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SENTENZE IN SANITÀ – CORTE DI CASSAZIONE
CASSAZIONE PENALE - Sezione IV - sentenza n. 38127 del 27 ottobre 2010
FUNZIONE DIFENSIVA DELLA CARTELLA CLINICA
Talora, al fine difensivo, quanto riportato nella cartella clinica può avere scarso significato poiché le indicazioni temporali in essa contenute possono rivestire carattere puramente indicativo, specialmente laddove non sia possibile ritenere che sulla stessa sia stata riportata fedelmente la sequenza temporale degli
avvenimenti in considerazione di una emergenza, quale evento in contrasto con la memorizzazione, orologio alla mano, di ogni singolo segmento degli atti compiuti dai sanitari.
omissis
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 6.10.2009 la Corte di Appello di Cagliari confermava quella emessa in data 24.10.2007 dal G.U.P. del Tribunale di Cagliari che, all'esito del giudizio abbreviato, aveva
condannato A.C. alla pena di un anno di reclusione nonché al risarcimento dei danni e spese in
favore delle costituite parti civili, essendo stato riconosciuto colpevole del delitto di omicidio
colposo in danno di D.F.D..
Il fatto, come ricostruito dall'impugnata sentenza.
L'X. D.F.D. entrò in coma presso la clinica otorinolaringoiatrica dell'ospedale X. poco prima di
essere sottoposto a intervento di microchirurgia laringea.
Il paziente morì il X. presso il Centro di Rianimazione dell'ospedale X., senza aver ripreso conoscenza.
L'equipe medica che doveva eseguire l'intervento programmato di microchirurgia era costituita
dal dr. A.C. in qualità di chirurgo otorinolaringoiatra e dal dr. G.I. in qualità di anestesista.
Secondo il consulente del pubblico ministero, prof.ssa T. C., la situazione del paziente, nota
all'anestesista perché riscontrata nella visita preoperatoria e riportata nella cartella anestesiologica, poteva far prevedere una intubazione difficile ma si doveva escludere che la tracheotomia
fosse stata eseguita in emergenza, cioè immediatamente dopo la comparsa dell'impossibilità a
ventilare il paziente che in quel momento era incapace di respirare spontaneamente perché la
sua muscolatura era paralizzata per la somministrazione del farmaco miorilassante.
Il consulente del PM aveva ritenuto che il quadro clinico lasciava supporre una intubazione difficile (Mallampati 2-3, collo corto, obesità) e che l'anestesista, avendo di fronte un paziente non
intubabile e non ventilabile, non aveva utilizzato presidi alternativi per assicurare la ventilazione
e l'ossigenazione, ne aveva messo in atto i presidi terapeutici consigliati dalle linee guida della
SIAART. Secondo il CT, in conclusione, l'anestesista aveva chiesto al chirurgo specialista in
otorinolaringoiatria di eseguire una tracheotomia di urgenza, che non era stata eseguita imme-
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diatamente, ma solo dopo diversi minuti, all'arrivo in sala operatoria del dott. P., collega otorinolaringoiatra.
Era quindi subentrata una insufficienza respiratoria grave, con comparsa di ipossia/anossia e
conseguente insorgenza dell'arresto cardio-circolatorio, avuto riguardo alla sua durata, superiore
a 4-5 minuti, con danno neurologico irreversibile, mentre il cuore avrebbe potuto recuperare
completamente la sua funzionalità, anche dopo molti minuti di anossia.
La durata della gravissima insufficienza respiratoria aveva quindi determinato il decesso del paziente.
La perizia, disposta nelle forme dell'incidente probatorio, confermava essersi trattato di un caso
di intubazione difficile.
La morte del D.F., secondo il collegio peritale, si era articolata in tre fasi fondamentali:
- Cisti laringea diagnosticata il X. meritevole di intervento di exeresi chirurgica, intervento
dell'X. .
- Palese difficoltà di intubazione ed impossibilità di ventilazione del paziente nella fase di induzione dell'anestesia.
