Qui - Filosofia e nuovi sentieri

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Max Horkheimer e l’ascesi schopenhaueriana:
un’analisi
> di Giacomo Maria Arrigo*
1. Oblio dell’uomo
Parlare di ascesi in Max Horkheimer (1895-1973), è una
provocazione, oltreché una forzatura. In Schopenhauer la liberazione
dalla volontà di vivere assume connotati ben precisi che non trovano
posto nel pensiero dei francofortesi, men che meno in Horkheimer.
Ma un certo rimando alla dottrina espressa nell’ultimo libro del
Mondo come volontà e rappresentazione è nondimeno rinvenibile,
sebbene con difficoltà, fra le pagine del fondatore della Scuola di
Francoforte, ed è quello che cercheremo di presentare in questo
paper, fermo restando la problematicità di un simile accostamento. Il
termine “ascesi”, come vedremo, verrà utilizzato in un senso tutto
nuovo, lontano dalla concezione filosofica schopenhaueriana, in una
forma più accessibile alla mentalità contemporanea.
Nel condurre questa analisi partiremo dal considerare il ruolo
dell’individuo all’interno delle moderne condizioni sociali, e solo
successivamente valuteremo la possibilità di un eventuale
trascendimento delle catene del sistema di dominio.
Ebbene, qual è il rapporto di Horkheimer con Schopenhauer?
«L’opera del filosofo Schopenhauer non è superata» 1. Con queste
parole Horkheimer riconosce la grandezza e l’attualità del pensiero
del filosofo di Danzica. Accanto alla componente marxista, difatti, in
Horkheimer confluiscono curiosamente le suggestioni metafisiche del
Mondo come volontà e rappresentazione, le quali si mescolano
armoniosamente con quel pensiero definito “Teoria critica”, un
pensiero tutto rivolto alla critica sociale, il quale si sofferma sulle
contraddizioni della ragione moderna per smascherarne la volontà di
potenza e le pretese totalitarie.
Domandiamoci a questo punto quale sia la condizione del
singolo nella società contemporanea forgiata dalla dialettica
1 M. Horkheimer, Il pensiero di Schopenhauer in rapporto alla scienza e alla
religione, in Id., Studi di filosofia della società, a cura di A. Bellan, Mimesis,
Milano-Udine, 2011, p. 212.
1
dell’illuminismo2. Come mostra tutta l’analisi condotta con l’amico
Th.W. Adorno nel testo Dialettica dell’illuminismo (1947), l’individuo
scompare. Le conseguenze sociali della razionalità asservita alla
logica del dominio sono disumane e disumanizzanti. Insieme al
senso, alla verità, svanisce anche l’uomo. La riduzione della natura a
numeri investe ugualmente il singolo, divenuto poco più che un
automa, un numero di serie, un ingranaggio fungibile. Ragione e
persona stanno e cadono insieme: «eclissi della ragione e della libertà
spirituale ed intellettuale, cioè eclissi della persona» 3.
L’Olocausto aveva preannunciato in modo tragico la direzione
della società occidentale4: all’uomo fagocitato dall’apparato tecnico
viene assegnato un numero, e la sua identità lascia il posto
all’anonimato. La massa è il luogo perfetto per il processo di
spersonalizzazione. Al posto dei borghesi subentrano «i partecipanti
al collettivo, utili a una funzione, tutti rappresentanti dello stesso
collettivo, scambiabili tra loro a piacere»5.
Horkheimer ha dedicato gran parte del suo lavoro alle
trasformazioni della società dalla fine della Seconda guerra mondiale
in poi, e il suo pessimismo è aumentato con l’intensificarsi delle
osservazioni sociologiche. Il timore diffuso nel secondo ‘900 era che
il pensiero potesse far risorgere le ideologie tanto pericolose, e allora
si è deciso all’unanimità di abdicare al pensiero stesso. Questo esito
ha trascinato con sé l’uomo nel baratro. Nel frattempo, questo stato
di cose è stato dichiarato dall’Occidente come il massimo livello di
umanità mai raggiunto: finite le guerre, adesso è il tempo dello
sviluppo – economico, ma non umano. Si domanda a tal proposito
Horkheimer: «Quand’oggi si parla del dispiegamento dell’individuo,
specialmente in America, che cosa s’intende esattamente?» La
risposta non tarda ad arrivare: «[Con questa espressione si intende]
il potenziarsi e moltiplicarsi delle abilità, nell’ambito dell’unità di
lavoro, più una realista valutazione delle prospettive di carriera». E
continua:
2 La questione che Adorno e Horkheimer si propongono di comprendere in
Dialettica dell’illuminismo è «perché l’umanità, invece di entrare in uno stato
veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie» [M. Horkheimer,
Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 3]: il
progresso, ci insegna la storia, si capovolge sovente in regresso. La dialettica
dell’illuminismo, dunque, indica che conoscenza e potere, ragione e dominio sono,
di fatto, sinonimi, e la violenza, l’assoggettamento, riguarda anche l’uomo nei
confronti dell’uomo.
3 P. Addante, Max Horkheimer: crisi della ragione e nostalgia di Dio, in Id.,
L’uomo oggi. Fantoccio o bellezza microcosmica, Laruffa Editore, Reggio Calabria
2009, p. 28.
4 «Il progresso, in quanto dominio evolutosi nella negazione di se stesso, ha
portato ad Auschwitz; in Auschwitz si manifesta in ultima analisi l’essenza della
storia» (I. Mörth, Fondamenti e linee di sviluppo di una teoria critica della
religione, in Aa.Vv., La teoria critica della religione, Borla, Roma 1986, p. 124).
5 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, Marietti, Genova 1988, p. 156.
