I dialoghi platonici secondo Trasillo PRIMO PERIODO : 1 Eutifrone L

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I dialoghi platonici secondo Trasillo
PRIMO PERIODO :
1 Eutifrone
L'interlocutore che dà il nome al dialogo ( che porta anche il titolo " Sul santo " ) è una
figura di " sacerdote " di ben modesta statura morale . Qualcuno pensa che possa essere
la stessa persona di cui si fa menzione nel " Cratilo " . Nel nostro dialogo Eutifrone è un
personaggio gretto e di statura morale assai piccola . Egli fa il processo al padre non per
malvagità , né per ambizione , ma per cortezza di mente e piccolezza d'animo . Nel suo
fanatismo intollerante e nella sua sicurezza farisaica , non sa vedere la realtà nelle sue
giuste proporzioni . In sostanza , non è in malafede , in quanto è convinto di dover agire
contro il padre per non " contaminarsi " ; ma oltre che vittima di un concetto di
contaminazione estremamente ambiguo , è in errore in molti sensi . Ciò che Platone vuol
suggerire con questo personaggio , é quanto segue . Eutifrone , sacerdote della religione
ufficiale , che professa con tanta sicurezza di possedere l'esatta conoscenza del santo e
dell'empio , non riesce , nella discussione con Socrate , se non a contraddirsi e a
confondersi , mostrando di avere conoscenze tutt'altro che chiare ( crede di fare cose
sante accusando il padre , mentre cade nell'empietà ) . Pertanto la religione ufficiale che
Eutifrone rappresenta non ha affatto un adeguato concetto di santo . Il corretto concetto
di santo può , invece , additarlo a Socrate , che ha superato quella fallace credenza sugli
dei , con una ben più alta visione della divinità : proprio quella concezione che voleva
insegnare agli Ateniesi e per cui è stato condannato .
2 Apologia
" L'apologia " , per fortuna , resta un dialogo giovanile nel quale Platone descrive il
processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E' proprio in questo dialogo che
emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti : i sofisti pronunciavano discorsi
raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità : per loro l'importante era parlar
bene , avere un buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate invece quel che
più conta è la verità : lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così eleganti e
ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur non tenendo un'orazione raffinata , dice il vero :
la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone stesso . I sofisti puntavano a stupire
l'ascoltatore , dal momento che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto
Gorgia . Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti) ,
ma imposta un dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a galla la verità
(Platone dirà che il discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal
quale nasce la fiamma della conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e
quasi familiare , modulato a seconda dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso
socratico è la cosiddetta " ironia socratica " , ossia la totale autodiminuzione , " io non so
, tu sai " . Così inizia anche " L'apologia"
3 Critone
Il tema della condanna di Socrate viene da Platone affrontato ( oltre che nell' " Apologia
" e nel " Fedone " anche nel " Critone " , dialogo che prende il nome da Critone , un
agiato ateniese coetaneo di Socrate e , come ci dice Senofonte , suo discepolo devotissimo
. La scena si svolge nel carcere in cui Socrate deve soggiornare in attesa della morte :
Critone arriva in carcere al sorgere del sole per avvisare Socrate dell'arrivo della nave
da Delo : prima del suo arrivo , infatti , non potevano aver luogo le condanne capitali .
Critone cerca di persuadere Socrate ad evadere : tenta di convincerlo dicendo che se non
fuggirà la gente biasimerà i suoi amici per non averlo aiutato : ma Socrate gli dice che le
persone più accorte , invece , oltre ad apprezzare i suoi discepoli perchè hanno provato
ad aiutarlo , apprezzeranno anche lui perchè non ha trasgredito la legge ; Critone dice
poi che tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta sono superabili ( il denaro per
corrompere le guardie del carcere non manca e neanche le persone fuori da Atene pronte
ad aiutarlo ) e che rimanendo in carcere Socrate danneggerà se stesso , i figli ( che
abbandonerà senza poterli allevare ) e gli amici ( che gli sono molto affezionati e che se la
prenderebbero comunque con Critone che non é stato in grado di farlo evadere ) . Poi
prende la parola Socrate , che si ostina a preferire la permanenza in carcere : a sua
difesa dice che la vita di un uomo deve essere coerente con le sue dottrine : la legge non
va violata in nessun caso ( Socrate l'ha sempre sostenuto nel corso della sua vita ) :
Socrate ha sempre rispettato le leggi e non vuole violarle proprio ora : una legge , anche
se ingiusta , non va trasgredita , ma bisogna battersi per farla cambiare in meglio , a
vantaggio proprio e degli altri concittadini . Socrate , poi , é ormai vecchio e trasgredire
le leggi dopo aver condotto una vita corretta , il tutto per vivere solo i pochi anni di vita
che gli resterebbero , sarebbe un'assurdità , un'incoerenza : gli conviene morire , ma
poter dire di essere sempre stato coerente . Il problema di fondo è se evadere sia giusto
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oppure no : per Socrate chiaramente non lo è , e commettere ingiustizia è gravissimo e
più dannoso per chi la commette che non per chi la subisce : per Socrate é addirittura
più dannoso il trasgredire le leggi rispetto all'essere uccisi . Critone , però , gli fa notare
che la gente comune é favorevole alla sua evasione e che é d'accordo con Critone stesso ;
ma Socrate dice che non si devono seguire le opinioni di tutti , ma solo di colui che
effettivamente sa : lui é convinto di sapere ciò che fa e quindi vuole procedere per la sua
strada . Anche vicino alla morte Socrate continua a filosofare e pronuncia una
celeberrima frase : non bisogna tenere in massimo conto il vivere come tale , bensì il
vivere bene , ed il vivere bene è lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia .
Ione
Ione viene descritto all'inizio con l'articolo premesso al suo nome ( " tòn Iona " ) , che
indica personaggio noto ( come anche in Italiano , ad esempio , si dice il Manzoni , il
Petrarca ... ) Tuttavia , paradossalmente , il personaggio non é noto da altre fonti .
Rappresenta in modo emblematico il rapsodo e la sua professione ( come Timeo
rappresenta il pitagorico ) . il rapsodo per parecchio tempo presso i Greci ebbe il ruolo di
recitare le poesie e in particolare i poemi omerici . Recitavano a memoria su una specie
di palco , anche con abilità di attori , con attraenti vesti e ben adornati . Dapprima
accompagnarono la recitazione dei poemi con il suono della lira ; successivamente
tennero in mano una verga a mò di scettro . Nelle grandi feste partecipavano a gare
organizzate nelle maggiori città greche . Ebbero all'inizio molta importanza nella società
greca in quanto costituirono uno strumento di comunicazione significativo nell'ambito
della cultura consegnata prevalentemente all'oralità . La loro massima diffusione ebbe
luogo nei secoli quinto e quarto ; ma non tardarono le critiche , col nascere e diffondersi
di una cultura critica . Erano giudicati in possesso di non adeguate e poco attendibili
conoscenze . Lo Ione é appunto un documento esemplare di queste critiche , che sono poi
particolarmente severe in Senofonte ( Memorabili , 4 , 2 , 10 ) . Tuttavia non é il rapsodo
come tale il centro focale del dialogo : Platone , partendo dal rapsodo , mira a chiarire
quale sia la natura del fatto artistico e del poeta : fondamento della poesia non é la
scienza , ma l'ispirazione .
Ippia maggiore
I personaggi dell’Ippia Maggiore sono tre , due presenti sulla scena del dialogo , il terzo
così insistentemente evocato da Socrate da essere , a sua volta , quasi visibile agli occhi
del lettore . Si tratta di Ippia , di Socrate e di uno Sconosciuto , un anonimo , chiamato in
causa dal filosofo con insistenza . Ippia era un famoso filosofo nativo di Elide , vissuto
nella seconda metà del quinto secolo a.C. Dotato di memoria straordinaria , eresse ad
arte sistematica la mnemotecnica ; geniale , versatile , era anche caratterizzato da una
sconfinata vanità e da un sensibile amore per la ricchezza ; va poi ricordato che Ippia
era un accanito sostenitore della " polimathìa " , ossia del sapore enciclopedico . Ippia
nel dialogo é pieno di sè ( proprio come nell' " Ippia Minore " ) , tracotante . Egli é
erudito , dotato di svariate capacità e di notevoli abilità nello sfruttarle . Gli mancano
tuttavia , forse nell'Ippia Maggiore ancora di più che nell' " Ippia Minore " , la finezza
psicologica e l'intelligenza speculativa necessarie per seguire il ragionamento socratico ,
per superare il piano dell'esperienza ed approdare ad esiti qualitativamente diversi .
Ippia non coglie la differenza tra una cosa bella e il bello in sè , non capisce la vera
natura dello Sconosciuto che tormenta Socrate . Il dialogo per lui si riduce ad una sorta
di monologo , da cui emerge con le proprie certezze intatte e con molti dubbi sul modo di
procedere di Socrate . Non é in grado di risolvere il problema posto da quest'ultimo , ma
neppure é disponibile ad apprendere qualche cosa di nuovo e di diverso dalle bellezza .
Ippia minore
Questo dialogo , come l'Ippia Maggiore , é dedicato al famoso filosofo nativo di Elide ,
vissuto nella seconda metà del quinto secolo a.C. Dotato di memoria straordinaria ,
eresse ad arte sistematica la mnemotecnica ; geniale , versatile , era anche caratterizzato
da una sconfinata vanità e da un sensibile amore per la ricchezza . Socrate , che trattò
tutti i grandi sofisti con una sorta di rispetto compatibile con la profonda diversità delle
rispettive concezioni di vita , é spietatamente ironico nei riguardi di Ippia . Questi
appare costantemente inadeguato nei confronti dei problemi affrontati , in genere
addirittura incapace di afferrare la vera natura e portata , sempre impossibilitato a
proporre per essi una accettabile soluzione . La discussione tra lui e Socrate assume a
volte sfumature grottesche ed eccenti di assurdità , perchè più che mettere in evidenza
una divergenza di opinioni , rivela l'appartenenza dei due a sfere di pensiero talmente
estranee l'una all'altra , da rendere impossinbile una reale comunicazione reciproca .
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Ippia ha comunque una capacità di ripresa eccezionale , quando capisce di essere in
difficoltà ; la sua fiducua in se stesso é incrollabile e non si lascia scalfire neppure in
superficie dalle critiche dell'avversario . Egli fa ricadere su Socrate e sul suo metodo di
indagine la totale responsabilità del fallimento della ricerca , da cui esce indenne ed
ulteriormente imbaldanzito . Platone ne fa un personaggio vivace , gli riconosce doti non
comuni di erudizione e di personale abilità , ne evidenzia il successo in termini di fama e
denaro , ma ironizza senza pietà sulla sua statura umana e sulla sua inconsistenza di
educatore e filosofo .
Lachete
In questo dialogo compaiono un discreto numero di personaggi , anche se il contributo
dato da alcuni di essi si limita a poche battute . Socrate in quest'opera , che si svolge
dopo la battaglia di Delio ( 424 a.c. ) , ha all'incirca 45 anni e si dichiara più giovane di
Nicia e di Lachete cui cede il diritto di parlare per primi . Nel Lachete in particolare
Socrate riveste la medesima funzione che ha nel Carmide , quella cioè di maestro
eccellente , richiesto , che conserva autonomia di scelta nei confronti dei suoi discepoli .
In più di un passo del Lachete è addirittura oggetto di autentica ammirazione da parte
dei presenti che , pur non comprendendolo a fondo , ne celebrano il metodo e il forte
ascendente sui giovani . E' però un Socrate già proiettato in una luce pienamente
platonica , in cui emergono tematiche anticipatrici della maturità del discepolo . Chi è
codesto Lachete che dà il nome al dialogo ? E' un militare senza interesse nè attitudini
per il mondo politico . Di lui lo storico Tucidide dice che fu un grande generale , un
grande uomo d'armi , distintosi in numerosi frangenti durante la guerra del Peloponneso
e morto nella battaglia di Mantinea del 418 a.c. E' una figura molto diversa da Nicia e si
distingue soprattutto per la concretezza e la linearità del suo discutere . Nicia , a
differenza di tutti gli altri personaggi del dialogo , fu davvero una figura
importantissima per la storia greca . Colto , moderato , raffinato fu un gran rivale del
partito democratico . Fu fautore della pace che porta il suo nome ( 421 ) tra Atene e
Sparta . Il dialogo si svolge in una palestra non ben identificata in cui Socrate è
casualmente presente . La data cui il dialogo risale è all'incirca il 424 - 423 a.c. poichè si
allude alla battaglia di Delio . Il tema della discussione è il valore dell'esercizio delle armi
. Interviene Nicia che sostiene che l'esercizio delle armi sia utilissimo , soprattutto per i
giovani : in primis è bene che non perdano tempo in stupidi passatempi che non giovano
al fisico . Poi è anche utile perchè saranno avvantaggiati nelle battaglie , ed in una società
come quella greca esse erano all'ordine del giorno . La guerra , secondo Nicia , ha il
potere di rendere coraggiosi : chi l'ha fatta è più coraggioso rispetto a chi non l'ha fatta .
Lachete dal canto suo dice che è utile apprendere tutte le discipline , inclusa quella della
guerra . Però mentre nella città in cui ci sono i migliori artisti tutti vanno per ammirarli
e apprendere , a Sparta , città maestra nell'arte della guerra , non ci va nessuno per
ammirare o per apprendere , ma anzi tutti girano alla larga , dice Lachete : l'arte della
guerra per lui non è utile come per Nicia . A Lachete , saggiamente , pare che un vile con
la guerra risulterebbe ancora più vile perchè mostrerebbe ancora di più la sua viltà ,
mentre per un valoroso osservato da spettatori commettere un errore potrebbe costargli
critiche spietate . Anche Socrate dice la sua : chi è il più esperto nell'arte della ginnastica
? O meglio , come lo si individua ? E' quello che l'ha studiata più a fondo e si è esercitato
sotto la guida di buoni maestri . Certo ci sono anche coloro che riescono senza l'aiuto di
maestri , ma nessuno si fida di loro finchè non provano concretamente le loro abilità .
Nicia prende la parola e fa apprezzamenti su Socrate e Lachete : dice che Socrate vuol
sempre aver ragione , che riesce sempre a portare il discorso dove vuole e che non
risponde mai alle domande che gli si pongono . Lachete e Lisimaco , un altro personaggio
del dialogo , invitano Socrate a parlare perchè a loro piace il suo modo di fare . Socrate
arriva a dire che il coraggio , visto che è su quello che volge la discussione , è una parte
della virtù . Ma che cosa è il coraggio , chiede Socrate ? Lachete dice che è il non fuggire
di fronte ai nemici . Socrate gli fa notare che è una definizione troppo generica , e per di
più si può anche fuggire dai nemici combattendoli in fuga . Socrate gli dice che se uno gli
domandasse che cosa è la velocità , lui direbbe che cosa è relativamente alla voce ,
relativamente alle gambe , al pensiero ... Poi invita Lachete a dare una risposta del
genere a riguardo del coraggio . Egli dice che è una sorta di forza d'animo . Ma Socrate
gli fa notare che quanto ha detto è incoerente perchè così è come se il coraggio fosse una
forza illuminata dall'intelligenza . Si potrebbe forse chiamare coraggioso uno che
dimostrando forza d'animo spendendo saggiamente denaro in vista di maggior profitto ?
