L`età giolittiana

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L’ETÀ GIOLITTIANA
Le trasformazioni della società italiana e il decollo industriale
Industrializzazione. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, l’Italia cominciò ad avviarsi sulla strada
dell’industrializzazione e tra il 1896 e il 1913 si realizzò un vero e proprio decollo, che la portò a divenire da
paese agricolo paese agricolo-industriale. Questo processo risentì, tuttavia, del diverso sviluppo che le
regioni del paese avevano avuto prima dell’unificazione e si concentrò nelle città del Nord, in quello che
diventerà il triangolo industriale (Milano-Torino-Genova).
Protezionismo. Come per altri paesi late comers, cioè arrivati per ultimi al processo di industrializzazione,
anche in Italia lo sviluppo dell’apparato industriale venne sostenuto dallo Stato, sia attraverso una politica
protezionistica, sia commissionando direttamente manufatti alle imprese. Fu la situazione economica
mondiale a spingere il paese – guidato allora da Agostino Depretis – ad adottare, come altri, tariffe doganali.
In un primo tempo, soprattutto per la pressione di un gruppo di imprenditori del Nord, furono varati
provvedimenti per proteggere le industrie tessile e siderurgica (1878). Successivamente, quando ebbe inizio
la crisi agraria conseguente all’arrivo sui mercati europei del grano americano, fu introdotto il dazio su
cereali, zucchero, canapa, riso (1887), per difendere i grandi proprietari latifondisti del Mezzogiorno e gli
zuccherieri della Pianura Padana dalla concorrenza americana. In tal modo, come hanno messo in evidenza
diversi studiosi, furono avvantaggiati, da un lato, l’industria pesante (emblematico sarà in tal senso il caso
della Terni, per la produzione dell’acciaio), dall’altro, la grande proprietà agraria capitalistica del Centro-Nord
e il latifondo meridionale: il protezionismo esteso alla cerealicoltura infatti assicurò guadagni ai grandi
latifondisti del Mezzogiorno, ma rovinò i piccoli produttori ortofrutticoli. Si consolidò così il “blocco
protezionista industriale-agrario” che avrebbe condizionato non solo il carattere del capitalismo italiano,
ma anche le scelte politiche interne ed estere.
Banche e industrie. Inoltre, anche in Italia un ruolo di grande importanza fu svolto dalle banche miste, di cui
finanziamenti permisero la crescita dei grandi gruppi industriali e di piccole e medie imprese. In seguito alla
concentrazione dei gruppi industriali e alle notevoli dimensioni assunte da alcune imprese, molte di queste si
trasformarono in società, gestite non solo dalle famiglie che le avevano costituite, ma da consigli di
amministrazione, dei quali entravano a far parte i rappresentanti delle banche che contribuivano al loro
finanziamento e che in tal modo le controllavano. Si realizzava così una progressiva integrazione tra banche
e industrie, che sarà tipica del capitalismo italiano.
Le maggiori industrie. I settori cruciali dello sviluppo italiano e i grandi colossi industriali nati fra seconda
metà dell’Ottocento e primi del Novecento furono le industrie siderurgica (Terni), meccanica pesante
(Ansaldo), meccanica (FIAT, Lancia, Alfa Romeo), della gomma (Pirelli), chimica (Montecatini). Una nuova
industria, che svolse una funzione trainante nello sviluppo, fu quella elettrica, la cui produzione aumentò di
44 volte tra il 1896 e il 1913. Un ruolo propulsivo continuava a svolgerlo il settore tessile, che nel 1911 dava
lavoro a circa il 25% degli addetti all’industria, con netta prevalenza di manodopera femminile. Anche in
Italia, come negli altri paesi industrializzati, ci fu un aumento del lavoro femminile in tutti i campi.
Le cifre del decollo. Il decollo industriale del paese si realizzò nel corso dei primi anni del nuovo secolo, nel
contesto delle riforme attuate dai governi guidati da Giovanni Giolitti, di cui vedremo nei prossimi paragrafi.
Fu in questa fase che l’industria assunse un peso crescente nella produzione nazionale: tra il 1896 e il
1913, infatti, il suo contributo alla formazione del prodotto totale salì dal 20% al 26%, mentre quello
dell’agricoltura scese dal 51,2% al 43,2%. Anche il numero degli addetti del settore industriale aumentò,
mentre diminuì quello del settore primario, come si vede nella tabella.