La tensione fra i singoli e la società è scomparsa a favore della
società, l’identità ha perso ogni contraddizione e si è fatta insulsa, la
società diventa un apparato al servizio dei burocrati. L’intera
educazione universitaria tende a questo scopo. Gli studenti devono e
vogliono imparare sempre soltanto come si fa qualcosa che già esiste,
oppure come si diventa qualcosa che già molti sono; essi stessi
vogliono restare come erano. […] Non è lecito discutere il fondamento
dei loro giudizi e delle loro prese diposizione, ma solo il contenuto,
l’oggetto; altrimenti li si coinvolge troppo e non si è più scientifici – e
comunque non lo si potrebbe dimostrare. […] La funzione che
l’apparato ha trasmesso all’individuo è quella di una rotella che deve
lubrificarsi da sola, è la continuazione del sistema. Così e non
altrimenti devono essere intesi questi individui – a meno di percepire
la loro profonda e nascosta rassegnazione6.
Horkheimer riconosce che l’individualità è sorta per la prima
volta nella sua forma compiuta in seno al cristianesimo grazie alla
dottrina dell’anima immortale. Il cristianesimo avrebbe dotato
l’uomo di una dignità infinitamente superiore a qualsiasi altro essere
naturale, indicando la destinazione sovrasensibile di tutti e di
ciascuno. Il valore assoluto dell’uomo singolo appare a Horkheimer la
novità per eccellenza del cristianesimo, destinata a mutare le sorti di
un intero continente. D’un tratto, però, l’omogeneità cristiana,
l’ordine medievale, viene sovvertito (benché Horkheimer non si
soffermi a considerare analiticamente il passaggio epocale verso la
modernità, tuttavia si è più volte espresso negativamente sulla
Riforma protestante7). L’uomo nella modernità si svincola dal
teocentrismo medievale e assolutizza l’individuo, «cristallizzandolo
ma preparandone anche la distruzione. Per Amleto infatti l’individuo
è entità assoluta e nello stesso tempo priva di valore» 8. Infine, giunta
l’era dell’individualismo fondato sulla libera iniziativa, la
sopravvivenza e l’autoconservazione hanno fatto piazza pulita degli
ideali cristiani che ancora sopravvivevano nella modernità in forma
secolarizzata, e non riconoscendo nulla superiore al punto di vista
soggettivo, trasformano l’individuo in «una sintesi di interessi
materiali»9 e null’altro.
Ci troviamo di fronte alla più grande opera di oblio
dell’individuo, un’azione subdola e tacita che opera a sfavore
dell’uomo in direzione di una pianificazione globale. Il dominio
6 Ivi, pp. 50-51.
7 Sul giudizio di Horkheimer sulla Riforma, cfr. A. Bondolfi, Il giudizio di Max
Horkheimer sulla Riforma protestante. Un contributo ad una teoria critica della
modernità, in «Cenobio. Rivista trimestrale di cultura della Svizzera italiana», 45
(1996), pp. 297-312.
8 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 200, p. 120.
9 Ivi, p. 121.
3
finalmente dispiegato dal progredire della dialettica dell’illuminismo
si ritorce contro l’uomo stesso e lo domina come già faceva con la
natura, reificando l’uno e l’altra all’interno di schemi immutabili e
totalmente immanentistici, senza spazio per una ulteriorità salvifica.
Ed è per questo che Horkheimer finalizza la teoria critica alla salvezza
dell’individuo, studiando il suo rapporto con la situazione sociale in
vista di un suo trascendimento. La sua attenzione, in sostanza, è tutta
volta al singolo.
2. Uniti sotto la bandiera del singolo
Horkheimer chiama in causa direttamente Marx, contro cui il
Nostro, con il passare del tempo, polemizza sempre più apertamente
e sempre più volentieri.
Preparata da Hegel e da altri – scrive Horkheimer – comincia
con Marx una nuova epoca del pensiero filosofico; non si tratta più
della vita del singolo individuo […] ma di un dato collettivo, della
società. […] Senza negare la sua importanza, tuttavia ritengo che il
vero pensiero debba essere anche oggi critico nei confronti di tale
restrizione, che non debba cioè sacrificare l’impulso della grande
filosofia. Per quanto la riflessione del singolo possa essere socialmente
condizionata, non potendo fare a meno di riferirsi al momento sociale
e alle iniziative politiche, tuttavia essa resta sempre pensiero del
singolo individuo, il quale non è solo l’effetto di processi collettivi, ma
anche li assume ad oggetto10.
A questo punto si potrebbe azzardare il seguente confronto, e
cioè dire che Horkheimer sta a Marx come Schopenhauer sta a Hegel.
Entrambi, Horkheimer e Schopenhauer, com’è noto, hanno preso le
difese del singolo contro le categorie astratte e totalizzanti in cui
viene talvolta risolto. L’universale astratto che prende il posto degli
individui è il più grande rovesciamento, nonché la più grande
perversione, che la modernità abbia potuto concepire: questo il
giudizio di entrambi i nostri pensatori.
Prendendo in mano il testo Aforismi per una vita saggia, che è
il primo lavoro di Schopenhauer studiato da Horkheimer, è possibile
imbattersi in simili affermazioni: «L’individualità è di gran lunga più
importante della nazionalità»11, e, in modo ancora più radicale:
«L’universale, non il particolare: è proprio quest’ultimo che contiene
la realtà»12. Con un profetismo tipico delle personalità geniali,
10 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., pp. 190-191.
