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MAURO BOVE
La conciliazione nel sistema dei mezzi di risoluzione delle controversie civili
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Mezzi autonomi. – 3. Mezzi eteronomi. – 4. Segue: mezzi
giurisdizionali. – 5. La mediazione rivolta alla conciliazione. – 6. La conciliazione
“istituzionalizzata”. – 7. Una riflessione conclusiva.
1. - Ove insorga una controversia giuridica tra due soggetti sul modo di essere o sulla
spettanza di un bene della vita, la via che immediatamente sembra sovvenire per la sua soluzione
appare essere quella del ricorso al giudice dello Stato. Ma in realtà questa via è solo residuale, ben
potendo i litiganti prima (almeno tentare di) battere altre strade, che l’ordinamento mette loro a
disposizione: la strada negoziale pura, quella che porta ad una possibile conciliazione ed infine
l’arbitrato1.
Insomma, il quadro dei mezzi di risoluzione delle controversie civili è nel sistema assai più
complesso. Se, in virtù dell’art. 24, comma 1°, cost., indubbiamente lo Stato ha l’obbligo di
approntare l’apparato della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive, perché
sarebbe assurdo se l’ordinamento si limitasse a riconoscere sul piano sostanziale dette situazioni e
poi non approntasse meccanismi che consentano la loro tutela ove esse vengano poste in crisi, è
anche vero che i singoli non hanno certo l’obbligo di servirsi del pur (necessariamente) disponibile
apparato della giurisdizione statale.
Ciò è vero a certe condizioni ovvero le strade alternative2 sono percorribili nel rispetto di due
limiti. Il primo attiene al diritto che è in contestazione, essendo impossibile evitare il ricorso alla
giustizia statale se sono in gioco diritti indisponibili. Il secondo attiene al tipo di funzione
giurisdizionale che si intende porre fuori gioco, non potendo i privati ricorrere a strumenti
alternativi quando si ha la necessità di ricorrere alla c.d. giurisdizione volontaria3 ovvero quando,
nell’ambito della giurisdizione contenziosa, si ha bisogno della tutela esecutiva.
In altri termini, i c.d. mezzi alternativi sono concepibili solo ove la crisi di cooperazione tra i
privati faccia emergere il bisogno di una tutela dichiarativa e sempre che la controversia non abbia
ad oggetto un diritto indisponibile.
Fatta questa premessa, si tratta ora di soffermarsi sul posto che la conciliazione assume nel
sistema dei mezzi per la soluzione delle controversie civili, compito che implica almeno una
sommaria descrizione di tali mezzi. Essi, in termini descrittivi e generali, si posso distinguere in
mezzi autonomi e mezzi eteronomi4. Inoltre, questi ultimi possono essere di tipo giurisdizionale o di
tipo negoziale.
1
L’arbitrato dovrebbe rappresentare una via del tutto alternativa ed autonoma rispetto alla giustizia statale. Ma non è
escluso che in realtà, nonostante la stipula di una convenzione di arbitrato, la controversia finisca per essere devoluta al
giudice dello Stato. Ciò può accadere dopo la celebrazione del giudizio arbitrale a causa dell’impugnazione del lodo.
Altro è il caso che i litiganti, nonostante l’impegno a percorrere la via arbitrale, investano direttamente il giudice statale,
che sarà obbligato a pronunciare la sentenza nel merito, ove il convenuto non spenda tempestivamente l’eccezione di
patto compromissorio ai sensi dell’art. 819-ter c.p.c.
2
L’espressione è utilizzata in modo generico. È infatti del tutto vero che, se l’arbitrato si presenta come una giustizia
alternativa a quella statale, quando invece i litiganti risolvono il loro dissidio attraverso il contratto siamo propriamente
di fronte, non ad una giustizia alternativa, quanto piuttosto di fronte ad una alternativa alla giustizia: così di recente
LUISO, Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia?, in Il giusto processo civile, 2011, p. 325 ss.
3
Ma in questo caso siamo fuori dal campo di una controversia civile, emergendo piuttosto la necessità di curare
interessi, anche se una simile “cura” può, per un verso, incidere su diritti soggettivi e, per altro verso, far emergere un
contrasto tra opposti interessati.
4
Cfr., per tutti, LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in questa rivista, 2004, p. 1201 ss., spec. p.
1202.
1
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In ognuno di essi si ha un atto di normazione concreta soggettivamente ed oggettivamente
specificato, ossia la sostituzione della norma concreta che già era emersa nel momento in cui era
sorta la situazione giuridica soggettiva in contestazione. Questa non è altro che l’effetto di una
fattispecie prevista da una norma giuridica generale ed astratta, i cui caratteri si sono realizzati in
concreto, effetto che esiste per il solo fatto che appunto in concreto si sono verificati i presupposti
della norma giuridica. Insomma, per fare un solo esempio, il diritto al risarcimento del danno per
responsabilità extracontrattuale nasce in capo a Tizio nei confronti di Caio per il fatto che in
concreto si sono realizzate le condizioni descritte nell’art. 2043 c.c. Altro è poi che, emergendo una
crisi di cooperazione tra i due soggetti, Tizio abbia bisogno di ricorrere ad uno strumento di
soluzione della lite, necessità che porterà in ogni caso, quale che sia lo strumento utilizzato, a porre
un atto di normazione concreta, il quale solo, dopo il suo perfezionamento, sarà la fonte della regola
di condotta a cui le parti dovranno attenersi, non avendo più, a quel punto, la relazione tra le parti la
sua fonte nell’art. 2043 c.c., bensì appunto nell’atto di risoluzione della lite.
I diversi mezzi di risoluzione delle controversie civili si differenziano proprio per il fatto che
gli atti di normazione concreta a cui essi pongono capo non sono giuridicamente identici, avendo
essi diversi regimi giuridici. Non che essi siano diversamente vincolanti o che non possano produrre
analoghi effetti. È che, essendo essi strutturalmente diversificati, sono soggetti a diversificati regimi
giuridici.
Sta all’interprete cogliere queste diversificazioni.
2. - Innanzitutto i privati possono fare da sé, senza ricorrere all’aiuto di nessuno. A questo fine
l’ordinamento mette a loro disposizione lo strumento contrattuale, precisamente quel peculiare
contratto che ha proprio come sua causa giuridica la soluzione di una controversia: la transazione,
disciplinata dagli artt. 1965 ss. c.c.
In questo caso le parti trasformano la controversia giuridica in controversia economica, nel
senso che esse risolvono il conflitto ponendo una norma concreta senza previamente accertare qual
è il diritto nel caso concreto, ma solo valutando gli interessi economici sottostanti. Insomma, il
contratto, anche quando è utilizzato per la soluzione di una controversia, mantiene la sua
caratteristica fondamentale, che sta nell’essere un atto di normazione concreta non condizionato da
una previa operazione di sussunzione giuridica (accertamento) a cui quella normazione debba in
ipotesi aderire.
In sintesi, su un piano logico-descrittivo, l’atto di normazione concreta di tipo negoziale
contiene solo il precetto “deve essere A”, essendo esso il frutto di una volontà che è attenta
unicamente alle convenienze economiche di coloro che lo pongono in essere, ovvero lo strumento
per perseguire i loro fini economici, sempre che l’ordinamento li ritenga meritevoli di tutela.