O se un medico davanti a un paziente malato di pleurite che gli chiedesse da bere e da
mangiare non si lasciasse convincere e resistesse con forza d'animo alle richieste sarebbe
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coraggioso ? No di certo . Lachete è imbarazzato per la stoltezza che ha detto e dà
ragione a Socrate . Poi interviene Nicia che dice più spavaldo che mai che il coraggio è
scienza . Ma che scienza ? Chiede Socrate . Di certo non è la scienza del citaredo , nè
quella del flautista . E di cosa allora ? Nicia arriva a dire che il coraggio è la scienza delle
cose da temere e di quelle da osare , non solo in guerra ( perchè sarebbe troppo generico
) , ma in ogni circostanza . Lachete pensa che Nicia stia dando i numeri : il coraggio
come può essere scienza ? Il medico , ad esempio , è colui che conosce i pericoli nelle
malattie , il contadino è quello che conosce i pericoli connessi all'attività agricola , e tutti
gli altri artigiani conoscono sia gli aspetti sicuri sia quelli pericolosi a riguardo della
propria arte . Quindi la scienza del coraggio non pare esistere . Ma Nicia fa notare che se
per l'ammalato è motivo maggiore di timore il vivere del morire , il medico può saperlo ?
Per molti sarebbe meglio non riprendersi dalla malattia e morire : i medici possono
saperlo ? Quelli che preferiscono morire temono altre cose rispetto a quelli che
preferiscono vivere . Dipende dal singolo se preferisce affrontare o meno un pericolo .
Socrate però fa notare che coraggio non è sinonimo di temerarietà nè di vigliaccheria : è
una giusta via di mezzo , che varia a seconda dei casi . Poi Socrate riprende la definizione
di Nicia : il coraggio è la scienza delle cose da temere e di quelle da osare . Il coraggio per
Nicia è una scienza e , come tutte le scienze , non conosce solo i mali ed i beni futuri e
presenti , ma anche i passati . Il coraggio diventerebbe così scienza di tutti i beni ed i
mali di tutti i tempi : allora sarebbe la virtù intera ! Ci deve essere qualcosa che non
quadra in quanto ha detto Nicia . In conclusione Lisimaco chiede a Socrate se aiuterà a
rendere i giovani quanto migliori possibili . Ma Socrate dice , con la solita
autodiminuzione , che non ne sarebbe degno , e è emerso anche dal dialogo : come tutti
gli altri , anche lui si è trovato in difficoltà nel definire il coraggio .
Liside
Carmide
Dei personaggi del Liside non si sa molto . Sembra quasi che Platone , volendo trattare
dell' amicizia , cioè di un sentimento che può riguardare ogni uomo , non si sia
preoccupato di scegliere interlocutori noti , ma abbia piuttosto puntato sulla giovane età
dei medesimi , perchè la considerava la più adatta e naturale per il sorgere di legami
profondi . Questi personaggi , pertanto , hanno in comune una grande disponibilità al
sentimento dell' amicizia e dell' amore ed una grande freschezza nel viverli . Pare che
Liside sia realmente esistito ; sarebbe stato figlio di Democrito del demo di Aissone e
avrebbe avuto una figlia di nome Istmonike . Nel dialogo é presentato come un ragazzo
giovane ed ancora sotto la rigida tutela dei genitori , ma animato da un vivo desiderio di
apprendere da chi ne sa di più di lui , tramite la discussione . Legato a profonda amicizia
a Menesseno tanto da suscitare l' ammirazione e l' invidia da parte dello stesso Socrate
per il possesso di un tale bene , ha anche un asopetto molto attraente e fa nascere un'
intensa passione in Ippotale . Chi sia costui , non si sa esattamente . Nel dialogo é
portatore di un modo di amare , sicuramente sincero ed appassionato , ma destinato a
suscitare le ironiche battute di Ctesippo e degli amici , perchè inconcludente e senza
speranza , ed anche gli acuti ed efficaci rimproveri di Socrate , cui egli si rivolge per
avere consigli . Ctesippo che , con Ippotale , si fa incontro al filosofo non appena lo vede e
lo invita ad unirsi a loro , era un discepolo di Socrate che assistette alla sua morte ed é
anche presente nell' Eutidemo come interlocutore . La sua , nel dialogo , é una funzione
unicamente drammatica che svolge con vivacità e suscitando simpatie , ma non ha
rilevanza per l'approfondimento della tematica . A Menesseno é legata una parte del
dialogo , quella in cui Socrate cerca di precisare chi sia l' amico , se chi ama o chi é amato
e che si conclude nel giro di breve tempo con il riconoscimento , da parte del giovane ,
della mancata correttezza nell' impostazione della ricerca . Nelle ultime battute del
dialogo compaiono anche i pedagoghi di Liside e Menesseno , a conferma ulteriore della
giovane età dei ragazzi e per permettere di sciogliere con un buon pretesto una riunione
da cui , per il momento , non poteva emergere più nulla di interessante . Per quanto
riguarda Socrate , egli resta la voce fondamentale cui Platone affida un preciso
messaggio ; interlocutore acuto e brillante , lascia intendere di sapere molto più di quello
che dice e di essere in grado di spingere il proprio sguardo ben oltre i limiti del dialogo .
Il luogo di svolgimento del dialogo é una palestra di recente costruzione , situata lungo la
strada che passa presso le mura di Atene .
Socrate, la voce narrante di questo dialogo, racconta di essersi recato in una palestra
ateniese - tradizionale luogo di ritrovo - reduce dalla battaglia di Potidea, una colonia
calcidica tributaria di Atene, che nel 433 si ribellò al suo dominio e fu attaccata l'anno
successivo. Questo fu uno degli episodi che diedero origine alla guerra del Peloponneso.
Ma la battaglia di Potidea è appena menzionata. Socrate preferisce riferire
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dettagliatamente della conversazione, apparentemente frivola, con il giovanissimo
Carmide, cugino di Platone e di Crizia.Carmide e Crizia, poco meno di tre decenni
dopo, faranno parte dei Trenta tiranni. Il riferimento a queste circostanze può far
pensare che la guerra menzionata di sfuggita, la presentazione di un tiranno nelle vesti di
un bellissimo ragazzo e l'elogio della sua ascendenza, che è quella stessa di Platone, siano
un espediente ironico per permettere all'autore del dialogo di riflettere su se stesso e sul
proprio ruolo in quanto filosofo e parente di tiranni. Crizia dice a Socrate che Carmide è
nello stesso tempo philosophos e poietikos, e acconsente a farlo conoscere a Socrate,
facendo passare quest'ultimo per un medico in grado di curarlo dai mal di testa di cui
soffre. In bocca a Crizia, la sophia di cui è amico Carmide non è sentita in contrasto con
la poesia. Il filosofo, tuttavia, viene presentato al futuro tiranno sotto una veste
esplicitamente pretestuosa: quella di un medico, cioè di un "tecnico" che può giovare alla
sua salute: portatore, dunque, di un sapere settoriale - che agli occhi di un profano non si
distingue dalla magia - e non di una scelta di vita complessiva.
Socrate, però, racconta al ragazzo che non si può curare la testa senza curare il corpo
inteso come un intero [156c] e che non si può curare il corpo senza tener conto della
psiche o anima: le malattie coinvolgono la persona nella sua totalità.Con questa mossa,
Socrate,
sebbene
presentato come competente in un sapere settoriale, si legittima come portatore di un
sapere complessivo.
L'anima si cura, prosegue Socrate, con i logoi (discorsi) belli, che producono sophrosine
(temperanza). Ma Carmide, interloquisce Crizia, non si distingue solo per la sua idea(nel
senso di aspetto), ma anche per la sua sophrosine. Il futuro tiranno non ha bisogno di
imparare nulla. Ecco la chiave dell'impostura di Socrate: spacciarsi per detentore di un
sapere settoriale è l'unico modo per avvicinare chi non sa imparare e non è disposto ad
insegnare. La sophrosyne così descritta:
 è una scienza che non ha nessun oggetto esterno a se stessa;
 ma che si occupa di se stessa e delle altre scienze non in quanto dotate di oggetto,
bensì in quanto scienze;
 essendo la scienza della scienza, deve essere in grado di riconoscere anche la
mancanza di scienza;
 ma questo riconoscimento non può fondarsi sul confronto con un oggetto esterno
 e deve essere riflessivo: chi è dotato di sophrosyne deve essere in grado di dire "io,
in virtù del mio sapere, non so"
Si viene a formare un paradosso dovuto al contrasto fra la finitezza del soggetto
conoscente e del suo sapere - è per questo che la sophrosyne è una virtù - e la pretesa di
totalità implicita nella definizione di sophrosyne come scienza della scienza. Crizia si
trova dinanzi al difficile compito di dimostrare se e come sia possibile una sophrosyne che
sia ricorsivamente scienza della scienza e anche della non-scienza. Che coerenza e che
legittimità
può
avere
un
sapere
che
afferma
di
non
sapere?
Quando Socrate smaschera come incoerente la pretesa di produrre un sistema di
corroborazione epistemologica completa, non è lontano da Gödel. Ma se l'ignoranza
socratica è un sapere che non può essere dimostrato entro un sistema coerente
diconoscenza, ne segue, inevitabilmente, che filosofo e tiranno stanno faccia a faccia e
devono confrontarsi su una questione vitale che non ha soluzione formale.
Alcibiade maggiore
I personaggi dell' Alcibiade Maggiore sono due , Alcibiade e Socrate . Per saperne di più
su Alcibiade , visitare la pagina dell' " Alcibiade Minore " . La questione dell'autenticità
del dialogo é stata ampiamente dibattuta dagli interpreti , a partire dalla negazione di
Schleiermacher , largamente accolta dalla critica ottocentesca , soprattutto per motivi a
carattere filologico . E' stata in particolare sottolineata la somiglianza tra questo dialogo
e alcuni passi di Senofonte e addirittura di Aristotele . Oggi , tuttavia , si é propensi ad
attribuire la paternità del dialogo a Platone . Il periodo di composizione , come quello
dell' " Alcibiade Minore " é quello giovanile e L'Alcibiade maggiore é senz'altro uno dei
primi dialoghi di Platone . La scena viene ambientata in un luogo imprecisato , verso il
431 a.C. , alla fine dell' efebato di Alcibiade , mentre Pericle era al governo . Il dialogo
inizia con Socrate che si rivolge ad Alcibiade : gli chiede se non é stupito che , mentre
tutti l' hanno abbandonato , lui continua a stargli vicino : infatti sebbene gli amanti di
Alcibiade fossero tanti ed alteri , erano fuggiti tutti da lui , sopraffatti dalla sua superbia
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, prerogativa che accompagna Alcibiade anche nel " Simposio " . Socrate dice di voler
proprio chiarire il motivo della sua superbia : Alcibiade é convinto di non aver bisogno
di nessuno , di essere il migliore ; egli é uno dei più ricchi cittadini di Atene e , cosa che lo
aggrada e lo insuperbisce ancora di più , uno dei più nobili ( non solo di Atene , ma
dell'intera Grecia ) ; tutti i suoi amanti si erano lasciati dominare da lui perchè si
sentivano inferiori , ma appena possibile l'avevano abbondonato . Egli é destinato ( e
convinto ) ad avere successo nella vita politica , ma Socrate gli spiega che senza il suo
aiuto non ce la farà : già quando Alcibiade era ancora un bambino Socrate gli era
affezionato e voleva che fosse un suo discepolo , desiderava parlargli , ma il suo demone
glielo impediva . Ora , invece , é giunto il momento di discutere insieme : Alcibiade si
dichiara disposto al dialogo e così Socrate dà inizio al suo classico metodo del botta e
risposta : Alcibiade vuole diventare consigliere dell'Assemblea : dovrà quindi dare
consigli a riguardo di cose che egli conosce meglio degli altri ; ma ciò che sa l'ha appreso
o é innato in lui ? Alcibiade dice di averlo imparato ; il suo sapere riguarda
essenzialmente lo scrivere , il suonare la cetra e il lottare . Ma quando in assemblea si
parlerà di costruzioni , un architetto darà senz'altro consigli migliori dei suoi , quando si
parlerà di mantica sarà un indovino a dare consigli più preziosi , anche se meno nobile e
meno ricco di lui : il consigliare , secondo Socrate , spoetta a chi conosce e non a chi é
ricco . Ma Alcibiade spiega a Socrate che in Assemblea si danno consigli circa la guerra ,
su chi bisogna scegliere come alleato e chi come nemico , su quando farla e in che modo .
