DM 821-2014 Intervento Coppa 29 maggio 2014

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DOTT. MAURO COPPA 29 MAGGIO 2014 - MODULO DISABILITA’ GRAVE.
“IN CLASSE CON UN ALUNNO CON DISABILITA’ GRAVE – LE BUONE PRATICHE”
Cercherò di fare una lezione molto pratica, operativa, cercando di rimandarvi quelle che sono le strategie
che sono state utilizzate nelle problematiche di disabilità grave a tutti i livelli e la possibilità anche di fare
domande. Vi racconto delle storie, delle procedure di intervento legate alle problematiche varie che vanno
dall’inserimento scolastico all’educazione prosociale, alla gestione comportamenti problematici gravi, è un
po’ un cercare di dare delle informazioni che poi possano essere spese all’interno della professionalità di
ciascuno.
Vedremo che cosa si può fare quando la problematica è connessa a una serie di difficoltà che incontriamo e
che determina una situazione di impasse. Quali sono le problematiche maggiori quando abbiamo un alunno
che presenta questo tipo di disabilità e che purtroppo vengono insieme, cioè una disabilità intellettiva grave
unita anche a delle difficoltà di apprendimento, unita anche al deficit di comunicazione. Parleremo anche di
CA, di procedure di comunicazione aumentativa alternativa usando ausili tecnologici poveri, quelli cioè che
sono comunque alla portata delle famiglie e delle scuole, dei programmi che possono essere utilizzati anche
con alunni che hanno deficit dal punto di vista psicofisico, che non utilizzano le mani, che fanno difficoltà ad
usare il linguaggio verbale e così via.
Sicuramente una delle problematiche che troviamo è la difficoltà dal punto di vista comunicativo;
generalmente le abilità di linguaggio verbale sono fortemente limitate. Se sono presenti, guardate nel
bambino autistico o nel bambino non vedente con disabilità intellettiva, la forma verbale è di tipo ecolalico,
cioè utilizza la parola o la frase non per fini comunicativi, ma molto spesso è la modalità utilizzata per
interagire con le persone, per poter richiamare l’attenzione utilizzando una forma che non ha finalità di tipo
comunicativo. Le problematiche, nella disabilità grave, le abbiamo sulle due componenti:
-
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quella recettiva, la capacità di comprendere il messaggio, quindi se utilizziamo il linguaggio verbale
non sempre, comunque, è compreso, a meno che non sia fortemente contestuale,(sta seduto, gli
dico “Alzati” e gli porgo la mano per alzarsi e lo accompagno ad una comunicazione verbale, il
ragazzino svolge l’indicazione che gli ho dato, molto spesso perché è contestuale, perché lui
decodifica una serie di informazioni, non necessariamente quella verbale). Quando un genitore viene
e vi dice che il bambino capisce tutto e che lui gli parla continuamente, è da valutare che cosa
effettivamente gli arriva in termini di comprensione. Non è detto che l’aumento delle interazioni
verbali, questo arricchimento lessicale che cerca il genitore di poter fare per stabilire una interazione
“normale”, arrivi e venga compresa e decodificata.
L’aspetto più problematico lo abbiamo nella comunicazione produttiva, nella necessità di poter
esprimere bisogni, in quel contesto, di fare delle richieste perché non sempre una forma
comunicativa comprensibile. Utilizzano molto spesso delle parole che comunque sono state apprese
quando erano piccoli e rimangono in un vocabolario molto limitato. Molto spesso, qui grazie alla
Comunicazione Aumentativa, cerchiamo di integrare le forme presenti di comunicazione con altre
che possono essere di tipo pittografico, quando si usano le immagini, le foto per poter interpretare
quello che sta dicendo, dei gesti naturali oppure altre forme oggettuali che hanno la capacità di
rendere molto pratico, molto operativo, molto concreto il messaggio.
I limiti nella comunicazione sono direttamente correlati con i disturbi del comportamento, c’è sempre una
grossa correlazione tra la difficoltà di esprimere quello che io voglio e poterlo esprimere attraverso modalità
disadattive che possono essere forme di aggressività, sia dirette verso gli oggetti o le persone, i coetanei,
oppure forme di aggressività dirette contro se stessi, autolesionismo, e sono forme estreme. Molto spesso la
presenza dell’aggressività per dire “Voglio quella cosa” non potendola dire in altro modo, il bambino impara
che nella sua vita la forma aggressiva è quella che determina la possibilità di ottenere quello che sta
chiedendo in una forma non adeguata e se non interveniamo precocemente con una modalità comunicativa
che sostituisca in alternativa quella problematica, sicuramente potremo avere delle problematiche che si
uniscono e si abbinano al di là delle problematiche intellettive.
Condizioni neuromotorie gravi che determinano sia passività che dipendenza: una grossa dipendenza
nell’esprimere i propri bisogni, una grossa dipendenza dalla persona che fa un accudimento rispetto i
contenuti curricolari
Ridotta possibilità di interazione e selezione delle scelte: vedrete nei filmati che cerchiamo di poter
sviluppare dei programmi con l’educazione prosociale. Abbiamo creato un programma che si chiama
“Guarda che faccia”, un programma che ha cercato di mettere sullo stesso piano dal punto di vista
comunicativo una ragazzina che problematiche del tipo sia comunicativo verbale che psicofisico (una forte
spasticità)e la possibilità di incidere, di interagire con gli altri attraverso il codice non verbale, attraverso le
espressioni, quella che viene chiamata educazione emotiva razionale, quindi la possibilità di esprimere
contenuti attraverso le varie espressioni che corrispondono a stati emotivi.
Rilevante difficoltà di apprendimento: sicuramente questo è un altro problema. Sicuramento le procedure
classiche di insegnamento della letto scrittura, del calcolo, sono procedure che hanno forti limitazioni.
Arriviamo quando mi chiamano nelle scuole superiori ad un ragazzino che riesce a dire poche parole, leggere
quattro o cinque parole come lettura globale, e quando gliene mettiamo una simile tra mamma e mare
comincia ad avere delle difficoltà perché le componenti letterarie presentano delle similitudini, la possibilità
di contare come catena verbale fino a 7/8 ma fa fatica ad associare il numero alla quantità e viceversa e
questo è quello che possono sviluppare in termini di apprendimento accademico. Sicuramente le difficoltà
sono enormi: per insegnare una risposta nuova devo comunque applicare delle procedure molto reiterate
nel tempo, perché comunque la memoria a breve termine è una memoria molto limitata, non ritiene più di 2
massimo 3 unità di memoria e questo diventa un grosso problema per insegnare cose nuove dal punto di
vista dell’apprendimento scolastico.
