Cultura umanistica versus cultura scientifica o deprivazione

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Cultura umanistica versus cultura
scientifica o deprivazione culturale?
nel render conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio
si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità
dell’esperibile. [...]
Le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati,
comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l'essenzialità
dell'informazione; [...]
Italo Calvino (1985), Lezioni americane
I
Salvatore Claudio Sgroi
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n Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture (Laterza
2003) tra il fisico Carlo Bernardini e il linguista (ma la precisazione è ridondante) Tullio De Mauro
si affronta un tema non certamente nuovo, la cui soluzione continua
ad essere aperta a prospettive diverse. Detto in soldoni, Carlo Bernardini accusa gli italiani di essere
affetti da “analfabetismo scientifico”, complici a suo tempo Benedetto Croce e Giovanni Gentile, e
di privilegiare la cultura umanistica.
Se la prende quindi con “quei
testoni dei letterati e dei filosofi”
che parlano “come funzionari di
una ‘cultura dominante’”.
Quali le cause e i rimedi di tale
situazione? Bernardini sembra privilegiare soprattutto le cause ‘interne’, tra cui la scarsa divulgazione scientifica favorita paradossalmente dalla natura stessa della
struttura della lingua italiana (presuntivamente) poco adatta alla divulgazione. Tra le cause ‘esterne’
egli indica invece il “pensiero
normativo” che domina “la didattica scolastica” (da cui dovrebbe
conseguire un necessario rinnovamento della classe insegnante).
Ma quale è la posizione epistemologica dichiarata dal nostro fisico? Bernardini sottolinea innan-
zitutto la difficoltà nell’interazione
umana del passaggio dal linguaggio interno (pensiero) a quello comunicativo e del rapporto tra linguaggio comune e linguaggio specialistico: “Quando un fisico [...]
vuole spiegare qualcosa delle sue
in italiano, deve fare uno sforzo di
traduzione. In parte è un problema
di ‘aderenza ai concetti’, in parte è
un problema di variazioni dei significati rispetto al linguaggio comune”. Che è la posizione analoga a
quella espressa con grande lucidità da Italo Calvino nell’esergo su
riportato.
In maniera tanto semplice
quanto efficace Bernardini riassume il problema centrale della mediazione culturale propria di ogni
specialista e di ogni docente: “Il
segreto della divulgazione risiede
nel far capire [ai non-addetti] dove
sta il problema e perché sarebbe
importante risolverlo, perché questo crea almeno l’interesse per
‘come’ quei problemi si risolvono”.
Del tutto condivisibile è ancora
il suo credo epistemologico relativistico: “ogni ‘cultura’ che si occupi del reale è in realtà un linguaggio che non fotocopia il reale così
come appare passivamente sotto i
nostri occhi ma, piuttosto, raccorda la realtà al nostro modo di pen-
anglofono qualche buon tentativo
c’è; in italiano ne ho visti pochi (e
resta il sospetto che sia la lingua a
non prestarsi granché, come se
avesse un difetto di fabbricazione:
ma quale? E’ un sospetto assai gratuito; sta di fatto, però, che la scarsa
diffusione di certe parole mostra
quanto esse siano poco usate in italiano al contrario di ciò che avviene – forse – in inglese”.
A conclusione del suo intervento Bernardini individua poi, come
accennato, uno dei luoghi (e delle
cause) dell’analfabetismo scientifico della cultura nella scuola italiana e nella classe degli insegnanti. Si chiede infatti: “Non potrebbe
essere che il pensiero normativo,
essendo di così facile rappresentazione verbale, domini la didattica
scolastica proprio perché è, a un
tempo, rassicurante in quanto perentorio; con il risultato che accantona il problema dei significati
come se fosse secondario?”.
Per De Mauro invece il problema della incultura degli italiani è
ancora più grave: non si tratta tanto di un prevalere della cultura
umanistica su quella scientifica,
quanto di una generale ‘scarsa densità’, se non mancanza, di cultura
tout court, sia scientifica che letteraria della società caratterizzata invece da “un eccesso di pressappochismo”.