- Intervento di tracheotomia effettuato a distanza di 20 minuti circa dall'insorgenza delle complicanze operative.
Il G.U.P., avendo considerato le perplessità dei periti circa la responsabilità addebitabile all' A.,
ravvisava la colpa del chirurgo sotto un duplice profilo, avente incidenza causale sull'evento
morte:
1 - il dr. A. intraprese l'intervento di eliminazione del laringocele con estrema superficialità e
negligenza, senza che fosse stato esattamente verificato lo stato attuale della malformazione laringea, a distanza di ben sei mesi dagli accertamenti che ne avevano consentito la misurazione
in circa 3 cm.;
2 - Ritardò poi in modo inaccettabile di intervenire d'urgenza avuto riguardo alla richiesta di
tracheotomia che l'anestesista gli aveva fatto perentoriamente appena ebbe verificato la condizione di non ventilabilità del paziente.
La Corte territoriale rigettava l'eccezione difensiva di violazione del principio di correlazione tra
accusa e sentenza e riteneva la tempestività della richiesta d'intervento con tracheotomia rivolta
dall'anestesista G. (peraltro giudicato separatamente) all' A., che invece, tergiversò prima di
procedere.
Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione il difensore di fiducia di A.C., deducendo i seguenti motivi.
1. La violazione di legge (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) in relazione agli artt. 521 e 522
c.p.p., ribadendo l'eccezione di nullità della sentenza per violazione del principio di cui all'art.
521 c.p.p., evidenziando come la stessa richiesta di rito abbreviato era stata determinata in base
all'unico addebito mosso all'imputato la cui difesa si era dispiegata avendo ad oggetto esclusivo
la stessa dalla quale esulava qualsivoglia riferimento al momento diagnostico.
2. La violazione di legge e vizio motivazionale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e) in riferimento agli artt. 40, 41 e 589 c.p. e agli artt. 192, 530 e 533 c.p.p., escludendo che la richiesta di
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intervento da parte dell'anestesista al chirurgo, che non poteva agire autonomamente, fosse stata
tempestiva, sulla scorta di quanto affermato dai periti, con la conseguente eliminazione (e comunque la carenza di prova) del rapporto di causalità. A conforto di tanto, richiama, altresì, la
circostanza della somministrazione, da parte del dr. A. alle ore 11,30 (secondo quanto riportato
dalla cartella clinica), per un ipotetico "broncospasmo", del Ventolin, che impiega circa 10 minuti prima di esplicare i propri effetti e che implica l'assenza dei presupposti diagnostici per addivenire all'intervento di tracheotomia la cui richiesta, pertanto, non poteva aver preceduto la
somministrazione del detto farmaco.
È stata depositata una memoria nell'interesse delle parti civili e a sostegno dell'impugnata sentenza.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e va respinto.
Non può sottacersi che tutti i motivi di ricorso ripongono in questa sede le medesime doglianze
rappresentate dinanzi al giudice di appello e da quello disattese, al pari di quanto già fatto dal
GUP, con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile.
Invero, quanto alla censura sub I), il GUP si era già posto il problema, asserendo testualmente
che "principio assolutamente consolidato in giurisprudenza che, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l'aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, a quello
originariamente contestato non implica diversità o immutazione del fatto ai fini dell'obbligo di
contestazione suppletiva ai sensi dell'art. 516 c.p.p. e dell'eventuale ravvisabilità, in carenza di
valida contestazione, del difetto di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi dell'art. 521
c.p.p.".
Infatti, giova ricordare che, in materia, questa Corte ha avuto più volte modo di pronunciarsi
(anche a Sezioni Unite: n. 16 del 19.6.1996, Rv. 205619) con plurime decisioni con le quali è
stato costantemente ribadito l'indirizzo interpretativo che ben può essere sintetizzato nel principio di diritto così espresso: "La mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformità tra i due dati, in modo che possa
derivarne assoluta incertezza sull'oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei
diritti della difesa. Pertanto, l'indagine volta ad accertare la eventuale sussistenza di tale violazione non può esaurirsi in un'analisi comparativa, meramente letterale, tra imputazione e sentenza, dal momento che il contrasto non sarebbe ravvisabile se l'imputato, attraverso l'iter del
processo, fosse comunque venuto in concreto a trovarsi in condizione di difendersi in ordine
all'oggetto della contestazione" (cfr. Cass. pen. Sez. 5, 11.6.1999, n. 7583, Rv. 213645).
