni. Il che non è poco.
5. Il “super-ritmo” sorokiniano
Dalla lunga analisi sorokiniana intorno alla regolarità progresso-decadenza, qui sunteggiata, emergono due punti interessanti (1) l’ esistenza storicamente e sociologicamente documentata dei tre sistemi socioculturali; (2) il loro incessante avvicendamento, prodotto dai principi del mutamento immanente
e dei limite. Siamo perciò davanti, per dirla con il grande Stagirita, a un dato di “sostanza” o “realtà” quale “principio delle
cose” sociali e storiche. Perché il “super-ritmo” di avvicenda133
P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, cit., Vol. IV, pp. 587-668
(sul principio di mutamento immanente).
134
Ibid., pp. 669-714 (sul principio del limite).
91
mento dei tre sistemi socioculturali può essere spiegato, grazie
ai due principi (di mutamento immanente e limite), come, “ciò
di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è
principio (άρχή, arché) degli esseri, in quanto una realtà che
permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni”135.
Tuttavia l’incorruttibilità del necessario succedersi delle tre
forme principali non può escludere, proprio in ragione di questo incessante alternarsi, la corruttibilità di ogni singola forma
sistemica.
Come però spiegare la causa di fondo della corruttibilità di
ogni singola forma? Come individuare la causa “ulteriore”, o
“prima” capace di unificare “internamente” sia il principio del
mutamento immanente che quello del limite?
E qui giungiamo al punto decisivo.
Secondo Sorokin, la premessa o Arché di ogni singola forma è causalmente produttrice - essa stessa - della Anarché. Infatti ogni sistema socioculturale esalta solo un aspetto della
realtà, e in questo senso è in parte Vero (Arché) e in parte Falso
(Anarché)). Qui è la causa di fondo e unificante. Perciò ogni
sistema socioculturale racchiude in sé sia il principio della Arché che quello della Anarché: del progresso e della decadenza:
del mutamento e dei limiti. E questo perché con il trascorrere
del tempo, nella misura in cui un sistema socioculturale aumenta il suo predominio ed esclude gli altri aspetti della realtà, tendendo a farsi sempre più falso e incapace di soddisfare i bisogni integrali (spirituali, razionali, empirici) di tutti i componenti del sistema, o comunque i bisogni di quegli attori sociali che
ne condividono in modo sobrio i valori particolari, (o ideazionali, o sensistici, o idealistici). Il suo, per così dire, crescente
tasso di falsità finisce per provocarne la sostituzione con un
altro sistema che a sua volta, dopo essere stato fondamento del135
Metafisica, A (I), 3, 983b5-10, ed. cit. Per la citazione completa cfr.
nota n. 122 .
92
la vita sociale e culturale, subirà la stessa sorte136.
Di qui - riassumendo - tre livelli concatenati: (1) quello della Arché della “sostanza succedersi nel tempo”, o “sostanza
delle sostanze”, che ingloba, non potendo escludere uno dei
due “contrari” (progresso-decadenza) in cui si esaurisce la vita
socioculturale, (2) il “super-ritmo”Arché-Anarché-Arché-Anarché…, che a sua volta dipende causalmente (3) dalla corruttibilità (in termini di crescente squilibrio Vero-Falso o ArchéAnarché), delle singole premesse socio-gnoseologiche di ogni
sistema (ideazionale, sensistico, idealistico). Anche il “superritmo” di avvicendamento trova in termini storici brevi momenti di aureo equilibrio nelle età idealistiche, quando nel passaggio da un ordine ideazionale a uno sensistico, l’ideazionalismo si stempera nel nascente e incorrotto sensismo dando così
vita alla sintesi idealistica137. Su queste età auree e sulla periodizzazione storico-sociologica sorokiniana, rinviamo all’appendice sinottica posta in fondo al libro.
Mentre ben più dura, per venire all’oggi, si prospetta la
transizione dalla decadente età tardo sensistica, vero regno
della Anarché, apertasi nel 1914 e non ancora conclusasi, a una
nuova Arché.
Secondo Sorokin l’uomo contemporaneo, mai precipitato
così in basso nell’intera storia umana, potrà riguadagnare le
“vette ideazionali”, solo a prezzo di sforzi enormi138. Stando
allo schema sorokiniano un periodo di crisi e transizione - che
136
Ibid., vol. IV, pp. 737-774 (sulle ragioni del “super-ritmo”).
A dire il vero, Sorokin sembra talvolta confondere il piano descrittivo
con quello normativo, mostrando di non distinguere tra sistema culturale
idealistico, così come storicamente si è presentato, e verità integrale (idealistica), quale ideale regolativo (come “mix” di intuizione, ragione, sensi). Si
veda ad esempio, Social and Cultural Dynamics, cit., vol I., pp. 143 ss., vol.