Infine i disturbi del comportamento che sono fortemente correlati alla prima cosa che abbiamo detto: molto
spesso c’è un’ipotesi comunicazionale nei comportamenti problemi e vedremo un filmato di un caso di un
disturbo pervasivo dello sviluppo con forti comportamenti di aggressività che utilizzava il comportamento
come sostituto di tutte quelle che potevano essere i bisogni (l’essere stanco, bisogno di interagire, ecc.).
questo è il quadro entro cui ci muoveremo.
Cercherò di mettere le strategie che nel tempo, sia nei programmi di inclusione scolastiche, sia nelle
consulenze fatte in giro per l’Italia, quali possono essere i fattori che ci possono aiutare in questo percorso.
Vedremo che cosa significa didattica inclusiva al di là delle parole, al di là delle etichette con cui molto spesso
ci si riempie la bocca, bisogna però vedere come si applica, perché diventa molto difficile fare didattica
inclusiva quando si ha un ragazzo con problematiche neuromotorie, problematiche comportamentali. Non
parla, sta in carrozzina, è anche difficile trovare delle forme comuni di curriculi integrati nel contesto in cui è
inserito.
Vedremo come è importante l’alleanza scuola-famiglia, la Comunicazione Aumentativa, sia nel contesto
scolastico che nel contesto riabilitativo, forme di interazione sociale (l’apprendimento cooperativo, l’utilizzo
di tutori per poter sviluppare forme di interazione), l’educazione prosociale, ma anche due aspetti
assolutamente importanti come le risorse tecnologiche e le problematiche comportamentali.
La tecnologia come entra nella scuola? Quando vai a vedere come i ragazzi comunicano con il computer, in
realtà non comunicano con il computer, ma con i giochi del computer che non sono una forma di
comunicazione che sta dentro il computer, che è una cosa completamente diversa. Adesso funzionano molto
bene i tablet, facciamo dei programmi anche con bambini con grosse disabilità, utilizzando dei menù con cui
loro ci dicono che cosa vogliono e cliccando sulla finestrella dei giochi escono fuori delle possibilità e quindi il
tablet se lo portano dietro. Abbiamo un programma MULTITASKING in cui a ragazzini con residui visivo viene
messo il tablet sulla carrozzina e se lo portano dietro anche in contesti diversi dalla classe o a casa,
generalizzando l’abilità anche fuori del contesto scolastico: a casa, in interazione con i coetanei, ecc. tutto va
a far parte del progetto di vita.
Un aspetto a cui vengo chiamato spesso è per problematiche comportamentali, che vanno espandendosi
anche in bambini che non hanno disabilità gravi, eppure incidono moltissimo sui processi di didattica
inclusiva. Vedremo quali possono essere delle strategie molto semplici che abbiamo utilizzato nella gestione
di problematiche diverse.
Uno degli aspetti che mi piace dire è, fondamentalmente, se quando ci viene segnalato un caso ci dobbiamo,
noi che ci occupiamo della disabilità grave, rapportare all’immutabilità della disabilità vista come destino. Ci
sono dei vincoli che non possiamo superare perché sono dei vincoli legati a tutte le difficoltà che abbiamo
visto, ma ci sono anche delle possibilità. Molto spesso però i vincoli sono talmente forti, talmente pesanti
che facciamo fatica a vedere quelle che sono le possibilità di interazione, perché comunque spaventa ed
evoca dei vissuti di impotenza. Che cosa posso fare se mi arriva un ragazzino che non ha sviluppato
competenze comunicative, presenta comportamenti problematici, non ha la capacità di interazione con gli
altri, giunto ad una certa età, alla soglia della scuola secondaria di I grado, quali possono essere le possibilità
che io ho per incidere e insegnare delle cose.
Molto spesso ci lamentiamo perché abbiamo tante altre problematiche, oltre a quelle che ci vengono
assegnate dal caso, che diventa difficile poter vedere quali sono le possibilità. E molto spesso anche i servizi
di rete, perché questo è un lavoro di rete, questo intervento non finisce nella scuola ma prosegue con
l’insegnante domiciliare. Molto spesso però non c’è continuità tra quello che facciamo a scuola e quello che
deve essere portato a casa. Un programma di interazione a scuola poi deve essere trasportato a casa,
istruendo i genitori su come applicare a casa il contratto educativo, con un educatore che ha avviato il
programma con insegnanti e genitori e questo funziona perché abbiamo visto che ci sono risultati. Al di là
dell’indicazione che restano lì e creano frustrazione ; abbiamo superato il concetto di Tata Lucia con la figura
del tutor, il Coach, che ha competenza nella modalità applicativa dei contratti comportamentali sia a scuola,
dove si mette al fianco delle insegnanti e non le lascia, con delle verifiche finché non vediamo dei risultati,
ma fa anche gli stessi interventi a casa cercando di creare una continuità spendibile in termini di risultati.
Domanda: Senza la famiglia, senza la continuità scuola-casa si hanno risultati o non lo si hanno a
prescindere?
Pensiamo al controllo sfinterico: una delle problematiche è che se a casa la mamma non lo porta in bagno
sistematicamente ogni mezz’ora non possiamo avviare il controllo sfinterico. Prima di tutto il ragazzino
discrimina i contesti, quella che è la relazione a scuola e a casa. Possiamo avviare dei programmi di
insegnamento a scuola se ancora i genitori non sono consapevoli no riescono a mettersi in discussione, non
ti seguono, hanno delle difficoltà e così via. Si possono avviare dei programmi a scuola: pensiamo al controllo
sfinterico si può passare dagli orari che mettiamo come etero controllo allo sviluppo dell’autocontrollo in
attesa che i genitori vengano dietro. I genitori non ne vogliono sapere, continuano a mettere il pannolino,
ma questo non interferisce, non ha una interferenza retroattiva con il lavoro svolto a scuola. Certo, quando
parliamo di collaborazione scuola famiglia, il patto di corresponsabilità, cerchiamo di portarceli dietro per
vedere le cose condivise che possiamo fare.
Nei disturbi del comportamento sono i genitori per primi che ti dico dammi una mano, quindi già partiamo
da una richiesta motivazionale molto forte. Loro non sanno come gestirlo a casa quindi posso presumere che
comunque loro siano molto disponibili a poter seguire, non prendendo indicazioni perché pensiamo che i
genitori fanno altri mestieri oltre l’insegnante o il terapeuta, dobbiamo essere noi a guidarli, far vedere loro
come intervengono e cercare di correggerli, creando continuità tra quello che facciamo a scuola e quello che
fanno a casa. Se aspettiamo che i genitori divengano consapevoli non partiamo mai; certo che la
collaborazione con i genitori funziona ,ma dall’altra parte i tempi di maturazione e consapevolezza viaggiano
su percorsi molto diversi. Ciò non significa che non ce li dobbiamo portare dietro, perché quando vedono che
funziona soprattutto quando si parla di problemi comportamentali ti seguono sempre.