Classi sociali. La trasformazione in paese agricolo-industriale comportò per la società italiana anche altri
mutamenti, a cominciare dall’urbanesimo e dallo sviluppo edilizio delle città. In conseguenza dell’aumento
delle funzioni dello Stato, con la creazione di enti economici e di nuovi ministeri, che si realizzò durante l’età
giolittiana, si verificò una significativa crescita del settore della pubblica amministrazione e dei servizi, e in
generale del ceto medio.
Istruzione. Ci fu inoltre un miglioramento del livello di istruzione. L’analfabetismo scese dal 75% del 1861 al
48% nel 1901 e al 38% nel 1911, anche se con grande disparità fra Nord, Centro e Mezzogiorno.
Aumentarono gli alunni delle scuole elementari (ricordiamo che la legge Coppino del 1877 aveva reso la
scuola elementare obbligatoria e gratuita), di quelle medie e delle Università, sempre con differenze
significative fra le regioni del paese.
Miglioramenti. Lo sviluppo comportò un aumento del reddito nazionale, che tra il 1896 e il 1913 crebbe del
50% e, di conseguenza, del reddito medio degli italiani, che crebbe del 33%: questo significò a sua volta
l’aumento dei consumi e dei risparmi. Grazie al miglioramento economico, con il nuovo secolo, come negli
altri paesi industrializzati europei, iniziò a modificarsi lo stile di vita, da cui erano escluse le classi più
povere, ma che riguardava oltre ai ceti borghesi anche quelli intermedi. Per l’Italia – come per altri paesi
europei – questo fu il periodo che sarà detto della belle époque, fatto anche di spensieratezza e divertimenti.
Mezzogiorno ed emigrazione. Non per tutti, come si è detto, poiché l’Italia rimaneva un paese povero.
L’industrializzazione si concentrò infatti in Piemonte, Lombardia e Liguria, in alcune aree di Veneto, EmiliaRomagna, Toscana, Marche e non coinvolse quelle meridionali: il decollo industriale contribuì anzi ad
accentuare la distanza fra Nord e Sud del paese e a rendere endemica la questione meridionale. I
provvedimenti protezionistici gettarono infatti il Mezzogiorno in una crisi gravissima: le popolazioni del Sud,
costrette ad acquistare a prezzi elevati i prodotti dell’industria e a vendere a prezzo basso i propri prodotti
agricoli, pagarono i costi dell’industrializzazione del paese. Molti contadini, costretti dalla miseria, dovettero
scegliere la strada dell’emigrazione. Proprio l’emigrazione, che comportò perdite di vite umane e sofferenze,
diede d’altro canto un contributo rilevante allo sviluppo economico italiano, grazie ai denari (rimesse) che gli
emigranti mandavano ai parenti rimasti in patria.
Nascita del Partito socialista
Organismi operai. Conseguenza dell’industrializzazione fu, come per le altre nazioni, la nascita e la crescita
delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio e contadino. Il processo di formazione del
Partito socialista italiano – nel quale una componente significativa fu quella contadina della Pianura Padana
– fu lungo e passò per il distacco dagli anarchici, le cui idee avevano avuto ampia diffusione in alcune zone
della penisola.
Diffusione del socialismo. Nel corso degli anni Ottanta iniziò ad affermarsi il socialismo marxista e
apparvero le prime traduzioni dei testi di Marx ed Engels: un ruolo importante fu svolto dal filosofo Antonio
Labriola, professore all’Università di Roma, che fu il fondatore del marxismo teorico in Italia. Decisivi per la
formazione di nuovi organismi e quindi per la loro aggregazione – oltre alla spinta proveniente dalla nascita
della II Internazionale – furono i moti sociali scoppiati nel corso degli anni Ottanta in Lombardia, in
Piemonte e in Emilia-Romagna, e, nel 1891, in Sicilia. Si ebbero in questi anni diverse esperienze: Andrea
Costa, abbandonata la militanza anarchica, fondò il Partito socialista rivoluzionario di Romagna (1881) e
divenne nel 1882 il primo deputato socialista; a Milano nacque il Partito operaio italiano (1882), che ebbe
suo riferimento nel giornale «La Plebe»; sempre a Milano Filippo Turati con Anna Kuliscioff diede vita alla
Lega socialista milanese, finalizzata a unificare le diverse componenti socialiste, e fondò la rivista «Critica
sociale», per il dibattito teorico e politico (1891). A Milano nacque la prima Camera del lavoro (1891),
organismo a carattere sindacale che si diffuse rapidamente in molte città.