Ciò significa che il negozio giuridico è qualificabile solo in virtù di norme di costruzione che
lo riguardano direttamente come atto. In altri termini, la legge mette a disposizione dei privati lo
strumento negoziale, prevedendo le ragioni possibili del suo utilizzo 5 nonché le condizioni che
devono essere rispettate affinché la fattispecie-contratto abbia i suoi effetti. All’interno di questi
“paletti” i privati possono giocare le loro carte. Al di fuori di essi il contratto è qualificabile come
invalido, a seconda delle circostanze sub specie di nullità o di annullabilità. Insomma, il negozio
giuridico non è qualificabile come “ingiusto”, tipica qualificabilità, invece, della sentenza, proprio
perché, a differenza della sentenza, in esso non vi è un’operazione di sussunzione giuridica, ossia un
accertamento che potrebbe, in ipotesi, essere affetto da errores in iudicando, in fatto o in diritto.
Se la lite può essere risolta sia mediante un negozio sia mediante una sentenza, solo questa è
propriamente un atto di giustizia, con cui si ripartiscono il torto e la ragione, essendo invece quello
5
Il codice civile prevede tipi contrattuali ed inoltre nell’art. 1322, comma 2°, c.c., dispone che i privati possono
utilizzare il contratto, anche al di là dei “tipi” previsti dalla legge, solo se essi perseguono interessi meritevoli di tutela.
2
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solo un atto con cui le parti superano la lite, senza fissare torti e ragioni, ponendo una norma
concreta che, a prescindere da quali fossero quei torti e quelle ragioni, risulta comunque al
momento conveniente ossia rispondente ai loro interessi economici.
Quanto detto non esclude che la lite possa essere risolta autonomamente dalle parti senza le
reciproche concessioni, di cui è cenno nell’art. 1965 c.c. nel definire il concetto di transazione,
perché, se la soluzione della controversia giuridica rappresenta una causa contrattuale possibile,
evidentemente nulla esclude che i privati possano giungere al risultato sia passando per quelle
reciproche concessione sia evitandole. Senza voler approfondire una discorso che in fondo qui non
interessa, tutto dipende da quanto si ritenga essenziale alla transazione l’elemento strutturale delle
reciproche concessioni.
Se si nega quella essenzialità, evidentemente un contratto come quello ipotizzato rientra pur
sempre nel “tipo” transazione. Se, invece, si parte dal presupposto contrario6, esso è pur sempre
ammissibile nel sistema, non come una transazione, ma certo come un contratto atipico ai sensi
dell’art. 1322, comma 2°, c.c., esprimendo esso pur sempre una causa meritevole di tutela, qual è
appunto la soluzione della lite. Ed allora, in questo secondo caso, si potrà anche parlare
convenzionalmente di un contratto “di accertamento”, come pur è accaduto7, ma con l’avvertenza,
almeno a mio parere, che qui di accertamento in senso tecnico-giuridico non vi è nulla.
A questo proposito bisogna, a mio parere, tenendo presente il quadro normativo vigente,
intendersi sul senso stesso delle parole, non potendosi confondere l’accertamento con la norma
concreta. Un atto di normazione concreta contiene ovviamente un comando soggettivamente ed
oggettivamente specificato, che vincola le parti a cui esso è rivolto8. Poi questo comando può essere
fondato su un accertamento oppure no. Così, se, come abbiamo detto, nel negozio
quell’accertamento svanisce, esso, come vedremo, emerge come elemento essenziale nella sentenza.
Ma non si possono confondere accertamento e comando: quello può, ma non deve necessariamente,
esistere e se esiste si distingue dal comando, che non è accertato, ma è posto come atto di volontà9.
Così, quando in riferimento alla sentenza l’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto
nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, con
ciò la norma descrive il concetto di cosa giudicata in senso sostanziale che si riferisce propriamente
all’accertamento (il giudizio) e non al comando. Perché è in quello, il giudizio appunto, che sta la
stabilità del bene della vita attribuito e non nella conseguente regola di condotta che, proprio in
coerenza con l’accertamento, viene posta nella sentenza. Insomma, la cosa giudicata è il naturale
portato della funzione che nel sistema svolge il sentenziare: quello, primo di comandare, di
attribuire (stabilmente) un bene in contestazione, ossia di accertare il torto e la ragione.
6
Come ritiene una parte della dottrina: cfr. NICOLO’, Il riconoscimento e la transazione nel problema della
rinnovazione del negozio e della novazione dell’obbligazione (1934-1935) ora in Raccolta di scritti, I, Milano, 1980, p.
381 ss., spec. 438; FURNO, Accertamento convenzionale e confessione stragiudiziale (1948), rist. Milano, 1993, p. 54
ss.
7
La teoria del negozio di accertamento risale a BÄHR, Die Anerkennung als Verpflichtungsgrund, Gottinga, 1967.
Essa è stata poi ripresa e discussa in Italia da MESSINA, Contributo alla teoria della confessione, (1902) ora in Scritti
giuridici, III, Milano, 1948, spec. p. 42 ss.; MOSSA, La documentazione del contenuto contrattuale, in Riv. dir. comm.,
1919, I, p. 414 ss.; CARNELUTTI, Documento e negozio giuridico, in Riv. dir. proc. Civ., 1926, I, p. 181 ss.;
CANDIAN, Nuove riflessioni sulle dichiarazioni riproduttive dei negozi giuridici, in Riv. dir. proc. Civ., 1930, I, p. 3
ss.; GIORGIANNI, Il negozio di accertamento, Milano, 1939, passim; FABBRINI, L’accertamento privato, (1960) ora
in Scritti giuridici, I, Milano, 1989, p. 45 ss.; LENER, Attività ricognitiva e accertamento negoziale, Roma, 1970,
passim; FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino, 2002, passim.
8
Ha ragione chi sostiene che la forza del vincolo è identica nel contratto e nella sentenza, ancorché questi atti si
differenzino nei loro rispettivi regimi giuridici: cfr. LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti cit., p.
1202-1203.
9
A mio parere l’espressione “accertamento prescrittivo” è impropria, perché l’accertamento e la prescrizione sono due
attività diverse, peraltro non sempre entrambe esistenti all’interno dell’attività di normazione concreta. Per l’uso di detta
espressione vedi LUISO, Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia? cit., p. 331.
3
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Se, ad esempio, la sentenza contiene la condanna del convenuto a pagare una certa somma di
denaro, la cosa giudicata non si riferisce propriamente al comando di pagamento, ma
all’accertamento del diritto a causa del quale il pagamento è comandato. Se, facendo un altro
esempio, la sentenza annulla un contratto, la cosa giudicata si riferisce propriamente
all’accertamento del diritto all’annullamento e non all’effetto caducatorio che consegue al detto
accertamento o, per essere più precisi, è disposto dal giudice. Il comando di pagamento e l’effetto
caducatorio in sé, ossia isolatamente considerati, non avrebbero alcuna stabilità, potendosi, senza
quell’accertamento che li fonda, al più aversi il fenomeno della cosa giudicata in senso formale,
ossia della stabilità della sentenza come atto al momento dell’esaurimento dei mezzi
d’impugnazione ordinari a disposizione.