Socrate gli dice che se si deliberasse con chi si deve lottare un maestro di ginnastica
sarebbe più idoneo di lui , e dire con chi si deve lottare significa dire con chi é meglio
lottare . Ma cosa vuol dire meglio ? Il meglio nel fare la lotta é ciò che é ginnico ( dice
Socrate ) , e nel suonare la cetra quale é ? Alcibiade non sa rispondere e Socrate lo aiuta
dicendo che sarà ciò che é più musicale ; e per quello che riguarda il fare la pace o la
guerra , che cosa é meglio ? Alcibiade anche in questo frangente non é capace a
rispondere e suscita l'indignazione di Socrate , che gli chiede che cosa dirà quando in
qualità di consigliere gli verrà chiesto " Che cosa é il meglio ? " . Socrate cerca di farlo
ragionare e gli chiede con quale criterio ci si allea con l'uno piuttosto che con l'altro e lui
risponde che ci si allea con chi é giusto per combattere chi é ingiusto . Il meglio a
riguardo della pace corrisponde quindi al giusto : ci si allea con chi é meglio , cioè con
chi é giusto . Socrate é stupito dall'ignoranza di Alcibiade e gli domanda chi sia stato il
suo maestro : lui risponde che tutto quello che sa l'ha appreso dai più , dalla massa
popolare , un maestro su cui Socrate ha numerose riserve : tutti sanno distinguere un
uomo da un cavallo , ma quando già devono dire quale dei due sia più adatto alla corsa
non son più capaci di insegnare perchè sono in disaccordo tra loro . Ma Alcibiade non si
arrende e dice di possedere la scienza del giusto e dell'ingiusto , di essersene appropriato
e di non possederla da sempre : Socrate gli fa invece notare he già da bambino , quando
subiva un torto , si lamentava e diceva che era un'ingiustizia : già da piccolo pensava di
sapere , come sempre , cosa sia giusto e cosa sbagliato : non l'ha appreso . Alcibiade é
indignato perchè offeso , ma Socrate gli fa notare che si é offeso da solo : infatti lui si é
limitato a porgli domande e le sue stesse risposte l'hanno offeso . Alcibiade poi riprende
la tesi di Socrate dicendo che secondo lui , invece si fa la pace , ci si allea e si combatte
non perchè é giusto , ma perchè é utile ; Socrate dimostra l'identità di giusto e utile sulla
base della identità di giusto , bello , buono e utile . Alcibiade dice di essere confuso e di
non sapere più come stiano le cose : Socrate dice che comunque se gli si chiedesse quante
mani ha o quante dita saprebbe ancora rispondere e che quindi ciò su cui é confuso é ciò
che non sa : la peggiore ignoranza , gli spiega Socrate é credere di sapere quello che non
si conosce , soprattutto se si tratta di giustizia ( come nel caso di Alcibiade ) ed egli non
può far altro che riconoscere che Socrate ha ragione . Poi Socrate cita il caso di Pericle ,
che non era stato in grado di trasmettere le sue conoscenze : la sua non poteva quindi
essere una conoscenza approfondita . Alcibiade riprende il dialogo dicendo che
comunque sarà il migliore degli Ateniesi per bellezza e grandezza fisica e che quindi
primeggerà , ma Socrate gli fa notare che i suoi rivali non sono gli Ateniesi : che senso
avrebbe infati essere il numero uno degli Ateniesi , se poi il nemico é più forte ? L'
importante é , dice Socrate , essere superiori ai nemici in modo tale che non osino
neanche attaccarci guerra , ma che si alleino con noi , in quanto più forti . Alcibiade dà
ragione a Socrate e si corregge dicendo che i veri nemici sono i re degli Spartani e dei
Persiani ; Socrate ne approfitta e decide di esaminarli per vedere se sono superiori o
inferiori agli Ateniesi : dall'attenta esaminazione Socrate arriva alla conclusione che
l'unico modo per aver la meglio su di loro é usare la sapienza , e che se sarà Alcibiade a
capo degli Ateniesi , allora la sconfitta per gli Ateniesi sarà certa . Alcibiade vuole essere
un buon politico e chiede a Socrate di tratteggiare in breve le prerogative del vero
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Alcibiade minore
politico , che sappia ciò che rende migliore la città . La città , dice Socrate , viene salvata
e governata dall'amicizia e dalla concordia , due cose che si basano sulla giustizia e sulla
conoscenza . Socrate poi introduce il concetto del " prendersi cura di sè " : c'è un modo
di prendersi cura di qualsiasi oggetto : un calzolaio si prende cura delle calzature , ma
non del piede : al piede ci pensa la ginnastica ; di ciò che riguarda le mani si occupa
l'orefice , delle mani la ginnastica : allo stesso modo vi é differenza tra il prendersi cura
di ciò che ci riguarda e il prendersi cura di noi stessi . Ma che cosa é la cura di noi stessi
? E' la conoscenza di noi stessi : se ci conosciamo sappiamo come prenderci cura di noi ,
altrimenti , se non ci conosciamo , come possiamo farlo ? Primo passo per conoscerci é
sapere che l'uomo é costituito da un corpo e da un' anima : l'anima é l'essenza dell'uomo
, il corpo il suo strumento ; per questo motivo chi conosce esclusivamente il suo corpo
conosce ciò che gli appartiene , ma non conosce se stesso . Lo stesso concetto di amare va
rivisto , dice Socrate : amare veramente un uomo significa amare la sua anima , non il
suo corpo ; Socrate dice che tutti gli amanti che Alcibiade aveva avuto di lui avevano
amato solo il corpo , il suo strumento , una cosa destinata a morire , mentre invece lui ,
Socrate , di Alcibiade ama l'anima , che é la vera essenza e che é imperitura . Per
conoscere davvero noi stessi dobbiamo guardare nella parte migliore della nostra anima
: Socrate sembra ammettere che in ogni anima umana ci sia un fondo di divino , che la
rende migliore ; solo vedendo questa parte divina ci si può conoscere davvero e solo chi
conosce se stesso é in grado di governare la città , in quanto temperante : non conta
essere nobili o ricchi ( spiega Socrate ) , ma temperanti : solo l'uomo temperante saprà
governare la città . Quindi Alcibiade deve togliersi dalla testa di dover cercare il potere
tirannico , bensì deve cercare la virtù e deve cercarla nella sua anima : Alcibiade alla fine
del dialogo si sente un uomo nuovo , pronto a mettere in pratica quanto Socrate gli ha
detto .
La scena dell'Alcibiade minore , cui la tradizione ha dato il sottotitolo " Sulla preghiera
" , si apre presentando , senza preamboli sui luoghi e sui personaggi , una discussione fra
Socrate e Alcibiade a proposito della preghiera . Alcibiade visse all'incirca tra il 450 ed il
440 a.c. Era figlio di Clinia , della famiglia degli Eupatridi , una delle più ricche e potenti
di Atene , e di Dinomache , appartenente ad un'altra nobile famiglia ateniese . La vita di
Alcibiade fu assai avventurosa , costellata di molte peripezie , viaggi , mutamenti di
alleanze , rovesci e vittorie . Nel 404 , dietro istigazione dei Trenta tiranni e di Lisandro
di Sparta , venne assassinato in Frigia , dove si era rifugiato presso il satrapo Farnabazo
. Socrate incontra Alcibiade che sta andando a pregare con un " aspetto grave " . Socrate
dice che nel fare richieste agli dei bisogna essere molto prudenti perchè non capiti di
chiedere , senza saperlo , grandi mali , credendo che siano beni : Socrate cita il caso di
Edipo , che , secondo la leggenda , chiese agli dei che i suoi figli dividessero l'eternità
paterna con la spada . Alcibiade gli fa notare che Edipo era un folle e subito Socrate ne
approfitta per dar inizio al dialogo filosofico : l'essere folle é dunque il contrario
dell'essere assennato ? Alcibiade , più convinto che mai , dice di sì . Dunque ci sono
uomini dissennati , altri assennati altri ancora pazzi . Ma , per esempio , nel caso della
malattia o si é sani o si è malati : non c'è nè una via di mezzo nè una terza possibilità :
quindi , dice Socrate , o si è assennati o si è dissennati . Dato che non ci può essere una
terza possibilità , dissenatezza e follia rischiano di essere identiche . Ma se così fosse nella
città gli assennati sono pochi , mentre tanti sono i dissennati , che secondo quanto pensa
Alcibiade , sono folli . Ma se davvero follia e dissennatezza coincidessero , quei cittadini
che risultano dissennati e quindi folli si dovrebbero comportare tutti da folli :
dovrebbero andare in giro a percuotere la gente , a distruggere le case ... La premesse
non reggono . Socrate dice che il problema va affrontato in un modo diverso , ma simile :
prendiamo per esempio gli ammalati . Non è necessario che chi è ammalato lo sia di
podagra o di febbre o ancora di oftalmia . Potrebbe soffrire infatti di un'altra malattia
ancora : esse , infatti , sono tantissime . Ogni oftalmia é una malattia , ma non per questo
ogni malattia è un'oftalmia . Lo stesso vale nel campo dell'artigianato : vi sono calzolai ,
costruttori , scultori , pittori ... Essi esercitano parti distinte dell'arte e sono tutti
artigiani , senza essere però tutti costruttori , nè scultori , nè calzolai ... Socrate dice che
proprio così è stata divisa anche la dissennatezza . Pazzi sono quelli che possiedono la
parte maggiore di dissennatezza , sciocchi quelli che ne posseggono una parte inferiore .
Ma il problema ora é questo : chi sono gli assennati e che i dissennati ? Per Alcibiade
assennati sono coloro che sanno cosa si deve fare e dire , dissennati coloro che non sanno
nessuna delle due cose . Socrate dice che il punto è che tutti agli dei chiederebbero il bene
, o meglio , quello che loro credono essere bene , ma che magari è male : il chiedere di
essere tiranno può parere un bene , ma in realtà è un male dannosissimo . I dissennati
sono proprio coloro che credono che sia bene ciò che è male . Socrate arriva a dire che
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Protagora
per qualcuno è meglio ignorare piuttosto che conoscere . Alcibiade è allibito e non ci
crede , ma Socrate gli spiega la questione facendogli un esempio : se dovesse andare a
pugnalare un tale e non lo riconoscesse per ignoranza e quindi non lo uccidesse , dunque
l'ignoranza non risulterebbe un bene ? Socrate arriva poi a dire che il possesso delle altre
scienze senza quella del bene è inutile e addirittura dannosa : gli oratori , ad esempio ,
consigliano sempre , o perchè sanno consigliare o perchè credono di essere capaci a farlo
, a riguardo della guerra o della pace , o della costruzioni di mura o altro . Uno capace di
consigliare , ma senza conoscere nè che cosa sia meglio , nè quando sia meglio è
senz'altro un dissennato . Tuttavia egli consiglia il peggio pensando di consigliare il
meglio . La miglior preghiera che si possa rivolgere agli dei è chiedere loro di darci ciò
che è meglio , dice Socrate e poi cita una leggenda secondo la quale una divinità avrebbe
preferito alle preghiere degli Ateniesi , che gli fornivano ogni sorta di dono ma che
chiedevano il male pensando che fosse bene , quelle degli Spartani , che non gli facevano
offerte sontuose come gli Ateniesi , ma che chiedevano al dio il bene . Socrate dice poi ad
Alcibiade che occorre che qualcuno gli spieghi come rivolgere esattamente le preghiere
agli dei : un pò come Atena tolse la nuvola da davanti agli occhi di Diomede perchè
potesse distinguere un dio da un mortale , così dovrà fare quel qualcuno con Alcibiade .
Che cosa insegna Protagora ? Di che cosa il sofista rende abili a parlare? Questo è il
primo argomento del Protagora, che mette in scena, tramite la narrazione di Socrate ,
una conversazione in una casa privata, nella quale Protagora è ospite. Protagora di
Abdera è un celebre sofista, che vende il proprio sapere. In che senso il sapere è
vendibile? Perché questo sapere merita di essere acquistato? Queste domande sono
complesse: come osserva Socrate , il rischio nell'acquisto degli insegnamenti è molto più
grande che in quello del cibo. Il cibo è una cosa con cui si ha un rapporto, molto intimo,
di incorporazione: ma i cibi si possono portare a casa in un recipiente e analizzare,
mentre le cognizioni devono essere messe alla prova su sé stessi, nella propria anima.
Con un vantaggio o un danno irreversibile: conoscere significa cambiare, in un senso
"lineare" e irrevocabile, e non semplicemente soddisfare un bisogno che si presenta
ciclicamente e che deve essere compensato per mantenerci in vita. Per questo, le
cognizioni non possono essere valutate come se fossero cose. Il sofista vende qualcosa, e
perciò può essere ingannevole nel lodare la sua merce, senza porsi il problema di sapere
se faccia bene o male ai suoi "clienti". Il rapporto commerciante/cliente è un rapporto di
manipolazione, nel quale chi vende si preoccupa solo di sfruttare a proprio vantaggio un
bisogno dell'altro, o addirittura di suscitare nell'altro un bisogno che non ha. Il problema
del bene dell'altro, in questo contesto, è del tutto superfluo, se non deleterio, rispetto allo
scopo di vendere. Il potenziale di manipolazione insito nel rapporto fra commerciante e
cliente è particolarmente grave quando si ha che fare con la conoscenza, che forma
l'uomo più profondamente di quanto faccia il cibo, dato che offre strumenti per valutare
tutto il resto. Ciò che si impara non può essere dimenticato allo stesso modo in cui ci si
libera del cibo. Socrate osserva che tutti hanno la parola ad Atene, quando si deve
deliberare sul modo di condurre gli affari di stato, mentre nelle altre arti - la medicina,
per esempio - c'è una divisione del lavoro che porta ad affidare le deliberazioni tecniche
alle persone competenti. Evidentemente, per gli Ateniesi, la politica non è insegnabile: se
tutti hanno titolo a parlare di politica, tutti la conoscono già e dunque non occorre
insegnarla. Protagora , tuttavia, dice di insegnare l'arte politica, che è l'arte di
amministrare con senno tanto la propria casa, quanto le faccende pubbliche. Protagora
illustra la sua tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere
in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della
cultura e dell'organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come
artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di
queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all'uomo, bensì
come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e
non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render
conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre
non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli. Socrate non è convinto:
perché l'insegnamento della giustizia è spesso talmente fallimentare che la virtù del
padre non riesce neppure ad essere trasmessa al figlio? Protagora risponde, questa volta,
non con un mito, ma con un discorso o ragionamento: c'è o non c'è qualcosa di unico, cui
è necessario che tutti i cittadini partecipino, se la città deve sussistere? Se questo
qualcosa è andros arete (e cioè giustizia, pietà religiosa, temperanza, sapienza) allora nei
suoi confronti ci si comporta come se fosse insegnabile. In primo luogo, si punisce chi si
comporta ingiustamente, guardando al futuro, cioè allo scopo di impedire il colpevole o
altri ricadano in quel comportamento: ma questo comportamento ha senso solo se si
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presuppone che sia possibile imparare ad essere giusti. Inoltre, anche il più ingiusto degli
uomini che vivono in città partecipa della virtù (politica), proprio come tutti coloro che
parlano il greco partecipano alla sua conoscenza. La giustizia e il pudore, che la rende
efficace, possono dunque essere considerate come la "lingua" della convivenza comune.