Programma del PSI. Nel giugno 1892 i delegati di numerose associazioni operaie e contadine provenienti
da tutta Italia si riunirono a Genova e costituirono il Partito dei lavoratori italiani, divenuto al congresso del
1895 a Parma Partito socialista italiano (PSI). Il suo programma era, secondo le idee di Marx ed Engels, di
raggiungere l’obiettivo dell’emancipazione dal capitalismo e della realizzazione del socialismo attraverso –
come si affermava – la «lotta di mestieri per il miglioramento immediato della vita operaia» e la «lotta più
ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche ecc.)». Il nuovo
partito, che fu il primo partito politico moderno italiano, nasceva sotto l’influenza della socialdemocrazia
tedesca, sia per la scelta di partecipare alla lotta politica e parlamentare, sia per la struttura organizzativa,
articolata ed estesa su tutto il territorio nazionale, nella quale un ruolo importante era svolto dalla
propaganda (dal 1896 il PSI ebbe un proprio quotidiano, «Avanti!»). Al suo interno si contrasteranno, come
vedremo, posizioni radicali e riformiste, così come accadde nel movimento sindacale.
Da Crispi a Giolitti
Governo Crispi. Dopo la morte di Depretis, nel luglio 1887 divenne presidente del Consiglio il ministro
dell’Interno Francesco Crispi (1818-1901), che accentuò la sua politica antifrancese, della quale era convinto
fautore re Umberto I (1878-1900). Rinnovò la Triplice Alleanza con Germania e Impero austro-ungarico, a
cui Depretis aveva aderito in reazione all’occupazione francese della Tunisia (1882), e proseguì le
operazioni di conquista coloniale avviate in Africa orientale. Dopo l’acquisto della baia di Assab sul Mar
Rosso e l’occupazione del porto di Massaua (1885), il tentativo di annettere l’entroterra era stato fermato a
Dogali, in Eritrea, dove erano stati uccisi 500 soldati (1887). Crispi, convinto della necessità di una politica
espansionista per l’Italia e con l’obiettivo di ristabilire il prestigio italiano dopo la sconfitta, riprese il
programma di Depretis, istituendo la colonia dell’Eritrea (1890) e iniziando la penetrazione in Somalia (più
tardi divenuta colonia, 1905). In politica interna, Crispi portò avanti l’opera di costruzione dello Stato unitario,
con riforme dell’apparato centrale e periferico. Fu varato il codice penale elaborato dal ministro di Grazia e
Giustizia Giuseppe Zanardelli, che aboliva la pena di morte e consentiva la libertà di sciopero (1889), furono
perfezionati gli strumenti di prevenzione e di controllo e resa elettiva la carica di sindaco nei comuni
capoluoghi di provincia.
Primo governo Giolitti. Costretto Crispi alle dimissioni per le difficoltà finanziarie conseguenti all’aumento
delle spese militari – per le quali fu accusato dai suoi oppositori di “megalomania” –, nel 1892 divenne
presidente del Consiglio il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928), già ministro del Tesoro, il primo
estraneo per età all’esperienza risorgimentale. Liberale di sinistra, si distanziava dalla politica imperialista
crispina e dall’atteggiamento di chiusura nei confronti delle lotte dei lavoratori. Ritenendo infatti che
l’organizzazione sindacale e politica del movimento operaio fosse un fatto positivo, Giolitti non ostacolò la
nascita del Partito socialista e delle Camere del lavoro, né intervenne – nonostante le pressioni del re –
per reprimere i moti dei Fasci siciliani, un movimento di protesta formatosi in diverse parti dell’isola da
contadini, braccianti, mezzadri e, a seconda delle località, da minatori, artigiani, piccoli commercianti, piccoli
proprietari, con una significativa presenza di donne.
Scandalo della Banca romana. Il suo governo fu però travolto dallo scandalo della Banca romana,
accusata da una commissione di inchiesta di irregolarità contabili, che Giolitti avrebbe coperto quando era
ministro del Tesoro e Crispi capo del governo. Di fronte alla crisi in cui era precipitato il paese per la
questione morale e il perseverare di agitazioni sociali, anche se le inchieste che si susseguirono colpirono
maggiormente Crispi, Giolitti fu costretto a dimettersi (novembre 1893) e a fuggire in Svizzera per evitare
l’arresto. Lo scandalo produsse tuttavia l’effetto di accelerare la riforma del sistema bancario, che era stata
presentata da Giolitti stesso: fu creata la Banca d’Italia con la funzione di principale istituto di emissione
delle banconote e di controllo sugli altri istituti (Banco di Napoli e Banco di Sicilia) che ne avevano ancora la
prerogativa (1893).