De Mauro ha buon gioco nel far
giustizia di vari pregiudizi, rispondendo a varie domande: 1) “Serve
a qualcosa il latino?” (“Sì, a chi
vuole essere consapevolmente europeo e italiano”); 2) “L’italiano è
una lingua inadatta alla divulgazione?” (no, in virtù della “plasticità
insita in ogni lingua ‘del mercato’
e di ‘casa’”. “Anche in e con l’italiano divulgare si può. E, of course,
si deve”); 3) “Solo in inglese si può
parlare di scienze e fare buona divulgazione?” (De Mauro ne sottolinea il carattere di lingua veicolare
internazionale, e la maggiore semplicità della morfologia. Ma anche
in questo caso è l’onnipotenza semantica a porre sullo stesso piano
l’inglese con l’italiano e qualsiasi
altra lingua); 4) Che “Il pensiero
umanistico [sia] responsabile della
scarsa circolazione della cultura
scientifica in Italia” è tutto da dimostrare: “Troppo umanesimo e
perciò poca scienza? Ma no, poco
umanesimo e poca scienza perché
poca è la propensione nazionale all’accertamento rigoroso di fatti e
dati, alle misurazioni e descrizioni
precise, all’esperienza diretta” ecc.
Il rimedio non può quindi che
essere di carattere politico, in senso lato: “Abbiamo bisogno, – conclude De Mauro – dobbiamo riuscire ad avere più lettura e più scuole serie per tutti e in esse più matematica e più latino, più fisica e più
filosofia, più lingue e più storia, per
avere più filologia e umanesimo e
più cultura scientifica”. Un investimento nella scuola e nella ricerca,
non certamente incoraggiato “dalla
scadente qualità dei governanti con
i quali abbiamo a che fare”.
L’incomprensibilità
deliberata è una
perversione,
una forma di ostilità
gratuita verso
i propri simili.
Carlo Bernardini (2003)
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sarla e capirla. Perciò, ha un limite
intrinseco in ciò che ‘pretende’ di
descrivere, di sapere”.
Sul versante didattico-pedagogico ne consegue che “Bisogna dire
agli allievi che nessuna scienza della
natura pretende però di svelare la
verità; tuttavia, per statuto, cerca
disperatamente di argomentare con
plausibilità crescente”. “Per fare
questo, – continua Bernardini – non
usa la retorica dei discorsi ma la
non-creatività delle strutture simboliche, che risparmiano così le
falle e le pecche del discorso (che
diventa perciò un procedimento
deduttivo) rinviando tutto ciò che
è critico alle premesse”.
Dal suo giudizio di condanna
sulla cultura anti-scientifica della
società (e della scuola) italiana,
Bernardini trae però, come accennato, a volte conclusioni invero difficili da condividere, a proposito
per es. del latino e del greco che
non servirebbero “minimamente a
capire il pensiero scientifico fornendo gli etimi”. Si potrebbe anche dire che paradossalmente egli
lascia trasparire gravi lacune di
cultura linguistica (“umanistica”?)
di base, quando si chiede: “Che lingua è, l’italiano?”. Risposta: “è una
lingua poco adatta alle scienze
‘dure’” come fisica e matematica;
“ci sono lingue adatte [come l’inglese] e lingue inadatte [come l’italiano] alle scienze”. Ogni studente
di primo anno di università (se non
di liceo) sa che qualunque idioma
(lingua o dialetto) è dotato di quella caratteristica (detta “onnipotenza
semantica” o “onniformatività semiotica”) grazie alla quale ogni parlante può esprimere e comunicare
qualsiasi contenuto esperienziale,
soggettivo e non, concreto o astratto, con esiti diversi a seconda delle
sue capacità. A volte si ha perciò
la sensazione di affermazioni scopertamente paradossali quando egli
così si esprime: “io credo che una
dose massiccia di analisi dei significati e di riferimenti alla storia della cultura sia la vera strada per portare fuori dall’emarginazione le
scienze contemporanee. Ma bisogna imparare a farlo. Nel mondo
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