E il sofista si distingue dagli altri perché sa aiutare chiunque a divenire buono e bello,
cioè ad usare questa "lingua" in maniera eccellente. In altri termini: il sofista non
conosce nulla più di quanto già conoscono tutti, ma la sua arte consiste nel saperlo
esprimere ed insegnare meglio degli altri. La garanzia della sua competenza è solo la sua
eccellenza personale. La comunicazione del sapere All'inizio del dialogo, Protagora aveva
affermato che la sofistica è un'arte molto antica, risalente addirittura ai poeti Omero,
Esiodo e Simonide. Qui se ne vede la ragione: il sofista, come il poeta, non fa che
esprimere e tramandare un sapere comune. A questo punto Socrate , che era stato ad
ascoltare il lungo argomento di Protagora , lo interrompe, osservando che alcuni oratori
pubblici sanno fare lunghi e bei discorsi ma, come libri, se venissero interrotti e li si
interrogasse, non saprebbero rispondere, né a loro volta porre domande. Piuttosto,
replicherebbero con un altro lungo discorso, risuonando come bronzi percossi. Come nel
Fedro , Socrate sembra pensare che un sapere comunicato monologicamente,
sottraendosi al dialogo, sia un morto nozionismo, se non addirittura un esercizio di
potere. Bisogna sottolineare che lo stile monologico di Protagora si concilia bene con il
ruolo politico-educativo che il sofista attribuisce a se stesso: non occorre il dialogo,
quando chi parla si limita ad esprimere al meglio ciò che gli altri già sanno - quando,
cioè, la conoscenza etica e politica non è intesa come frutto di una faticosa costruzione,
ma come una "dote" di fondo che si dà per presupposta. Socrate cerca di condurre
Protagora ad una argomentazione dialogica, chiedendogli se giustizia, temperanza,
santità sono parti dell'unica virtù, oppure sinonimi di un'unica realtà. Protagora
risponde che sono come la parti di un volto, cioè parti di un intero qualitativamente
differenti e coordinate fra loro, e non come le parti dell'oro, che differiscono fra loro solo
quantitativamente. Socrate replica che, se è così, allora ogni parte della virtù è diversa
dall'altra e si può avere una parte senza avere l'altra. Per esempio si può essere
coraggiosi senza essere sapienti. Oppure, per fare un altro esempio, la giustizia può
entrare in contrasto con la pietà religiosa: la giustizia può essere empia e la santità
ingiusta. Questa conclusione andrebbe a scardinare la morale politica della città, con un
conflitto "fra virtù" simile a quello della tragedia sofoclea Antigone. Socrate esprime la
sua opinione: fra giustizia e pietà religiosa non può esserci conflitto, anzi, ci deve essere
identità. Protagora replica che tutte le cose, anche se differenti, hanno qualche elemento
in comune; ma non basta questo per chiamarle uguali. Pertanto, per la presenza di
qualche elemento comune, la distinzione fra le parti della virtù non comporta
necessariamente nè la loro identità nè la loro reciproca contraddizione. Non c'è dunque
bisogno di trattare le virtù come se fossero una cosa sola. La morale politica, in altri
termini, comporta la possibilità che virtù differenti siano fra loro armoniosamente
coordinate in un unico intero. Socrate prosegue ponendo un altro problema concernente
la relazione fra le virtù, e cioè: chi compie un atto ingiusto agisce da saggio? Protagora
risponde che personalmente si vergognerebbe di affermarlo, ma che molti sostengono
una tesi simile, e cioè che si può commettere ingiustizia e comportarsi saggiamente,
quando se ne ricava dell'utile. Una logica di questo genere si trova, per esempio, nel
dialogo degli Ateniesi con i Melii riportato da Tucidide. Protagora , per il quale, come
sappiamo da un suo frammento, l'uomo è la misura di tutte le cose, afferma che l'utile è
relativo al soggetto cui si indirizza: ci sono cose utili agli uomini e nocive ai cavalli, o utili
se usate all'esterno e dannose all'interno del corpo e così via: "in effetti il bene è qualcosa
di svariato e multiforme…." Questa conclusione è insidiosissima per le morale della
polis, di cui Protagora si era presentato maestro. Se il bene si riduce all'utile, e l'utile è
relativo al tipo di soggetto interessato, allora, come diceva Tucidide, si può parlare di
giusto solo ove un'uguale costrizione o necessità lo rende "utile" per tutte le parti in
causa. Altrimenti, non c'è nessun ostacolo all'etica aristocratica della prevalenza del più
forte e della legge non più comune, bensì solo personale. Il nucleo dell'obiezione di
Socrate è questo: se le parti della virtù vanno intese come parti fra loro differenti, si pone
il problema del principio della loro coordinazione. Un volto con le sue parti, per usare la
metafora di Protagora , è un intero già dato. Ma se le virtù sono cose che si imparano, e
non doti naturali, allora la loro coordinazione deve essere costruita e giustificata. Socrate
interrompe Protagora , chiedendogli ironicamente di spezzare i suoi lunghi discorsi,
altrimenti, a causa della sua scarsa memoria, egli non riesce a seguirlo. Protagora replica
che se avesse parlato come voleva l'avversario, ora non sarebbe il migliore, nè sarebbe
diventato famoso. Socrate minaccia di andarsene e si perviene a un compromesso.
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Questa interruzione è importante: Socrate pone il problema del potere nella
comunicazione del sapere. Se il sapere è qualcosa che è oggetto di competizione - se si
deve fare a gara a chi è il miglior sofista, per esempio - inevitabilmente verrà scelta la
modalità di comunicazione più vantaggiosa per chi parla. Il discorso lungo e monologico
è un espediente ottimo se si vuole mettere a tacere l'avversario, e rendergli difficile
seguire - e criticare - i nostri passaggi logici. Una comunicazione funzionale al potere
prediligerà, pertanto, la "macrologia" monologica, ossia una argomentazione ampia,
diffusa e non "interattiva". Protagora è un sofista: uno che vende il proprio sapere in un
regime di libera concorrenza. La sua comunicazione deve essere intrisa di una logica di
potere e di monopolizzazione del tempo e dell'ascolto del suo pubblico: non potrebbe
permettersi - neppure economicamente - di valersi del principio dialogico, che è
collaborativo e critico. Se il sapere deve essere venduto, chi discute con noi è giocoforza o
un concorrente o un cliente, e non un nostro pari nella ricerca della conoscenza. Dopo un
interludio, dedicato all'esegesi di un passo del poeta Simonide, Socrate propone di
ritornare sull'argomento della conversazione, che era il problema dell'insegnabilità - e
dunque della scientificità - della virtù. Parlare dei poeti, che non si possono neppure
interrogare su quello che dicono, è come far suonare la voce estranea del flauto ai
banchetti, perché non si ha nulla da dire con la propria voce. Socrate chiede di nuovo se
sapienza, coraggio, temperanza, giustizia, pietà religiosa (le virtù tradizionali del
cittadino) sono cinque nomi che si riferiscono a un solo oggetto, cioè sono sinonimi.
Oppure ciascuno di questi termini si riferisce a qualcosa che non abbia una potenzialità
identica all'altra, cioè a elementi reciprocamente diversi? Protagora risponde che sono
tutte parti della virtù, ma il coraggio può esserci anche in mancanza di sapienza,
temperanza, giustizia e pietà religiosa. Socrate replica che il coraggioso - che non è lo
sconsiderato - è uno che ha coraggio in cose che sa fare. Dunque sapienza e coraggio sono
identici. Protagora obietta che così ragionando, si potrebbe dire che chi è fisicamente
forte è potente, e chi ha imparato la lotta è più potente, e dunque sapienza e forza fisica
sono la stessa cosa. Possiamo provare a interpretare la tesi di Protagora in termini
insiemistici: l'insieme F dei forti interseca l'insieme S dei sapienti: la zona grigia
dell'illustrazione conterrà persone forti e sapienti. Possiamo anche sostenere, in termini
intensionali, che la sapienza rende possibile usare la forza con criterio, e dunque rende
più forti. Ma da ciò non segue che forza e sapienza siano la stessa cosa. Se ci mettiamo in
una prospettiva estensionale, possiamo vedere senza difficoltà che esistono sia sapienti
che non sono forti (parte gialla di S), sia forti che non sono sapienti (parte grigio scuro di
F). Socrate , però, si propone di dimostrare che tutte le virtù hanno, intensionalmente,
come loro componente essenziale la conoscenza. Questo implica che ciascuna virtù possa
avere anche altri caratteri, ma che sia identificabile come virtù perché ha la
connotazione essenziale della sapienza o conoscenza. Socrate sposta la questione,
conducendo Protagora ad affermare che alcune cose piacevoli sono buone; altre no; altre
sono indifferenti; e lo stesso discorso vale per le cose dolorose. Dunque il piacere, preso a
sé, non è un bene. La scienza - chiede ancora Socrate - ha capacità di coordinazione delle
azioni umane, oppure queste sono guidate da piacere, dolore, amore talvolta, più spesso
paura, e la scienza è come un loro servo? Oppure la scienza è qualcosa di bello, capace di
avere in mano il governo dell'uomo, tanto che se si conosce il bene e il male non si può
essere dominati da null'altro? Protagora , in quanto sofista, sceglie la seconda opzione.
Ma aggiunge che la maggioranza degli uomini dice che pur conoscendo il meglio e
potendolo seguire, non lo fa perché sopraffatta da paura, dolore, piacere e altre passioni.
Socrate osserva, assumendo il punto di vista della maggioranza, che certi piaceri sono
riconosciuti cattivi perché conducono a dolori, e certi dolori buoni perché conducono a
piaceri. Ma questo significa che bene e piacere coincidono. E dunque chi dice di fare il
male perché sopraffatto dal piacere, dice in effetti contraddittoriamente che fa cose
spiacevoli, cioè cattive, perché sono piacevoli, cioè buone. E anche affermando che si
scelgono piaceri minori presenti contro piaceri maggiori futuri, si ricade nella stessa
difficoltà. Si può però dire che l'apparenza dei piaceri vicini è più forte ed evidente di
quella dei piaceri futuri e lontani. Ma allora la felicità sta nell'arte della misura, o nella
forza dell'apparenza? Se vale la prima risposta, la salvezza della nostra vita consisterà
nella scienza. Lasciarsi sopraffare dal piacere è ignoranza. L'essere vinto da se stesso è
ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Nessuno fa volontariamente e consapevolmente
qualcosa che ritiene male. Ragionando così, Socrate deve sostenere, in contraddizione
con i suoi dubbi iniziali, che la virtù è scienza, e dunque è insegnabile; mentre se fosse
come diceva Protagora , non lo sarebbe: se trattiamo la virtù come una pluralità di
facoltà, nulla ci assicura che queste ultime siano in armonia fra loro. Protagora stesso lo
riconosce, quando sostiene che certe virtù, come il coraggio, possono non essere
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accompagnate da sapienza. Bisogna però sottolineare che la "scientificità" della virtù di
Socrate è ben diversa dall'insegnabilità di cui parlava Protagora . Non si tratta di
esprimere meglio qualcosa di comune e acquisito con tutte le sue potenziali incoerenze,
ma di governare consapevolmente la propria vita. Il tema della comunicazione del
sapere, anche se compare solo come interludio nella discussione fra Socrate e Protagora ,
è intrecciato a quello della virtù. Se virtù è conoscenza, come capacità di cosciente
autogoverno, essa può svilupparsi solo nella consapevolezza personale, e non nell'ascolto
passivo di lunghi monologhi propagandistici. Non a caso, Socrate conclude dichiarando
di preferire Prometeo a Epimeteo, perché questi gli permette di provvedere alla sua vita
nella sua interezza. Infatti, mentre Epimeteo distribuisce cose già pronte per l'uso, e
utilizzabili solo in un modo, Prometeo - il dio della techne - dona all'uomo
consapevolezza e possibilità di uno sviluppo autonomo. Socrate non dice nulla della terza
distribuzione del mito di Protagora , quella compiuta da Zeus, che dà a tutti aidos e dike.
Si può però sospettare che questi doni siano, nella sua prospettiva, dei palliativi
"epimeteici", cioè meri strumenti che gli uomini devono ricevere passivamente, da un
dio o da un sofista, proprio come gli animali hanno ricevuto da Epimeteo le loro zanne e i
loro artigli. E che la virtù come conoscenza sia qualcosa che non si può nè ricevere, nè
comprare, ma che ciascuno, discutendo con gli altri, deve comprendere e costruire da sè.
La conclusione di questo dialogo può essere vista come un esempio di ironia complessa.
Protagora è riuscito a convincere Socrate sul fatto che la virtù sia qualcosa di
insegnabile? Sì e no: Socrate dichiara esplicitamente di aver cambiato idea: questo,
letteralmente, è quello che è accaduto. Ma, come abbiamo visto, egli intende per "virtù
insegnabile" un esercizio di critica e di consapevolezza che è assai diverso
dall'espressione sofistica dei valori politici della cultura civica. Socrate , in realtà, non è
d'accordo col sofista, ma è stato da lui "convinto", perché ha indotto Protagora a
riconoscere una prospettiva alternativa a quella che egli aveva inizialmente proposto.
Gorgia
Il dialogo si svolge in casa di Callicle, che ospita il sofista Gorgia di Leontini e il suo
discepolo Polo, in un momento posteriore al 407 (Socrate allude alla sua esperienza di
pritania dicendo che è avvenuta l'anno precedente). Callicle, che svolge una parte
rilevante nel dialogo, è probabilmente un personaggio inventato dalla fantasia di Platone
per rappresentare, per così dire, l'acclimatazione dell'etica aristocratica alla democrazia.