11 A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, Bur, Milano 2013, p. 100.
12 Ivi, p. 198.
Schopenhauer ha inoltre descritto il ruolo del singolo all’interno della
società capitalistica:
Ognuno viene preso in considerazione con riguardo alla sua
carica o alla sua occupazione o alla sua nazionalità o alla sua famiglia:
vale a dire, alla posizione e al ruolo assegnatigli dalle convenzioni; e in
base a convenzioni viene classificato, e trattato come un prodotto di
serie. […] Quel sistema è basato sul fatto che, in questo mondo della
miseria e del bisogno, ciò che è, dovunque, essenziale, e, quindi,
prevale su tutto il resto, sono i mezzi per ovviare all’una e all’altro 13.
Orrore e ribrezzo erano le reazioni di Schopenhauer al sentir
parlare della massa, non solo perché attribuiva al popolino, dall’alto
della sua misantropia, caratteri più animaleschi che umani, ma anche
perché la massa è un’astrazione che non fa giustizia al singolo: i
popoli sono astrazioni, solo l’individuo è reale. Lo stesso si può dire
dello Stato, non più l’organismo etico assolutamente compiuto di
Hegel, bensì
un male necessario, una istituzione cui nell’ampio quadro
dell’esistenza viene attribuito un ruolo subordinato: esso non è un
istituto per promuovere la moralità, l’educazione, l’edificazione, come
vorrebbero renderlo i filosofastri tedeschi, ma una istituzione che
protegge dagli attacchi cui l’uomo è esposto e da cui può difendersi
solo unendosi agli altri: attacchi dall’interno, di un singolo verso un
altro singolo, e attacchi dall’esterno14.
La difesa dell’individuo unisce Schopenhauer e Horkheimer
sotto un’unica bandiera. Le ideologie novecentesche, obiettivo
polemico della teoria critica, sono proprio quell’universale astratto
che pretende di sostituire il singolo e di risolverlo in una semplice
idea omogeneizzante e astraente, indifferente alle differenze e protesa
all’appiattimento sistematico delle singolarità che conservano ancora
una propria identità. Secondo la diagnosi schopenhaueriana, le
ideologie sfociano inevitabilmente nel terrore in virtù del loro
allontanamento dall’esperienza.
Per Schopenhauer ogni nostra conoscenza parte dall’intuizione
sensibile; questa si prolunga poi attraverso l’intelletto fino alla ragione
che ha la capacità e la funzione di unificare il molteplice in un
universale. Questo però non accresce mai l’esperienza, soltanto la
sottopone a leggi. […] Tale universale, sottolinea Schopenhauer, non è
dunque qualcosa che possa stare a sé, senza poggiare su di una
intuizione sensibile, altrimenti si trasforma in una vuota astrazione 15.
13 Ivi, p. 220 (corsivo mio).
14 A. Hübscher, Arthur Schopenhauer: un filosofo contro corrente, Mursia,
Milano 1990, pp. 194-195.
5
Hegel, com’è noto, ha compiuto questo passo falso. Marx pure,
prefigurando una società perfetta in cui l’umanità sarebbe pervenuta
finalmente a se stessa, ponendo l’accento sul percorso dell’umanità,
sulle sue strutture economiche.
Ma non solo. Infatti secondo Marx il protagonista della vicenda
salvifica della storia umana, il soggetto investito dal compito
messianico di redenzione del mondo, è il proletariato, una classe di
uomini e non l’uomo singolo. Horkheimer si accorge di questo
particolare, e prende nettamente le distanze da esso 16. L. Geninazzi
ricorda che Horkheimer è stato diffidente nei confronti dell’idea del
proletariato fin dagli anni ‘3017. Già nel famoso testo Teoria
tradizionale e teoria critica, per l’appunto, si trova scritto che non
esiste «una classe sociale al cui consenso ci si possa riferire. Nelle
condizioni presenti la coscienza di ogni strato può essere
ideologicamente ristretta e corrotta»18. Secondo il pensiero
horkheimeriano correttamente inteso, «non esiste un soggetto
precostituito per la rivoluzione»19. Horkheimer sviluppa così un
pensiero che, prendendo le distanze dal marxismo ortodosso, giunge
a sostenere che «la speranza della liberazione […] prima ancora che
nella classe o in genere nelle masse, è riposta nel singolo» 20. Di che
tipo di liberazione si tratti, lo vedremo nel prossimo paragrafo. Qui
basti sottolineare la critica al concetto di proletariato, ulteriore
tassello lungo la strada di decostruzione del pensiero marxista. Una
simile valutazione è senz’altro di sapore schopenhaueriano: l’unica
cosa che conta è l’uomo singolo, l’individuo concreto, e non vaghe
astrazioni comunitarie (lo Stato, la nazione, il partito, la classe). È
l’uomo concreto che agisce, soffre e vive; lo Stato non esisterebbe
senza il singolo, la classe sarebbe inconsistente senza di esso.
Tutto ciò potrebbe condurre in errore se non considerassimo il
significato di “totalità” per la scuola di Francoforte. Totalità, qua,
«non è riproduzione positiva del mondo, né immagine di una società
organica e solidale, prodotta da un unificato e consapevole soggetto
sociale. È, al contrario, l’immagine critica di un “mondo capovolto”,
dunque di una oggettività sociale che va rovesciata» 21. Il significato di
15 P. Vincieri, Discordia e destino in Schopenhauer, Il Melangolo, Genova 1993, p.
67.
16 «La dottrina di Marx ed Engels […] è messianismo malamente secolarizzato,
rispetto al quale quello autentico resta infinitamente superiore» (M. Horkheimer,
Taccuini 1950-1969, cit., p. 180).
17 Cfr. L. Geninazzi, Horkheimer & C., Jaca Book, Milano 1977, p. 308.
18 M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Id, Teoria critica, vol. II,
Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 185.
