Unica amica, la dea Afrodite - Gabriele La Porta

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Dove si parla dei troiani, di un viaggio in Medio Oriente, di un sogno, di Andromaca e della
faccia di Achille se avesse affrontato Ettore senza l’aiuto degli dèi del patriarcato.
Prima di dare inizio a un altro interessante capitolo sulle Magiche Coincidenze dell’amico Gabriele,
vorrei riportare, quasi a titolo di premessa, un singolare aneddoto che a mio modestissimo parere
ben si inserisce in questo misterioso percorso fatto di piccole e grandi “coincidenze”, appunto.
Parlando con lui qualche giorno fa, non ricordo per quale motivo a un certo punto la conversazione è
planata sui giochi che ci appassionavano da bambini. E grande è stata la nostra sorpresa nel
constatare che entrambi stavamo dalla parte degli “indiani”, nell’epica lotta contro cow-boys e
giubbe blu. Così, irrazionalmente, quasi sentimentalmente, eppure con fervore, ci sentivamo
“naturalmente” dalla parte di questi fieri guerrieri che difendevano le loro terre e le loro tradizioni,
di questo nobile popolo aggredito, massacrato e disperso da usurpatori venuti da lontano.
Consapevolmente, per scelta, ma senza sapere esattamente perché, eravamo dalla parte dei
perdenti. Ci siamo ritrovati, in un attimo di nostalgia, nella stessa sofferenza e impulso di ribellione,
quando nei tanti film western di quegli anni i pellerossa incarnavano sistematicamente il ruolo dei
“cattivi”, dei “selvaggi spietati assassini” e via dicendo. Mentre i cowboys e i soldati del 7°
Cavalleggeri erano sempre belli, buoni, bravi e biondi. D’altra parte sappiamo bene che gli USA
hanno spesso e volentieri riscritto la storia sul grande schermo a loro uso e consumo, con i grandi
mezzi dell’industria cinematografica. L’unica consolazione che ci rimaneva, consisteva nel ricreare
un improbabile campo di battaglia tra scenari improvvisati, scatole di cartone e finte rocce e fortini,
a casa o all’aria aperta, in perfetta solitudine, riscattando l’orgoglio dei nostri amati “indiani” e
facendoli vincere, almeno con i “soldatini”… E la cosa ancora più singolare è che vari altri
collaboratori di Elixir durante l’infanzia si sono ritrovati sulle stesse posizioni, tra canyon e praterie,
tra segnali di fumo e bisonti, tra danze e canti sacri, con il “popolo del grande spirito” . Si sa, oggi
dopo i vari “Soldato Blu”, “Un uomo chiamato cavallo”, “Balla coi lupi” e quant’altro tra film, saggi,
romanzi, rivisitazioni e recuperi storiografici, può sembrare quasi scontato pensare che non doveva
essere poi così difficile “stare” dalla parte di Alce Nero o di Geronimo, di Toro Seduto o di un
qualsiasi altro capo Lakota, di Apaches, Navajos, Comanches, Cherokees ecc. Eppure una volta non
era così semplice, tutt’altro. Ed era impensabile anzi immaginare i pellerossa dalla parte “giusta”.
Quasi “un’eresia” per il conformismo del periodo… E ancora più difficile quando tutti gli altri
compagni di scuola e amici di giochi ti isolavano, tutti d’accordo con i più forti. E così pure per
Ettore e Achille, troiani e achei, e tanti altri episodi della storia e del mito. Possiamo considerarlo
solo un “caso”? Forse sì, ma per noi anche questo fa parte di quelle innumerevoli “magiche
coincidenze” che ci accompagnano nel cammino dell’anima…
P.L.P.
———
L’Iliade è stata una passione immediata. Come quegli amori che nascono improvvisi come un
incendio estivo. Prima di prendere coscienza il fuoco avvampa tutto e non c’è verso di correre ai
ripari. Ai sentimenti non si comanda per fortuna. Il loro compito è quello di ardere. Il poema ha fatto
improvvisamente irruzione nella mia vita quando frequentavo la prima media alla scuola Massimo
D’Azeglio a Roma. Mi bevevo i canti come un nettare e smisi di giocare ai soldatini tra cowboys e
pellerossa per iniziare quello tra troiani e achei. Mia madre Antonella sapeva disegnare bene e le
facevo copiare le illustrazioni del libro di testo. Enucleavo il guerriero acheo e quindi quello di Ilio e
ci giocavo alle “figurine”. Poi imparai a memoria l’intero poema e sistematicamente interpretavo
tutte le parti. Il professore di lettere, Porcello, pensò che ero un poco matto, ma si beava di uno
studente un poco invasato, però tutto sommato eccezionale per passione. E infatti si trattava proprio
di una sorta di incantamento. Motivato però. Perché il mio trasporto era tutto per Ettore e per i suoi.