Secondo governo Crispi. Tornato al potere, nella convinzione che le lotte sociali costituissero un pericolo
per la sicurezza della nazione, Crispi represse duramente i Fasci siciliani, decretando lo stato d’assedio
nell’isola, intervenne contro i movimenti anarchici scoppiati per solidarietà con i Fasci in Lunigiana (tra la
Toscana e la Liguria), varò leggi antianarchiche, sciolse il neonato Partito socialista e riprese gli obiettivi di
politica di potenza. In seguito alla tensione nei rapporti con l’Etiopia, confinante con l’Eritrea, mandò un
corpo di spedizione per costringere il negus (imperatore) Menelik ad accettare il protettorato italiano:
l’esercito fu fermato e sconfitto ad Adua (1° marzo 1896), dove rimasero uccisi 6000 soldati. Si trattò della
più grave disfatta di una nazione europea in Africa, che colpì profondamente il paese. Accusato di aver
mandato l’esercito allo sbaraglio, Crispi fu costretto alle dimissioni, terminando così la propria carriera
politica.
Progetti conservatori. La linea politica da lui espressa, sia per le mire imperialiste, sia per l’uso della forza
nei confronti delle agitazioni popolari, rimaneva tuttavia persistente in diversi ambienti e nella corte: Umberto
I e la moglie, la regina Margherita di Savoia, di fronte all’acutizzarsi della questione sociale e al diffondersi
delle associazioni operaie e contadine assunsero posizioni sempre più conservatrici. Lungo questa direzione
e nell’obiettivo di fermare quell’avanzata delle masse (“le folle”) che ormai stava avvenendo in tutti i paesi
industrializzati, si formò un fronte ostile alla democrazia parlamentare e favorevole ad accrescere il ruolo
della monarchia. Sidney Sonnino, più volte ministro nei dicasteri economici e finanziari, in un articolo del
1897, sostenendo un’interpretazione ristretta dello Statuto albertino (la Costituzione concessa nel marzo
1848 e poi estesa a tutto il Regno), propose di tornare a dare ampi poteri alla Corona e rendere l’esecutivo
responsabile di fronte al re e non al Parlamento.
Crisi di fine secolo. Gli studiosi hanno parlato per questi anni di “crisi di fine secolo”, la cui fase culminante
fu nel 1898, quando, di fronte all’esplosione di tumulti popolari in tutta Italia a seguito del rincaro del pane,
si determinò un netto contrasto tra una parte politica retriva e reazionaria e una più aperta e contraria a
provvedimenti repressivi. Contro i lavoratori e i cittadini che manifestavano a Milano, il governo, guidato da
Antonio di Rudinì, inviò l’esercito che sparò provocando un’ottantina di morti e centinaia di feriti, cui
seguirono arresti e condanne di militanti, deputati e giornalisti socialisti, repubblicani, radicali e cattolici. Il
generale Luigi Pelloux, a capo di un nuovo governo, varò provvedimenti eccezionali contro la libertà di
sciopero, di stampa, di associazione, nei confronti dei quali si formò in Parlamento un vasto schieramento di
opposizione.
Svolta liberale. Mentre le elezioni del giugno 1900 segnavano la sconfitta dei progetti di Pelloux, con la
crescita dei deputati dell’Estrema sinistra (96, di cui 33 socialisti), la crisi politica e il tentativo autoritario si
chiusero di fronte a un drammatico evento: l’uccisione a Monza di Umberto I il 29 luglio 1900 a opera
dell’anarchico Gaetano Bresci venuto in Italia dall’America per vendicare i morti del ’98. «Il “partito di corte”
raccolto intorno a Umberto I e alla regina Margherita – ha scritto lo storico Francesco Barbagallo –, punto di
coagulo delle diverse tendenze autoritarie, si sarebbe dissolto con l’ascesa al trono del giovane Vittorio
Emanuele III» (1900-1946). La svolta liberale attuata dal nuovo re vide protagonista Giovanni Giolitti,
prima come ministro dell’Interno nel governo presieduto da Zanardelli (1901), dove svolse una funzione
predominante, poi come presidente del Consiglio quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914: un periodo che
gli storici hanno definito età giolittiana.