19 L. Geninazzi, Horkheimer & C., cit., p. 311.
20 R. Buttiglione, Dialettica e nostalgia, Jaca Book, Milano 1978, p. 274.
“totalità” è prettamente metodologico, espressione usata non in
modo affermativo bensì critico, nei confronti di una società che
presenta lo stato di provvisorietà nel suo rimando all’utopico 22.
Nessuna entità universale che sovrasta il singolo dunque.
È evidente, a questo punto, che il problema si impone più forte
che mai: nelle effettive condizioni sociali, dove il singolo è tenuto
sotto un rigido controllo tecnocratico, che possibilità ha l’uomo di
scrollarsi di dosso il dominio e, finalmente, riaffermarsi nella sua
piena libertà? Per l’appunto, come abbiamo avuto occasione di
ribadire più volte, nella teoria come nella prassi, «l’illuminismo è
totalitario»23.
Facendo un passo più in là, possiamo constatare un altro, e più
fatale, sprofondamento. Il soggettivismo moderno è giunto ad un
momento di arresto. Lo ὑποκείμενον della modernità era divenuto,
con Cartesio, il subjectum che è l’Io. Ora le cose stanno in un modo
diverso. L’Io, che era soggetto, oggi è oggetto, non più punto di
riferimento dell’ente in quanto tale, ma ente fra gli enti. «Il soggetto
– scrive Horkheimer – diventa l’oggetto di una produzione che egli
non domina»24. Il subjectum oggi è l’apparato. Gli enti assumono i
loro connotati non in relazione all’uomo bensì all’apparato della
produzione capitalistica: «Il meccanismo che trasforma il materiale
nell’esperienza “unitaria”, non consiste nelle forme pure
dell’intuizione e dell’intelletto, ma nello schematismo sociale»25.
L’esito è funesto: «Ora nessuno domina su nessuno, e tutti tremano
di fronte al potere»26. L’uomo si è trasformato, da veicolo del
dominio, a funzione del dominio al pari della natura. Il dominio, che
la dialettica dell’illuminismo ha liberato – o meglio, scatenato –, si
abbatte oggi compiutamente sull’uomo stesso, reo di aver aperto il
vaso di Pandora.
Ma cosa è possibile fare per affrancarsi da una situazione che
sembra essere l’esito logico della storia umana lungo la linea della
dialettica dell’illuminismo? Vediamo a questo punto che ruolo ha
l’ascesi nell’economia della “salvezza”.
21 L. Ceppa, Lo Stato autoritario di Max Horkheimer, in «Rivista di storia
contemporanea» 9 (1980), p. 449.
22 «La totalità francofortese allora non è l’universale storico di hegeliana memoria,
non è l’assoluto, ma una categoria prospettica che ci permette di leggere la realtà
sociale in una visione unitaria pur nella sua provvisorietà» (M.F. Canonico, La
scuola di Francoforte: teoria a favore dell’uomo?, in Idem, L’uomo misura
dell’essere?, Las, Roma 1985, p. 114).
23 M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino
2010, p. 14.
24 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 101.
25 Ivi, p. 5.
26 Ivi, p. 50.
7
3. L’ascesi per conoscenza
Schopenhauer definisce l’ascesi nei termini della negazione
della volontà di vivere. Dunque, come per Schopenhauer l’ascesi è il
superamento della voluntas, così per Horkheimer l’ascesi può essere
letta come il superamento del dominio: in questo paragrafo verrà
analizzato questo semplice schema. Il tema proposto è alquanto
provocatorio: affronta di petto il quesito della fuoriuscita dalla
dialettica dell’illuminismo, e vuole offrire una prima quanto
provvisoria risposta rinvenibile fra le pagine di Horkheimer.
In Schopenhauer l’ascesi è «l’orrore […] della volontà di vivere,
nocciolo ed essenza di questo mondo riconosciuto come pieno di
strazio»27. L’individuo, divenuto consapevole dell’essenza di tutte le
cose, e riconosciuto se stesso quale volontà secondo una visione
monista, cioè superato il principium individuationis, decide di
cessare il perpetuarsi della volontà di vivere che provoca tanto dolore,
e ugualmente decide di non volere, cioè di non trattenere nulla per sé,
al fine di non provocare più dolore che apparirebbe, in quest’ottica,
subito commesso (anche) contro se stesso. Una simile conoscenza
dell’essenza delle cose «diviene un quietivo di ogni e qualunque
volere»28, ossia una rinuncia al motivo che spinge all’azione. L’uomo
assume un atteggiamento di rassegnazione che è l’assoluta assenza di
volontà, e supera, attraverso una condotta di castità e povertà, il
mondo della necessità.
Egli guarda ora indietro, tranquillo e sorridente, alle
fantasmagorie di questo mondo, che potevano una volta agitare e
angustiare anche il suo animo, ma che ora gli stanno davanti
indifferenti come i pezzi degli scacchi a gioco finito, o come al mattino
i costumi da maschera smessi, le cui forme ci avevano stuzzicati e
inquietati nella notte di carnevale29.
27 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, Bur,
Milano 2009, p. 663.
28 Ivi, p. 662.
29 Ivi, p. 678.
L’asceta protesta silenziosamente contro il mondo ed è proteso,
attraverso la mortificazione, all’estinzione dell’individualità come
fenomenizzazione della Volontà.
Se abbiamo accostato i concetti di volontà e dominio per
definire le condizioni inique in cui riversa l’uomo (l’una secondo
Schopenhauer, l’altra secondo Horkheimer), dobbiamo ora vedere se
esistano corrispondenze nel pensiero di Horkheimer di una qualche
ascesi. Sfuggire al dominio e, in ultima istanza, alla dialettica
dell’illuminismo: è possibile o è solo una utopia irrealizzabile?