Il Gorgia è un passo importante nella maturazione del pensiero di Platone: l' élenchos e
alcune tesi socratiche convivono con la critica filosofica alla democrazia e con l'accenno a
miti e temi metafisico-morali destinati a venir sviluppati nelle successive opere della
maturità. Gorgia , che si vantava di saper rispondere a qualsiasi domanda, è reduce da
una fortunata esibizione pubblica. Socrate gli pone un quesito analogo a quello cui
aveva messo di fronte Protagora : "chi sei?", cioè "che cosa insegni?" Polo, ambizioso
allievo del sofista, si offre di rispondere in sua vece: gli uomini hanno molte technai,
apprese dall'esperienza. L'esperienza fa sì che la nostra vita proceda secondo una regola
(kata technen) e non a caso (kata tychen ). Gorgia è il migliore, perché possiede la
techne più bella. [448c] La tesi di Polo ha una componente epistemologica: l'idea che la
techne, intesa nel senso di conoscenza indirizzata alla pratica, derivi esclusivamente
dall'esperienza. Socrate osserva che il giovane sofista ha imparato la retorica, ma non il
dialeghesthai, cioè l'arte del dialogo come argomentazione finalizzata alla verità: si è
lanciato in una lode della retorica, ma non ha detto che cos'è. Ha fatto un discorso
propagandistico, mentre Socrate chiedeva una definizione che spiegasse quale fosse il
contenuto caratterizzante dell'insegnamento di Gorgia. [448d] Interviene Gorgia , che
accetta di discutere con Socrate usando la brachilogia, l'argomentazione breve, che
rende possibile l'interlocuzione, in luogo della macrologia: un abile sofista sa
padroneggiare entrambe le tecniche. La retorica - spiega Gorgia interrogato da Socrate
- è una techne, come la tessitura, la medicina, la ginnastica, la musica. Tutte le technai
producono discorsi persuasivi nel rispettivo ambito di competenza e hanno ad oggetto
dei beni. Le technai manuali si risolvono nel lavoro, quelle discorsive hanno la loro
azione e ratificazione nei discorsi. In particolare, la retorica si occupa di produrre
discorsi persuasivi nelle assemblee politiche e nei tribunali: il suo oggetto è il giusto e
l'ingiusto. E' una techne che conferisce grande potere a chi la domina, perché un
discorso persuasivo può sopravanzare, nelle pubbliche assemblee, le argomentazioni di
esperti in altri rami del sapere. [ 449d ss.] Socrate induce Gorgia a distinguere fra il
memathekenai e il pepisteukenai, ossia fra il sapere che segue all' avere imparato e la
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convinzione che segue all' essere stati persuasi. [ 454c ss]. Sia chi ha imparato, e dunque
sa, sia chi è stato convinto, e dunque nutre una credenza, è persuaso di ciò che gli è stato
messo in mente: ma mentre può esserci una persuasione ( pistis ) vera e una persuasione
falsa, non può esservi una scienza ( episteme ) falsa. La retorica, che mira alla
persuasione e non all'insegnamento, suggerisce soltanto delle credenze, e funziona
soprattutto davanti a un pubblico di ignoranti - un pubblico cui non viene trasmesso
nulla, ma è semplicemente manipolato. Gorgia sottolinea che se della retorica viene fatto
un uso ingiusto, la responsabilità di questo uso non dipende da chi l'ha insegnata, ma
dall'allievo che la impiega così. In altri termini, l'arte del sofista è uno strumento
moralmente neutro, una tecnica nel senso moderno della parola, il cui significato
assiologico dipende dall'uso che se ne fa. Socrate replica che, stando così le cose, il retore
non è esperto neppure sull'oggetto del suo discorso, il giusto e l'ingiusto, e conosce solo
l'arte di persuadere gli ignoranti, cioè di sembrare sapiente fra gli incompetenti. Gorgia
, cadendo in contraddizione con quanto detto prima, risponde affermando che la retorica
comporta anche la conoscenza di ciò che è giusto. [460c-d] La distinzione socratica fra il
sapere che segue l'aver imparato e la persuasione che segue all'essere convinto potrebbe
incorrere nel sospetto di essere una distinzione meramente retorica: chi ci assicura che
l'insegnamento non sia una forma scaltrita di persuasione? Anche i sofisti con cui
Socrate si confronta hanno la pretesa di insegnare qualcosa; le domande con cui Socrate
li incalza suggeriscono il dubbio che la sofistica non abbia nulla da trasmettere, ma si
riduca al marketing di se stessa. Gorgia stesso, di fronte a questo dubbio, preferisce
cadere in contraddizione, affermando che la retorica ha qualcosa da insegnare sul giusto
e sull'ingiusto. Socrate è davvero diverso dai sofisti? Per rispondere a questa domanda,
dobbiamo scoprire, nell'argomentazione di Socrate , qualcosa che la distingua dalla
retorica sofistica. E questo compito è difficile, perché Socrate conosce ed usa le tecniche
argomentative dei suoi avversari. Ma, proprio discutendo con Gorgia , fa
un'affermazione che nessun sofista potrebbe condividere: ...ritengo l'essere confutato
come un maggior beneficio, tanto maggiore, quanto è meglio essere liberati dal male più
grande che liberarne altri. (458a) Lo spessore semantico del sostantivo greco élenchos e
del corrispondente verbo elencho comprende non solo la nostra "confutazione", ma
anche il venire riconosciuti colpevoli, e l'essere svergognati (in Omero). L' elenchos, in
altri termini, non è una riprovazione puramente cognitiva, ma comporta una esperienza
umiliante. Un sofista o un politico pubblicamente confutati avrebbero fatto una brutta
figura, e avrebbero perso mercato o potere. Stando così le cose, è bizzarro e paradossale
che Socrate veda nell' élenchos una esperienza salutare e benefica, tanto da render
preferibile il venir confutati al confutare; ed è analogamente bizzarra la convinzione
socratica che subire ingiustizia sia meglio che commetterla. Ma proprio simili
convinzioni distinguono l' atteggiamento di Socrate da quello dei sofisti: Socrate può
avere la certezza di "insegnare" perché egli stesso si espone alla confutazione e, non
facendosi pagare, rifiuta la competizione della politica e del mercato. La differenza
prima fra stile socratico e stile sofistico non è solo logica ed epistemologica - non
riguarda solo gli strumenti argomentativi - ma ha anche a che vedere con un
orientamento e un interesse etico, preliminari allo sviluppo dei suoi ragionamenti: è per
un interesse etico che Socrate mette alla prova se stesso e gli altri in una confutazione che
è allo stesso tempo una esperienza di purificazione personale. Polo sfrutta l'imbarazzo
del maestro come occasione per rifarsi avanti: Gorgia si è vergognato di ammettere che
la retorica è una tecnica indipendente da ogni controllo assiologico, e Socrate ne ha
approfittato per farlo cadere in contraddizione. Ma come se la caverebbe Socrate, se
fosse investito del compito di rispondere? Socrate accetta la sfida, e si impegna a
sostenere la tesi che la retorica - l'arte di argomentare in pubblico - non è una vera e
propria techne, perché non ha ad oggetto un bene umano; è, piuttosto, una forma di
kolakeia, cioè di adulazione e di seduzione. Non avendo un progetto, essa si basa solo
sull'esperienza, come del resto aveva detto Polo all'inizio del dialogo. Il rapporto fra la
retorica e l'amministrazione della giustizia, intesa come una techne, è paragonabile a
quello fra la cucina e la medicina: un bravo cuoco, in base alla sua esperienza, può certo
cucinare cibi gradevoli al palato, ma solo un buon medico, che ha in mente un ideale di
salute fisica, sa dire quale sia la dieta più sana. [463b ss] Per questo motivo, non si può
sostenere che sia sufficiente l'esperienza a fare una techne: occorre anche una
conoscenza dei fini cui è indirizzata l'azione. Questa conoscenza non può derivare solo
dall'esperienza, perché richiede un giudizio sui fini in base ai quali facciamo i nostri
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progetti. Polo replica dicendo che retori e tiranni hanno un grande potere nella città,
perché possono far bandire o mettere a morte chi vogliono. Una tesi di questo genere
presuppone la convinzione che la retorica, se intesa come tecnica agnostica rispetto alla
natura e al valore dei fini per i quali viene impiegata, accresca il potere delle persone che
la dominano. Imparare una tecnica mettendo fra parentesi il problema della moralità dei
suoi fini conduce a padroneggiare degli strumenti che ci sarebbero preclusi se avessimo
scupoli di natura etica. Il nostro arbitrio, in questo modo, avrà possibilità più ampie di
realizzazione. [466a ss] Socrate , che pensa che una vera techne includa la
consapevolezza e la valutazione dei suoi fini, deve dimostrare che i retori e i tiranni non
hanno le potenzialità loro attribuite, perché non hanno la consapevolezza e la capacità di
valutare gli scopi per i quali agiscono. Essi non fanno ciò che desiderano, ma ciò che
sembra loro opportuno. E le due cose non sono necessariamente identiche. Gli uomini
agiscono per degli scopi, che devono essere dei beni per loro: ad esempio, chi beve una
medicina amara, lo fa in vista di un bene, la sua salute. Le azioni che compiono per
ottenere questi beni sembrano loro buone. Ma una azione che sembra buona, cioè in
grado di realizzare il bene cui è finalizzata, può non essere l'azione più adatta per
conseguire il bene che l'agente si prefigge. In questo caso, l'agente fa ciò che gli sembra
bene, ma non fa ciò che desidera. Usando una distinzione prodotta dalla filosofia
analitica (E. Anscombe), possiamo dire che, in questo caso, l' oggetto reale della sua
azione non si identifica con il suo oggetto inteso. Ciò che l'azione effettivamente realizza è
diverso da ciò che l'agente aveva in mente di ottenere. Questo avviene quando un agente,
pur avendo il potere di agire, manca di conoscenza sulla vera natura della sua azione.
Facciamo un esempio: l'oracolo annuncia a Edipo che ucciderà sua padre e sposerà sua
madre. Edipo, essendo convinto che i suoi genitori adottivi di Corinto siano i suoi
genitori naturali, fugge a Tebe per sottrarsi alla profezia. Qui comincia a desiderare di
sposare la vedova del re, Giocasta. Questo è l'oggetto inteso della sua azione, ciò che gli
sembra bene. Edipo, tuttavia, non sa che Giocasta è sua madre; ignora, pertanto, che
l'oggetto reale del suo desiderio è proprio ciò che sta cercando di evitare, e cioè il
matrimonio con sua madre. Edipo fa quello che gli sembra bene, ma non quello che
desidera, a causa della sua ignoranza. Se ci manca la conoscenza, non basta il potere, per
realizzare quello che vogliamo. Quando Socrate afferma che il potere senza conoscenza
non ha nessun valore, non sta parlando di una conoscenza semplicemente tecnica, ma
della conoscenza del bene, che permette di discernere il giusto dall'ingiusto. Egli ha di
fronte un interlocutore, Polo, il quale pensa che la retorica, svincolata dall'etica, possa
migliorare il benessere di chi se ne vale senza farsi scrupoli. Il poter fare ciò che sembra
dei retori e dei tiranni è qualcosa di invidiabile. E a questo interlocutore deve dimostrare
che l'ingiustizia, e non l'impotenza, è il male supremo: Il supremo male, il male peggiore
che possa capitare, è commettere ingiustizia... Non vorrei né patirla né commetterla, ma,
fra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere
ingiustizia. [469b-c] Socrate conduce Polo a riconoscere che il vero potere non è
semplicemente fare ciò che si vuole, ma riuscire a trarne vantaggio. Il giovane sofista,
allora, gli adduce come esempio di felicità (eudaimonia) un usurpatore e tiranno di
successo, il despota macedone Archelao figlio di Perdicca. Come prova della sua tesi
presenta il consenso della maggioranza. Socrate , però, non accetta questa prova come
valida: il ridicolo e l'appello ad una opinione condivisa dai più sono solo surrogati di
confutazione - surrogati tanto più sospetti in quanto offerti da un sofista, che fino a un
momento fa si era vantato di saper manipolare le assemblee con la propria retorica - i
quali non hanno nessun valore in una argomentazione ad veritatem. [471d ss] Socrate si
propone di dimostrare a Polo, con il metodo elenctico, che non è possibile essere nello
stesso tempo adikos (ingiusto) ed eudaimon (felice). L'opinione da cui prende avvio l'
élenchos è la tesi di Polo secondo cui subire ingiustizia è peggiore (kakion) che
commetterla; ma commettere ingiustizia è moralmente più brutto (aischion) che patirla.
Questa tesi si basa sul presupposto che la bellezza e la bruttezza morale (kalon e
aischron) siano diverse dall' agathon e dal kakon, cioè dal bene e dal male in quanto
inteso a procurare felicità. Il primo passo dell'élenchos consiste nel chiedere per quale
ragione una cosa è considerata "bella" (kalos). La risposta è: perché dà piacere o è utile
a chi la contempla. Analogamente, una cosa apparirà brutta (aischros) se provoca dolore
o danno. Cioè il bello e il brutto dipendono dal piacere e dal dolore che provocano, o (vel)
dal bene e dal male che procurano. Polo aveva riconosciuto che commettere ingiustizia è
più brutto (aischion) che patirla. Ma questo significa che Polo riconosce anche che
commettere ingiustizia può essere o più doloroso o (vel) più dannoso (peggiore) che
subirla. Commettere ingiustizia non supera in dolore in patirla. Possiamo però
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ammettere che lo supera in male, e quindi: commettere ingiustizia è peggio (kakion) che
subirla. Questo argomento si basa su un' omissione, che lo può fare apparire un sofisma,
se non rendiamo esplicite le sue premesse tacite. .Ma, nel dialogo, è un argomento
sufficiente a piegare Polo: la giustizia, in quanto padronanza di sé o sophrosyne,
rappresenta il benessere e la salute dell' anima. E chi si sottrae alla giustizia correttiva e
alle sue punizioni, si comporta come un bambino che cerchi di sottrarsi alla sua
medicina, perché non si rende conto che serve per guarirlo. Anzi, se vogliamo il male di
un nostro nemico dobbiamo cercare di sottrarlo alla giustizia, perché viva il più a lungo
possibile in compagnia della sua infelicità. Perciò, conclude Socrate ironicamente, la
retorica serve soltanto quando si ha a che fare con chi ha intenzione di commettere il
male. Altrimenti è perfettamente inutile. A questo punto, irrompe nella discussione un
interlocutore ancora più agguerrito di Polo, il padrone di casa Callicle. Socrate parla sul
serio o scherza? Perché, se dicesse sul serio, l'intera vita umana sarebbe capovolta, e tutti
faremmo proprio il contrario di quello che dovremmo fare. Socrate gli risponde con un
gioco di parole: siamo entrambi innamorati, io di Alcibiade e della filosofia, tu del demos
ateniese e di Demo figlio di Pirilampo. Tu non sai contraddire quello che dice il tuo
amore, ma ti lasci cambiare da cima a fondo. Così faccio io; con la differenza che
Alcibiade dice ora una cosa ora un'altra, la filosofia sempre la stessa. E se non confuti
quanto sostiene la filosofia, tu sei in disaccordo con te stesso e disarmonico
(asymphonon). Per capire che cosa vuol lasciare intendere Socrate, dobbiamo tener
presente che il rapporto fra l'amante adulto e il più giovane amato era di tipo educativo:
Callicle che fa tutto quello che dice Demo, che è, con un doppio senso, un ragazzo e il
popolo, è un cattivo politico e un cattivo amante. [481b ss.] Callicle decide di stare al
gioco: Socrate è riuscito a prevalere su Gorgia e su Polo perché ha usato dei trucchi
retorici, e ha approfittato del fatto che i due sofisti si vergognassero a dire quello che
veramente pensavano. Entrambi hanno trattato l'idea di giustizia come qualcosa di dato,
e non hanno osato metterla in discussione. Ma basterebbe smascherare il carattere
convenzionale di questa idea per sottrarsi agli argomenti di Socrate, la cui forza si basa
solo sul pudore altrui. Polo, quando diceva che commettere ingiustizia è più brutto
(aischion) che subirla, intendeva più brutto kata nomon (per legge o per convenzione od
uso); Socrate , invece, suggerisce che lo sia kata physin (per natura). Ma per natura ciò
che è più brutto - subire ingiustizia - è anche peggiore; è solo kata nomon che è il
contrario. Per natura non è da aner (uomo, nel senso di maschio), ma da servo subire
ingiustizia senza essere capaci di ricambiarla, ed è meglio morire che vivere maltrattati e
offesi. Quelli che fanno i nomoi sono i deboli e i molti, per il loro utile (sympheron ).