Chi garantisce continuità sono gli assistenti scolastici e domiciliari, che conoscono il ragazzino da quando
aveva tre anni e lo ha portato fino alle scuole superiori, quindi un investimento in termini di competenze
dobbiamo fare forte per quel che riguarda queste figure. Sicuramente abbiamo delle possibilità di poter fare;
abbiamo dei vincoli legati alla disabilità grave, ma abbiamo anche delle possibilità e possiamo fare qualcosa.
Non è detto che se i genitori non mi vengono dietro non possa comunque avviare un controllo sfinterico o la
gestione di comportamenti problema oppure se non ho la collaborazione degli insegnanti di classe, non
possa avviare un programma con un ragazzino per poter sviluppare la lettura funzionale, la comunicazione
aumentativa, ecc. Molto spesso mancano le buone pratiche che funzionano (del tipo A.B.A., tecnica
comportamentista stimolo risposta rinforzo. riformulazione di tecniche comportamentiste, attraverso
condizionamento operante). Noi abbiamo delle competenze per insegnare al bambino con disturbo
pervasivo dello sviluppo anche se non abbiamo la certificazione. Sono le pratiche didattiche evidence based,
cioè quelle che hanno portato dei risultati. L’educazione prosociale, cioè insegnare ai ragazzini a dare una
mano al bambino in carrozzella è investimento sugli altri, perché sviluppa comportamenti non aggressivi e di
interazione, di empatia con gli altri, è una pratica basata sull’evidenza perché ci sono dati che ci riportano
che c’è una crescita dell’abilità di interazione non aggressive, non egocentriche, non centrate su se stesso, di
cui beneficia non solo il ragazzino per cui abbiamo fatto il programma ma anche tutti gli altri e questo è
evidence based, cioè che hanno dimostrato che producono dei risultati positivi.
DOMANDA: a proposito della tecnica ABA, non ho capito se è qualcosa che non è utile o non è niente di
nuovo. Ha degli effetti positivi o è una cosa limitativa?
È una riformulazione di tecniche comportamentiste perché la base dell’insegnamento viene prodotta
attraverso un condizionamento operante. Funziona in termini di sequenze di apprendimenti operanti che
vengono utilizzati nelle procedure di condizionamento. Hanno visto che sono evidence based, che
funzionano non soltanto con i bambini con disabilità gravi, ma anche con i bambini autistici, perché produce
dei risultati in termini di apprendimento di skils, cioè in termini di apprendimento di abilità. Ora noi abbiamo
visto negli anni che la procedura di condizionamento operante deve essere comunque essere integrata
attraverso forme di interazione, attraverso la relazione, attraverso il riconoscimento delle emozioni, ecc.
però la base dell’insegnamento è quella. Penso che non sia limitativa perché viene utilizzata adesso con
tantissime problematiche. Pensate Contratto Educativo: è una modalità di gestione delle problematiche
comportamentali oppure di incremento delle abilità che io voglio fare. Cioè do degli smile per quello che
riguarda comportamenti positivi, tolgo lo smile quando ci sono comportamenti negativi. Questa modalità è
una modalità operante, perché io comunque devo gratificare il comportamento quando viene espresso nella
modalità positiva o negativa. Sono procedure di insegnamento che hanno comunque rilevanza in termini
scientifici e che producono dei risultati.
Sicuramente cerchiamo di migliorare la qualità. Quali possono essere delle buone pratiche:
1. Educazione prosociale: insegnare a tutti i bambini della classe la possibilità comunque di sviluppare
atti di incoraggiamento, di aiuto fisico, di condivisione emotiva verso bambini che hanno delle
difficoltà. Il comportamento prosociale è dentro i nostri neuroni, perché Rizzolato l’ha scoperti
come neuroni a specchio. Noi siamo potenzialmente naturalmente orientati poi l’educazione ci devia
verso la chiusura in noi stessi, ecc. Verso i due anni il bambino è portato ad essere naturalmente
empatico, cioè naturalmente portato a pensare che quel bambino che sta piangendo perché gli si è
bucata la ruota della bicicletta, naturalmente va lì e cerca di consolarlo e questo avviene. Dopodiché
è una abilità che viene recuperata; Roche, negli anni, è stato quello che ha recuperato questo
concetto di educazione prosociale, è una delle pratiche che nel gestire problematiche
comportamentale con tutta la classe, è uno di quegli esempi di curricolo integrato che vanno bene,
perché lo posso fare con i bambini di scuola dell’infanzia, primaria e secondaria e che produce
comunque risultati molto evidenti di incremento delle abilità sociali.
2. Apprendimento cooperativo: poter sviluppare di fronte al compito utilizzare e sviluppare tutte le
risorse che abbiamo a disposizione. Se c’è un ragazzino dislessico, che non riesce a leggere in termini
di rapidità e accuratezza ma è molto bravo nella competenza tecnica, l’apprendimento cooperativo
serve come elemento compensativo, cerca di compensare la frustrazione che lui ha quando legge
davanti agli altri con un rafforzamento nel gruppo cooperativo della sua capacità di poter essere
bravo con le mani e dare un contributo nel lavoro di gruppo.
3. Mappe concettuali: serve come schema di apprendimento perché diventa un apprendimento
semplificato, ridotto all’osso per chi ha una disabilità intellettiva medio grave, perché ha la
possibilità di poter semplificare dei concetti. Bisogna comunque imparare come farle le mappe,
favoriscono la memorizzazione non soltanto nei DSA, quelli che hanno difficoltà dal punto di vista
della memoria breve, ma soprattutto in quelli che hanno disabilità intellettive, quelli che fanno fatica
a parlare, perché lo schema della mappa concettuale diventa una traccia che facilita anche
l’espressione orale. Questo è un altro esempio di come si possa fare didattica inclusiva utilizzando
delle modalità che vanno bene per tutti.
4. Sintesi vocale che viene data per ragazzini dislessici che utilizzano non la via visiva ma la via uditiva è
utile anche per un ragazzino ipovedente o non vedente perché comunque meda le informazioni
visive con quelle uditive.
Sono alcuni esempi di come praticamente si possano utilizzare delle strategie che vanno bene un po’ per
tutti. Vi mostro un video di un’insegnante e un genitore su che cosa significa per loro la didattica inclusiva, su
come interpretavano da punti di vista diversi quelle che potevano essere soluzioni e difficoltà in un
approccio come questo.