L’età giolittiana
Programma di Giolitti. Il programma politico di Giolitti, come già aveva dimostrato nel primo governo, era
assai lontano da quello di Crispi e di quanti avevano mirato a soluzioni reazionarie. Lo statista piemontese
aveva la consapevolezza dei cambiamenti profondi avvenuti nel paese e di quel «moto ascendente delle
classi operaie» – come scrisse nelle Memorie della mia vita – «comune a tutti i paesi civili», di cui lo Stato
liberale doveva prendere atto: le organizzazioni sindacali e politiche, il Partito socialista, i movimenti che
stavano acquistando consistenza, come quello cattolico, dovevano essere inseriti nelle istituzioni ed evitare
che ne venissero messi fuori o contro. Tentativo concreto di coinvolgere nuove forze politiche fu l’invito
rivolto nel 1903 a Filippo Turati perché il PSI entrasse nell’esecutivo: ma questo non fu accettato. Quella
elaborata da Giolitti fu una strategia politica – come ha sottolineato Barbagallo – volta a «coniugare sviluppo
produttivo, democrazia economica e riforme sociali». Gli anni dominati dalla sua personalità furono infatti
quelli del decollo industriale e dell’avvio della modernizzazione del paese, favoriti dalle riforme e dalle
trasformazioni introdotte, anche se non furono esenti da contraddizioni e forti contrasti. I governi guidati da
Giolitti furono tre: 1903-1905, 1906-1909, 1911-1914.
Riforme. Nel corso dei primi 15 anni del secolo, oltre ai miglioramenti apportati alle strutture, con il
potenziamento di opere pubbliche e l’estensione della rete ferroviaria (come si vede dalle carte), furono
varate importanti riforme sul piano economico e finanziario: la nazionalizzazione delle ferrovie (1905), la
conversione della rendita nazionale, ovvero la riduzione degli interessi sui titoli del debito pubblico,
provvedimenti a sostegno delle industrie automobilistiche, siderurgiche, tessili. Innovazioni si ebbero anche
in campo scolastico – grazie alla spinta proveniente dal movimento degli insegnanti – con la legge DaneoCredaro (1911), che prolungò l’obbligo scolastico e avocò allo Stato la gestione delle scuole elementari delle
campagne.
Politica per il Mezzogiorno. Per quanto riguardò il Mezzogiorno, oltre agli sgravi fiscali per i ceti agricoli,
furono varate legislazioni speciali per creare opere pubbliche in Puglia, Sicilia, Calabria, Basilicata, e per la
realizzazione di un complesso siderurgico a Napoli, ma le condizioni delle campagne non ebbero sostanziali
miglioramenti e soprattutto non fu affrontata organicamente una riforma agraria. Per quanto si fosse
determinata una maggiore attenzione e fosse stata promossa un’inchiesta sulle condizioni dei contadini
meridionali, tuttavia la situazione del Mezzogiorno rimase in tutta la sua gravità: questa sarà una delle
accuse maggiori che verrà rivolta a Giolitti sia dai suoi oppositori politici, sia successivamente dagli studiosi.
Gaetano Salvemini, in un opuscolo dal significativo titolo Il ministro della malavita (1910), lo accusò
esplicitamente di aver «considerato il Mezzogiorno come terra di conquista» e di aver fondato «la propria
potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno».
Legislazione del lavoro. Il settore dove fu più significativo l’intervento dei governi giolittiani fu quello della
legislazione nel campo sociale, che introdusse importanti innovazioni in materia di miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro: furono infatti emanati provvedimenti a tutela dell’invalidità, della vecchiaia e
degli infortuni sul lavoro, di limitazione dell’orario di lavoro (venne introdotto il riposo festivo), di
regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, del lavoro notturno e nelle industrie più a rischio per
la salute dei lavoratori. Non si realizzò il progetto di monopolizzazione delle assicurazioni sulla vita, fino ad
allora gestite da società private, e fu, invece, costituito l’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA) (1912).
Riforma elettorale, 1912. Il maggior risultato degli intenti democratici di Giolitti e, al tempo stesso,
conseguenza dell’evoluzione del quadro politico del paese fu l’introduzione del suffragio elettorale
maschile nel maggio del 1912, con il quale il diritto di voto venne esteso a tutti i cittadini maschi, anche
analfabeti, che avevano compiuto il trentesimo anno d’età e ai ventunenni che avevano prestato servizio di
leva e avevano i requisiti della precedente legge. Si trattò di una svolta nella vita politica italiana poiché
l’elettorato passava dal 9,5% al 24% della popolazione.