Tornando al contratto, in esso manca quell’operazione di sussunzione giuridica
(l’accertamento, appunto) tipica della sentenza, per cui parlare di un contratto di accertamento è del
tutto improprio 10 . Certo, l’ordinamento potrebbe attribuire ai privati il potere di accertare delle
realtà, fattuali e giuridiche, mediante il negozio giuridico. Ma, a parte il fatto che il riconoscimento
di un simile potere privato avrebbe comunque tutt’altro significato rispetto al sentenziare, perché in
ogni caso nel suo esercizio non si potrebbe vedere un atto “di giustizia”, il punto è che un simile
potere non è stato in concreto attribuito ad essi, essendo il contratto, posta la definizione che di esso
fornisce l’art. 1321 c.c. come l’accordo di due o più parti per costituire, regolare od estinguere tra
loro un rapporto giuridico patrimoniale, un atto necessariamente dispositivo di situazioni giuridiche
soggettive. Né certo si potrebbe dire che un potere di accertamento possa essere compreso nel
potere di disporre delle situazioni giuridiche sostanziali, perché tra i due poteri non vi è un rapporto
di meno a più, essendo il potere di accertare un aliud e non un minus rispetto al potere di disporre11.
Quindi, in sintesi, le parti possono risolvere la lite autonomamente mediante l’uso dello
strumento contrattuale, facendosi o meno, a seconda di una loro libera scelta, reciproche
concessioni rispetto alle pretese iniziali. In ciò le parti pongono a se stesse una norma concreta del
tutto svincolata da un’operazione di sussunzione giuridica, ossia da un giudizio col quale,
rapportando l’accaduto ad una norma generale ed astratta che si assume preesistente, si ripartisca il
torto e la ragione. In altri e definitivi termini, la soluzione negoziale non ha sul piano giuridico un
vincitore ed un perdente, proprio perché essa non passa dal giudizio. Né essa è condizionata da un
accertamento, potendo le parti dare al comando il contenuto che ritengono conveniente e non
dovendo certo esse adeguare quel contenuto ad un accertamento.
10
Quanto si dice nel testo, valendo per tutti i contratti, vale anche per quelli che hanno come causa giuridica la
soluzione della lite. L’assunto non è smentito, a mio parere, dal fatto che in certe legislazioni si afferma che la
transazione ha gli effetti della cosa giudicata. Con questa espressione si vuole solo dire che a seguito della transazione è
preclusa la possibilità di tornare a discutere del rapporto giuridico in riferimento al quale essa è intervenuta. Ma non si
vuole, né lo si potrebbe, confondere la cosa giudicata che caratterizza la sentenza con quel peculiare effetto del contratto
di soluzione della lite, che in sé non contiene alcun accertamento. Ed, infatti, il rapporto giuridico costituito con la
transazione ben potrebbe essere travolto da un’impugnativa della transazione stessa, cosa che non è concepibile a fronte
di una sentenza passata in giudicato. Né si può trarre l’idea che nella transazione vi sia un accertamento dai peculiari
motivi di annullabilità di cui agli artt. 1973, 1974 e 1975 c.c., che lungi dall’essere paragonabili ai motivi di
revocazione della sentenza, sono piuttosto una specificazione dell’impugnativa negoziale per errore, dovuta alla
peculiare causa giuridica del contratto di transazione. Se, infatti, la revocazione, come tutti i mezzi d’impugnazione
della sentenza, mira alla modifica del giudizio, previa valutazione di un sintomo di ingiustizia, l’impugnazione della
transazione mira solo a far valere un motivo di invalidità del contratto, che inficia qui la volontà di una delle parti, al
fine della sua eliminazione. Perché la transazione, come tutti gli altri contratti, non è valutabile dall’ordinamento come
giusta o ingiusta al fine di un’eventuale modificazione del suo contenuto, bensì solo come valida o invalida, potendo
essa nel primo caso produrre stabilmente i suoi effetti e dovendo nel secondo caso semplicemente essere eliminata.
11
LIEBMAN, Risoluzione convenzionale del processo, in Riv. dir. proc. Civ., 1932, I, p. 260 ss., spec. p. 281-282;
FURNO, op. cit., p. 18 ss., 37, 103, 114; SANTORO-PASSARELLI, L’accertamento negoziale e la transazione, in
questa rivista, 1956, p. 1 ss., spec. p. 4-5.
4
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3. - I privati, se all’insorgenza della lite non trovano il modo di risolverla autonomamente,
devono rivolgersi a questo fine ad un terzo. Si apre allora lo spettro dei mezzi c.d. eteronomi di
risoluzione delle controversie civili, i quali, se sono sempre caratterizzati dal fatto che il conflitto è
risolto con la posizione di una norma concreta vincolante per le parti posta in essere da un terzo, si
differenziano, però, tra loro per tutta una serie di elementi strutturali ed anche funzionali.
Semplificando, possiamo distinguere mezzi eteronomi di tipo negoziale e mezzi eteronomi di
tipo giurisdizionale e, poi, tra questi ultimi tra attività giurisdizionale dello Stato ed attività
giurisdizionale dei privati.
Mezzo eteronomo di tipo negoziale è l’arbitrato irrituale, disciplinato in termini generali12
dall’art. 808-ter c.p.c. Esso, come ogni forma di arbitrato, si fonda su un accordo con il quale si
producono al livello di ordinamento statale due effetti: uno impediente, per mezzo del quale si
impedisce la pronuncia del giudice statale erroneamente adito per la causa devoluta agli arbitri, ed
uno positivo, che consiste nel fondare l’efficacia vincolante di quello che sarà il responso degli
arbitri, i quali certo non consigliano, ma risolvono la lite ponendo una norma vincolante per le parti,
vincolo che appunto si fonda sulla scelta a monte che le parti stesse hanno fatto nella convenzione
di arbitrato.
Ma, poi, funzionalmente e strutturalmente l’arbitrato irrituale presenta i caratteri di un
fenomeno negoziale e ciò per espressa scelta del legislatore, il quale, nell’art. 808-ter c.p.c. dice che
la determinazione degli arbitri irrituali, lungi dall’essere propriamente una sentenza, è di tipo
contrattuale ed aggiunge che a detto fenomeno non si applicano le norme che il codice detta per
l’arbitrato rituale13. E lo stesso rapporto tra convenzione di arbitrato e responso degli arbitri è da
costruire secondo gli schemi squisitamente negoziali di un arbitraggio (il lodo) applicato al
contratto di transazione (il patto compromissorio).
Ed, allora, i mezzi eteronomi che qui interessa indagare maggiormente sono quelli di tipo
giurisdizionale, per cogliere, ancor meglio di quanto si sia fatto nel precedente paragrafo, i caratteri
distintivi rispetto ai mezzi negoziali. Essi sono caratterizzati dal modo, appunto giurisdizionale di
soluzione della lite.
4. - Il modo giurisdizionale di risoluzione della controversia civile emerge nel momento in cui
un giudice, ossia un terzo rispetto agli interessi rappresentati nella causa, risolve la lite ponendo una
norma concreta che è condizionata dal previo accertamento di quale sia il diritto nel caso concreto.
In ciò noi troviamo il concetto di sentenza, quale atto di normazione concreta che si contrappone al
negozio giuridico.
La sentenza, come il negozio giuridico, pone un comando concreto, ma essa, a differenza del
negozio, pone un comando che non è libero, ma vincolato, in quanto derivato da un’operazione di
sussunzione giuridica, quindi da un accertamento. In altre parole, nella sentenza, a differenza che
nel negozio giuridico, si ha un atto di concretizzazione dell’ordinamento.