IV, pp. 746 ss. Tuttavia il sistema idealistico è da lui sostanzialmente inteso
come una realizzazione storicamente temporanea, all’interno di una realtà
umana imperfetta a causa di quelle ragioni profonde, da noi più sopra ricordate, che regolano il “super-ritmo” . Per Sorokin, insomma, la perfezione
sembra non essere di questo mondo. In questo senso resta un pensatore
“antiperfettista”.
137
93
qui abbiamo definito della Anarché - può durare dai 100 ai
200 anni. Sotto questo aspetto il termine della attuale Anarché
(apertasi nel 1914) e l’inizio di una nuova epoca verrà da lui
collocato, al più tardi, tra la fine del XXI secolo e l’inizio del
XXII secolo139.
Che dire? Qual è in soldoni, se ci passa l’espressione, la
stretta rilevanza metapolitica dell’immane epica sociologica
sorokiniana?.
Sorokin si spinge ben oltre la pura e semplice analisi della
“regolarità” dicotomica “Progresso-Decadenza, fornisce una
teoria generale, di stampo aristotelico, dei sistemi sociali e culturali, imperniata su altre “regolarità” di sua personale coniazione; “regolarità” che rispondono ai nomi di idealismo, ideazionalismo, sensismo, principio del limite, principio del mutamento immanente. E indubbiamente Sorokin finisce per fornire anche una spiegazione metapolitica, nel senso complessivo
del “dopo” e dell’ “oltre”, di una profondità sociologica priva
di precedenti. Un approccio olistico, totale, che finisce per
coinvolgere l’intero divenire umano ricondotto nell’alveo di
una filosofia sociale complessiva dell’ordine e del disordine:
della Arché e della Anarché.
138
Di qui, secondo Sorokin, che sembra però confondere il piano descrittivo con il normativo, la necessità dell’intervento di una storia-provvidenza à la de Maistre, che in veste di “policeman” sottoponga l’uomo sensistico
a un rigido processo di “rieducazione” ai valori non materialistici. Intervento
che, a suo avviso, rischia però di dover passare, anche in futuro, attraverso
il fuoco di terribili esperienze totalitarie (cfr. P.A. Sorokin, Social and Cultural
Dynamics, cit,, vol. IV, pp. 772-773).
139
Si veda in proposito P.A. Sorokin, The Western Man in Search for His
New Home. Prognosis of the Sociocultural Shape of the Western World in
This and Twenty-First Centuries (dattiloscritto di 27 pagine, con correzioni a
penna di Sorokin, conservato presso la University of Saskatchwan Library,
Special Collection, Sorokin Collection I.B.9). In questo scritto, a quanto ci risulta inedito, privo di data, ma non anteriore al 1966, Sorokin sostiene che la
presente fase di transizione durerà complessivamente minimo 150 anni, o in
ogni modo, per scorgere almeno l’inizio di un cambiamento, non meno di un
periodo di tempo (partendo probabilmente dal 1966) pari a tre generazioni
“di circa trent’anni l’una” (Ibid., p. 10 in particolare).
94
Una visione profonda e così netta che può essere solo accettata o rifiutata. E su questo aspetto torneremo, tra poco, nelle
conclusioni.
Tuttavia, dando (provvisoriamente) per attendibili le previsioni sorokiniane, dobbiamo rilevare che una lunga e perigliosa navigazione nei mari della Anarché ci separa dal raggiungimento del nuovo porto sicuro, pur provvisorio, di una nuova
Arché. Una meta agognata che purtroppo ancora non si scorge
all’orizzonte.
95
Conclusioni
Sembra giunto il momento di tirare le fila del nostro discorso. Ma prima un’ultima domanda: come può essere definita
sinteticamente la nostra concezione della metapolitica? Realistica o idealistica? Difficile rispondere. Probabilmente la nostra
idea di metapolitica è frutto di una mescolanza creativa tra realismo e idealismo, in senso leopardiano di “debita arte”, che
per noi però è anche scienza. E ripetiamo, soprattutto, uno “stare a guardia dei fatti”.
Ma entriamo nel merito.
Innanzitutto riteniamo di aver chiarito a sufficienza il nostro
rifiuto della metapolitica come ricerca del fondamento, elevato
al quadrato, della politica (capitolo primo). O se si preferisce
della metapolitica come raccolta dei comandamenti etici della
politica. Crediamo perciò sia definitivamente chiaro il nostro
rifiuto dell’idealismo etico.