Spaventano i più forti, che potrebbero prevalere, dicendo che è brutto e ingiusto
pleonektein (pretendere di avere più del dovuto) e cercare di prevalere sugli altri. Essi
amano avere l'uguale perché sono mediocri. Ma per natura è giusto che il migliore
prevalga sul peggiore, e il più potente sul meno capace. Questo la natura lo mostra
ovunque, tra gli animali e tra gli uomini, nelle città e nelle famiglie. Il forte che riuscisse
a liberarsi dagli incantesimi della città, sarebbe nostro padrone. Questo sarebbe il
physeos dikaion (il giusto secondo la legge di natura). [483a ss.] La filosofia è solo un
passatempo per i giovani, e non è da aner continuare a proticarla da adulti, quando si
deve misurare il proprio valore nell'agorà e nella polis: Socrate, ad esempio, non
saprebbe difendersi se accusato ingiustamente in tribunale, proprio perché perde tempo
con la filosofia, quando la retorica sarebbe assai più utile. Le tesi di Callicle usano la
sofistica e l'etica aristocratica per smascherare la giustizia e l' isonomia democratica
come ingannevole e convenzionale. La realtà dei rapporti umani, come si può vedere
nella famiglia e nella politica estera, si basa sulla legge del più forte, che,
aristocraticamente, è anche il migliore. Callicle, tuttavia, nonostante faccia proprio
l'arsenale delle critiche antidemocratiche contemporanee, accetta la democrazia come
campo di battaglia: i migliori sono, elitisticamente, anche coloro che prevalgono
manipolando le masse con la retorica. Socrate si compiace di aver trovato un
interlocutore come Callicle, che è la miglior pietra di paragone per la sua anima, in
quanto possiede scienza, benevolenza e parresia (franchezza nel parlare). E dopo questa
captatio benevolentiae, egli comincia l' élenchos, che punta, impietosamente, sui suoi
pudori. Nel confronto con Callicle, che è un aristocratico, Socrate si atteggia ad ingenuo,
ma sceglie provocatoriamente esempi che fanno riferimento a cose e persone "vili", allo
scopo di irritare e mettere in ridicolo il suo interlocutore. Questo espediente retorico
serve a smascherare i presupposti assiologici che Callicle nasconde acriticamente sotto la
sua professione di realismo. La prima obiezione di Socrate mette in luce una
contraddizione caratteristica della critica aristocratica all'etica della democrazia: se la
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maggioranza pensa che commettere ingiustizia è peggio che subirla, e impone con la
forza la sua preferenza alla minoranza, è nel suo diritto naturale, essendo la più forte. E
Callicle, per quale il giusto secondo natura comporta la prevalenza del più forte,
dovrebbe coerentemente rassegnarsi alla volontà dei più, a prescindere dalla loro
condizione sociale. Callicle risponde, sdegnato, che Socrate approfitta della sua scelte
terminologiche infelici: i migliori che hanno diritto di prevalere sui peggiori non sono i
più forti fisicamente, perché questo legittimerebbe il potere di una accozzaglia di plebei e
di schiavi. E rettifica la sua definizione: i "migliori" sono quelli che valgono di più, nel
senso che sono i più intelligenti o competenti. [488c ss] Socrate gli chiede chiarimenti:
un medico, in quanto esperto di dieta, ha il diritto di ingozzarsi con una quota
sproporzionata di cibo, in luogo di distribuirlo a ciascuno secondo le sue necessità? Un
bravo tessitore avrà titolo ad avere più degli altri, e se ne andrà in giro avvolto in molti e
magnifici drappi? E, per quanto riguarda la distribuzione delle scarpe, un calzolaio
dovrà andare a spasso indossando più paia di scarpe, e più grandi di quelle degli altri?
Callicle, sempre più irritato, risponde che lui non si occupa di simili mestieranti, ma
delle persone esperte negli affari politici, a cui deve essere assegnato il potere nella città.
Socrate mette Callicle di fronte a un altro aspetto dell'etica democratica: la virtù della
sophrosyne (temperanza o autocontrollo). Questi "migliori", che dovrebbero governare
la città, sanno governare se stessi? Il suo interlocutore, da aristocratico, rifiuta di
trattare la sophrosyne come una virtù: il giusto per natura comporta che ciascuno
assecondi i suoi desideri e le sue passioni. La temperanza non è una virtù, perché
comporta l'asservimento al nomos, al logos e al biasimo dei molti, anziché alla proprie
passioni personali. [491e] Socrate , riprendendendo una metafora pitagorica, paragona
l' anima di chi è asservito alla passione ad un orcio bucato, che deve essere
continuamente riempito con un recipiente anch'esso bucato. La natura del desiderio è
tale che esso non potrà mai essere soddisfatto, perché continuerà a ripresentarsi
ciclicamente, in base a bisogni più o meno indotti. Callicle, di contro, pensa che l'essenza
della vita felice sia questo ciclo ripetitivo di soddisfazione e di deprivazione: vivere
dolcemente consiste nel più grande fluire. L'ideale di vita di Callicle si contrappone
frontalmente a quello di Socrate: chi persegue la conoscenza segue un itinerario lineare e
irreversibile, come possiamo vedere nel Protagora, mentre chi persegue il piacere è
prigioniero di un processo ripetitivo. Socrate propone a Callicle, che aveva in mente le
nobili passioni dell'aristocratico, come il desiderio di primeggiare sugli altri o di
vendicare gli amici, una serie di applicazioni sgradevoli o scurrili della sua tesi. La vita
decantata da Callicle è simile a quella del caradrio, una specie di piviere che mangia
mentre evacua, o a quella di un malato di rogna che trova sollievo nel grattarsi
continuamente, o ancora - cosa obbrobriosa per un fautore dell' andreia - a quella
dell'omosessuale passivo. Callicle si scandalizza, ad onta della sua decantata
indipendenza dalle convenzioni dei più. Dopo essersi così preparato il terreno, Socrate
può colpire Callicle al cuore della sua tesi, che comporta l'identificazione del bene con il
piacere (nel senso di soddisfazione dei desideri). Bene e piacere non sono la stessa cosa
per tre motivi fondamentali: Il piacere ha luogo durante la soddisfazione di un bisogno.
Ma il bisogno si manifesta sotto forma di una sofferenza; e il piacere che segue alla sua
soddisfazione dura solo finché il bisogno viene soddisfatto, cioè finché esso convive con la
sofferenza dovuta alla deprivazione. Ad esempio, si beve per placare la pena della sete,
ma il bere rimane piacevole solo finché dura questa pena. Se la sofferenza è un male, e il
piacere è presente solo in concomitanza con questa, allora esso non può essere un bene,
cioè qualcosa che vale la pena scegliere per se stesso, e non in quanto rimedio a un male.
La bontà di questo tipo di piacere, infatti, è tale solo in relazione a uno stato di sofferenza
provocato dal bisogno. Se il piacere fosse identico al bene, si dovrebbero identificare le
persone buone con le persone che godono; ma buoni e cattivi godono e soffrono, rispetto
a una medesima esperienza, in uguale misura. L' eudaimonia è qualcosa di più
complesso di una semplice situazione personale, perché comporta un rapporto con gli
altri e con il mondo in generale. Per questo il suo problema può essere correttamente
posto solo nel logos, cioè nel discorso, che va oltre le sensazioni private. Se si ammette,
come ha fatto Callicle, che ci siano piaceri migliori e piaceri peggiori, il criterio di
classificazione dei piaceri stessi sarà un bene differente da questi. E occorrerà una techne
- non la semplice esperienza del desiderio e della sua soddisfazione - per distinguere i
piaceri utili da quelli dannosi alla nostra felicità. Questa techne non può essere la
retorica, perché si basa solo sull'esperienza e non ha un progetto. Il suo modello deve
essere, piuttosto, il lavoro dell'artigiano, che sceglie i pezzi da montare tenendo presente
l' eidos. In base al modello offerto dall' eidos, i pezzi vengono disposti in un ordine (
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taxis) e in una proporzione armoniosa (kosmos). [503e ss] L'ordine del corpo si chiama
salute, quello dell' anima nomos, o legge. Questo ordine si conserva attraverso le virtù
personali della dikaiosyne (giustizia) e della sophrosyne, e comporta una relazione
armoniosa sia con se stessi, sia con la totalità fuori di sé. Socrate diceva che la virtù è
consapevolezza: per questo essa può essere riassunta nella sophrosyne, che è controllo di
sé. [507b ss] Nel Gorgia, accanto a questa tesi socratica, si introduce l'elemento dell'
eidos, il modello di rettitudine, ordine e armonia dell' anima. Ci si potrebbe chiedere se l'
eidos, in quanto modello, possa fare a meno della consapevolezza personale, fino ad
ispirare un "modellamento" delle persone a prescindere dalla loro volontà.
L'equiparazione socratica di virtù e conoscenza, se applicata in modo radicale, sembra
non autorizzare nessuna punizione differente dalla confutazione. Una punizione che si
giustificasse perché riplasma le persone secondo il modello appropriato non sarebbe
compatibile con la teoria della virtù come conoscenza, ma potrebbe essere legittimata da
una nozione di virtù come conformità a un eidos. La prospettiva del Gorgia, tuttavia, è
resa problematica dal fatto che Platone non rigetta la tesi socratica della virtù come
consapevolezza: l' élenchos, per esempio, è trattato come un'esperienza di emendazione
non soltanto cognitiva, ma anche morale. Egli aggiunge alla tesi di Socrate, la teoria dell'
eidos dell'anima come modello di ordine, come se non vi fosse contrasto fra le due
posizioni. Nella parte conclusiva del dialogo Callicle, che è stato sconfitto dall' élenchos,
segue l'argomentazione di Socrate con riluttanza e senza convinzione, per cortesia verso
Gorgia , che continua a fare da spettatore, e perché il suo interlocutore lo costringe,
quasi, a continuare. Socrate si dice incapace a costruire una argomentazione senza il
controllo di un altro dialogante, che verifichi la solidità delle sue tesi. E arriva a dire che,
per quanto i ragionamenti condotti fino a quel momento siano "di ferro e diamante",
non sa affatto come stiano veramente le cose, ma sa solo che nessuno, finora, è riuscito a
sostenere tesi diverse senza venir confutato. [509a] La certezza del ragionamento
elenctico è sempre provvisoria, perché costruita sulle opinioni di persone provvisorie:
Socrate non lusinga mai i suoi interlocutori, nel senso che non permette loro di nutrirsi
dell'illusione di aver acquisito qualcosa da lui. Questa debolezza è nello stesso tempo un
punto di forza: mentre gli esperti di retorica Gorgia e Polo sono ridotti a spettatori,
Socrate conduce chi riesce a discutere con lui ad occuparsi non di tecniche
argomentative sul giusto e sull'ingiusto, ma del giusto e dell'ingiusto in quanto questione
sostantiva. Socrate , seguito dal recalcitrante Callicle, affronta un problema tecnicopolitico: per evitare di subire ingiustizia occorre o conquistare il potere, o parteggiare
per il governo in carica. Ma per essere amici di chi è al potere, occorre essergli il più
possibile simile: un tiranno, ad esempio, disprezzerà chi è peggiore di lui e avrà paura di
chi è migliore di lui. Sarà amico solo di chi ha la sua stessa mentalità ed è disposto a
rimanergli soggetto. Se l'arte della politica si riduce a una pratica di sopravvivenza, essa
consisterà semplicemente nell'ingraziarsi il padrone. Callicle pensa di valersi della
retorica per manipolare le masse, che, aristocraticamente, disprezza. In realtà, cercando
di lusingarle, si rende simile a loro, mentre un buon politico dovrebbe piuttosto
interagire con le persone, per renderle migliori. [510a ss] D'altra parte, anche se
riconosciamo l'utilità della retorica per argomentare nelle assemblee e nei tribunali, e
dunque, all'occorrenza, per sottrarsi a una condanna a morte, non si vede da dove questa
disciplina possa trarre un titolo di nobiltà. Anche il nuoto, la navigazione e la tecnica di
costruire macchine da guerra salvano la vita; 6+9+eppure il maestro di nuoto, il
marinaio e il meccanico non vanno pavoneggiandosi per la loro techne, anche perché essi
sanno benissimo che i loro strumenti servono solo alla sopravvivenza, e non alla felicità
delle persone. E' bizzarro che Callicle, un meccanico della sopravvivenza politica, guardi
dall'alto in basso il costruttore di macchine, quando egli stesso, per farsi valere nella
polis, si renda simile al demos che tanto disprezza, al solo scopo di lusingarlo. [511d ss] Il
Gorgia si conclude con il primo dei grandi miti platonici della maturità: il mito del
giudizio dei morti. Socrate afferma che questo racconto è in realtà un logos, e ha solo
l'apparenza di mythos. Tanto è vero che egli stesso dice di vivere cercando di non
commettere ingiustizia, piuttosto che di non subirla, perché teme molto di più il giudizio
dei morti, con la cui narrazione si congeda da noi, che quello dei vivi.
SECONDO PERIODO:
Menone
Nell'Eutidemo viene presentato , a tre riprese , il dialogo diretto fra due personaggi ,
Socrate e Critone . Esso viene interrotto due volte dal racconto di Socrate , che espone
a Critone la disputa eristica svoltasi tra Eutidemo , Dionisodoro , Clinia , Ctesippo , un
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logografo non meglio identificato ed alcuni loro compagni ed amici , i quali intervengono
nel dialogo quasi come un coro . Nel racconto di Socrate compaiono poi due coppie :
Clinia e Ctesippo , Eutidemo e Dionisodoro . clinia , figlio di Assioco , é un giovane
aristocratico , ricco di doti , sempre seguito da una schiera di ammiratori ; é un amico di
Socrate , a cui siede familiarmente vicino . Ctesippo , amante di Clinia , viene presentato
con un temperamento piuttosto insolente , violento e passionale . Ama la discussione :
all'inizio pare incapace di cogliere il punto debole degli avversari , ma nel corso della
confutazione , capito il trucco degli eretisti , li attacca sul loro stesso terreno , fino alle
conseguenze più assurde e offensive . Per quel che riguarda Eutidemo e Dionisodoro ,
secondo i critici é probabile che siano esistiti due sofisti che portavano questi nomi , ma é
altrettanto probabile che Platone abbia costruito questi due personaggi con notevole
libertà : entrambe ci vengono presentati come emigrati a Chio ( la città le cui leggi erano
state varate da Protagora ; si proclamano entrambi esperti di molte arti : sanno fare un
pò di tutto . Va poi ricordato l'interlocutore anonimo di Critone : viene descritto come
uno scrittore di discorsi per tribunali ; rivolge critiche simultaneamente a Socrate , ai
sofisti e alla filosofia stessa . Fin dall'antichità questo personaggio é stato identificato
conIsocrate , uno dei più grandi nemici di Platone ( insieme con Democrito ) , che il
filosofo attacca anche nel " Gorgia " . Il dialogo si svolge in un luogo indeterminato ;
per quel che riguarda la datazione , si é concordi nel fissarla intorno al 411-404 a.C. Per i
temi trattati , gli studiosi tendono ad avvicinare l'Eutidemo soprattutto al " Menone " ,
ma anche al " Gorgia " e al Cratilo . Il dialogo si apre con l'incontro tra Socrate e
Critone , i quali tengono un dialogo preliminare sulla vita ; Critone chiede poi
informazioni a riguardo di Eutidemo e Dionisodoro ( che aveva visto il giorno primo
discutere con Socrate ) , e Socrate li elogia entrambe per sapienza e racconta del loro
incontro nel Liceo : entrambi si erano proclamati maestri di virtù e migliori di chiunque
altro ad insegnarla : essi sono nel liceo proprio per divulgare la loro virtù . Allora
Socrate , racconta a Critone , ne approfittò per invitarli a persuadere il suo amico
Clinia all'esercizio della filosofia . Così i due si cimentarono nel dimostrare in favore
della filosofia , interrogando Clinia in questo modo : " ad imparare sono i sapienti o gli
ignoranti ? " Clinia rispose " i sapienti " ed Eutidemo chiese ancora " Chi sono quelli
che chiami maestri ? " " i maestri lo sono di quelli che apprendono " ; ed Eutidemo " ma
quando si impara non si sa ancora ciò che si apprende , giusto ? Pertanto ad apprendere
non é il sapiente , ma colui che ignora " . Ma Eutidemo confuta la sua stessa definizione
dicendo che quando un maestro spiega ad apprendere sono i sapienti , mentre gli
ignoranti restano tali . A questo punto tutti gli spettatori che assistevano
all'argomentazione avevano cominciato ad applaudire fortemente . Poi Eutidemo , non
ancora soddisfatto , pone altre domande senza via d'uscita come queste a Clinia .