12
Vi sono anche delle forme speciali di arbitrato irrituale: così l’arbitrato irrituale disciplinato dagli articoli 412 e 412quater c.p.c. in materia di lavoro. Su questa peculiare figura, che rappresenta un ibrido tra i due modelli generali del
codice di procedura civile (arbitrato rituale ed arbitrato irrituale), vedi, dopo il c.d. collegato lavoro, BORGHESI,
L’arbitrato ai tempi del «collegato lavoro», in www.judicium.it; CANALE, Arbitrato e «collegato lavoro», in Riv. dir.
proc., 2011, p. 566 ss.; AULETTA, Le impugnazioni del lodo nel «Collegato lavoro» (Legge 4 novembre 2010, n. 183),
in Riv. arbitrato, 2010, p. 563 ss.; DELLA PIETRA, Un primo sguardo all’arbitrato del collegato lavoro, in
www.judicium.it e, se vuoi, BOVE, Conciliazione e arbitrato nel collegato lavoro, in questa rivista, 2011, p. 125 ss.,
spec. p. 142 ss.
13
Su tutti questi aspetti, peraltro non pacifici, mi permetto di rinviare a BOVE, Art. 808-ter, in La nuova disciplina
dell’arbitrato, in Le nuove leggi civili commentate a cura di S. Menchini, Padova, 2010, p. 65 ss., ove mi faccio carico
anche delle opinioni contrarie, che vogliono riportare ad una sostanziale unità le figure dell’arbitrato rituale e
dell’arbitrato irrituale.
5
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Anche qui si deve considerare che l’ordinamento si concretizza prima dell’intervento del
giudice. Mantenendo l’esempio già fatto, ovviamente se si verificano i presupposti di cui all’art.
2043 c.c., insorge già solo per questo fatto un diritto al risarcimento del danno di Tizio nei confronti
di Caio, diritto che ben può trovare la sua realizzazione fisiologicamente. Ma se ciò non accade e si
determina una crisi di cooperazione, allora l’interessato, il presunto titolare del diritto, agirà contro
il presunto obbligato ponendo, con la domanda, un’ipotesi di sentenza, comprensiva della
narrazione dei fatti, dell’applicazione a questi della norma giuridica generale ed astratta ed infine
della posizione del comando concreto.
Alla domanda, e nei limiti di essa, il giudice deve rispondere risolvendo tutte le questioni
(rilevanti) poste dall’attore e, quindi, ponendo il comando concreto che regolerà le future condotte
delle parti. La sentenza, come ogni atto di normazione concreta, ha un’efficacia costitutiva, ossia
crea un quid novi, una norma concreta prima inesistente.
Tuttavia, ed è qui la peculiarità della sentenza, essa svolge una funzione dichiarativa, perché,
come prima si accennava, il giudice non pone il comando liberamente, ma lo deriva da
un’operazione di sussunzione giuridica: egli comanda solo dopo aver fissato il modo di essere dei
fatti ed averli sussunti sotto una norma giuridica generale ed astratta o, se si vuole, ponendosi da un
altro punto di vista, aver applicato la norma giuridica ai fatti accertati. Ecco, allora, che nella
sentenza non ci si limita a porre il comando “deve essere A”, ma, ripercorrendo la proposizione
condizionale della norma giuridica generale ed astratta, si dice: “accertato B, deve essere A”. Il
comando non è posto da solo, ma come conseguenza di un accertamento, perché il giudice che lo
pone non persegue un suo fine, come invece fanno i privati nel negoziare, bensì egli persegue in
concreto il fine già posto dal legislatore nella norma generale ed astratta.
Insomma, la legge esplica un ruolo diverso rispetto al negoziare ed al sentenziare. Rispetto al
negozio essa è solo fonte di autorizzazione e di limitazione dell’attività di normazione concreta.
Rispetto alla sentenza la legge è anche questo, ma non solo questo: essa è ciò che deve trovare la
sua concretizzazione. Se è vero che il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.), è anche
vero, però, che solo la sentenza è la legge nel caso concreto14. Da ciò deriva il rilievo per cui la
sentenza, a differenza del negozio, è qualificabile da una duplice serie di norme: quelle che
attengono alla sentenza come atto, la cui violazione ne determina l’invalidità, e quelle che attengono
alla sentenza come giudizio, ossia come accertamento, la cui violazione ne determina l’ingiustizia.
E sempre da questi concetti di fondo, che poi si riducono in buona sostanza a vedere l’ubi consistam
della sentenza nell’essere un “atto di giustizia”, derivano altre conseguenze: l’emergere nella
vicenda giurisdizionale, a differenza di quella negoziale, pur sempre di un vincitore ed un vinto,
ossia un soggetto che aveva ragione nelle sue affermazioni ed un altro che aveva torto, dal che
14
Ecco che, concretizzatosi l’ordinamento nella sentenza, ovviamente uno ius superveniens retroattivo che dovesse
modificare la norma di legge applicata non può interessare le parti della sentenza stessa, perché ormai la norma concreta,
tratta dall’accertamento, è la sola che regge la relazione delle parti. Si è detto che l’analogia tra sentenza e negozio
emerge anche nel dire che pure un contratto di soluzione della lite è insensibile allo ius superveniens retroattivo: così
LUISO, Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia? cit., p. 329. Ora, è vero che un contratto di soluzione della lite
è insensibile allo ius superveniens retroattivo che dovesse modificare la norma generale ed astratta che presiedeva al
rapporto prima in contestazione. Ma ciò accade solo perché quella norma è irrilevante in detto contratto, il quale, non
fondandosi su un’operazione di sussunzione giuridica che l’abbia tenuta presente, non ne ha certo rappresentato una sua
concretizzazione. Insomma, l’irrilevanza dello ius superveniens ha spiegazioni molto diverse a fronte del negozio di
risoluzione della lite e della sentenza. A fronte di quello esso è irrilevante perché è stata resa irrilevante la norma
generale ed astratta, in quanto l’atto di normazione concreta è stato posto in essere prescindendo da essa. A fronte della
sentenza, invece, essendo stato l’atto di normazione concreta posto in essere proprio in applicazione della norma
generale ed astratta, l’irrilevanza di una sua successiva modificazione retroattiva è spiegata solo dal fatto che la
sentenza, essendo un nuovo atto di concretizzazione dell’ordinamento, rompe il nesso tra fattispecie concreta e norma
generale ed astratta. Insomma, qui non si tratta di fare una scelta ideologica, affermando o negando una sorta di
superiorità della sentenza rispetto al contratto, ma si tratta solo di non perdere di vista le inevitabili differenze tra questi
due atti.
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deriva anche la definizione di essa come “mezzo aggiudicativo”, o l’essere la funzione comune a
tutti i rimedi previsti dalla legge avverso la sentenza quella di giungere ad una modifica del
giudizio15 e non solo all’eliminazione dell’atto, come avviene invece nelle impugnative negoziali.
Questo “modo giurisdizionale” di risoluzione delle controversie è tipico sia della giurisdizione
statale sia della giurisdizione privata, ossia dell’arbitrato rituale. E così nell’ambito di queste si ha
anche la vigenza dei principi tipici dell’attività giurisdizionale, scolpiti peraltro nell’art. 111 cost.,
principi il cui rispetto fa ritenere, almeno nell’attuale momento storico, che la formulazione del
giudizio sia quantomeno attendibile. Ci si riferisce al principio del contraddittorio, al principio di
terzietà del giudice ed infine, quale corollario di questo, al principio della domanda, ossia al
principio per cui non sta al giudice, che appunto deve essere al di sopra degli interessi in gioco,
individuare l’oggetto del giudizio stesso.
