La Visione come soglia tra Informazione e Significato

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La Visione come soglia tra Informazione e
Significato
L’ATTO DEL VEDERE COSTITUISCE IL NOSTRO RAPPORTO PRIMARIO con il mondo, non ci
dobbiamo meravigliare perciò se un’analisi dei processi visivi può mostrare una complessità teorica
che conduce direttamente ai problemi spinosi che si intrecciano al confine tra neuroscienze,
intelligenza artificiale ed epistemologia cognitiva. L’analisi della visione è una guida verso una teoria
naturale della conoscenza, in accordo con l’idea di Gregory Bateson: “Se vogliamo comprendere i
processi mentali, guardiamo all’evoluzione biologica”. “Teoria” e “vedere” del resto hanno una
radice etimologica comune, in entrambi i casi siamo chiamati infatti a operare una serie di scelte
interpretative senza le quali non c’è conoscenza. Tra mente e mondo non c’è un taglio netto di
cartesiana chiarezza, osservatore ed osservato si riflettono e si definiscono l’un l’altro in una
circolarità di ricorsioni semiotiche infinite che è l’essenza stessa della conoscenza e in cui entra in
gioco l’irriducibile soggettività dell’osservatore.
Quando uno stimolo visivo raggiunge l’occhio, dopo circa 200 millisecondi vengono attivate le
risorse neuronali della corteccia visiva (CV) per analizzare le informazioni di riconoscimento che
riguardano struttura, movimento e colore. Molte “agenzie corticali” diverse si mettono al lavoro
secondo un criterio cooperativo di sincronizzazione, ed una volta individuato il pattern d’ingresso
l’informazione passa alla corteccia prefrontale (CPF), dove viene valutata per circa 600 millisecondi
per attivare poi specifiche aree motorie e linguistiche necessarie alla risposta dell’organismo.
Quanto di questo processo può essere “catturato” da un algoritmo e “zippato” in un programma? Gli
studiosi di IA hanno dovuto affrontare enormi difficoltà nel modellare la prima fase della percezione,
quella della CV. Ogni stimolo viene infatti distribuito su una miriade di fibre specializzate nei vari
aspetti del riconoscimento per un’elaborazione collettiva unitaria attraverso il feature binding, ossia
la combinazione sintonizzata di miriadi di impulsi provenienti da moduli neuronali diversi dai quali la
percezione emerge come un fenomeno olistico.
Teresa Iaria, Loops, 2008, dalla serie Toy-Models
In termini computazionali questo è un classico problema di complessità algoritmica, una misura
della quantità di informazione spaziale e temporale che un sistema artificiale deve elaborare. I
metodi simbolici, basati su modelli precedentemente memorizzati nella macchina, hanno trovato ben
presto, dietro alla grande varietà dei problemi tecnici, un limite generale che investe l’intera filosofia
algoritmi dell’IA, il problema della “logica chiusa”: un approccio puramente algoritmico ha successo
soltanto in un mondo in cui sintassi e semantica coincidono, come gli scacchi o i sistemi esperti. La
visione artificiale ha ottenuto infatti successi nel riconoscimento di forme semplici con dinamiche
elementari.
Maggiori vantaggi nel riconoscimento di pattern sono stati ottenuti con le reti neurali, capaci di
elaborazione parallela e distribuita di ispirazione biomorfa. Anche questa classe di analizzatori
statistici di dati hanno però un problema comune con i modelli simbolici dell’IA, quello del Symbol
Grounding Problem, ossia del significato del pattern identificato. Insomma, l’idea di poter
comprimere la complessità della percezione visiva in un meccanismo basato sulla mera elaborazione
di informazione sintattica è destinato a scontrarsi con la soglia della complessità semantica. In
sintesi, i metodi computazioni possono risolvere parte del problema del “guardare e riconoscere” ma
non quello più ampio del “vedere”.
Quando studiamo qualche aspetto del mondo partiamo sempre da un modello, un insieme di ipotesi
che ci permette di estrarre informazione organizzata e semanticamente significativa (in breve, una
comprensione!) dalla varietà dei dati estratti dall’esperienza. Un modello può essere considerato
come un gioco di domande mirate che rivolgiamo al sistema studiato e sul quale basiamo il dialogo
con la natura. Cambiando modello cambia l’asse osservatore-osservato e per sistemi
sufficientemente complessi – come quelli biologici e cognitivi – questo significa fare domande diverse
ed ottenere risposte diverse! Un modello è semplicemente una prospettiva concettuale attraverso la
quale osserviamo il mondo. Possiamo perciò definire la complessità semantica come il numero di
modelli utilizzati per studiare un sistema nei suoi diversi aspetti. In termini computazionali, questo
significa che per studiare un sistema complesso abbiamo bisogno di cambiare i nostri codici e che
l’autentica comprensione di un sistema naturale nasce dall’uso integrato e non esclusivo di più
prospettive modellistiche.
Quando valutiamo il modello di un fenomeno non ci basiamo soltanto sui dati bruti dell’esperienza,
ma facciamo ricorso ad un bagaglio teorico stratificato culturalmente che ci aiuta a valutare e
selezionare. In modo analogo, il processo di valutazione della percezione visiva chiama in gioco la
memoria, le esperienze pregresse, le conoscenze e gli scopi dell’osservatore. Senza questi elementi
non c’è visione. È possibile dimostrare che una percezione, per essere registrata come esperienza
cosciente, deve stabilizzarsi mediante un feed-back adattativo tra stimoli in entrata e strutture
cognitive pregresse dell’osservatore da cui scaturisce la risposta collettiva dei neuroni (ART:
Adaptative Resonance Theory).
Mentre gli stadi iniziali della visione nella CV possono, in linea di principio, essere descritti come un
processo di organizzazione di informazione sintattica, come avviene nella raccolta sperimentale dei
dati in un esperimento, la visione cosciente si realizza soltanto dopo una valutazione “teorica” dei
dati percettivi, relativa alle rappresentazioni del mondo prodotte dal soggetto ed alla sua dimensione
semantica.
Lo spazio semantico non è predefinito e chiuso, ma subisce continuamente transizioni dell’apertura
logica, con emergenza di nuovi paesaggi cognitivi. Esempi ormai famosi vengono dallo studio della
percezione olfattiva nelle locuste e nei conigli. Nel primo caso si osserva che la sequenza temporale
di attività neuronali che codifica un odore non varia in successive presentazioni dello stesso stimolo,
mentre nei conigli ad uno stesso stimolo corrispondono sequenze diverse, segno che l’apertura
logica del coniglio cambia con ogni singola esperienza, modificando il suo repertorio di significati.
Arriviamo così a comprendere l’importanza cognitiva di quella coscienza che era stata espulsa dalle
vocazioni fisicaliste della prima scienza cognitiva come “un fumo che esce dal cervello” (F. Varela).
Al contrario, l’analisi comparata dei processi di percezione e dei procedimenti di costruzione teorica,
mostrano il ruolo cruciale della soggettività nella produzione di conoscenza: senza dinamiche dello
spazio semantico, senza scelte da parte dell’osservatore, non è possibile alcuna rappresentazione del
mondo, a partire dall’atto apparentemente elementare della percezione. L’epistemologia della
complessità ridefinisce così la scienza come arte della conoscenza (P. Feyerabend), mentre l’antica
opposizione scienza/arte sfuma nei confini frattali delle comuni strategie cognitive che situano la
fecondità del nostro dialogo con il mondo oltre la soglia dell’informazione sintattica, nel gioco
infinito della creatività e dell’interpretazione.
Ignazio Licata
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