Ecco una prima precisazione del significato di ascesi in ambito
horkheimeriano. Scrive il Nostro: «La fine dello sfruttamento […]
non è più un’accelerazione del progresso, bensì il salto oltre il
progresso»30. La legge di sviluppo immanente alla società è funesta
perché guidata dal dominio, la cui genesi è ben ripercorsa in
Dialettica dell’illuminismo. Occorre la radicale volontà di
oltrepassare il velo di Maya del dominio tramite un salto, una
estrema uscita – che non è l’atto rivoluzionario 31 – dallo sfruttamento
universale, definito radicalmente come «identità di ideale e reale» 32
tipica dei sistemi hegeliani e marxisti.
Soggetto dell’azione, che qui chiamiamo ascetica, non è più il
proletariato, né un gruppo sociale definito, bensì «solo gli individui
isolati»33. Oggi tutti sono isolati a causa della massificazione: la
massa, infatti, «dà agli individui un illusorio senso di prossimità e
unione: ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione,
alienazione e impotenza dei singoli»34. E incredibilmente, come per
magia, è proprio dall’atomizzazione che può venire alla luce un nuovo
soggetto capace di liberarsi dalle catene del dominio, attraverso un
atteggiamento che ora cercheremo di indagare.
Sembra quasi di sentire la presenza di Schopenhauer
allorquando Horkheimer parla di rinnovato protagonismo dei singoli,
i soli soggetti della liberazione. Se, tuttavia, questa liberazione sia
collettiva o individuale, non ci è dato saperlo, soprattutto perché il
Nostro non si sbilancia mai nella descrizione della società che ha di
mira, assumendo un atteggiamento che si può definire come una
30 M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Id, La società di transizione, cit., p. 18
(corsivo mio).
31 «Se oggi in Occidente avvenisse una rivoluzione, soprattutto nei Paesi in cui
regna ancora la democrazia, il risultato potrebbe essere soltanto un generale
peggioramento, perché sarebbe aperta così una strada più rapida e agevole verso
quel controllo centralizzato e unitario che è abbastanza sensato prevedere come
una prossima ventura realtà» (M. Horkheimer, Rivoluzione o libertà?, Rusconi,
Milano 1972, p. 19).
32 M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Id, La società di transizione, cit., p. 19.
33 Ivi, p. 22.
34 M. Horkheimer, T.W. Adorno (a cura di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino
2001, p. 96.
9
teologia negativa in senso sociale, una “utopia negativa”. Il novum
non è pienamente prevedibile, e questo perché se ci fosse «una ricetta
infallibile […] l’uomo non potrebbe essere mai liberato, in quanto
sarebbe pur sempre consegnato ad un processo necessario e
reificante»35. Lo stesso vale per una proiezione idealistica dell’utopico
che assumerebbe il carattere programmatico e, daccapo, fungerebbe
da manifesto per una rinnovata prassi rivoluzionaria. «Il cielo per cui
si può indicare la via non è un cielo»36.
Come si configura l’attività di liberazione, la cosiddetta “ascesi”
francofortese? Per rispondere alla domanda, è bene tornare a
Schopenhauer. Il suo discorso prevede non una ma due vie che
conducono all’ascesi. La prima via consiste nel fatto che l’ascesi può
essere «provocata dal dolore semplicemente e puramente
conosciuto»; la seconda via raggiunge la noluntas «dal dolore
direttamente e personalmente sentito»37. Seguendo questo schema si
possono rintracciare altrettante possibilità anche nel discorso di
Horkheimer.
Partiamo dalla prima.
Centrale appare essere qua la conoscenza del dolore, cioè del
dominio. È chiaro che tutti sottostanno al dominio, e che il dolore è
ugualmente patito da ciascuno; ma non è tanto l’esperienza della
sofferenza a rendere il singolo ribelle nei confronti delle condizioni in
cui vive e a condurlo a una drastica azione di liberazione. L’attività
ascetica di questa prima via è, piuttosto, il portare alla
consapevolezza la violenza in cui versa l’uomo, riconoscerla quale
violenza e prenderne le distanze. Questo significa farla pervenire alla
parola. «Riconoscere l’inferno per quello che è. Saperlo nominare.
Questa sarebbe l’unica speranza per la ragione»38.
In più passaggi della sua opera Horkheimer parla della potenza
della parola. Leggiamo, ad esempio, in Ragione e autoconservazione:
«Come possibilità di chiamare gli esseri e le cose con il loro nome, la
ragione non si scioglie nella vita che aliena se stessa e che si preserva
attraverso l’annientamento degli altri e di sé» 39. Da un’altra parte
scrive ancora: «[La filosofia] non sa prescrivere il modo in cui
sottrarsi all’incantesimo del sussistente; può solo tentare di
35 U. Galeazzi, La teoria critica della Scuola di Francoforte, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2000, p. 150.
36 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 53.
37 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, cit., p. 688.
38 O. Ombrosi, Il crepuscolo della ragione, Giuntina, Firenze 2014, p. 125.
39 M. Horkheimer, Ragione e autoconservazione, in Id., Crisi della ragione e
trasformazione dello Stato, Savelli, Roma 1978, p. 125.
chiamarlo per nome»40. E tornando al saggio Lo Stato autoritario,
leggiamo:
[L’individuo isolato] è una potenza, giacché tutti sono isolati.
Non hanno altra arma fuorché la parola. […] Ma se è vero che la parola
può diventare una scintilla, è vero anche che oggi essa non ha ancora
provocato alcun incendio. Essa non ha affatto il significato della
propaganda, e ha ben poco quello dell’appello: cerca di dire
apertamente ciò che tutti sanno e si vietano di sapere 41.