Domanda
Disabilità intellettiva:
la prima cosa che
viene in mente
Il termine inclusione
che cosa ti fa pensare
Quali vantaggi per la
classe in presenza di
un bambino con
disabilità
Quali svantaggi
Le qualità necessarie
agli operatori della
scuola per creare una
buona inclusione
Quale ruolo ha
l’insegnante di classe
nei confronti
dell’inclusione
Il docente di
sostegno: punti di
forza e di debolezza
Quali sono i principali
bisogni educativi
speciali di un bambino
con disabilità
La scuola come
risponde a questi
bisogni
Quale ruolo dovrebbe
avere la famiglia
rispetto alla
situazione attuale
Dovendo definire i tre
livelli essenziali di
qualità dell’inclusione
quali prenderesti
Insegnante
Comunicazione
genitore
La scarsa possibilità di socializzare
A un sistema scolastico che si organizza e si
struttura attorno ai bisogni educativi
speciali di un bambino
I vantaggi sono di varia natura, di ordine
cognitivo, culturale, emotivo, relazionale, è
comunque un arricchimento e una crescita
per tutti
Raccoglie dentro di e quindi accoglie,
direi un termine positivo
Non vedo svantaggi nell’integrazione
stessa, ma nella cattiva programmazione
dell’integrazione
Una buona competenza, ottime capacità
relazionali, la capacità di saper lavorare in
equipe
Ha un ruolo importante. Nella scuola
primaria è un modello per i bambini e
quindi funge da punto di riferimento
Punti di forza la sua specializzazione in più
rispetto ai docenti curricolari. Punti di
debolezza il fatto che spesso ci
dimentichiamo del nostro sapere e non lo
trasformiamo in un saper fare e un saper
essere e troppo spesso siamo condizionati
dallo stereotipo di insegnante di serie B e ci
comportiamo da insegnanti di serie B
Ha dei bisogni educativi speciali, ma
soprattutto ha dei bisogni educativi e
quindi non mi sento di fare una gerarchia
dei bisogni che ha. H ai bisogni di tutti i
bambini: bisogni di appartenenza,
conoscenza, di essere valorizzato
Risponde ancora in modo parziale e
disomogenea, soprattutto sul territorio
nazionale
Ruolo da protagonista in sintonia con il
lavoro che viene fatto a scuola. La famiglia
è comunque il motore che dirige il progetto
di vita sul ragazzo e serve una
collaborazione continua e un atto di fiducia
nei confronti degli operatori che lavorano
nella scuola
I livelli minimi sono difficili da definire,
sicuramente una buona formazione, un
buon livello organizzativo, sia
all’organizzazione delle strutture che
umane e finanziarie, un buon rapporto tra
docente specializzato e ragazzi.
Il vantaggio principale sia essere
educati alla cura dell’altro,
all’altruismo e credo che questo sia
molto importante per la crescita di
una persona
Svantaggi credo non ce ne siano,
forse qualche piccolo sacrificio, ma
svantaggi no
L’amore per il proprio lavoro,
l’umiltà di apprendere nuove
pratiche educative e un po’ di
creatività
Deve essere un insegnante che
segue il processo educativo del
bambino anche disabile e faccia
parte attiva della sua crescita
È una ricchezza per la classe, un
aiuto, ma non deve essere
considerato l’insegnante del
bambino disabile.
La comunicazione, la relazione,
l’apprendimento delle autonomie
personali.
Non sempre risponde positivamente,
soprattutto quando ci sono i casi di
ragazzi con disabilità cognitive gravi
Un ruolo importante: la famiglia
deve essere messa in grado di
sostenere il proprio figlio anche
all’interno della scuola per cui
sarebbe necessario avere un
sostegno da parte della scuola con
corsi di formazione genitoriale
La formazione degli insegnanti, sia
curricolari che di sostegno, la
formazione e il sostegno alle famiglie
e la continuità scolastica
dell’insegnante di sostegno
Vediamo quali possono essere PROTOCOLLI operativi per studenti con disabilità intellettive gravi e
problematiche
Le basi su cui poggiare gli interventi con studenti con disabilità grave sono basi di tipo scientifico ed
imprescindibili da qualsiasi programma e sono di tipo operativo molto importanti. Il primo aspetto è quello
dell’osservazione del comportamento. Prima di fare un intervento dobbiamo capire quali possono essere le
situazioni collegate a quel comportamento. Pensiamo ad un comportamento problema dentro la classe: un
ragazzino che ha comportamenti di aggressività nei confronti degli oggetti o di disturbo o comunque che
crea delle situazioni di difficoltà nella gestione. Un aspetto importante è quello di poter applicare una
modalità osservativa che si chiama ANALISI FUNZIONALE. Io non faccio interventi riabilitativi se prima gli
insegnanti non hanno fatto osservazione; vado in classe quando le insegnanti hanno prodotto osservazioni
su quello che è contesto in cui si verifica quel determinato comportamento. Se è un comportamento di
aggressività: cosa sta facendo il ragazzino, quali sono i comportamenti attraverso cui esprime l’aggressività,
la situazione conseguente, che cosa succede dopo. Che cosa fate, che cosa fanno i compagni quando c’è il
comportamento? Perché l’osservazione del comportamento ci dice quali sono gli ambiti su cui dobbiamo
intervenire. Può essere una situazione che scatena il suo comportamento aggressivo: è stanco? E quindi
vediamo dalle osservazioni che il comportamento di aggressività si sviluppa alla fine della giornata, oppure
vediamo che vuole creare una richiesta di attenzione e vediamo che c’è una ridondanza nelle situazioni
precedenti quando lui partecipa dentro la classe a delle lezioni di cui non comprende il significato. Oppure
c’è un nostro intervento che piuttosto che produrre un blocco del comportamento lo incentiva di più per cui
se lui è aggressivo la prima cosa che facciamo lo portiamo fuori. Questo va bene perché interrompe una
situazione di disagio ma determina subito un apprendimento: la modalità per poter uscire dalla classe è
quella di utilizzare un comportamento aggressivo, quindi c’è il rischio che possa diventare funzionale e
utilizzare l’aggressività come comportamento di evitamento o fuga dalle situazioni non piacevoli. Vedete
quanto è importante l’osservazione perché ci dà la misura, l’entità del comportamento, ma anche se ci sono
delle variabili di tipo ambientale che sostengono il comportamento stesso.