Tuttavia la giurisdizione statale e la giurisdizione privata si differenziano per il ruolo della
volontà delle parti.
La giustizia dello Stato è fondata sull’imperium16, che si esplica per il solo fatto che una parte
unilateralmente esercita il diritto di azione garantito dall’art. 24, comma 1°, cost. Essa si presenta,
quindi, come attività autoritativa a cui i privati finiscono per essere soggetti, almeno quando uno di
essi decide di ricorrervi e comunque fino a quando questi non decida di rinunciarvi. Da ciò deriva
l’essenzialità del procedimento quale modalità esplicativa della giurisdizione statale, che,
consistendo in un’attività normativamente preorganizzata, attua il principio di legalità nell’ambito
di questa peculiare attività dello Stato. In altri termini un’importante garanzia del privato che si
trova assoggettato al potere giurisdizione dello Stato sta nella prevedibilità del modo in cui quel
potere verrà esercitato in concreto17.
La giustizia privata, invece, è fondata sul e delimitata dal consenso delle parti. Essa si esplica
solo se le parti fanno una scelta concorde in questo senso. Ecco, allora, che nel campo della
giustizia privata evapora la figura del procedimento.
Intendiamoci! Anche nell’arbitrato rituale, come si è già detto, vigono i principi fondamentali
del contraddittorio, della terzietà del giudice e della domanda. Con la conseguenza che un lodo
pronunciato in violazione di questi valori risulta invalido e come tale annullabile18. Ma ciò che non
serve all’arbitrato è l’affermazione per cui detti valori debbano trovare una loro attuazione
attraverso la preorganizzazione normativa dell’attività. Insomma, non serve l’idea del procedimento
quale garanzia dei privati a fronte di un’attività autoritativa dello Stato, perché qui evidentemente
siamo di fronte all’attività di un terzo, che è anch’esso un privato, investito del suo compito per
concorde scelta delle parti. Ed, allora, al più nell’arbitrato si può avere un procedimento
convenzionale, ove le parti fissino le regole per lo svolgimento del giudizio (art. 816-bis, comma 1°,
c.p.c.), con la conseguente, possibile, annullabilità del lodo ove quelle regole siano violate (art. 829,
comma 1°, n. 7) c.p.c.). Ma, per un verso, queste regole non sono evidentemente preorganizzate
normativamente e, per altro verso, esse possono anche mancare, con la conseguenza che gli arbitri,
15
Anche se la tecnica dei mezzi d’impugnazione può essere diversa, dovendo a volte il giudice dell’impugnazione
passare previamente dall’accertamento di un peculiare motivo d’impugnazione: per una più ampia spiegazione di questi
aspetti vedi, se vuoi, BOVE, Lineamenti di diritto processuale civile, Torino, 2009, p. 341 ss.
16
Cfr. ancora LUISO, Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia? cit., p. 329.
17
Questi valori hanno tutti una base costituzionale. Così il principio per cui la giurisdizione statale si esplica per mezzo
di un procedimento si trova enunciato nell’art. 111 cost. quando in esso si legge che la giurisdizione “si attua mediante
il giusto processo regolato dalla legge”. Ma in fondo l’aspettarsi una applicazione della legge, processuale e sostanziale,
uniforme e prevedibile finisce per trovare il suo fondamento ultimo nel principio di uguaglianza, scolpito nell’art. 3 cost.
Ed, allora, diventa fondamentale nel sistema l’opera della Corte di cassazione, organo che garantisce appunto quella
uniformità, si ripete sia nell’applicazione del diritto sostanziale sia nell’applicazione del diritto processuale.
18
Peraltro sui modi, preventivi e successivi, per garantire il valore della terzietà dell’arbitro si discute. Vedi, se vuoi,
BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, p. 96 ss.
7
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fermo restando l’ossequio ai già detti principi fondamentali, svolgeranno il giudizio nel modo che
riterranno opportuno.
5. - Poste le necessarie premesse, veniamo ora a definire il ruolo che la conciliazione ha nel
sistema dei mezzi di risoluzione delle controversie civili aventi ad oggetto diritti disponibili, in ciò
oggi aiutati anche dal contenuto del d.lgs. n. 28 del 2010.
In questo articolato si trovano innanzitutto, all’art. 1, delle definizioni, che in fondo
esplicitano quanto già prima era ritenuto dagli interpreti.
La “mediazione” è definita come «l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo
imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per
la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della
stessa». Essa rappresenta, quindi, propriamente il percorso, non il risultato possibile, che i privati
tentano per giungere, eventualmente, alla soluzione della lite.
Il “mediatore” è definito come «la persona o le persone fisiche che, individualmente o
collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi
o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo».
La “conciliazione”, infine, è definita come “la composizione di una controversia a seguito
dello svolgimento della mediazione», rappresentando quindi l’esito positivo del percorso svolto con
successo.
Da queste poche battute emergono con chiarezza i caratteri, sia positivi sia negativi, della
conciliazione, che consentono di dare ad essa una collocazione nel quadro sopra sommariamente
descritto dei mezzi di risoluzione delle controversie civili. In particolare, emerge come la
conciliazione sia un mezzo autonomo, quindi negoziale di soluzione della lite e non certo un mezzo
eteronomo tantomeno di tipo aggiudicativo. Essa, insomma, non è una forma di giustizia alternativa,
bensì propriamente una alternativa alla giustizia, perché la lite non è certo superata con un atto di
normazione concreta che possa definirsi quale atto di giustizia, nel senso che abbiamo descritto nel
precedente paragrafo.
Ciò è evidente sia dal ruolo attribuito al mediatore sia dalla natura della conciliazione, quale
atto finale di un percorso seguito con successo.
Il mediatore, lungi dall’avere il compito di risolvere la lite ponendo un suo dictum vincolante
per le parti, interviene per favorire una ricerca di soluzione che sta comunque alle parti trovare. Al
mediatore, in ciò differenziandosi nettamente dall’arbitro, non è richiesto di esplicare un potere al
quale le parti decidono di assoggettarsi, ma è richiesto solo di mettere in campo un’abilità, se si
vuole una professionalità, che serve alle parti per trovare un punto di equilibrio economico che
consenta loro di superare il dissidio o addirittura che apra loro una diversa visione degli interessi
sottostanti, al punto di giungere al superamento del conflitto in modo del tutto eterogeneo rispetto a
ciò che ci si sarebbe aspetti dall’utilizzo di un mezzo aggiudicativo.
Certo la presenza del mediatore ha un riscontro tecnico-giuridico a livello di ordinamento
statale, in quanto, nel momento in cui le parti si affidano ad esso, insorge tra parti e mediatore un
rapporto contrattuale di prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 c.c.), in virtù del quale quelle
s’impegnano a pagare a questo un compenso per la sua opera, a prescindere dall’esito del percorso.
Ma, si ripete, una simile presenza non ha ricadute strutturali sul piano della soluzione della lite,
sempre che questa sia raggiunta, perché detta soluzione è tutta e solo in un contratto che sono le
parti stesse a siglare.