Lotte sociali, partiti e movimenti politici
Scioperi. Nonostante lo sviluppo economico del paese e le riforme varate, questi anni furono segnati da un
notevole aumento degli scioperi, come si vede nella tabella. Gli scioperi coinvolsero braccianti e mezzadri
nella Bassa Padana, contadini meridionali, operai delle industrie, lavoratori delle ferrovie, impiegati. Non
mancarono scontri con l’esercito ed eccidi, come quello dei minatori in sciopero a Buggerru, in Sardegna, nel
settembre 1904: in loro solidarietà la Camera del lavoro di Milano indisse il primo sciopero generale, che si
estese da tutto il Centro-Nord alle campagne meridionali.
Nascita di sindacati. Si costituirono sindacati di categoria e federazioni nazionali in tutti i settori. Nel 1901
nacque a Bologna la Federazione nazionale dei lavoratori della terra, che sarà diretta per oltre vent’anni da
una donna, Argentina Altobelli, e nel 1906 fu costituita a Milano la Confederazione generale del lavoro
(CGdL), per il coordinamento centralizzato delle agitazioni e delle attività. Nelle organizzazioni sindacali si
determinarono scontri tra riformisti e sindacalisti rivoluzionari (il cui ispiratore era, come si ricorderà,
Georges Sorel), sostenitori di lotte a oltranza e non disposti a mediazioni. Sul fronte padronale nacquero la
Confederazione generale dell’industria (1910) e la Confederazione generale dell’agricoltura (1911).
PSI. Anche il Partito socialista fu segnato da forti contrasti al proprio interno e dalla divisione fra riformisti e
intransigenti, non disponibili alla collaborazione con la borghesia: il rafforzamento di questi ultimi lo portò a
non appoggiare e anzi a contrastare l’azione riformatrice di Giolitti, a cominciare dal rifiuto di partecipare al
governo. Il dibattito politico fu assai aspro e vide il prevalere dell’una o dell’altra corrente, con conseguenti
espulsioni delle fazioni sconfitte. Nel 1908 i sindacalisti-rivoluzionari lasciarono il partito e i riformisti ne
riconquistarono il controllo. Successivamente, si affermò la corrente intransigente rivoluzionaria, tra i cui
esponenti era Benito Mussolini (1883-1945), che al congresso del 1912 condusse una dura battaglia
contro la minoranza della corrente riformista (così detta di destra), che aveva rinnegato l’obiettivo della
conquista del potere da parte del proletariato, sostenendo che il movimento operaio si dovesse inserire nello
Stato liberale: questa fu espulsa e diede vita al Partito socialista riformista italiano; mentre i riformisti
guidati da Turati rimasero in posizione minoritaria. Nominato direttore dell’«Avanti!», Mussolini continuò a
portare avanti la polemica politica contro il moderatismo del partito e dei sindacati. Nonostante i contrasti, in
questi anni il PSI conobbe una costante crescita degli iscritti e un sempre maggior radicamento nelle città,
che si tradusse anche in termini elettorali con la conquista di amministrazioni comunali, come quelle di
Milano e Bologna, e nell’aumento dei suffragi a livello nazionale.
I cattolici. Nel contesto delle evoluzioni politiche di questi anni, più complessa fu la nascita di un partito dei
cattolici, ai quali, come si ricorderà, Pio IX aveva fatto divieto di partecipare alle elezioni (non expedit,
1874). Mentre i cattolici intransigenti erano organizzati a livello nazionale nell’Opera dei congressi, fu sulla
spinta della Rerum novarum che, seppure in ritardo rispetto ad altri paesi europei, iniziò a porsi l’esigenza di
una diversa presenza dei cattolici e di una maggiore attenzione ai problemi sociali e al mondo del lavoro.
Democrazia cristiana. Su posizioni distanti da quelle conservatrici, si formò il movimento della democrazia
cristiana con l’obiettivo di promuovere iniziative di carattere sociale e una più incisiva partecipazione politica
dei cattolici alla vita del paese: ne furono principali esponenti il sacerdote marchigiano Romolo Murri, che
fondò la rivista «Cultura sociale» (1898) e in seguito costituì la Lega democratica nazionale (1905), e
Giuseppe Toniolo, professore di economia, che diede vita a Padova all’Unione cattolici per gli studi sociali
(1894). A partire dalla Lombardia e dal Veneto cominciarono poi a sorgere le Leghe operaie e contadine.