Le motivazioni personali: la motivazione è la molla dell’apprendimento, non insegnate niente se non create
delle motivazioni che possono essere sia legate al tipo di attività che propongo, per cui se il ragazzino
sviluppa la coordinazione visuo motoria e inserisco dei giochi in cui lui possa colorare degli spazi e viene poi
fuori la figura di un animale conosciuto che gli piace che porta a casa e attacca in camera, quella è una
motivazione importante e si chiama motivazione intrinseca. Cioè l’attività stessa, in cui io sviluppo un’abilità
di attenzione visiva nel tempo, è già motivante perché comunque fa una attività che gli piace. Molto spesso
non si trovano situazioni così motivanti e dobbiamo trovarlo dall’esterno e qui il riciclo dell’ABA che ci dice il
rinforzo come modalità per poter confermare, sostenere e nel tempo riprodurre un comportamento diventa
basilare. Se non c’è motivazione difficilmente un alunno con disabilità grave riuscirà ad imparare una
risposta, anzi il fatto di dare una gratifica gli da la conferma, il feedback, che quella risposta è quella che io
voglio e tenderà, sia perché mi ha fatto contento (variabile di tipo emotivo, sia perché mi viene confermata
quella, mentre le altre non mi vengono gratificate, posso in qualche modo garantirmi che lui continuerà a
sviluppare attenzione a comportamenti positivi.
Ci sono delle forme che contribuiscono a sostenere il comportamento dando dei tokens ( gratifica per
l’assenza di comportamenti problema) e alla fine della giornata, messe tutte in fila se completano la
sequenza può ottenere il premio finale, come la cioccolata o una merenda particolare. Al di là della parte
alimentare, che sembra un addestramento animalesco, la motivazione nel suo fondamento di sostenere la
disponibilità al compito è fondamentale. Se non c’è motivazione anche noi difficilmente ci dedichiamo a
qualcosa o impariamo qualcosa. La motivazione regola l’apprendimento e spesso ce lo dimentichiamo
proprio con chi ha più bisogno di motivazione e che dobbiamo motivare con delle gratifiche. Questo è un
elemento di enfatizzazione e La motivazione diventa elemento fondamentale dell’apprendimento
Incrementare i prerequisiti dell’apprendimento: i prerequisiti dell‘apprendimento sono attenzione,
continuità e motivazione al compito. Attenzione e continuità sono direttamente correlati alla motivazione.
Sicuramente l’attenzione sostenuta, quella su cui lavora l’ABA con i bambini autistici, creando attenzione
sostenuta al compito, attenzione che si sviluppa nel tempo e non intermittente, viene comunque
determinata molto dall’elemento della motivazione che comunque garantisce una continuità nei meccanismi
dell’attenzione.
Utilizzare strategie di insegnamento individualizzato: questo è il compito più difficile perché se non sappiamo
quale è lo stile di apprendimento del ragazzino difficilmente riusciremo ad insegnare qualcosa. Ci sono
ragazzi che hanno stili di apprendimento che privilegiano dei tempi brevi di attenzione e delle sessioni
ripetute nel tempo, perché le sessioni ripetute favoriscono l’apprendimento. Ci sono altri, invece, che hanno
tempi di attenzione più lunga, per cui possiamo fare sessioni di apprendimento sull’abilità che gli stiamo
insegnando più lunghe con brevi pause, perché se le facciamo lunghe poi ci perdiamo l’attenzione e la
continuità. Vedremo attraverso cose molto pratiche come definire ed individuare gli stili di apprendimento e
poi sviluppare percorsi di apprendimento individualizzati. Le motivazioni sono completamente diverse per
cui dobbiamo assolutamente individualizzare i processi di insegnamento in base alle competenze.
Garantire alta motivazione al compito: una delle modalità di insegnamento è quella di garantire
l’apprendimento attraverso una motivazione sostenuta. Nostro compito è garantire alta motivazione in base
a quella che è la condizione motivazionale di quel momento.
Quando insegnate una cosa (una parola, abilità funzionali,) aumentate le prove di insegnamento. Fate
aumentare le prove di insegnamento in un breve periodo di tempo perché lavora nella memoria a breve
termine. Quando insegnate qualcosa, abilità funzionali (es. riconoscimento del proprio nome, ) aumentate le
prove di insegnamento: cercate di far ripetere l’abilità più volte in un arco di tempo molto ristretto perché
questo facilita l’apprendimento, perché lavora sulla memoria a breve termine. La memoria a breve termine
comunque viene sollecitata dalle prove reiterate di apprendimento, quindi per qualsiasi apprendimento
un’altra strategia funzionale è quella di aumentare le prove di insegnamento.
Poi l’aspetto della verifica: una delle cose su cui mi batto è poter avere degli strumenti di valutazione che
siano coerenti. Se ci si porta dietro uno strumento di valutazione che è una check list, cioè vedere che cosa fa
un bambino normalmente a quell’età e cercare di vedere se il nostro alunno con disabilità grave ci è arrivato,
quello è uno strumento molto funzionale, perché ci permette di tarare l’obiettivo e di fare un confronto con
lo sviluppo normale. Ma non è possibile che l’anno successivo, perché ha fatto corso con il test BAB, che è
una batteria di prove per la disabilità grave, si inserisce con un altro strumento di verifica, perché poi diventa
veramente difficile capire se quello studente ha fatto o no dei progressi. La programmazione delle verifiche
deve essere su una modalità costante, ma su uno strumento che comunque permane nel tempo, in modo
che le verifiche che io faccio non cambiano a secondo dello strumento, ma diventano uno strumento
affidabile che mi permette di stabilire se quegli obiettivi sono stati raggiunti in qualche modo.
Registrare i dati e formalizzare sui grafici: compito dell’insegnante è di monitorare l’apprendimento. Come
faccio a inserire un’altra parola da leggere o da scrivere, o un’altra immagine da inserire nella C.A., se non ho
raggiunto quello che è il livello di apprendimento, cioè se l’apprendimento non è stato raggiunto. Voi sapete
che l’apprendimento è raggiunto se c’è almeno il 90% delle risposte positive. Se io non faccio un
monitoraggio o una registrazione di questo genere, come faccio a modulare l’apprendimento andando
veloce, se l’apprendimento si è verificato, oppure cercando di rivedere la procedura se non ho un
monitoraggio dei dati, che vi permette di capire quanto l’apprendimento è andato avanti.
Prevedere generalizzazioni e mantenimento: chi lavora con la disabilità e a mensa ha insegnato ad utilizzare
le posate, un livello di generalizzazione è il poterlo trasferire anche con l’assistente scolastica, e far vedere
poi al genitore, in presenza o con un piccolo video, come si è impostata quella modalità di apprendimento.