Quindi, quand’anche le parti s’impegnano a tentare la mediazione nel caso dell’insorgenza di
una lite, cosa oggi possibile stipulando la clausola di conciliazione disciplinata dall’art. 5, comma
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5°, del d.lgs. n. 28 del 2010, un simile contratto processuale19 ha una qualche parentela solo alla
lontana con la convenzione di arbitrato, non avendo di esso né l’effetto impediente né l’effetto
positivo. Invero, stipulando la detta clausola le parti non sottraggono la soluzione della lite al
giudice statale, per cui il suo effetto impediente si riduce ad un temporaneo arresto dell’esplicarsi
dell’azione giudiziaria nel caso che questa sia esercitata prima di aver tentato il percorso di
mediazione. Né con essa le parti devolvono la soluzione della lite ad un terzo, mantenendo questa
eventuale soluzione del tutto nelle loro mani e prevedendo l’intervento di un terzo solo per essere
“aiutate”.
Da ciò deriva che il valore dell’imparzialità del mediatore, configurabile già in astratto ed
oggi esplicitamente emerso nel d.lgs. n. 28 del 201020, non può essere attuato da norme la cui
violazione possa determinare l’annullabilità dell’atto di normazione concreta in ipotesi intervenuto
a risolvere la lite, quanto piuttosto da una serie di norme che, rivolte, oltre che alla persona del
mediatore, all’ente gestore del servizio, puntano ad impedire che la mediazione sia affidata ad un
soggetto non imparziale. Invero, la gestione del percorso da parte di un mediatore non imparziale
non è molto diversa dalla gestione del percorso da parte di un mediatore non abile: in entrambi i
casi il rischio non sta nella posizione di un atto di normazione concreta invalido, quanto piuttosto
nell’improbabilità che a quell’atto si giunga e che quindi il percorso di mediazione fallisca.
Insomma, se l’atto di normazione espresso nell’ambito di un mezzo aggiudicativo è atto appunto di
un terzo che fa giustizia, è evidente come esso sia qualificabile in termini negativi (invalidità) ove
detto terzo non sia imparziale. Ma, se la conciliazione non è atto di un terzo, bensì atto delle parti, è
altrettanto evidente come essa non possa essere soggetta ad una qualificazione giuridica negativa da
eventuali difetti di terzietà di colui che è solo intervenuto a “dare una mano”.
Quindi l’autonomia del mezzo in questione sta tutta nel rilievo per cui, se la mediazione ha
successo, ossia si giunge alla conciliazione, la lite è risolta con un atto che è sostanzialmente un
contratto tra le parti. Le parti, aiutate maieuticamente da un terzo, trovano un punto di incontro
economico per loro conveniente e, lungi dall’aversi l’aggiudicazione di torti e ragioni, insomma
vinti e vincitori di un ipotetico giudizio, esse superano la lite sottoscrivendo un contratto, così come
pur avrebbero potuto fare da sé, senza rivolgersi ad alcun soggetto.
Ciò, riprendendo ed applicando quanto abbiamo già detto in riferimento ai mezzi autonomi di
risoluzione della lite, ha delle precise ricadute sul piano della disciplina del percorso e del regime
dell’atto di normazione concreta.
Dal primo punto di vista, il percorso di mediazione, puntando ad una soluzione contrattuale
della lite, non è procedimentalizzato. Di conseguenza, e con ciò passiamo anche al secondo punto di
vista, l’atto che segna il successo del percorso, ossia la conciliazione raggiunta, è qualificabile solo
per mezzo di norme che lo riguardano come atto contrattuale. In altre parole non è immaginabile
che esso sia invalido per eventuali errores in procedendo che in ipotesi dovrebbero affliggere atti a
monte 21 . Qui siamo in presenza di un contratto che ha certamente i caratteri causali della
transazione, per cui è ai motivi d’impugnativa di questa che si deve far ricorso. Come ovviamente si
deve far ricorso, per quanto riguarda la via da percorrere al fine di far valere quei motivi, a quelle
stesse impugnative negoziali spendibili avverso un qualsiasi contratto.
19
Se non vi fosse questa esplicita previsione non sarebbe configurabile un contratto processuale. Sulla base delle sole
norme del codice civile, infatti, l’assunzione di un impegno del genere potrebbe generare solo l’insorgenza di
un’eventuale obbligo risarcitorio in capo alla parte inadempiente, ma non certo un effetto sul piano del processo, quale è
quello che ora si descriverà nel testo. Sul punto vedi, per tutti, LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei
diritti cit., p. 1210.
20
Cfr. gli articoli 3, comma 2°, e 14 del d.lgs. n. 28 del 2010.
21
Giunge alla stessa conclusione LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti cit., p. 1208, il quale, però,
continua a paralare di “procedimento di conciliazione”. Ora, se la conciliazione non è qualificabile dalla violazione di
norme che organizzano l’attività ad essa posta a monte, evidentemente la parola “procedimento” è usata in modo
atecnico. Lo stesso deve dirsi quando quella parola è utilizzata dal legislatore.
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Da tutti questi rilievi emerge con evidenza il valore aggiunto che può apportare la
conciliazione nel quadro dei mezzi di risoluzione delle liti civili. Come per ogni mezzo autonomo
che si differenzia dai mezzi eteronomi aggiudicativi, con la conciliazione si possono trovare
soluzioni atipiche alla controversia, anche al di là del diritto in contestazione 22 , soluzioni che
l’attività di ius dicere non può neanche concepire, essendo essa legata alla necessità di
un’operazione di sussunzione giuridica, oltretutto in riferimento al solo diritto azionato. Inoltre, con
l’intervento del mediatore, in ciò aggiungendosi qualcosa agli ordinari mezzi autonomi, il valore
aggiunto può derivare dal dialogo. Se l’esperienza del mezzo aggiudicativo interrompe il dialogo,
l’esperienza della mediazione rivolta alla conciliazione eleva il tenore di quel dialogo, aprendo
anche scenari prima impensabili. Svolgendo il mediatore un’attività di valorizzazione degli interessi
sottostanti, dalla cui conciliabilità si possa trovare il punto d’incontro per superare il conflitto, se il
percorso ha successo non vi saranno né vincitori né vinti e l’uso di un simile mezzo favorisce la
continuazione della relazione tra i litiganti. Invero, con la conciliazione il terzo non interviene per
stabilire chi aveva ragione e chi torto, per accertare ciò che è giusto, ma per favorire il superamento
della lite contemperando gli interessi secondo una pura prospettiva economica. Ed è in ciò che si
vede la trasformazione della controversia giuridica in controversia economia, ossia, in altre parole,
l’applicazione delle tecniche della contrattazione alla soluzione delle liti civili23.
6. - Se quelli appena descritti sono i caratteri di una conciliazione, se così possiamo dire,
“pura”, ossia fondata sulle sole norme del codice civile, è anche possibile che il legislatore si faccia
carico di una disciplina peculiare al fine di potenziare un simile strumento. Accade allora che la
mediazione rivolta alla conciliazione delle liti civili sia istituzionalizzata, come è avvenuto nel d.lgs.
n. 28 del 201024.
I motivi in astratto concepibili per un simile intervento sono vari ed in concreto essi sono
esplicitati nel complesso normativo emergente dalla norma di delega, contenuta nell’art. 60 della
legge n. 69 del 2009, dalla direttiva comunitaria 52/2008 da essa richiamata, nonché dal d.lgs. n. 28
del 2010 che quella delega ha attuato. Tra essi emerge, innanzitutto, l’obiettivo di incentivare
22
Valorizza questa aspetto LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti cit., p. 1203, il quale, invece,
tende a svalorizzare l’aspetto di cui subito dopo nel testo. Ma, francamente, a me sembra che i due aspetti sia
indissolubilmente legati.