Sul piano filosofico e ideale nacque il modernismo, movimento diffuso a livello europeo per promuovere il
rinnovamento della Chiesa e della sua dottrina. Basato sul principio della separazione fra scienza e fede e
della libertà nella vita religiosa, ebbe tra i suoi maggiori esponenti il sacerdote Ernesto Buonaiuti, direttore
di riviste di studi teologici, per il quale, a differenza di Murri, i cattolici non dovevano partecipare alla vita
pubblica.
Ruolo del Vaticano. Da parte della Chiesa e del successore di Leone XIII, Pio X (Giuseppe Melchiorre
Sarto, 1903-1914), fu mantenuta una netta opposizione alla formazione di un partito autonomo dei cattolici,
ma, al tempo stesso, di fronte alla crescita del movimento operaio e socialista, si iniziò ad attenuare il non
expedit, consentendo ai cattolici di appoggiare candidati conservatori in alcuni collegi in occasione delle
elezioni del 1904 e del 1909. Nel campo organizzativo Pio X sciolse l’Opera dei congressi (1904) e la
riorganizzò con una maggiore dipendenza dai vescovi, costituendo l’Unione popolare, l’Unione economicosociale e l’Unione elettorale e, più avanti, la Gioventù cattolica e l’Unione delle donne. Nei confronti delle
esperienze politiche che tendevano a porsi fuori dalla Chiesa il papa assunse un atteggiamento fermamente
censorio: Murri fu sospeso a divinis (cioè dall’esercizio sacerdotale); nel 1909, quando venne eletto alla
Camera, dove si schierò nelle fila dei radicali, fu scomunicato; contro il modernismo il papa emanò
l’enciclica di condanna Pascendi (1907) e impose il giuramento antimodernista ai sacerdoti impegnati
nell’insegnamento. Una diversa posizione fu assunta dal prete siciliano don Luigi Sturzo, che era contrario
a un movimento di democrazia cristiana osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche e che obbedì alle
ingiunzioni pontificie, in attesa che si creassero le condizioni per la nascita di un partito cattolico, come
avverrà dopo la guerra mondiale.
Nazionalisti. Un movimento del tutto nuovo nel panorama politico italiano fu quello del nazionalismo, nato
inizialmente a fine Ottocento sul piano culturale con la formazione di riviste e associazioni in tutto il paese. Ai
miti di superiorità e di affermazione della nazione attraverso la forza, si accompagnarono l’odio nei confronti
della democrazia e l’ostilità sia contro i socialisti sia contro la classe dirigente liberale: per i nazionalisti
quella che veniva ritenuta la «viltà della presente ora nazionale» non poteva essere riscattata che da una
politica espansionista. L’Italia doveva ottenere il posto che le spettava nella politica internazionale e che i
suoi governi (Giolitti in primo luogo) non erano in grado di farle raggiungere. Attorno a questi temi si
unificarono le diverse esperienze con la costituzione a Firenze dell’Associazione nazionalista italiana
(ANI) (1910), che ebbe tra i principali promotori Enrico Corradini. Nel corso di successivi congressi, fra il
1912 e il 1913, dall’ANI – che non divenne un partito vero e proprio – uscirono le componenti democratiche e
liberali. Pur rimanendo una forza politica minore, l’Associazione nazionalista divenne punto di riferimento per
quanti ritenevano il sistema liberale un limite all’espansione del paese e alla costruzione di uno Stato forte.
La crisi del sistema giolittiano
Contro Giolitti. Il nazionalismo costituì un nucleo significativo dell’area sempre più estesa di opinione
pubblica e di intellettuali ostile a Giolitti, ritenuto l’espressione di quella che con disprezzo veniva chiamata
«Italietta», accusato per i suoi metodi di governo e per l’incapacità di fare una politica in grande. Le
numerose esperienze letterarie e artistiche nate nei primi anni del Novecento furono fondamentalmente
antigiolittiane e considerarono come nemico da combattere tanto la sua figura politica, quanto, più in
generale, il socialismo, la democrazia, i liberali, il movimento operaio. Questo fu un periodo di grande
vivacità culturale e fu caratterizzato da esperienze di avanguardia e di rottura con il passato, le quali, nel
voler distruggere la forma, annientavano tutto quanto riguardava il presente. Così fecero i futuristi, che,
oltre a dettare nuove regole estetiche, lanciarono un Manifesto – di cui fu autore il fondatore del movimento,
Filippo Tommaso Marinetti – per dichiarare la loro posizione politica e distruttiva, al punto da «glorificare» la
guerra come «sola igiene del mondo» (1909).