Una delle cose che ci disturba molto è quando i genitori non ci seguono, specie nella C.A.: abbiamo inserito
delle immagini per comunicare delle cose e la madre dice che a casa non le usa perché comunque lei capisce
e diventa una modalità superflua. Molte volte la generalizzazione è il trasferimento dell’abilità in un contesto
normale. Se il ragazzino ha l’abitudine, a casa, di prendersi da solo la merenda, è inutile che io lo obbligo ad
usare la generalizzazione in contesti dove la necessità l’ha già superata. Mentre diventa importante la
generalizzazione quando lui non sa chiedermi cosa vuole, cioè la scelta della merenda. Allora io gli metto
davanti due immagini e gli insegno a scegliere tra una cosa che gli piace di più e una di meno, lo faccio
vedere anche al genitore, in modo che trasferisca l’abilità, e questo si chiama generalizzazione dell’abilità.
Sicuramente quando l’avremo generalizzata in contesti diversi è importante che la manteniamo, cioè che
comunque al ragazzino gli venga richiesta periodicamente.
Secondo video: GUARDA CHE FACCIA è un programma fatto a scuola e si chiamava CIAO IN TUTTE LE LINGUE
DEL MONDO cioè trovare un codice comune e condiviso tra ragazzini che hanno difficoltà di comunicazione
verbale e la possibilità di utilizzare degli elementi in termini di espressione delle emozioni, quelle principali,
attraverso forme di comunicazione. Prima di avviare questo lavoro con l’ultima classe della scuola
dell’infanzia, replicabile con età successive, siccome avevamo ragazzini ipovedenti oppure di udito, o con
problemi motori che stavano in carrozzina, abbiamo avviato il laboratorio di sensibilizzazione alle differenze.
Che cosa succede con un ragazzo ipovedente che ha difficoltà a percepire visivamente gli stimoli? Una delle
modalità, delle strategie educative efficace è quella di fare le simulazioni, cioè per far capire che cosa
significa stare sulla sedia a rotelle, far sperimentar ai ragazzini l’essere spostati e fare la merenda sulla sedia
a rotelle e fare poi un circle time sulle emozioni provate ( quale era la cosa che ha aiutato di più – quello che
mi spostava senza farmi sbattere; cosa ha mandato di più in ansia – l’essere dipendente dagli altri). Questa
cosa te la raccontano in circle time sia quando fanno la simulazione sulla sedia a rotelle sia quando si
mettono la benda, perché ti dicono che la cosa che li ha aiutati di più è stata la voce ed il contatto umano
della persona, la cosa che li ha mandati fuori di testa è stato primo il rumore ambientale, cioè tutti gli altri
che facevano casino, perché non permettevano di riconoscere la voce della persona che stava vicino che
orientava all’interno di un percorso e secondo il disordine ambientale: i ragazzini durante la merenda
spostano le sedie e le lasciano scostate e il bambino ciecato ci inciampa. Se io devo deambulare ed
orientarmi in uno spazio in sicurezza devo comunque avere un controllo dell’ambiente ma soprattutto gli
altri devono essere educati e rimettere a posto le sedie perché quello è un ostacolo imprevisto che
determina la possibilità che io ci urti e limita la mia autonomia.
Filmato: laboratorio guarda che faccia: lo slogan è “tutti sorridono nella stessa lingua” tutti possono
esprimere emozioni attraverso le immagini e la mimica facciale. L’espressione mimica è propria sia del
ragazzino con disabilità che in quello normato, e al di là dell’espressione mimica c’è sempre associato un
contenuto che magari il bambino con disabilità grave non riesce ad esprimere l’espressività è sempre legata
ad un contenuto espressivo e comunicativo. Il linguaggio delle emozioni è un linguaggio condiviso, è un
linguaggio che comunque crea delle possibilità di curricoli integrati.
Filmato : affrontiamo sempre il tema delle emozioni nell’apprendimento che fondamentale: qui guardate
viene formato un gruppo di teatro. Il gruppo teatrale dove viene inserito un ragazzino con disabilità grave, di
solito nelle scuole, permette a lui di usare una modalità espressiva che non è quella classica di sviluppo
“Dimmi come ti senti”, ma è un modo più coinvolgente stando anche insieme agli altri.
Un’altra modalità importante nei processi di apprendimento quando ci viene assegnato un ragazzino è quella
di capire la modalità in cui comunica. Generalmente ci hanno insegnato come si usa la comunicazione
aumentativa, che sono modalità che servono per aumentare l’espressione ma bisogna partire sempre da un
punto: come ha sviluppato la comunicazione fino a quel momento? Qual è il livello da cui parte? È una
comunicazione che prevede un linguaggio verbale, per cui ha interagito con la madre, i familiari, attraverso
delle parole; utilizza oltre alle parole anche dei gesti? Dobbiamo partire, se vogliamo sviluppare
comunicazione aumentativa con gli studenti con disabilità grave, anche dal livello iniziale, cioè come loro, in
maniera del tutto naturale, esprimono le emozioni. Nel centro di riabilitazione, ma viene fatto anche con i
genitori con interviste, chiediamo quali sono le modalità per esprimere delle modalità comunicative. Da
quella modalità espressiva segnalata dal genitore (filmato), cerchiamo in funzione della comunicazione
aumentativa di replicare quella modalità perché è quella che in quel momento è più adatta e naturale per
sviluppare interazioni.
Uno dei prerequisiti per l’interazione sociale è il contatto oculare, che è base per lo sviluppo della
comunicazione. Che cosa facciamo? Quando dico cercate di individuare le motivazioni per poter agganciare
comunque la relazione, è passare attraverso il gioco più motivante (filmato del cucù) e che ci garantisce
l’aggancio in termini relazionali, coinvolgendo in un gioco comunicativo di interazione, garantendo che abbia
una motivazione tale che ci imita il comportamento e voi sapete che l’imitazione, per la disabilità grave è la
base per lo sviluppo della comunicazione anche attiva.
Ogni caso è a sé e per ogni caso devi individuare un percorso di riuscita definendo obiettivi. Io non vado a
fare un discorso di valutazione sommativa, abbiamo comunque raggiunto degli obiettivi. Ma se io mi pongo
di incrementare la capacità di comunicazione attraverso le immagini oppure voglio ridurre la frequenza di
comportamenti problematici, oppure voglio aumentare la capacità di leggere e parole, la lettura globale
intera e quindi da 10 passiamo a 20/30, la modalità di misurare il successo è data dall’incremento delle
abilità. Noi operatori, insegnanti, abbiamo bisogno di avere degli indicatori, perché se no altrimenti come
misuriamo la nostra capacità di essere insegnanti e di essere efficaci e di interagire. Non possiamo dire quali
sono le percentuali di successo , sono in grado di dire, di fronte ad un obiettivo se lo abbiamo raggiunto o no,
ma soprattutto perché non lo abbiamo raggiunto. È importante che noi abbiamo come strumentalità nostra
di persone, insegnanti che lavorano nella riabilitazione, definire una modalità di lavoro che preveda obiettivi,
la verifica attraverso degli indicatori. Gli indicatori sono importanti: quando chiedo se interagisce con gli altri
e mi rispondono che è carino, bravino, nella riabilitazione non va. Abbiamo bisogno di individuare un
obiettivo concreto e di misurarlo. Al termine dell’anno devo poter dire che nell’area di interazione riesce ad
interagire attivamente da 0, stava da solo, adesso chiede agli altri di giocare. Questo è un indicatore chiaro di
un obiettivo che mi ero posto. Dal punto di vista cognitivo è passato da una valutazione che non riusciva a
leggere 3 parole ad un vocabolario di 50 parole è un indicatore chiaro di tipo quantitativo: ho aumentato la
sua capacità di leggere parole. Nella presenza di comportamenti problema : durante la mensa aveva
comportamenti di aggressività nei confronti degli oggetti e delle cose, circa dieci al giorno; fatto il
trattamento si sono ridotti a 3, quello è un indicatore obiettivo chiaro.