Questo far pervenire alla parola si configura come l’intenzione
ultima della teoria critica, ossia il raggiungimento, attraverso uno
studio interdisciplinare, della consapevolezza dell’iniquità della
condizione umana storicamente divenuta, e la conseguente nascita
della volontà del suo superamento – superamento libero e non fin da
subito precompreso in un sistema “scientifico” che decapita la libertà.
In questo senso sarebbe proprio il filosofo, anzi il teorico critico, ad
essere sulla via della liberazione, poiché è colui che avverte
l'ingiustizia che lo circonda.
La O. Ombrosi parla a tal proposito di «nominazione
adamitica», la quale darebbe «alla ragione un aspetto diverso da
quello del dominio». Infatti, sostiene la Ombrosi, «non ci sarebbe
alcuna mira, alcuna decisione, alcuna intenzionalità da parte di chi
nomina, alcuna violenza da parte del soggetto sull’oggetto, ma
solamente il lasciar-passare, il lasciar-venire alla parola» 42. Una volta
detto l’orrore, è possibile finalmente svincolarsi da esso perché se ne
riconoscono i tratti, e si identifica una volta per tutte il nemico. «La
libertà – scrive ancora Horkheimer – consiste nel rendersi visibile
della prigionia»43.
Da qui il richiamo a Schopenhauer, il quale ribadisce che ascesi
significa, «in senso più stretto, questo deliberato spezzare la
volontà»44. Nel caso di Horkheiemer, il deliberato spezzare il dominio
si configurerebbe come una fuoriuscita definitiva dalla dialettica
dell’illuminismo che nasce dall’individuazione del male che si annida
ovunque, e dal suo conseguente rifiuto.
Aggiungiamo che Horkheimer arriva a un’affermazione non
certo priva di ambiguità. In Taccuini 1950-1969, note semipersonali
del tutto asistematiche, si può leggere d’un tratto e senza un’ulteriore
specificazione il seguente passaggio: «Una giusta ascesi presuppone
40 M. Horkheimer, La trasformazione dell’uomo dalla fine del secolo scorso, in
Id., La società di transizione, cit., p. 92.
41 M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Id, La società di transizione, cit., p. 24
(corsivo mio).
42 O. Ombrosi, Il crepuscolo della ragione, cit., p. 125.
43 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 97.
44 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, cit., p. 680.
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la conoscenza di ciò che è Altro» 45. La frase si trascina dietro
un’impenetrabile oscurità. Il suo ermetismo può essere in parte
scalfito se si dovesse intendere l’espressione nei seguenti termini: il
riconoscimento del dolore quale dolore passa attraverso la
conoscenza di ciò che è Altro dal dolore, di ciò che si annuncia come
il suo opposto, ossia della giustizia vera cui sempre la teoria critica ha
mirato senza tuttavia poterla mai inquadrare in una asserzione
definitiva. E allora dove si manifesta l’Altro? Come è possibile
attingervi se è preclusa alla ragione una qualche sua conoscenza? Il
vicolo cieco imboccato dalla dialettica dell’illuminismo rende
impossibile una risposta.
Ora, parlare più specificatamente della prima via dell’ascesi
sarebbe impossibile in mancanza di ulteriori indicazioni, sebbene il
riferimento alla forza della parola e alla «nominazione adamitica»
non siano dettagli indifferenti, per non parlare del rinvio all’Altro che
apre al discorso sulla nostalgia46.
4. L’ascesi nichilistica
La seconda via dell’ascesi, l’abbiamo detto, è l’esperienza diretta
del dolore. Scrive su ciò Schopenhauer:
Il dolore in genere, quale viene inflitto dal destino, è una
seconda via per arrivare a quella negazione; anzi, possiamo supporre
che i più vi giungano solo per essa, e che sia il dolore che uno sente egli
stesso, e non quello meramente conosciuto, quello che produce più
spesso la piena rassegnazione, frequentemente solo in prossimità della
morte. Giacché solo a pochi basta per ciò la semplice conoscenza 47.
Passiamo dunque ai riscontri nel pensiero di Horkheimer. A tal
proposito è opportuno parlare di ascesi nichilistica, per distinguerla
dalla possibilità positiva descritta nella prima via.
Il salto fuori dalla dialettica dell’illuminismo, qua, non passa per
il tramite della conoscenza dell’orrore bensì per mezzo
dell’esperienza quotidiana dell’oppressione sociale e della violenza
cui l’uomo soggiace senza nemmeno rendersene conto. La drasticità
delle condizioni sociali plasmate dalla ragione strumentale hanno
condotto, come già detto più sopra, all’oblio dell’uomo. L’uomo serve
solo all’apparato in cui vive, alla «tecnostruttura» 48, ed è considerato
45 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 53.
46 Vedi M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia
1980.
47 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, cit., p. 680.
48 M. Horkheimer, Per la critica della società attuale, in Id., La società di
transizione, cit., p. 145.
come una rotella di un meccanismo che lo sovrasta, ove
l’individualità viene accantonata49 perché desta scandalo. La logica di
fondo, lo ripetiamo, è la seguente: «L’essere è visto sotto l’aspetto
della manipolazione e dell’amministrazione. Tutto diventa processo
ripetibile e sostituibile, semplice esempio dei moduli concettuali del
sistema: anche il singolo essere umano, per tacere dell’animale» 50.
Tutto ciò, si domanda Horkheimer, «non ricorda forse […] il
mattatoio piuttosto che l’ascesi?» 51 Ed è proprio a partire da questa
consapevolezza che sviluppa una interessante intuizione. Nelle
condizioni attuali l’individuo è ridotto al minimo. Viene guardato con
occhi utilitaristici, in base alla sua capacità di servire la macchina
sociale. Non è importante il suo nome, la sua storia, la sua
personalità. Lo si abitua a vivere senza certezze. Se ne dispone come
un mero attrezzo. Ma allora
se nella decadenza e nell’atomizzazione gli uomini sono capaci
di vivere senza proprietà, senza luogo, senza tempo né popolo, allora
essi si sbarazzano anche dell’Io nel quale si conserva ogni
intelligenza come ogni stupidità della ragione storica e il suo
compromesso col dominio52.