Dunque, nel caso in esame, avuto riguardo alla formulazione della contestazione ed alle ragioni
che i giudici del merito hanno posto a base della pronuncia di condanna, non può certo dirsi che
il principio di correlazione tra reato contestato e fatto ritenuto in sentenza sia stato violato, giacché non può discutersi di assoluta incompatibilità tra i due dati, di modo che la pronuncia del
giudice di merito debba ritenersi relativa ad un fatto del tutto nuovo rispetto alla ipotesi di accusa: non vi è dubbio che, nel caso di specie, non ricorre tale violazione posto che tra i due fatti
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sussiste omogeneità in un nesso di specificazione. Nella concreta fattispecie, l'imputazione è
stata, in sentenza, precisata o integrata, con le risultanze degli atti acquisiti al processo, alla cui
assunzione ha partecipato la difesa dell'imputato, e tali integrazioni non hanno certo inciso sugli
elementi costitutivi del reato formalmente contestato: l'imputato stesso, pertanto, è venuto a trovarsi nella condizione di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (al riguardo, cfr., "explurimis", Sez. 4, n. 16900 del 2004, Rv. 228042). Premesso che il potere del giudice di dare in
sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, previsto
dall'art. 521 c.p.p., comma 1, è esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio
abbreviato (Cass. pen. Sez. 6, n. 9213 del 26.9.1996, Rv. 206207), la determinazione di richiedere il detto rito alternativo non altera le suddette considerazioni o vale comunque a ritenere inficiato il diritto di difesa dell'imputato, in quanto la scelta di essere giudicato allo stato degli atti,
non comportando una cristallizzazione del fatto reato nei limiti dell'imputazione, non implica
nemmeno una legittima aspettativa in tal senso dell'imputato.
Conclusivamente, deve escludersi che, nel caso in esame, possa parlarsi di mutamento del fatto,
inteso come una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta
nella quale si riassumeva l'ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad un'incertezza
sull'oggetto della imputazione tale da determinare un reale pregiudizio dei diritti della difesa.
Quanto alla seconda censura, deve rilevarsi come la Corte territoriale ha motivato in ordine anche a tale doglianza già prospettata in sede di appello.
La motivazione addotta dalla Corte territoriale, anche in ordine alla seconda censura relativa al
contestato nesso di causalità tra ritardo ed evento letale, per giunta integrata con quella di primo
grado con la quale si fonde in un unicum inscuidibile, attesa la c.d.
"doppia conforme", s'appalesa congrua, esaustiva e corretta nonché priva di vizi logici o giuridici e, pertanto, insindacabile in questa sede.
A prescindere dalla circostanza, pure evidenziata dalla Corte territoriale, della possibilità per il
Dr. A. di agire autonomamente, senza sollecitazione del Dr. G., dal momento che avrebbe ben
potuto rendersi conto, al pari delle difficoltà di intubazione, come rilevato dai periti, anche della
situazione generale, di certo è stato stigmatizzato l'estremo ritardo con cui la tracheotomia fu
eseguita (dopo le reiterate richieste di intervento di emergenze fatte dal G. all' A.; dopo che l' A.
sollecitò il G. a svegliare il paziente; dopo che l' A. si allontanò dalla sala operatoria per chiedere assistenza all'altro chirurgo dott. Z. che, a sua volta, intervenne successivamente; dopo, infine, che furono predisposti i ferri necessari per la tracheotomia).