Socrate tiene poi un discorso protrettico a Clinia e cerca di rassicurarlo sugli intenti
scherzosi di Eutidemo e Dionisodoro . Poi Socrate presenta a Clinia un esempio di
esortazione alla filosofia che si incentra sulla coincidenza di felicità , scienza , sapienza e
filosofia . Poi Eutidemo e Dionisodoro fecero una seconda dimostrazione eristica a
Socrate e a Ctesippo : Socrate spiegò che voleva che Clinia divenisse un sapiente e
Dionisodoro chiese se in poche parole volevano che diventasse quello che non era allora ,
e che non fosse più quello che era allora . E Socrate disse di sì , e a questo punto
Dionisodoro affermò baldanzoso che dunmque lo voleva morto , giocando con
l'espressione non-essere più . Ctesippo a questo punto va su tutte le furie , perchè
convinto che i due " maestri di virtù " si stian facendo beffe di lui e di Socrate mentendo
spudoratamente ; a questo punto Eutidemo fece una dimostrazione analoga in difesa di
Dionisodoro : per mentire si intende dire ciò che non é ; fare ciò che non esiste in assoluto
é impossibile ; dire é un modo di fare , di agire ; quindi , di conseguenza , non si può dire
ciò che non é in assoluto . Ctesippo si innervosì sempre più e a calmarlo ci pensò Socrate
, che prese il suo posto nella discussione con Eutidemo e Dionisodoro dicendo che loro ,
negando la possibilità di dire il falso , si riallacciano a Protagora e alla sua dottrina
secondo la quale tutto é vero . Poi chiese loro se , visto che é impossibile dirlo , almeno
pensare il falso é possibile . Loro più convinti che mai risposero di no . Ma dunque non
esiste neppure l'ignoranza , che consiste nell' ingannarsi su certi oggetti , e di
conseguenza non esistono nemmeno uomini ignoranti , disse Socrate seguendo il loro
ragionamento ; ma questo sarebbe impossibile perchè di uomini ignoranti eccome se ce
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ne sono ! Ma Dionisodoro chiese in tono di sfida a Socrate di confutare , e Socrate gli
disse che era impossibile , in quanto , secondo il ragionamento stesso di Dionisodoro ,
tutto quel che si dice é vero e nessuno s'inganna mai . Poi , continuò Socrate , se nessuno
mai si inganna , che cosa sarebbero venuti ad insegnare Dionisodoro ed Eutidemo nel
Liceo ? Socrate spiegç ai due stranieri che il loro modo di argomentare , per quanto
meraviglioso e ricco di ornamenti retorici , dopo aver abbattuto gli altri tendesse a
cadere da solo . Poi intraprese un secondo discorso protrettico per Clinia , che deve
essere convinto a dedicarsi alla filosofia : solo la scienza capace sia di produrre , sia di
utilizzare il proprio oggetto può rendere felici . Ma é difficile trovare una scienza come
questa : i cacciatori , per esempio , con la loro arte sanno come catturare le prede , ma
non sanno utilizzarle e le cedono ai cuochi ( così fanno anche i pescatori ) ; neanche i
matematici sanno sfruttare la loro scienza ; essi sono come dei cacciatori ( infatti non
producono le figure riguardanti le loro materie , ma trovano quelle che esistono ) e
consegnano i loro oggetti ai dialettici affinchè li usino . Poi intervennero anche Eutidemo
e Dionisodoro , che posero nuove domande a Socrate e riuscirono a dimostrare tramite
una dimostrazione tortuosa e quasi paradossale che se si conosce qualcosa é come se si
conoscesse tutto ; a questo punto Ctesippo si adirò nuovamente , non credendo possibile ,
per quanto la loro dimostrazione fosse coerente , che qualsiasi uomo possa conoscere
tutto e chiese loro di dirgli quanti denti avevano in bocca senza contarli , quante stelle
brillavano in cielo e molte altre cose simili , alle quali i due risposero dicendo che a loro
bastava sapere , senza rispondergli . Socrate paragonò i ragionamenti di Eutidemo e
Dionisodoro all' Idra , animale mitologico , con il quale combattè Ercole e ogni volta che
le veniva amputata una testa , ne faceva nascere molti altri : così sono anche i
ragionamenti di quei due che Socrate , per sbaglio , definì " fratelli " . Dionisodoro lo
corresse spiegandogli che non erano fratelli e da lì cominciò una nuova discussione "
eristica " di Dionisodoro ed Eutidemo , che chiesero a Socrate se Iolao , nipote di Ercole
, era più nipote di Ercole o di Socrate stesso . Socrate disse che , senz'altro , era più
nipote di Ercole in quanto suo non poteva esserlo , visto che non era figlio di suo fratello
Patrocle . Ma Patrocle é suo fratello davvero , gli domandarono Dionisodoro ed
Eutidemo ? Socrate rispose che lo era ma non per parte di padre , visto che il padre di
Socrate era Sofronisco e quello di Patrocle Cheredemo . Dunque Cheredemo e
Sofronisco erano padri allo stesso modo , gli domandarono i due , ma Socrate spiegò che
solo Sofronisco per lui era padre . Dunque Cheredemo é diverso dal padre ? Dal mio
senz'altro , disse Socrate . Dunque é padre pur essendo diverso dal padre ; se si é diversi
dalla pietra non si é pietra , se si é diversi dall'oro non si é oro e se si é diversi dal padre
non si é padre , quindi anche Cheredemo non é padre , affermò Dionisodoro , e poi
aggiunse che se però il padre era Cheredemo , allora Sofronisco , essendo diverso dal
padre , non era padre e quindi Socrate era privo di padre . A questo punto intervenne
Ctesippo , furibondo come non mai e disse che con questo ragionamento Cheredemo si
troverebbe ad essere padre di tutti gli uomini e di tutti gli animali ! Ctesippo poi ,
beffardo , disse a Dionisodoro che suo padre era padre di porci e di cani ( seguendo il
ragionamento ) , e Dionisodoro concluse che anche il padre di Ctesippo per figli aveva
cani e porci , visto che era lo stesso padre ... Dopo aver fatto risaltare aporie concernenti i
legami di parentela , in modi alquanto affini Dionisodoro ed Eutidemo fecero risaltare
anche aporie concernenti il vedere e il parlare . Poi la conversazione si spostò sulla
dottrina delle idee e sulle sue contraddizioni , argomento peraltro ampiamente
affrontato da Platone nel " Parmenide " . Dionisodoro disse a Socrate che a rigore , se
una cosa stando vicina all'idea di bellezza diventa bella , allora lui , che gli era seduto
accanto , sarebbe dovuto diventare Dionisodoro . Socrate si trovò davvero in difficoltà
di fronte a Dionisodoro che continuava ad incalzarlo e gli chiedeva : " Ma tu , o Socrate
, dici che per agire bene bisogna fare ciò che compete ; e che cosa compete al cuoco ? "
Socrate rispose " tagliare la carne e farla bollire " e Dionisodoro replicò " dunque un
cuoco che prenda un uomo , lo tagli a pezzi e lo metta a bollire , avrà agito bene ? " .
Socrate capì che la discussione con individui del genere era davvero difficile , ma
tuttavia ammira i due eristi e li elogia invitandoli ad accogliere nella loro cerchia anche
lui e Clinia . Poi riprende il dialogo tra Socrate e Critone . che racconto che nel liceo ,
al termine della discussione con Eutidemo e Dionisodoro , aveva incontrato un logografo
che gli aveva sparlato della filosofia , dicendogli che il suo amico Socrate si era appena
18
Eutidemo
fatto una figuraccia . Socrate replica criticando aspramente i logografi e le persone
come quel tale , che si credono i più sapienti sulla faccia della terra solo perchè hanno
intrallazzi politici ( infatti scrivono discorsi per i politici ) , senza in realtà sapere nulla ,
ma che in fin dei conti van perdonati per la loro ignoranza . Critone spiega poi a
Socrate di avere un figlioletto e di non sapere quale tipo di educazione sia giusto
impartirgli ; Socrate gli dice di affidarlo alla filosofia , se pensa che sia una buona cosa ,
di tenerlo lontano da essa se pensa che essa sia inutile . Così si conclude il dialogo .
Nell'Eutidemo viene presentato , a tre riprese , il dialogo diretto fra due personaggi ,
Socrate e Critone . Esso viene interrotto due volte dal racconto di Socrate , che espone
a Critone la disputa eristica svoltasi tra Eutidemo , Dionisodoro , Clinia , Ctesippo , un
logografo non meglio identificato ed alcuni loro compagni ed amici , i quali intervengono
nel dialogo quasi come un coro . Nel racconto di Socrate compaiono poi due coppie :
Clinia e Ctesippo , Eutidemo e Dionisodoro . Clinia , figlio di Assioco , é un giovane
aristocratico , ricco di doti , sempre seguito da una schiera di ammiratori ; é un amico di
Socrate , a cui siede familiarmente vicino . Ctesippo , amante di Clinia , viene presentato
con un temperamento piuttosto insolente , violento e passionale . Ama la discussione :
all'inizio pare incapace di cogliere il punto debole degli avversari , ma nel corso della
confutazione , capito il trucco degli eretisti , li attacca sul loro stesso terreno , fino alle
conseguenze più assurde e offensive . Per quel che riguarda Eutidemo e Dionisodoro ,
secondo i critici é probabile che siano esistiti due sofisti che portavano questi nomi , ma é
altrettanto probabile che Platone abbia costruito questi due personaggi con notevole
libertà : entrambe ci vengono presentati come emigrati a Chio ( la città le cui leggi erano
state varate da Protagora ; si proclamano entrambi esperti di molte arti : sanno fare un
pò di tutto . Va poi ricordato l'interlocutore anonimo di Critone : viene descritto come
uno scrittore di discorsi per tribunali ; rivolge critiche simultaneamente a Socrate , ai
sofisti e alla filosofia stessa . Fin dall'antichità questo personaggio é stato identificato
con Isocrate , uno dei più grandi nemici di Platone ( insieme con Democrito ) , che il
filosofo attacca anche nel " Gorgia " . Il dialogo si svolge in un luogo indeterminato ;
per quel che riguarda la datazione , si é concordi nel fissarla intorno al 411-404 a.C. Per i
temi trattati , gli studiosi tendono ad avvicinare l'Eutidemo soprattutto al " Menone " ,
ma anche al " Gorgia " e al Cratilo . Il dialogo si apre con l'incontro tra Socrate e
Critone , i quali tengono un dialogo preliminare sulla vita ; Critone chiede poi
informazioni a riguardo di Eutidemo e Dionisodoro ( che aveva visto il giorno primo
discutere con Socrate ) , e Socrate li elogia entrambe per sapienza e racconta del loro
incontro nel Liceo : entrambi si erano proclamati maestri di virtù e migliori di chiunque
altro ad insegnarla : essi sono nel liceo proprio per divulgare la loro virtù . Allora
Socrate , racconta a Critone , ne approfittò per invitarli a persuadere il suo amico
Clinia all'esercizio della filosofia . Così i due si cimentarono nel dimostrare in favore
della filosofia , interrogando Clinia in questo modo : " ad imparare sono i sapienti o gli
ignoranti ? " Clinia rispose " i sapienti " ed Eutidemo chiese ancora " Chi sono quelli
che chiami maestri ? " " i maestri lo sono di quelli che apprendono " ; ed Eutidemo " ma
quando si impara non si sa ancora ciò che si apprende , giusto ? Pertanto ad apprendere
non é il sapiente , ma colui che ignora " . Ma Eutidemo confuta la sua stessa definizione
dicendo che quando un maestro spiega ad apprendere sono i sapienti , mentre gli
ignoranti restano tali . A questo punto tutti gli spettatori che assistevano
all'argomentazione avevano cominciato ad applaudire fortemente . Poi Eutidemo , non
ancora soddisfatto , pone altre domande senza via d'uscita come queste a Clinia .