L’esito è paradossale: per sopravvivere l’uomo si sottomette alla
tecnostruttura; il suo unico interesse è l’autoconservazione, ma
questa lo conduce al lento ed inevitabile deperimento dell’Io. E
dunque, se il dominio politico si esercitava sull’Io, perduto l’Io si
scioglie il dominio! «Il Sé che nello stadio più recente della società va
in rovina, era il fondamento non solo dell’autoconservazione, ma
anche dell’ideologia». E più avanti:
Pur nella loro mutilazione gli uomini possono nello spazio di un
istante diventare consapevoli che il mondo razionalizzato da parte a
parte dalla costrizione del dominio potrebbe scioglierli
dall’autoconservazione che li oppone ancora oggi l’uno all’altro. Il
terrore che viene in aiuto alla ragione è nello stesso tempo l’ultimo
mezzo per fermare gli uomini, tanto la verità è vicina53.
Per ricalcare l’immagine omerica di Dialettica dell’illuminismo,
si può affermare, senza rischio di fare violenza al pensiero del nostro
Autore, che si salva solo l’uomo che, al pari di Ulisse, arriva a dire
49 «È la legge dei grandi numeri, e non il caso singolo, che ritorna nella formula»
(M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 90).
50 Ibidem.
51 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 53.
52 M. Horkheimer, Ragione e autoconservazione, in Id, Crisi della ragione e
trasformazione dello Stato, cit., pp. 126-127 (corsivo mio).
53 Ivi, p. 126 (corsivo mio).
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“sono nessuno”. È questo «l’argenteo bagliore della negazione della
volontà di vivere, cioè della redenzione, che si sprigiona
improvvisamente dalla fiamma purificatrice del dolore»54?
Vivere il nichilismo fino in fondo, in conclusione. Certo, la
contraddizione è evidente, come sottolinea Buttiglione:
La posizione di Horkheimer oscilla fra due poli. Per un verso
egli valorizza l’individuo come luogo della ultima resistenza alla
irragionevolezza della ragione; per un altro proprio il dissolvimento
dell’individuo permette di pensare il capovolgimento della oppressione
in liberazione, perché annulla la forza del terrore e quella della
ideologia. […] L’individualità deve insomma essere conservata e
negata: solo la sua conservazione nel pensiero critico permette alla sua
negazione sociale di capovolgersi in emancipazione 55.
Anche Buttiglione, in fondo, riconosce la problematicità di una
simile posizione, specialmente la difficoltà di riuscire a connettere fra
loro i due momenti. Rimane indubitabile, nondimeno, che «se, per
giustificarsi, il potere ha bisogno della coscienza, è colpito a sua volta
dalla regressione di quest’ultima» 56. La morte dell’Io è la morte
dell’apparato tecnocratico.
Il problema che a questo punto si manifesta è la possibilità o
meno da parte dell’Io di risorgere dalle proprie ceneri. Definito
l’individuo con il nome di atomo sociale, fondamento della collettività
a cui sono state via via sottratte tutte le comunità intermedie, a
partire dalla famiglia57, Horkheimer prende in considerazione l’idea
terribile che, scisso l’atomo, il terreno non sarà più fertile per una
rinascita. «Nella realtà sociale atomizzata, l’atomo viene scisso come
in quella fisica»58. In un lungo aforisma dal titolo Atomismo scrive:
Gli antichi pensavano che gli elementi e gli atomi fossero mossi
(attratti o respinti) dall’amore e dall’odio, che nessuna particella della
materia fosse sola. Ma dall’unione nasceva la vita. Oggi, alla fine della
civiltà che fu inaugurata da quella filosofia, gli uomini stessi sono
diventati atomi, mentre nessun amore li unisce. Ognuno è solo come
nella natura inorganica, che la scienza ha spogliato da tempo degli
spiriti vitali. Anzi, la loro volontà interminabile di dominio riesce
persino a spezzare quella che un tempo era considerata l’unità ultima,
naturale ed eterna. Gli uomini hanno imparato a scindere l’atomo;
come una specie di consolazione, si apre la prospettiva che gli uomini
54 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, cit., p. 681.
55 R. Buttiglione, Dialettica e nostalgia, cit., pp. 300, 301.
56 M. Horkheimer, Potere e coscienza, in Id, Studi di filosofia della società,
Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 169.
57 «La cellula sociale non è più la famiglia, ma l’atomo sociale: l’individuo solo»
(M. Horkheimer, Ragione e autoconservazione, in Id, Crisi della ragione e
trasformazione dello Stato, cit., p. 112).
58 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 40.
– decaduti nella società a forme controllate e totalmente determinate
di esistenza – chiudano il cerchio, e diventino nuovamente pura
materia. In questa è forse possibile che, da qualche parte, cominci
nuovamente un movimento che meriti il nome di amore59.
Scisso l’atomo, è il momento dell’esplosione nucleare: l’uomo
torna ad essere pura materia. Nonostante il pessimismo di cui è
impregnato questo passaggio, la speranza fa capolino proprio alla
fine, con un guizzo rapido che ricorda un germoglio in mezzo al
deserto. La speranza è che l’umanità raggiunga se stessa, malgrado
permanga il margine di rischio dell’autodistruzione dell’uomo –
d’altra parte questo è dovuto alla vertigine della libertà: «Alla fine del
progresso della ragione che sopprime se stessa è possibile solo la
ricaduta nella barbarie o l’inizio della storia» 60. Due esiti opposti che
si configurano come gli sbocchi naturali della progredente dialettica
dell’illuminismo. La cosa terribile è, di fatto, la necessità di dover
passare in mezzo all’inferno, qualunque sia il termine della storia
umana. La ricaduta nella barbarie rimane, in ogni caso, l’esito più
plausibile.