23
Da quanto detto nel testo deriva che un percorso di mediazione ha delle possibilità di successo
solo se le parti scelgono di ricorrervi liberamente. Se è vero che in una simile esperienza, se ben
condotta, si eleva il tenore del dialogo tra i litiganti, evidentemente è necessario che essi siano
disposti a quel dialogo. Del resto, se è altrettanto vero che la mediazione si risolve nella
valorizzazione degli interessi sottostanti, è necessario che i litiganti abbiano voglia di scoprire
quegli interessi. Tutto ciò rende del tutto assurda e controproducente l’idea che lo Stato possa
imporre un tentativo di conciliazione come filtro di accesso alla giustizia pubblica al fine di
sgravare questa di una parte del suo carico di lavoro e così rendere più efficiente il servizio giustizia.
Questa idea, fatta propria dal legislatore nel d.lgs. n. 28 del 2010 (sulla cui disciplina vedi
BALENA, Mediazione obbligatoria e processo, in Il giusto processo civile, 2011, p. 333 ss. ed ivi
altre citazioni) , si fonda su due errori. Il primo: pensare che la coartazione al dialogo possa
produrre un dialogo. In realtà una simile coartazione può imporre solo una breve stasi del processo
statale, costosa ed infruttuosa. Il secondo: ritenere che la conciliazione possa contribuire a risolvere
i mali della giustizia italiana, senza capire che, al contrario, solo la garanzia di una giustizia statale
efficiente può rappresentare un incentivo per le parti a cercare strade alternative per la soluzione del
loro conflitto.
24
Ma la scelta era già stata fatta in precedenza, nel d.lgs. n. 5 del 2003, per la conciliazione in materia societaria.
Lasciamo fuori dal discorso altre discipline speciali, come ad esempio quella in materia di lavoro, che risponde a
logiche di settore.
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l’accesso alla mediazione, in funzione del quale si pongono diverse disposizioni rivolte alla
diffusione della cultura della mediazione 25 , alla creazione di un ambiente che favorisca l’esito
positivo del percorso di mediazione 26 , all’eliminazione di alcuni inconvenienti che potrebbero
determinarsi ove operassero solo le norme del codice civile 27 ed, infine, al rafforzamento degli
effetti della conciliazione28.
Per realizzare i suoi scopi il legislatore istituzionalizza la mediazione, ossia, non solo la
disciplina in modo specifico, ma l’affida ad organismi accreditati, con i quali gli utenti che ad essi si
affidano istaurano il rapporto contrattuale che, invece, nella conciliazione “pura” instaurerebbero
con la persona fisica del mediatore. A prescindere dall’analisi specifica di tutti gli aspetti appena
indicati, il punto che qui interessa far emergere è che nel momento in cui la legge istituzionalizza la
mediazione rivolta alla conciliazione, crea una sorta di conciliazione “speciale”, inserisce nel
sistema un mezzo di risoluzione delle liti che è sì una conciliazione, come quella che abbiamo
descritto nel precedente paragrafo e che può fondarsi esclusivamente sulle norme del codice civile,
ma che rispetto alla conciliazione “pura” ha degli effetti ed un regime giuridico peculiari. Effetti e
regime che, si ripete, emergono solo nel momento in cui la mediazione è affidata ai detti organismi
accreditati, organismi che, proprio per ottenere l’accreditamento, devono rispettare tutta una serie di
requisiti di serietà ed efficienza, tali per cui lo Stato e la collettività possano su di essi fare
affidamento per il buon funzionamento del servizio.
Così accade che nella misura in cui la legge impone ai privati, per certe materie, di tentare la
conciliazione prima di adire il giudice, la condizione di procedibilità è assolta solo se il tentativo
viene esperito di fronte ad uno degli organismi accreditati29.
Accade che la legge, quando si preoccupa di evitare che si determinino inconvenienti che
possono derivare dal tempo necessario per l’esperimento del tentativo di conciliazione, colleghi la
produzione di effetti sostanziali sui termini di prescrizione e decadenza del diritto in contesa solo
alla domanda di mediazione presentata di fronte ad organismi accreditati.
Accade che quando la legge rafforza gli effetti della conciliazione raggiunta, consentendo
l’attribuzione dell’efficacia di titolo esecutivo al verbale di conciliazione, previa omologazione del
presidente del tribunale, ancora una volta siamo in presenza di una previsione giuridica che riguarda
solo le conciliazioni raggiunte di fronte ad un organismo accreditato.
Ed, infine, accade che perfino il fallimento del percorso di mediazione, ove condotto da un
organismo accreditato, possa produrre un qualche effetto giuridico nell’ambito del processo che poi
dovesse essere instaurato sulla stessa controversia. Si pensi alla possibilità che il giudice desuma
argomenti di prova dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al percorso di
mediazione di una parte ovvero alle possibili ricadute sulle spese processuali per colui che in
mediazione abbia rifiutato una proposta conciliativa il cui contenuto corrisponda o si avvicini al
contenuto della sentenza pronunciata dal giudice (articoli 8, comma 5°, e 13 del d.lgs. n. 28 del
2010).
25
Affidandosi, essenzialmente, ai giudici ed agli avvocati come veicoli di una simile diffusione, imponendo a questi un
obbligo di informativa ai loro clienti (art. 4, comma 3°, d.lgs. n. 28 del 2010) e consentendo a quelli di invitare le parti a
rivolgersi ad un organismo di mediazione (art. 5, comma 2°, del medesimo d.lgs.).
26
Prevedendo la gestione del servizio da parte di organismi accreditati e quindi affidabili, che garantiscano mediazioni
affidate a mediatori capaci ed imparziali (art. 3, comma 2°; art. 14; art. 16, d.lgs. n. 28 del 2010). Ed assicurandosi,
inoltre, che l’ambiente della mediazione sia protetto rispetto all’esterno, garantendone la riservatezza (artt. 9 e 10 del
medesimo d.lgs.).
27
Ci si riferisce essenzialmente agli effetti sostanziali della domanda di mediazione di cui all’art. 5, comma 6°, d.lgs. n.
28 del 2010.
28
Cfr. l’art. 12 del d.lgs. n. 28 del 2010 sull’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione.
29
Cfr. l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, sul quale vedi MINELLI, in AA., La mediazione per la composizione delle
controversie civili e commerciali, a cura di M. Bove, Padova, 2010, sub art. 5), p. 139 ss.
11
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È chiaro come nel momento in cui il legislatore interviene con le dette misure di
“istituzionalizzazione” e di “rafforzamento”, la mediazione rivolta alla conciliazione esca dalla sua
forma “pura” di rimedio autonomo di soluzione della controversia civile, per entrare in una sorta di
terra di mezzo, nella quale essa assume delle peculiarità tutte sue, che in una certa misura sfuggono
a rigide schematizzazioni.
Si pensi solo all’aspetto essenziale del ruolo del mediatore.