Tuttavia suddividendo la materia in metapolitica teorica, dal
punto di vista di chi osserva (capitolo primo), e in metapolitica
dell’azione, dal punto di vista di chi agisce (capitolo secondo),
abbiamo mostrato, al tempo stesso, di non voler rinunciare a
un ancoraggio al dover essere basato sull’uso concettuale di
“regolarità” conoscitive desunte dall’osservazione storica e sociologica della realtà così com’è. E non come dovrebbe essere
secondo le tavole dell’etica. Insomma, non abbiamo rinunciato
a coniugare idealismo conoscitivo (comunque non etico) e realismo storico e sociologico.
Del resto la metapolitica dell’azione, non può non essere
fondata anch’essa sulla conoscenza da parte degli attori delle
“regolarità” Il che però non significa che dal punto di vista dell’azione la metapolitica debba risolversi in una meccanica applicazione, da parte degli individui, di “regole” sociologiche
97
alla realtà. Può anche esserlo, ma quanto agli esiti, come abbiamo già riportato, siamo al cospetto, per quel che concerne le
“regolarità”, di asserzioni ipotetiche del tipo “se…, allora…”.
Fermo restando, che se posto l’ antecedente, il conseguente
previsto non si avvera, la “previsione” racchiusa nella regolarità, può comunque valere come schema di riferimento.
Gli esiti della metapolitica dell’azione, restano perciò aperti
rispetto a un ventaglio di possibilità. Definite? Indefinite?
Ecco, questo problema è stato affrontato, ricorrendo allo
schema intepretativo sorokiniano (terzo capitolo). Affrontato,
ma non risolto. Crediamo.
Dal momento che l’ “immensa” metapolitica sorokiniana,
imperniata non solo sulla “regolarità” progresso-decadenza, per
un verso aiuta a ricostruire magistralmente, diremmo epicamente, duemilacinquecento anni di storia umana, ma per l’altro, ciò avviene, attraverso l’uso di una griglia interpretativa
concettuale, molto soggettiva, sfociante, come abbiamo visto,
in una metapolitica della Arché e della Anarché. Una sorta di
metapolitica integrale volta, in definitiva, allo studio delle cause “ultime” ( o quasi) dell’ordine e del disordine.
Tuttavia, per quel che ci riguarda, riteniamo - certo soggettivamente, e qui è la sfida… - l’impostazione sorokiniana convincente. Anche se sappiamo di offendere altre divinità conoscitive. Perché convincente? Lo è proprio nel senso aggettivale
“della persuasione a fare qualcosa”: a “combattere insieme”,
come spiega l’ immaginoso (ma fino a un certo punto) intreccio tra la radice indoeuropea “ combattere” e il complemento
latino (“cum”)140.
E in questa misura la metapolitica sorokiniana, con la sua
epica sociologia del “super-ritmo” storico, può essere il punto
di saldatura tra la metapolitica teorica e la metapolitica dell’azione.
140
M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana,
cit., vol. I, ad vocem (convincere), p. 280 e V, ad vocem (vincere), p.
1439.
98
Infatti l’opera di Sorokin ha il pregio - per alcuni il difetto di offrire al tempo stesso categorie concettuali (“regolarità”)
desunte da uno studio attentissimo della realtà storica e sociologica, ma anche un’ interpretazione del divenire umano, che
partendo dalle “regolarità”, va oltre le “regolarità stesse, fino
al punto di dare vita a un filosofia integrale della storia e dell’uomo. Ma lasciamo la parola a Sorokin:
“La mia filosofia si chiama integralismo. Intende la realtà
totale come la X infinita di qualità e quantità innumerevoli: spirituali e materiali, momentanee e eterne, sempre mutevoli e immutevoli, personali e super-personali, temporali e senza tempo,
spaziali e prive di spazio, une e molte, le piccolissime come le
piccole, le più grandi come le grandi. In questo senso è il vero
mysterium tremendum et fascinosus e la vera coicidentia oppositorum. Il suo punto più alto è la X Creativa Infinita che oltrepassa ogni umana comprensione”141.
Ma facciamo un ulteriore passo in avanti. L’integralismo conoscitivo di Sorokin, che - come è palese - non ha alcun punto
di contatto con forme di fondamentalismo religioso, morale,
politico e scientifico, può perciò costituire un collegamento
tra la metapolitica della teoria e quella dell’azione, dal punto
di vista della nascita di una filosofia integrale della metapolitica. Ma non solo: perché può anche rappresentare un ponte tra
metapolitica, così come è stata intesa in questo libro, e quella
X infinita creativa, di cui parla Sorokin. Una X che non può
non essere intesa come l’Assoluto, quale realtà incondizionata,
non dipendente da altra: Dio.