Guerra di Libia. Il composito fronte antigiolittiano – di cui erano parte oltre agli intellettuali, ai nazionalisti e
ai socialisti rivoluzionari, significative forze economiche e i maggiori quotidiani italiani – subì una
radicalizzazione con l’impresa di Libia, che segnò una svolta nella politica interna e l’inizio della crisi
dell’equilibrio creato da Giolitti. Come si è visto, la rivolta dei Giovani turchi e la crisi dell’Impero ottomano
avevano lasciato spazio alle mire espansioniste europee: dopo l’occupazione francese del Marocco (1911),
si erano create le condizioni anche per l’Italia per avviare la conquista delle due regioni della Tripolitania e
della Cirenaica. A favore dell’impresa premevano gruppi industriali e finanziari, che facevano capo
soprattutto alla Ban-ca commerciale e al Banco di Roma, legato al Vaticano, e ampi settori dell’opinione
pubblica: un ruolo importante nella diffusione dei miti imperialisti fu svolto dalla stampa quotidiana e dai
letterati. Sul «Corriere della Sera», il quotidiano a maggiore diffusione, Gabriele D’Annunzio esaltava la
conquista con le sue Canzoni delle gesta d’oltremare; sulla «Tribuna», Giovanni Pascoli scrisse un articolo
dal retorico titolo La grande Proletaria si è mossa, in cui rivendicava per l’Italia il «dovere di contribuire per la
sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli» e di conquistare terre per dare lavoro ai «suoi figli»,
finora costretti a emigrare in paesi ostili.
Limiti dell’impresa. Iniziata nel settembre 1911, la guerra si concluse con il trattato di Losanna (18 ottobre
1912), con il quale la Turchia accettava la sovranità italiana sulle regioni di Tripolitania e Cirenaica (che
riprendevano l’antico nome romano di Libia) e l’Italia si impegnava a lasciare alcune isole del Dodecaneso
nell’Egeo, occupate nella primavera 1912. In realtà, il controllo si limitò alle coste, mentre nelle zone interne
prevalse la guerriglia delle popolazioni arabe che sarebbe stata sconfitta con violenza solo nei primi anni
Trenta. La Libia, poi, non si rivelò così fertile come la propaganda coloniale faceva credere: Salvemini la
definì «uno scatolone di sabbia». L’impresa coloniale portò ad accrescere l’esaltazione militarista e
imperialista e a rafforzare tra la borghesia posizioni nazionaliste. Da questa fase si impose sempre di più
nella vita politica italiana l’Associazione nazionalista italiana, che, grazie anche all’impegno finanziario di
industriali metallurgici, di armatori e zuccherieri, favorevoli alla politica protezionista e imperialista di cui
erano fautori i nazionalisti, aumentò i propri consensi e ampliò i propri mezzi di propaganda.
Elezioni del 1913. La crisi definitiva del sistema giolittiano avvenne in seguito alle elezioni del 26 ottobre
1913. Queste furono precedute da un accordo tra Giolitti e Vincenzo Ottorino Gentiloni, presidente
dell’Unione elettorale cattolica, in base al quale i cattolici avrebbero votato per i candidati giolittiani che si
impegnavano a non appoggiare in Parlamento progetti non voluti dalla Chiesa, come il divorzio e l’abolizione
dell’insegnamento religioso nella scuola: lo scopo era di inglobare i cattolici nel sistema politico e, nel
contempo, di contrastare l’avanzata dei socialisti. Risultarono eletti 304 liberali, 52 socialisti, 13 socialisti
riformisti, 17 repubblicani, 73 radicali, 8 socialisti indipendenti, 20 cattolici, 6 nazionalisti. Le elezioni
segnavano un’avanzata della sinistra e soprattutto, rispetto a un’apparente stabilità dei liberali, una
significativa presenza dei cattolici: dei deputati liberali, infatti, circa la metà aveva contratto il patto Gentiloni
ed era stata eletta con i loro voti. Non c’era più, quindi, la maggioranza che sosteneva Giolitti: con le sue
dimissioni, nel marzo 1914, e la formazione del governo guidato dal liberale antigiolittiano Antonio Salandra
finiva l’età giolittiana.
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