Noi abbiamo assoluta necessità di un indicatore quantitativo chiaro, perché se non ho la strumentalità non
posso nemmeno valutare se il mio intervento è stato positivo. La metodologia che cerco di rimandarvi è una
metodologia che comunque ci riporta ad indicatori di tipo quantitativo, di qualunque tipo.
Ci sono indicatori di tipo emotivo, gli indici di felicità: se faccio un programma di educazione prosociale ed il
bambino si mette ad interagire con gli altri durante la merenda e diventa attivo, nel senso che chiede delle
cose e i bambini gli rispondono, e vedo che mentre gioca con loro è contento perché esprime emotività
positiva, quello è un indicatore; durante quel gioco esprime indicatori di felicità in maniera rilevante rispetto
ad altre situazioni. È importante quanto quello quantitativo.
Prendete il gioco del cucù del video: da uno stimolo dell’insegnante diventa lei stessa parte attiva, è lei che
produce e promuove una interazione verso l’insegnante cosa che non riusciamo mai a fare. Siamo sempre
noi che comunque proponiamo le cose e lo studente diventa passivo di fronte alle proposte. Il gioco del cucù
è qualcosa che aggancia la bambina, aumenta il contatto oculare nel tempo, e garantisce imitazione.
La variabile tempo: un aspetto della metodologia fondamentale è la definizione degli obiettivi a breve,
medio, lungo termine. Devo misurare l’intervento che faccio e variare l’intensità a seconda dell’obiettivo che
mi sono dato. Ad esempio, nell’interazione sociale, un obiettivo a medio termine che inizio a settembre, per
ottobre novembre: possa mantenere contatto oculare nel gioco senza interferire, cioè senza interagire in
prima persona. Nell’obiettivo a medio termine: oltre a guardare i bambini che giocano proponga almeno un
gioco. Obiettivo a lungo termine per la fine dell’anno: che comunque interagisca non soltanto che accetti il
gioco ma proponga dei giochi significativi per lui. Mi sono dato delle categorie temporali definite in base alla
segmentazione dell’intervento educativo che prevede obiettivi a breve, medio e lungo termine. Variabile
tempo è molto legata all’obiettivo che mi do, ma comunque per l’obiettivo a lungo termine, inizialmente mi
accontenterò di una risposta parziale, che non è quella finale.
Quando fate programmazione prevedete degli obiettivi che saranno raggiunti alla fine dell’anno, ma che
durante l’anno devono prevedere delle tappe intermedie verificabili con indicatori quantitativi. Io mi pongo
un obiettivo considerando quante sessioni posso fare al giorno, quanto tempo posso dedicare a quella cosa,
quali sono le abilità di partenza, che poi posso tarare, una stima la posso fare in funzione di una valutazione
iniziale. Si chiama valutazione iniziale delle abilità che deve essere fatta sempre perché altrimenti come
posso tarare in funzione delle abilità che ha un ragazzino, con degli obiettivi che possono essere graduati nel
tempo.
Domanda: come si può conciliare una attività così tanto individualizzata e portare avanti la didattica della
classe?
Se il punto di partenza è condiviso, se la programmazione viene fatta insieme, non è necessario mediare
l’intervento didattico. C’è uno scambio naturale tra insegnante di classe e di sostegno. È un presupposto di
tipo metodologico.
Domanda: la didattica inclusiva è accettata dai genitori?
Vi faccio un esempio di educazione prosociale, fatto in una scuola di Osimo: due volte a settimana, avevamo
inserito un programma di educazione prosociale che prevedeva una valutazione delle abilità, intese come
atteggiamenti di interazione spontanea e naturale con gli altri, in cui prevedeva una valutazione degli alunni
all’inizio e alla fine. Quando ho proposto questa cosa alle insegnanti l’ho fatto mostrandola come una
possibilità per superare delle problematiche di relazione. Lo abbiamo proposto a tutti i genitori come un
programma di sviluppo delle abilità e i dati ci dicono che ragazzini che lavorano sulle abilità prosociali
svilupperanno abilità ed atteggiamenti di relazione sociale rispetto agli altri, avranno le insegnanti maggiore
capacità di gestione delle problematiche, perché non vengono insegnati atteggiamenti di aggressività o di
egocentrismo, ma di interazione attraverso situazioni pratiche, condivisione, supporto emotivo ed affettivo.
Abbiamo fatto un patto di corresponsabilità con i genitori: oltre a gratificare il bambino quando porta a casa
il quadernino delle buone azioni con gli smile, gli date 20 centesimi che ci servono per portare a scuola e poi
alla fine ci facevano una adozione a distanza. E non c’è stato un genitore contrario. È stato un programma
che ha portato dei benefici a tutti e ha creato un patto di collaborazione con i genitori.
Parliamo di Comunicazione aumentativa: la possibilità di sviluppare negli alunni modalità comunicative
positive. Se lui impara a comunicare in modo positivo, riduce la possibilità che comunichi con modalità
aggressive e non adeguate. Il problema è che noi l’applichiamo quando il ragazzo è ormai grande ed ha
consolidato modalità non adeguate, perché se cominciamo a farlo dalla scuola primaria allenandolo a
chiedere attraverso modalità adeguate, abbiamo sicuramente la riduzione se non l’assenza di
comportamenti problematici. L’aggressività è una delle forme comunicative più efficaci, perché
immediatamente richiama l’attenzione. Lui che non sa inserisci nella modalità cognitiva ha così la possibilità
di richiamare l’attenzione attraverso una modalità non adeguata. Quando i comportamenti sono consolidati
è difficile tornare indietro. La comunicazione aumentativa cerca di aumentare le abilità già presenti, che
possono essere di tipo comunicativo comportamentale come indicare. L’indicare è un comportamento
comunicativo di grande rilevanza, se non ti so dire che voglio quella cosa la indico, con la mano, con lo
sguardo.