Naturalmente, per quest’ultimo passaggio (dalla metapolitica all’Assoluto), siamo davanti a una scelta individuale, che
esula dalla metapolitica in senso stretto, come qui è stata trat141
P.A. Sorokin, La mia filosofia è l’integralismo (1956), in W. Burnett ( a
cura di). Questa è la mia filosofia, Bompiani Editore, Milano 1959, p. 246.
99
tata. Siamo infatti al cospetto di un scelta tra etica dei principi
(o dei fini) ed etica della responsabilità (o dei mezzi).
Dove non basta più il weberiano scegliere in termini di mezzi una divinità, sapendo di offenderne un’altra. Ma occorre
credere in un Dio in termini di fini, accettando anche l’ estremo sacrificio. Che per chi sia cristiano consiste nel sostituire
alla X (ics) di Sorokin la † (croce) di Cristo. Nella consapevolezza evangelica che se la si accetta sulle spalle, la si deve
poi portare fino in fondo. Oltre la metapolitica.
Ma questa è un’altra storia. E forse un altro libro.
100
Appendice (sinossi dello schema sorokiniano)
Proponiamo una sinossi dello schema sorokiniano di fluttuazione dei tre
sistemi socioculturali in Occidente .
In sintonia con i contenuti “metapolitici” del libro abbiamo integrato lo
schema sorokiniano, rileggendolo alla luce della dinamica ArchéAnarché . Di riflesso, le fasi dove il carattere socioculturale del periodo
è chiaramente definito in chiave di progresso (ideazionale, sensistico,
idealistico), si è aggiunta la definizione Arché . Mentre per quelle di “crisi e transizione”, e quindi di decadenza del sistema predominante,
Anarché. Infine per le fasi miste quella di Arché-Anarché.
Civiltà cretese-micenea: XII-XI
sec. a.C.
Sensistico (Arché)
Civiltà cretese-micenea: X sec.
a.C.
Crisi e transizione (Anarché)
Grecia: IX secolo a.C.
Misto con prevalenza dell’ideazionialismo (Arché-Anarché)
Grecia: VIII-VI a.C.
Ideazionale (Arché)
Grecia: V sec. (in particolare la
seconda metà) e i primi due
terzi del IV secolo a.C.
Idealistico - Età Aurea (Arché)
Grecia: dalla fine del IV secolo
al II secolo a.C.
Sensistico (Arché)
Roma: III-II sec. a.C.
Roma: I sec. a.C.
Crisi e transizione (trasmigrazione
del tardo e decadente sensismo ellenistico nella cultura romana, in
precedenza ideazionale e idealistica) (Anarché)
Misto con prevalenza del sensismo
(Arché-Anarché)
101
Roma: I-II sec. d.C.
Sensistico (Arché)
Roma. III sec. d.C.
Crisi e transizione (Anarché)
Roma IV-V sec. d.C.
Misto con prevalenza dell’ideazionalismo (Arché-Anarché)
Europa: VI-XII sec. d.C.
Ideazionale (Arché)
Europa: XIII sec. d.C. e prima
metà del XIV sec. d.C.
Idealistico - Età Aurea (Arché)
Europa: seconda metà del XIV
sec. e XV sec. d.C.
Crisi e transizione (Anarché)
Europa: XVI-XVII sec. d.C.
Misto con prevalenza del sensismo
(Arché-Anarché)
Europa. XVIII-XIX sec. d.C.
Sensistico (Arché)
Europa (e Occidente): XX secolo d.C. (a partire dal 1914)
Crisi e transizione (Anarché) (*)
(*) Per il periodo che va dal XII al VI secolo a.C. i dati provengono dall’analisi delle fluttuazioni in campo artistico (cfr. P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, cit., vol. I, pp. 285-308, in particolare pp. 258-286). Per il periodo restante (VI secolo a.C. - XX secolo d.C.) i dati provengono dallo studio delle fluttuazioni dei sistemi di verità e conoscenza (Ibid., vol. II, pp.
46-53 in particolare). Va comunque sottolineato che Sorokin “non ritiene”
che l’ordine di successione sistema sensistico-ideazionale-idealistico o ideazionale-idealistico-sensistico rappresenti una “uniformità universale”. Si tratta di una considerazione “puramente empirica - egli scrive - e come tale non
implica alcuna necessità che detta sequenza debba essere universale nel
tempo e nello spazio” (Ibid., vol. IV, p. 772).
102
L’autore
Carlo Gambescia è nato e risiede a Roma. Sociologo.
Ha all’attivo fra testi scritti, curati e tradotti, alcune decine
di volumi. Collabora con pubblicazioni scientifiche italiane
e straniere. Scrive su quotidiani e riviste. Svolge consulenze editoriali. Nel tempo libero che gli resta, poco per la
verità, scrive sul suo blog:
carlogambesciametapolitics.blogspot.com
Per contatti diretti: [email protected]
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