Mi colpiva qualcosa di questo eroe, ma non avrei saputo dire esattamente il motivo. Ero dalla loro
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parte e basta. Come mi era già capitato con i pellerossa. Tutti i miei amici stavano per le giubbe blu,
per i vaccai ed invece io, in perfetta solitudine, parteggiavo per gli sconfitti di sempre. Soltanto
molto più tardi ho compreso perché mi accadeva questo moto dell’anima. Accadde quando avevo 27
anni e lavoravo per la RAI. Per la mia azienda, era il 1972, andai a girare un documentario sulle
rovine di Troia. Allora il servizio pubblico produceva grandi momenti di cultura ed era del tutto
naturale che un suo programmista, allora questa era la mia qualifica, andasse con tutta la troupe per
un mese intero in Medio Oriente. Quello che contava era il prodotto e doveva essere di grande
qualità, altrimenti il mio capo servizio di quegli anni, lo storico Furio Scampoli, mi avrebbe potuto
levare la pelle. Dunque andai a Troia, o meglio a Hissarlik dove Schliemann tra il 1871 e il 1890
aveva condotto, contro tutti i pareri degli esperti, gli scavi che lo portarono a scoprire l’antica Ilio e
il tesoro di Priamo. Il mio operatore era
il
compianto Ezio Lavoretti che fu subito contagiato dal mio stato psichico. Delirante. Non mi
sembrava vero di trovarmi là dove i “miei” guerrieri avevano combattuto. Mi immaginavo le
battaglie, oppure gli scontri a due tra i maggiori campioni dei due schieramenti. Qui vedevo Priamo,
là Ecuba. Su quel sasso c’era Andromaca, su quella sporgenza Cassandra mentre profetizzava e su
quell’altra piangeva per la sua impotenza di fronte alla cecità dei suoi compatrioti. Erano soprattutto
le donne a colpirmi in questo invasamento. Una commozione interiore che ritrovai molto simile nel
racconto che mi fece Giorgio Colli per il suo primo viaggio ad Eleusi nei pressi di Atene, ma questa è
un’altra storia che racconterò poi.
Dunque erano le signore di Ilio a venirmi alla mente. Non ci feci troppo caso, almeno fino alla notte.
Quando cominciai a sognare. Per la verità ero abituato a fare dei viaggi onirici molto complessi. Un
po’ come andare al cinema. Vedevo spesso vere e proprie scene di masse collocate nel tempo. Come
un assalto al treno nel far west o l’edificazione di un’immensa torre ad opera di schiavi non
collocabili in un tempo se non quello indefinito di un passato remoto non bene identificabile. Un
andare con Morfeo per avventure, mai però angosciose. Guardavo da lontano, appunto come uno
spettatore. Questa volta però fu del tutto diverso. Non so da quanto tempo ero assopito, ma
improvvisamente avvertii un rumore leggero. Aprii gli occhi, così credetti, e ai piedi del letto c’era
una splendida signora vestita con dei veli sovrapposti. Trasalii spaventato. L’albergo era poco più di
una locanda e immaginai mille cose
contemporaneamente, del
tipo: il padrone ha fatto salire una prostituta, oppure c’è una pazza nella mia stanza. Ma
l’inquietudine durò un attimo. Fino a che lei non mi parlò. “Vedi, era solo. Troppo solo”.