Racchiude tutte le possibilità comunicative: la possibilità di utilizzare forme diverse di comunicazione,
compresi gli ausili tecnologici che possono essere di grande utilità e di grande impatto.
Due obiettivi: stimolare l’iniziativa comunicativa attraverso situazioni motivanti e a promuovere la
consapevolezza della possibilità di controllo di persone, stimoli ed interazioni a suo vantaggio per situazioni
per lui significative. All’interno della comunicazione aumentativa le varie forme sono: comportamentali
(indicare, guardare), comunicazione oggettuale (poter utilizzare anche l’oggetto naturale). Sono ragazzi che
hanno forti limitazioni della memoria; se io gli dico adesso andiamo a mangiare, e se tra la comunicazione
verbale e la situazione passa un tempo, loro se lo dimentica, ma se io invece gli do il sacchettino con le
posate, quell’elemento diventa memoria permanente anche se non si ricorda più l’informazione verbale.
Diventa quindi una comunicazione altamente significativa perché permane.
Linguaggio gestuale: la possibilità di usare gesti naturali o segni trasparenti, cioè che hanno molta
somiglianza con l’oggetto a cui si fa riferimento, e sistemi di tipo pittografico, cioè la possibilità di usare foto,
schemi, disegni per poter comunicare azioni, eventi, luoghi persone. Oggi posso utilizzare un tablet o uno
smartphone dove metto tutte le immagini che il ragazzino può utilizzare in tutti i contesti e lui se le porta
dietro e posso anche collegare l’immagine con l’espressione verbale ed è di grande impatto.
Noi utilizziamo un tastone, uno switch, un tasto a pressione facilitata e può essere dato all’interno del
nomenclatore tariffario. È una tecnologia povera che può essere adattata ed utilizzata in tutti i contesti. La
parte importante è quella dell’insegnamento, dell’addestramento. Abbiamo creato con lo switch una
situazione di gioco dando la possibilità alla bambina di proporre il gioco e agli altri di giocare. (filmato mostra
la possibilità di usare degli ausili molto semplici). Noi poi abbiamo sviluppato dei laboratori di comunicazione
attraverso dei comunicatori, i VOCAL, dove puoi registrare un messaggio. L’obiettivo è quello di far scegliere
alla bambina tra due attività: è un comunicatore vocale a due tasti dove vengono registrati messaggi relativi
ai giochi e ai nomi dei compagni da scegliere. È un esempio di tecnologia semplice che ci può aiutare nei
processi di insegnamento che abbiamo fatto in classe, ma anche in quelli di interazione e di inclusione.
Ora vorrei farvi vedere un’esperienza relativa alla gestione dei comportamenti problema, un’esperienza
dove un bambino con disturbo pervasivo dello sviluppo, con tratti autistici marcati, a cu viene assegnata
un’insegnante che stava frequentando corsi polivalenti. Lei ci ha sottoposto il caso portando dei filmati che
venivano analizzati e venivano date indicazioni attuate poi nel programma con relativa verifica. È stata un
insegnamento utile. La gestione dei comportamenti problema, una problematica in grossa diffusione, deve
essere di tipo multi-sistemico, cioè non possiamo solo fare l’intervento su di lui, ma allargando l’intervento ai
tutori, ai ragazzini che non gli rivolgevano attenzione o interazione quando lui era aggressivo. È un
intervento, un programma che deve prevedere un coinvolgimento dei coetanei, insegnanti, famiglia, la
possibilità che ci sia un’equipe o qualcuno in grado di gestire le problematiche in termini di tenere sotto
controllo tutti gli interventi e di verificarli (filmato).Possiamo riassumere tante tecniche di intervento con
quello che abbiamo fatto con questo ragazzino. Importante è la ricostruzione del percorso fatto fino a quel
momento perché vediamo come comportamenti problematici che non vengono trattati, si presentano in
forma molto lieve all’inizio e possono poi avere degli sviluppi successivi. In assenza di comunicazione i
comportamenti problema diventano rilevanti: per esprimere una modalità di gioco ride e da i calci: come
modalità di evitamento usa l’aggressività per poter regolare l’interazione con la terapista che cerca di
mascherare questa aggressività dandole una connotazione di tipo ludico.
Nella prima fase di intervento, drammatica, si decide di tornare a delle attività molto semplici, piacevoli per il
ragazzo, identificare un posto e mettendolo in una situazione altamente motivante: la musica e il gioco dei
capelli e una gratifica per comportamenti di risposta comunque positivi, dove c’era assenza del
comportamento problematico. La situazione piacevole (fare un appaiamento a campione con delle immagini
conosciute), una mediazione sulla relazione basata sulla risposta emotiva affettiva (quanto sei bravo), ma
molto gratificata quella alternativa alla situazione problematica, una situazione molto motivante dove la
relazione con l’insegnante diventa quella su cui si basa poi il rapporto di fiducia. Creare una situazione
positiva era stato l’obiettivo attraverso attività significative. Dopo aver stabilizzato i comportamenti, viene
inserito un altro elemento problematico, la palestra, attraverso una tutor naturale e si vede che la relazione
comincia a funzionare, il rapporto diventa esclusivamente positivo, evita di sottolineare l’errore perché
l’errore era stato memorizzato come un elemento negativo e l’errore ripetuto creava frustrazione ed
aggressività. Quindi l’insegnante punta sulle cose positive, anche minime, che fa.
Nell’ultima parte del trattamento abbiamo inserito i token, le monete, per cui le attività della giornata erano
scandite con attività più o meno piacevoli, lui riusciva a tollerare anche quelle meno piacevoli e lui
guadagnava delle monete da inserire su una tabella dove doveva riempire tutti gli spazi. La token economy,
cioè il contratto educativo, veniva dato per l’assenza dei comportamenti problematici, con i soldini che aveva
guadagnato andava a prendersi la cioccolata alla macchinetta. Abbiamo esteso l’autocontrollo da poche
attività a tutta la giornata, ma anche esteso l’autocontrollo ad altre situazioni che prima non riusciva a
gestire (attesa alla macchinetta).
Come non si riacquista l’interazione con gli altri? Portando a scuola dei giochi molto piacevoli, molto
attraenti e lì, recuperiamo positivamente i bambini attraverso il gioco.
“Nati due volte”: questi bambini nascono due volte. A volte devono imparare a muoversi in un mondo che la
prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che sapete dare. Sono nati due volte
e il percorso sarà più tormentato ma alla fine sarà anche poi voi una rinascita”.
Io credo che queste parole esprimano il senso più profondo del nostro lavoro.
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