Questa sarebbe, nell’essenza, l’ascesi nichilistica che traspare
dalle pagine horkheimeriane. Sia chiaro, non si tratta di un concetto
tematizzato così esplicitamente dall’autore. Ma come abbiamo visto,
senza troppa fatica è possibile rintracciare alcuni passi che
testimoniano a favore di un’uscita dalla logica immanente dello
sviluppo sociale coincidente con la dialettica dell’illuminismo. Non si
tratta di un percorso da intraprendere, non
un “cammino” ma un “salto”, l’evidenza della non necessità
della necessità del dominio, […] una sorta di “illuminazione”, […] una
consapevolezza della nullità della pur reale onnipotenza della
Herrschaft. […] La libertà è possibile proprio in quanto non è
necessaria, né è deducibile dal presente. Ma ciò significa che non
rientra nell’orizzonte del pensabile61.
È a questo livello, così, che si trova un’altra consonanza con la
dottrina di Schopenhauer:
Ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è invero,
per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il nulla. Ma anche,
viceversa, per coloro in cui la volontà si è rovesciata e negata, questo
59 Ivi, p. 129.
60 M. Horkheimer, Ragione e autoconservazione, in Id, Crisi della ragione e
trasformazione dello Stato, cit., p. 127.
61 C. Galli, Introduzione a M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica
dell’illuminismo, cit., p. XX.
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nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è – il
nulla62.
Bisogna raggiungere la nullità del dominio, per Horkheimer, e
la nullità della volontà di vivere, per Schopenhauer: questa è la
conclusione pressoché identica dei due autori. In entrambi i casi, la
precedente condizione viene vista ormai con uno sguardo del tutto
distaccato, indifferente, tanto che l’uomo che giungesse alla noluntas
giudicherebbe folle raccapezzarsi nel mondo appena lasciatosi alle
spalle; quest’ultimo non avrebbe alcun valore residuo una volta
conosciuto uno stadio indicibile e incomunicabile, quello della
assoluta libertà. La noluntas, anche nel contesto horkheimeriano,
significherebbe oltrepassare la ragione calcolante, la ragione
soggettiva, per entrare in un’altra dimensione esistenziale che coloro
che sono ancora irretiti nel dominio non possono nemmeno
immaginare.
Ma non è tutto. L’imporsi sempre più perentorio della ragione
strumentale reifica vieppiù l’uomo e trasforma la società in una
amministrazione totale. Il crinale intrapreso dal mondo sembra
ineluttabile oltreché fatale. Horkheimer stesso, a questo punto,
sostiene che la tendenza immanente allo sviluppo dell’umanità «può
essere interrotta solo da catastrofi» 63. Lui parla di guerre atomiche o
attacchi di natura terroristica; noi invece avanziamo l’idea che la
catastrofe possa essere identificata anche con la distruzione
dell’individuo, con la sparizione dell’Io. L’ascesi nichilistica come
catastrofe suprema che interrompe la dialettica dell’illuminismo: non
un granché come suggerimento, ma ricordiamo che non voleva essere
questo l’intento della teoria critica, interessata com’era, invece, a
indicare i mali della società più che a proporre antidoti o comode
soluzioni facilmente travisabili in dogmi e ideologie.
Concisamente,
se la teoria si deve adattare sia pur a una prassi che si dice di
liberazione, perde ogni valore ed ogni autonomia, mentre la prassi è
solo sedicente liberatoria perché in realtà censura la teoria che non le è
funzionale, e che invece sola potrebbe, nel costante impegno critico,
autonomo e spregiudicato, metterne in questione gli obiettivi per non
farle tradire la reale umanizzazione64.
62 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, cit., p. 708.
63 M. Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi, in Id., La società di transizione,
cit., p. 168. Scrive altrove: «Il processo può essere interrotto da incidenti; rifiutarlo,
non partecipare, anziché promuoverlo, equivarrà infine alla follia romantica, alla
superstizione, allo sviluppo degenere di singoli esemplari della specie» (M.
Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 188).
64 U. Galeazzi, La teoria critica della Scuola di Francoforte, cit., p. 163.
Torniamo così alla prima via di liberazione: la teoria, che non è
strumentale alla prassi, deve fronteggiare e combattere i mostri che la
ragione abbagliata dal dominio ha prodotto, avere il coraggio di
nominarli e purificare il pensiero. Solo da questo sforzo ascetico di
decontaminazione dai residui di dominio può nascere una nuova
umanità, senza passare attraverso il rischio di un’autodistruzione
(l’ascesi nichilistica) da cui difficilmente può rinascere la vita.
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* Giacomo Maria Arrigo. Nato a Messina nel 1992, nel 2015 consegue con lode
la laurea in Filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel
2016 si diploma al Master Universitario in Middle Eastern Studies presso l'ASERI
(Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali). Attualmente è dottorando in
“Politica, Cultura e Sviluppo” presso l'Università della Calabria, dove studia la
presenza dello gnosticismo rivoluzionario all’interno del salafismo-jihadismo; è
altresì membro del centro di studi "Occhialì - Laboratorio calabrese sul
Mediterraneo islamico" attivo presso la stessa università.
Filosofia e nuovi sentieri /ISSN 2282-5711
https://filosofiaenuovisentieri.it/2017/04/23/max-horkheimer-e-lascesischopenhaueriana-unanalisi/
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