Non mi disse altro. Rimase ferma, con un’espressione di una indicibile malinconia. La mente come
rapita da immagini lontane, irrimediabilmente perse. Intuii chi poteva essere e con quel pensiero fui
invaso da una sottile e struggente mestizia. Il suo stato d’animo si riverberò come in uno specchio in
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me. Ci guardavamo muti e mentre mi sembrò che una parte di me si sciogliesse in un’acqua tenue e
lenta, ecco che la donna cominciò a dissolversi. Non lo volevo, ma non potevo far nulla. Come una
tela secolare che gradatamente svanisce alla luce la dolce signora si stemperava davanti ai miei
occhi fino a scomparire del tutto. Allora piansi senza ritegno. Come quando da bambino vedevo mia
madre, che non stava quasi mai con me per motivi di lavoro, andare via con il treno alla stazione di
Napoli. Giungeva un momento e poi ripartiva subito. Neanche era apparsa che subito spariva. A
nulla valsero le suppliche, a nulla servirono ora. Poi avvertii una forte pressione sul braccio. Mi
guardai le dita, erano strette nella mano di Ezio Lavoretti. “Che ti succede – mi disse -, hai fatto un
sogno cattivo?”. Rinvenni e lo rassicurai. Anche se istintivamente cercai con lo sguardo la creatura
che in qualche modo mi aveva fatto visita. Quando il mio compagno di lavoro uscì, mi avvicinai alla
finestra che dava sulla piana della città sepolta. Era quasi l’alba e guardando le pietre cercai le
mitiche Porte Scee. Là dove Andromaca aveva inutilmente tentato di fermare il suo sposo Ettore,
scongiurandolo di non andare in battaglia. Soltanto il tentativo di individuare quel posto mi procurò
ancora commozione, ma composta. Struggimento silente. Tenue, languido. Riflessivo. Finalmente
però in quel chiarore capii perché da ragazzo avevo tanto amato i troiani. Fu quella presenza a
illuminarmi. Fu quel simulacro, che credetti di identificare nella moglie più tenera e innamorata di
sempre, a portarmi in una strada dentro di me che mi permise di comprendere. Perché avevo
sognato di lei, di Andromaca.
Nell’attimo onirico cosa mi aveva sussurrato? Ma sì, mi aveva raccontato della solitudine di Ettore.
Soltanto Afrodite gli era favorevole. Tutti gli altri Dei erano avversi fino all’odio. Per prima Atena,
così crudele che tre secoli dopo Euripide la fa rimproverare da Poseidone nelle Troiane. “Perché sei
così smodata nei rancori?”, le dice. In effetti il livore l’acceca. Ma cosa aveva fatto poi il figlio di
Priamo? Apparentemente nulla. Ma riandai a quanto Omero scrisse e compresi che l’eroe aveva
compiuto davvero una terribile eresia. Proprio lì, alle Porte Scee. Mentre sua moglie lo pregava in
nome dell’unico loro figlio, Astianatte, di astenersi dal combattimento, lui rispondeva infatti che non
aveva il coraggio di tradire i compagni. Ma non era questo il vero motivo del suo rifiuto. No. Il
combattente in
realtà non voleva supplicare gli Dei crudeli.
Anche H. I. Morrou aveva ben visto nel suo Storia dell’educazione nell’antichità cosa si agitava nel
cuore di quell’uomo. Non ha colpe, eppure il fato lo ha spinto ad una guerra indesiderata e senza
speranza. Conosce perfettamente il suo destino. Tutti i congiunti saranno uccisi. Suo figlio
precipitato dalle torri e la sua amatissima donna addirittura fatta schiava dal suo peggiore nemico.
Nulla gli sfugge. Ma è innocente. Non ha compiuto misfatti per meritare una simile sorte. Per questo
non vuole chiedere pietà a quelle divinità crudeli che giocano con la vita degli uomini. “Siamo
trastulli nelle loro mani – sembra dire – ma almeno intendo salvare l’onore”. Eresia pura. Simile a
quella del mago rinascimentale che volle armonizzarsi con la natura, con il creato, cambiandogli
Ereticamente
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però valenza. Il mondo è preda della sopraffazione, occorre mutarlo in armonia. Eresia pura mettersi
al posto del dio vendicativo. Ettore non giunse a tanto, ma c’era molto vicino. Il problema era per me
capire in nome di cosa rifiutava di piegarsi. Questo era il punto. Riandai con la mente ai due campi
avversi. Quello degli achei e dei troiani. Tra i greci venuti dal mare non compaiono mai donne,
neppure nei ricordi. Soltanto Briseide, una schiava che i potenti si contendono come una cosa.