E’ vero che la conciliazione, anche se istituzionalizzata, resta un mezzo autonomo nella
misura in cui essa si risolve nella stipula di un contratto tra le parti. Ma è anche vero che, quando
l’art. 12 del d.lgs. n. 28 del 2010 consente, previa omologazione del presidente del tribunale, di
attribuire al verbale di conciliazione, ossia alla rappresentazione documentale del contratto stipulato
tra le parti, l’efficacia di titolo esecutivo, evidentemente con ciò il ruolo dell’organismo accreditato
e del mediatore viene rafforzato, perché essenziale a quel verbale è che esso provenga appunto da
un organismo accreditato e sia firmato anche dal mediatore. L’atto di normazione concreta che
risolve la lite è tutto e solo nel contratto delle parti, che ha gli effetti di cui all’art. 1372 c.c. ed il
regime giuridico di un qualsiasi contratto. Ma alla formazione del titolo esecutivo è essenziale
l’apporto di un terzo qualificato (accreditato) ed in concreto di quel mediatore che per esso agisce
nella singola mediazione30.
Inoltre, avendo il nostro legislatore previsto, all’art. 11 del d.lgs. n. 28 del 2010, che il
mediatore può formulare la proposta a prescindere dalla richiesta delle parti, considerate le
conseguenze sopra accennate che questa proposta, se non accettata, può avere, il ruolo di un simile
terzo, che nella forma “pura” di mediazione assume uno scopo di pura facilitazione per la ricerca
del punto di equilibrio tra le parti, finisce per essere in qualche modo snaturato, per avvicinarsi
pericolosamente al ruolo di un giudice minore, che in qualche misura valuta la fondatezza delle
pretese delle parti. Con ciò pregiudicando le potenzialità vere della conciliazione, perché gli stessi
comportamenti delle parti durante il percorso non possono non essere condizionati dall’idea di
trovarsi di fronte ad un soggetto che farà una sua proposta in base ad una sua valutazione della
causa. Insomma, se nella mediazione il terzo dovrebbe rappresentare l’amico comune che aiuta i
litiganti a riprendere il dialogo e a trovare una soluzione, anche al di là del diritto in contestazione,
nella mediazione istituzionalizzata il mediatore non è accanto alle parti, ma di fronte ad esse, con la
minaccia di una sua proposta in base a ciò che esse diranno31.
In ultima analisi, per questa sorta di alternativa alla giustizia accade qualcosa di peculiare, che
non accade per l’arbitrato, quale forma di giustizia alternativa, in quanto la disciplina dell’arbitrato
è unica, a prescindere dal fatto che esso si presenti nella sua forma c.d. ad hoc oppure sia
istituzionalizzato, ossia gestito da una camera arbitrale, la cui costituzione, oltretutto, non passa da
alcuna procedura di accreditamento. Invece, la mediazione rivolta alla conciliazione finisce per
assumere, se così si può dire, due nature diverse a seconda che essa sia libera o istituzionalizzata.
30
Per quanto andiamo dicendo nel testo mi sono sentito di dire in altra sede (in Luci ed ombre nella legge-quadro sulla
mediazione (d.lgs. n. 28 2010), in AA., La mediazione per la composizione delle controversie civili e commerciali cit., p.
2) che la mediazione rivolta alla conciliazione, nel momento in cui viene istituzionalizzata, si pone a metà strada tra i
mezzi autonomi ed i mezzi eteronomi di soluzione della lite civile
31
Proposta che, possibile addirittura anche in assenza di una parte, avrà il più delle volte i caratteri di una valutazione
aggiudicativa, almeno quando le parti non si “scoprono” veramente, come, purtroppo, può accadere proprio perché esse
temono la proposta. Del resto, anche in virtù della norma che stabilisce che una proposta non accettata ha delle
conseguenze sulle spese del successivo processo (art. 13 cit.) si comprende come nell’ottica del legislatore la
mediazione istituzionalizzata si avvicini ai mezzi aggiudicativi, perché una proposta formulata secondo una logica
puramente facilitativa (che guarda alla valutazione degli interessi e non all’accertamento dei diritti) non potrebbe avere
un contenuto paragonabile al contenuto di una sentenza. Insomma, questo atto finale possibile, la proposta del
mediatore, se non è la decisione della lite, è tuttavia un atto che ha degli effetti giuridici che, sia pure accessoriamente,
riguardano la lite, perché non si può negare che il regime delle spese incida sull’effettivo contenuto economico della
sentenza.
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Nel primo caso essa si presenta come un arricchimento del quadro dei mezzi di risoluzione delle
controversie civili, che può offrire vantaggi del tutto peculiari, che gli altri mezzi non offrono. Nel
secondo caso, invece, la conciliazione diventa un ibrido tra contratto e giudizio, in quanto essa è
impropriamente utilizzata per far fronte ai mali della giustizia statale.
7. - Sia consentita a questo punto una riflessione finale: anche per la mediazione rivolta alla
conciliazione, come per tutto il mondo delle c.d. A.D.R. in genere, non si possono aspettare
miracoli da leggi non del tutto proprie32.
L’arbitrato può essere un’importante forma di giustizia alternativa. La conciliazione può
rappresentare una vera alternativa alla giustizia. Ognuno di questi strumenti ha un posto preciso
nell’ambito del sistema dei mezzi di risoluzione delle liti, in virtù delle sue potenzialità, ma anche in
considerazione dei suoi limiti, se così si può dire, “naturali”. Il legislatore ha certo il compito di
contemplare questi strumenti e disciplinarli nel modo più chiaro ed efficiente. Ma, poi, le
responsabilità passano alla c.d. società civile, che sola può fare in modo che nell’esperienza del
diritto emerga un principio di sussidiarietà, insomma si giunga a fare del ricorso alla giurisdizione
statale veramente l’ultima spiaggia.
La conciliazione ha bisogno di mediatori preparati e della diffusione dell’idea che essa possa
rappresentare veramente una strada migliore di quella della giustizia statale, perché migliori
possono essere i suoi frutti. Perché tutto ciò si realizzi è utile l’intervento dello Stato. Ma questo
dovrebbe essere misurato, senza voler utilizzare la conciliazione in funzione di obiettivi impropri,
quale è quello di rendere più efficiente la macchina della giustizia statale.
La verità è che il successo della conciliazione esige il recupero di un’insufficienza culturale
che, come tale, non può certo essere imposta per legge. Tantomeno se una legge rischia di far
perdere le migliori potenzialità del mezzo il cui uso vorrebbe potenziare.
32
Insisto nel dire che la previsione del tentativo obbligatorio di conciliazione, nel d.lgs. n. 28 del 2010, è stato un errore
culturale, direi strategico, del legislatore. Ciò a prescindere dai pur insorti dubbi di costituzionalità della previsione,
oggi al vaglio della Consulta dopo la rimessione della questione ad opera del TAR Lazio (Ordinanza del 12 aprile 2011
n. 3202: vedila in Corr. Giur., 2011, p. 995 con nota di Pagni e in Riv. arbitrato, 2011, p. 99, con nota di Corbi), dubbi
che, a mio parere, hanno una qualche maggior possibilità di trovare riscontro solo in riferimento al profilo dell’eccesso
di delega (su questo aspetto vedi anche BALENA, op. cit., p. 335). Ed anche del tutto inopportune a me sembrano
norme, in qualche modo, coercitive, come quelle che impongono un sostanziale obbligo di cooperazione, soprattutto se
unite alla sciagurata previsione per cui il mediatore può formulare la proposta anche senza la concorde richiesta delle
parti.
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