Ora, i periti hanno affermato che se la richiesta, non importa quante volte reiterata, fosse stata
avanzata dopo le 11,30, l'intervento di tracheotomia sarebbe stato, in ogni caso, inutile perché
l'evento morte si sarebbe verificato egualmente; a tal riguardo la difesa ha fatto leva sull'orario
apparente sulla cartella clinica (11,30) in cui fu somministrato il Ventolin da parte del Dr. An.
ha sostenuto che la richiesta d'intervento rivolta dal Dr. G. al Dr. A., non poteva che aver seguito il tempo di azione del predetto farmaco stimabile in 5-10 minuti, e quindi fu, essa si, intempestiva.
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Ma anche a tal riguardo la sentenza impugnata fornisce piena spiegazione dell'infondatezza della tesi difensiva, evidenziando lo scarso significato di quanto riportato nella cartella clinica poiché le indicazioni temporali in essa contenute possono aver solo carattere indicativo e non essendo possibile ritenere che la stessa abbia riportato fedelmente la sequenza temporale degli avvenimenti ("attesa l'emergenza che non consentiva di memorizzare, orologio alla mano ogni
singolo segmento degli atti che ogni sanitario andava compiendo"), laddove nel caso di specie la
situazione era precipitata in pochi minuti sicché era necessario far ricorso ad altri elementi probatori per stabilire la tempestività o meno della richiesta d'intervento se fosse stata tempestiva e
non essa stessa tardiva, quali, oltre le sopra richiamate circostanze che precedettero l'intervento
di tracheotomia, le dichiarazioni rese dal dr. An., dalle infermiere U. e D. e da due medici specializzandi che, in modo unanime, hanno esposto che le richieste del G., rivolte all' A. di effettuare l'immediata tracheotomia, seguirono immediatamente i tentativi di intubazione, le difficoltà riscontrate in questa operazione e le difficoltà di ventilazione.
Sottolinea, ancora, la Corte, che la difesa, nella costruzione della sua tesi, non aveva nemmeno
considerato la valenza del viziato approccio diagnostico addebitatale più al chirurgo A. che
all'anestesista; che non era possibile che i due medici operassero senza interagire tra loro e senza aver compiuto una seria diagnosi basandosi su un dato vecchio di circa sei mesi e senza curarsi di predisporre le apparecchiature per una tracheotomia d'urgenza, poiché i ferri necessari
non erano a portata di mano e che le prove dichiarative avevano evidenziato una diversa sequenza degli decadimenti.
Insomma, il giudice a quo ha fornito una ineccepibile spiegazione dell'inattendibilità dell'orario
delle 11,30 riportato sulla cartella clinica e della sua irrilevanza, esaustivamente spiegando come il tergiversare del dr. A. abbia comportato il decorso di un lasso temporale rilevante, se rapportato alla situazione di emergenza in atto valutabile in una quindicina di minuti e che tale spazio temporale si era consumato tutto nelle mani dell'imputato A. che avrebbe potuto invece essere sfruttato per eseguire con successo la tracheotomia la cui effettuazione necessitava di appena cinque minuti, come stimato dai periti. Del resto, il giudice di legittimità non è chiamato a
sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da
condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione,
dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune
esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la
giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Cass.
pen. Sez. Un. 13.12.1995, n. 930, Rv. 203428; Sez. 1, 4.11.1999, n. 12496, Rv. 214567). In tale
prospettiva, con tranquillante uniformità, si afferma che la Corte di Cassazione non può fornire
una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, né può
stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia
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compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento"
(cfr. Cass. pen. Sez. 4, 2.12.2003, n. 4842, Rv.
229369). Ma nessuna delle argomentazioni addotte dal ricorrente, che mirano sostanzialmente a
sollecitare una rivisitazione del materiale probatorio raccolto rappresentando una diversa consecuzione dei fatti già disattesa dal giudice a quo, consentono di ritenere, nei limiti e nei termini
sopra indicati, l'erroneità delle scelte decisionali assunte da quest'ultimo. Consegue il rigetto del
ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese del presente giudizio,
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che liquida in Euro
3.250,00, oltre accessori come per legge.
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