Achille se la vede soffiare da Agamennone e si adira, è vero, eppure non è per amore, neppure per
affetto. E’ soltanto per l’offesa che lui ha ricevuto. Insomma il dispiacere, se pure ci fu, era soltanto
di Achille per Achille. Tanto è vero che Ovidio nella terza delle sue Epistulae così immaginò che
Briseide scrivesse al Pelide “…Sono lontana da tante notti e tu non mi reclami; indugi… ma sì tieniti
la tua fama di amante appassionato!… Quale colpa ho commesso per diventare così insignificante
per te Achille? Dove è fuggito così velocemente lontano da noi il volubile amore?… Ho visto le mura
di Lirnesso distrutte dalla tua furia guerriera, e io ero parte importante della mia patria; ho visto
cadere tre uomini, accomunati dallo stesso destino di nascita e di morte: tre guerrieri che avevano la
stessa madre. Ho visto mio marito, steso sul terreno cruento, con tutto il suo corpo, agitare il petto
insanguinato. Tu, da solo, sei bastato a ripagarmi di tante perdite; tu eri per me signore, marito e
fratello…”.
Ben altro è l’atteggiamento di Ettore di fronte ad Andromaca quando alle Porte Scee lei gli dice
esattamente le stesse cose. Infatti gli confida che lui è tutto il suo mondo, appunto padre, madre e
fratelli. Ma a differenza di Achille il capo dei troiani si commuove e mostra compassione per sua
moglie. Il motivo? E’ semplicissimo, l’ama. Così come Priamo ama Ecuba e Paride Elena. La stessa
Andromaca, la veggente, è adorata dai fratelli. A Troia le donne sono protagoniste e non oggetti
sessuali. Non a caso a difendere la città giungono le amazzoni, ostili a tutti tranne che agli abitanti
di
Ilio. Evidentemente sapevano che in quella città c’era
qualcosa di diverso rispetto a tutte le altre del mondo greco. Ma cosa? E’ quanto capii davanti alla
finestra che dava su quella piana albeggiata dove una volta si innalzavano splendide le insegne di
Troia, l’ultimo regno dove ancora sopravviveva il ricordo del matriarcato. Bastava rifletterci.
I troiani erano amici dei cavalli, e il quadrupede come Bachofen ha dimostrato è un simbolo
femminile. I troiani sono protetti da Afrodite, dea dell’amore e del femminile per antonomasia. E
inoltre i troiani accettavano le donne veggenti, appunto Cassandra, mentre tra gli achei erano gli
uomini ad avere la possibilità di esprimere questa dote. Ecco perché le donne guerriere, anche loro
amiche dei cavalli, si allearono con gli eredi di Teucro. Riconobbero in loro la valenza del
Ereticamente
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matriarcato. Ripensai ancora ad Ettore. Oltre ad odiare la guerra, come fanno tutte le donne in ogni
luogo e tempo, mostrava sempre pietà e magnanimità. E mi venne in mente che quelle doti, quasi
venti secoli dopo, le aveva anche Lancillotto del Lago. Le praticava in ogni azione quotidiana. Ovvero
agiva sempre con “pitié” e “largesse” come giustamente ha affermato Ròhem nel suo L’avventura
cavalleresca. Ovvero il cavaliere della Tavola Rotonda assunse in sé, come costume, alcune qualità
che sono mediate dal mondo femminile. Non a caso tutto il ciclo poetico di re Artù canta di cavalieri
che hanno accolto in sé il Femminile come propria anima. Non ebbi più dubbi.
Ettore era stato da sempre anche il mio eroe perché apparteneva al mondo magico del Femminile.
Ovvero dalla parte della tolleranza, degli affetti, della natura, del rispetto, del rifiuto della violenza,
dell’accoglienza e del mistero.
Quando finimmo le riprese seppi anche finalmente da che “parte” ero sempre stato e da che “parte”
sarei sempre rimasto. Da quella “parte” dove si trovava anche Apuleio quando nelle Metamorfosi
lancia la sua invocazione attraverso i secoli: “Madre di tutta la natura, sovrana di tutti gli elementi,
origine e principio dei secoli, divinità suprema, regina dei Mani, prima fra i celesti, prototipo degli
Dei e delle Dee (proteggici)”. Questa mia empatia con il Femminile e Ilio l’ho già raccontata ne Il
ritorno della Grande Madre, ma ora non mi basta più.
Occorre fare uno sforzo di immaginazione. Plotino è molto chiaro, la memoria appartiene alla sfera
dell’imago, in-mago. Modificando questa si opera sui ricordi, ovvero sulla nostra storia e quindi su
quella di tutte le persone che abbiamo coinvolto nel segmento di vita che adesso desideriamo
ristrutturare. Ricreare. Lo so, è un gioco. Ma gli Dei non creano il mondo in un empito ludico?
Il fatto è che vorrei vedere la faccia di Achille di fronte ad Ettore senza l’aiuto di un corpo
praticamente invulnerabile, armatura imperforabile e tutti gli Dei del Pantheon maschile pronti a
soccorrerlo. L’allievo di Chitone solo contro il campione delle donne. Impossibile? Certo, così è nella
terra delle ombre, nel nostro mondo, riverbero di Dioniso. Ma entriamo nello specchio che il dio del
vino tiene in mano, penetriamo nel riflesso e proviamo ad intaccare la sostanza. Nella nuova terra
edificata per fantasia non c’è Priamo che va a piangere di fronte ad Achille per avere almeno il corpo
del figlio dilaniato da tre giorni di odioso scempio. Non c’è Astianatte che corre terrorizzato lungo le
muta di Ilio mentre mani crudeli lo afferrano e lo protendono nel vuoto. Non c’è più la sua voce che
strazia il cuore mentre supplica inutilmente. Non c’è il volto impietrito di Andromaca mentre osserva
quel corpicino straziato dalle pietre aguzze poste sotto i bastioni. Non ci sono parole gentili che
tentano di riportare in vita un bambino che non ha fatto nulla. Quante volte abbiamo letto, sentito e
persino visto scene simili? Sono nel nostro archetipo dell’orrore. Basta che gli uomini si lancino in
guerra. Subito giungono sempre gli stessi atti, massacri e stupri. Avete mai letto di un battaglione di
donne che sgozza i fanciulli e sventra le puerpere? No, non ci sarà nulla di tutto questo
semplicemente perché Ettore non è morto. Achille non l’ha ucciso sotto Ilio. Il campione delle donne
questa volta non era solo, Afrodite celeste, Afrodite Iperurania l’ha protetto nel campo dell’imago e
l’Acheo ha capito cosa voglia dire affrontare senza aiuti, in parità, un vero eroe. Colpisci Ettore,
colpisci tu in un giorno radioso e vendica tutte quelle donne uccise, sgozzate, dilaniate dai cavalieri
nomadi, dagli incursori, dai pirati, dai mercenari e da tutti quei crudeli assassini che da sempre
hanno infestato questo mondo dopo la caduta del matriarcato. Affonda la tua lama nelle carni di
quell’assassino, fagli provare il sapore del sangue, del suo sangue e rendi giustizia a tutti gli afflitti.
No, Achille, non morire subito. Afrodite tienigli gli occhi aperti, fagli vedere com’è amaro soffrire,
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fagli osservare la mano di Ettore
mentre gli alza la testa e gli
mostra le mura intatte di Troia: No, Achille, non entrerai più a fare scempio della nostra città.
L’immaginazione ti tiene fuori, ti espelle dall’universo del Femminile. Vai indietro figlio dei tormenti,
retrocedi come il male e piomba da dove sei giunto, nell’odio e nello spasmo e portati tutti i tuoi
compagni, e non osare più avvicinarti alle terre del cuore. Semplicemente non esisti più. La spada di
Ettore ti ha tolto l’unica vita che avevi davvero, quella del grumo del fiele. Le navi dei greci
avvampano nel fuoco dell’imago, ovvero (l’avete finalmente capito?) del mago. Ardono per sempre.
Non ci sarà ritorno per voi. Siete cancellati. Via, fuori dalla nostra mente. E tu Ettore puoi
riabbracciare i tuoi cari. E’ finita.
Ieri Platone è stato chiaro, oggi lo è Hillman. In attesa della repubblica ideale e dello stato dei buoni
occorre edificare il regno dei giusti nella propria interiorità. In queste lande Proserpina non deve più
scendere nell’ade per sei mesi, starà con noi tutto l’anno e i raccolti saranno sempre i raccolti di
tutti e nessuno sarà escluso. Sognare, forse…
Frances Yates dice nel suo Gli ultimi drammi di Shakespeare: “…molti anni or sono, camminando
lungo lo Strand insieme con Giordano Bruno… mi sembrò che Shakespeare si unisse a noi, mentre ci
recavamo al festino…”. Mi sono unito mentre andavamo al Simposio e ho raccontato della sconfitta
di Achille. Mi hanno risposto “era ora”. D’altro canto, e sottolineo canto, con il peso, l’unità, la
misura e con la verga di Aronne, tutto è possibile. Cercate di capire… Sognare forse. Molto forse.
(Ringraziamo per la collaborazione il sito www.giulianokremmerz.com , le Edizioni Rebis di
Viareggio e la rivista Elixir, oltre che l’autore del saggio)
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