Socrate tiene poi un discorso protrettico a Clinia e cerca di rassicurarlo sugli intenti
scherzosi di Eutidemo e Dionisodoro . Poi Socrate presenta a Clinia un esempio di
esortazione alla filosofia che si incentra sulla coincidenza di felicità , scienza , sapienza e
filosofia . Poi Eutidemo e Dionisodoro fecero una seconda dimostrazione eristica a
Socrate e a Ctesippo : Socrate spiegò che voleva che Clinia divenisse un sapiente e
Dionisodoro chiese se in poche parole volevano che diventasse quello che non era allora ,
e che non fosse più quello che era allora . E Socrate disse di sì , e a questo punto
Dionisodoro affermò baldanzoso che dunmque lo voleva morto , giocando con
l'espressione non-essere più . Ctesippo a questo punto va su tutte le furie , perchè
convinto che i due " maestri di virtù " si stian facendo beffe di lui e di Socrate mentendo
spudoratamente ; a questo punto Eutidemo fece una dimostrazione analoga in difesa di
19
Dionisodoro : per mentire si intende dire ciò che non é ; fare ciò che non esiste in assoluto
é impossibile ; dire é un modo di fare , di agire ; quindi , di conseguenza , non si può dire
ciò che non é in assoluto . Ctesippo si innervosì sempre più e a calmarlo ci pensò Socrate
, che prese il suo posto nella discussione con Eutidemo e Dionisodoro dicendo che loro ,
negando la possibilità di dire il falso , si riallacciano a Protagora e alla sua dottrina
secondo la quale tutto é vero . Poi chiese loro se , visto che é impossibile dirlo , almeno
pensare il falso é possibile . Loro più convinti che mai risposero di no . Ma dunque non
esiste neppure l'ignoranza , che consiste nell' ingannarsi su certi oggetti , e di
conseguenza non esistono nemmeno uomini ignoranti , disse Socrate seguendo il loro
ragionamento ; ma questo sarebbe impossibile perchè di uomini ignoranti eccome se ce
ne sono ! Ma Dionisodoro chiese in tono di sfida a Socrate di confutare , e Socrate gli
disse che era impossibile , in quanto , secondo il ragionamento stesso di Dionisodoro ,
tutto quel che si dice é vero e nessuno s'inganna mai . Poi , continuò Socrate , se nessuno
mai si inganna , che cosa sarebbero venuti ad insegnare Dionisodoro ed Eutidemo nel
Liceo ? Socrate spiegç ai due stranieri che il loro modo di argomentare , per quanto
meraviglioso e ricco di ornamenti retorici , dopo aver abbattuto gli altri tendesse a
cadere da solo . Poi intraprese un secondo discorso protrettico per Clinia , che deve
essere convinto a dedicarsi alla filosofia : solo la scienza capace sia di produrre , sia di
utilizzare il proprio oggetto può rendere felici . Ma é difficile trovare una scienza come
questa : i cacciatori , per esempio , con la loro arte sanno come catturare le prede , ma
non sanno utilizzarle e le cedono ai cuochi ( così fanno anche i pescatori ) ; neanche i
matematici sanno sfruttare la loro scienza ; essi sono come dei cacciatori ( infatti non
producono le figure riguardanti le loro materie , ma trovano quelle che esistono ) e
consegnano i loro oggetti ai dialettici affinchè li usino . Poi intervennero anche Eutidemo
e Dionisodoro , che posero nuove domande a Socrate e riuscirono a dimostrare tramite
una dimostrazione tortuosa e quasi paradossale che se si conosce qualcosa é come se si
conoscesse tutto ; a questo punto Ctesippo si adirò nuovamente , non credendo possibile ,
per quanto la loro dimostrazione fosse coerente , che qualsiasi uomo possa conoscere
tutto e chiese loro di dirgli quanti denti avevano in bocca senza contarli , quante stelle
brillavano in cielo e molte altre cose simili , alle quali i due risposero dicendo che a loro
bastava sapere , senza rispondergli . Socrate paragonò i ragionamenti di Eutidemo e
Dionisodoro all' Idra , animale mitologico , con il quale combattè Ercole e ogni volta che
le veniva amputata una testa , ne faceva nascere molti altri : così sono anche i
ragionamenti di quei due che Socrate , per sbaglio , definì " fratelli " . Dionisodoro lo
corresse spiegandogli che non erano fratelli e da lì cominciò una nuova discussione "
eristica " di Dionisodoro ed Eutidemo , che chiesero a Socrate se Iolao , nipote di Ercole
, era più nipote di Ercole o di Socrate stesso . Socrate disse che , senz'altro , era più
nipote di Ercole in quanto suo non poteva esserlo , visto che non era figlio di suo fratello
Patrocle . Ma Patrocle é suo fratello davvero , gli domandarono Dionisodoro ed
Eutidemo ? Socrate rispose che lo era ma non per parte di padre , visto che il padre di
Socrate era Sofronisco e quello di Patrocle Cheredemo . Dunque Cheredemo e
Sofronisco erano padri allo stesso modo , gli domandarono i due , ma Socrate spiegò che
solo Sofronisco per lui era padre . Dunque Cheredemo é diverso dal padre ? Dal mio
senz'altro , disse Socrate . Dunque é padre pur essendo diverso dal padre ; se si é diversi
dalla pietra non si é pietra , se si é diversi dall'oro non si é oro e se si é diversi dal padre
non si é padre , quindi anche Cheredemo non é padre , affermò Dionisodoro , e poi
aggiunse che se però il padre era Cheredemo , allora Sofronisco , essendo diverso dal
padre , non era padre e quindi Socrate era privo di padre . A questo punto intervenne
Ctesippo , furibondo come non mai e disse che con questo ragionamento Cheredemo si
troverebbe ad essere padre di tutti gli uomini e di tutti gli animali ! Ctesippo poi ,
beffardo , disse a Dionisodoro che suo padre era padre di porci e di cani ( seguendo il
ragionamento ) , e Dionisodoro concluse che anche il padre di Ctesippo per figli aveva
cani e porci , visto che era lo stesso padre ... Dopo aver fatto risaltare aporie concernenti i
legami di parentela , in modi alquanto affini Dionisodoro ed Eutidemo fecero risaltare
anche aporie concernenti il vedere e il parlare . Poi la conversazione si spostò sulla
dottrina delle idee e sulle sue contraddizioni , argomento peraltro ampiamente
affrontato da Platone nel " Parmenide " . Dionisodoro disse a Socrate che a rigore , se
una cosa stando vicina all'idea di bellezza diventa bella , allora lui , che gli era seduto
accanto , sarebbe dovuto diventare Dionisodoro . Socrate si trovò davvero in difficoltà
20
Menesseno
di fronte a Dionisodoro che continuava ad incalzarlo e gli chiedeva : " Ma tu , o Socrate
, dici che per agire bene bisogna fare ciò che compete ; e che cosa compete al cuoco ? "
Socrate rispose " tagliare la carne e farla bollire " e Dionisodoro replicò " dunque un
cuoco che prenda un uomo , lo tagli a pezzi e lo metta a bollire , avrà agito bene ? " .
Socrate capì che la discussione con individui del genere era davvero difficile , ma
tuttavia ammira i due eristi e li elogia invitandoli ad accogliere nella loro cerchia anche
lui e Clinia . Poi riprende il dialogo tra Socrate e Critone . che racconto che nel liceo ,
al termine della discussione con Eutidemo e Dionisodoro , aveva incontrato un logografo
che gli aveva sparlato della filosofia , dicendogli che il suo amico Socrate si era appena
fatto una figuraccia . Socrate replica criticando aspramente i logografi e le persone
come quel tale , che si credono i più sapienti sulla faccia della terra solo perchè hanno
intrallazzi politici ( infatti scrivono discorsi per i politici ) , senza in realtà sapere nulla ,
ma che in fin dei conti van perdonati per la loro ignoranza . Critone spiega poi a
Socrate di avere un figlioletto e di non sapere quale tipo di educazione sia giusto
impartirgli ; Socrate gli dice di affidarlo alla filosofia , se pensa che sia una buona cosa ,
di tenerlo lontano da essa se pensa che essa sia inutile . Così si conclude il dialogo .
Nell'Eutidemo viene presentato , a tre riprese , il dialogo diretto fra due personaggi ,
Socrate e Critone . Esso viene interrotto due volte dal racconto di Socrate , che espone
a Critone la disputa eristica svoltasi tra Eutidemo , Dionisodoro , Clinia , Ctesippo , un
logografo non meglio identificato ed alcuni loro compagni ed amici , i quali intervengono
nel dialogo quasi come un coro . Nel racconto di Socrate compaiono poi due coppie :
Clinia e Ctesippo , Eutidemo e Dionisodoro . clinia , figlio di Assioco , é un giovane
aristocratico , ricco di doti , sempre seguito da una schiera di ammiratori ; é un amico di
Socrate , a cui siede familiarmente vicino . Ctesippo , amante di Clinia , viene presentato
con un temperamento piuttosto insolente , violento e passionale . Ama la discussione :
all'inizio pare incapace di cogliere il punto debole degli avversari , ma nel corso della
confutazione , capito il trucco degli eretisti , li attacca sul loro stesso terreno , fino alle
conseguenze più assurde e offensive . Per quel che riguarda Eutidemo e Dionisodoro ,
secondo i critici é probabile che siano esistiti due sofisti che portavano questi nomi , ma é
altrettanto probabile che Platone abbia costruito questi due personaggi con notevole
libertà : entrambe ci vengono presentati come emigrati a Chio ( la città le cui leggi erano
state varate da Protagora ; si proclamano entrambi esperti di molte arti : sanno fare un
pò di tutto . Va poi ricordato l'interlocutore anonimo di Critone : viene descritto come
uno scrittore di discorsi per tribunali ; rivolge critiche simultaneamente a Socrate , ai
sofisti e alla filosofia stessa . Fin dall'antichità questo personaggio é stato identificato
conIsocrate , uno dei più grandi nemici di Platone ( insieme con Democrito ) , che il
filosofo attacca anche nel " Gorgia " . Il dialogo si svolge in un luogo indeterminato ;
per quel che riguarda la datazione , si é concordi nel fissarla intorno al 411-404 a.C. Per i
temi trattati , gli studiosi tendono ad avvicinare l'Eutidemo soprattutto al " Menone " ,
ma anche al " Gorgia " e al Cratilo . Il dialogo si apre con l'incontro tra Socrate e
Critone , i quali tengono un dialogo preliminare sulla vita ; Critone chiede poi
informazioni a riguardo di Eutidemo e Dionisodoro ( che aveva visto il giorno primo
discutere con Socrate ) , e Socrate li elogia entrambe per sapienza e racconta del loro
incontro nel Liceo : entrambi si erano proclamati maestri di virtù e migliori di chiunque
altro ad insegnarla : essi sono nel liceo proprio per divulgare la loro virtù . Allora
Socrate , racconta a Critone , ne approfittò per invitarli a persuadere il suo amico
Clinia all'esercizio della filosofia . Così i due si cimentarono nel dimostrare in favore
della filosofia , interrogando Clinia in questo modo : " ad imparare sono i sapienti o gli
ignoranti ? " Clinia rispose " i sapienti " ed Eutidemo chiese ancora " Chi sono quelli
che chiami maestri ? " " i maestri lo sono di quelli che apprendono " ; ed Eutidemo " ma
quando si impara non si sa ancora ciò che si apprende , giusto ? Pertanto ad apprendere
non é il sapiente , ma colui che ignora " . Ma Eutidemo confuta la sua stessa definizione
dicendo che quando un maestro spiega ad apprendere sono i sapienti , mentre gli
ignoranti restano tali . A questo punto tutti gli spettatori che assistevano
all'argomentazione avevano cominciato ad applaudire fortemente . Poi Eutidemo , non
ancora soddisfatto , pone altre domande senza via d'uscita come queste a Clinia .
Socrate tiene poi un discorso protrettico a Clinia e cerca di rassicurarlo sugli intenti
scherzosi di Eutidemo e Dionisodoro . Poi Socrate presenta a Clinia un esempio di
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esortazione alla filosofia che si incentra sulla coincidenza di felicità , scienza , sapienza e
filosofia . Poi Eutidemo e Dionisodoro fecero una seconda dimostrazione eristica a
Socrate e a Ctesippo : Socrate spiegò che voleva che Clinia divenisse un sapiente e
Dionisodoro chiese se in poche parole volevano che diventasse quello che non era allora ,
e che non fosse più quello che era allora . E Socrate disse di sì , e a questo punto
Dionisodoro affermò baldanzoso che dunmque lo voleva morto , giocando con
l'espressione non-essere più . Ctesippo a questo punto va su tutte le furie , perchè
convinto che i due " maestri di virtù " si stian facendo beffe di lui e di Socrate mentendo
spudoratamente ; a questo punto Eutidemo fece una dimostrazione analoga in difesa di
Dionisodoro : per mentire si intende dire ciò che non é ; fare ciò che non esiste in assoluto
é impossibile ; dire é un modo di fare , di agire ; quindi , di conseguenza , non si può dire
ciò che non é in assoluto . Ctesippo si innervosì sempre più e a calmarlo ci pensò Socrate
, che prese il suo posto nella discussione con Eutidemo e Dionisodoro dicendo che loro ,
negando la possibilità di dire il falso , si riallacciano a Protagora e alla sua dottrina
secondo la quale tutto é vero . Poi chiese loro se , visto che é impossibile dirlo , almeno
pensare il falso é possibile . Loro più convinti che mai risposero di no . Ma dunque non
esiste neppure l'ignoranza , che consiste nell' ingannarsi su certi oggetti , e di
conseguenza non esistono nemmeno uomini ignoranti , disse Socrate seguendo il loro
ragionamento ; ma questo sarebbe impossibile perchè di uomini ignoranti eccome se ce
ne sono ! Ma Dionisodoro chiese in tono di sfida a Socrate di confutare , e Socrate gli
disse che era impossibile , in quanto , secondo il ragionamento stesso di Dionisodoro ,
tutto quel che si dice é vero e nessuno s'inganna mai . Poi , continuò Socrate , se nessuno
mai si inganna , che cosa sarebbero venuti ad insegnare Dionisodoro ed Eutidemo nel
Liceo ? Socrate spiegç ai due stranieri che il loro modo di argomentare , per quanto
meraviglioso e ricco di ornamenti retorici , dopo aver abbattuto gli altri tendesse a
cadere da solo . Poi intraprese un secondo discorso protrettico per Clinia , che deve
essere convinto a dedicarsi alla filosofia : solo la scienza capace sia di produrre , sia di
utilizzare il proprio oggetto può rendere felici . Ma é difficile trovare una scienza come
questa : i cacciatori , per esempio , con la loro arte sanno come catturare le prede , ma
non sanno utilizzarle e le cedono ai cuochi ( così fanno anche i pescatori ) ; neanche i
matematici sanno sfruttare la loro scienza ; essi sono come dei cacciatori ( infatti non
producono le figure riguardanti le loro materie , ma trovano quelle che esistono ) e
consegnano i loro oggetti ai dialettici affinchè li usino . Poi intervennero anche Eutidemo
e Dionisodoro , che posero nuove domande a Socrate e riuscirono a dimostrare tramite
una dimostrazione tortuosa e quasi paradossale che se si conosce qualcosa é come se si
conoscesse tutto ; a questo punto Ctesippo si adirò nuovamente , non credendo possibile ,
per quanto la loro dimostrazione fosse coerente , che qualsiasi uomo possa conoscere
tutto e chiese loro di dirgli quanti denti avevano in bocca senza contarli , quante stelle
brillavano in cielo e molte altre cose simili , alle quali i due risposero dicendo che a loro
bastava sapere , senza rispondergli . Socrate paragonò i ragionamenti di Eutidemo e
Dionisodoro all' Idra , animale mitologico , con il quale combattè Ercole e ogni volta che
le veniva amputata una testa , ne faceva nascere molti altri : così sono anche i
ragionamenti di quei due che Socrate , per sbaglio , definì " fratelli " . Dionisodoro lo
corresse spiegandogli che non erano fratelli e da lì cominciò una nuova discussione "
eristica " di Dionisodoro ed Eutidemo , che chiesero a Socrate se Iolao , nipote di Ercole
, era più nipote di Ercole o di Socrate stesso . Socrate disse che , senz'altro , era più
nipote di Ercole in quanto suo non poteva esserlo , visto che non era figlio di suo fratello
Patrocle . Ma Patrocle é suo fratello davvero , gli domandarono Dionisodoro ed
Eutidemo ? Socrate rispose che lo era ma non per parte di padre , visto che il padre di
Socrate era Sofronisco e quello di Patrocle Cheredemo . Dunque Cheredemo e
Sofronisco erano padri allo stesso modo , gli domandarono i due , ma Socrate spiegò che
solo Sofronisco per lui era padre . Dunque Cheredemo é diverso dal padre ? Dal mio
senz'altro , disse Socrate . Dunque é padre pur essendo diverso dal padre ; se si é diversi
dalla pietra non si é pietra , se si é diversi dall'oro non si é oro e se si é diversi dal padre
non si é padre , quindi anche Cheredemo non é padre , affermò Dionisodoro , e poi
aggiunse che se però il padre era Cheredemo , allora Sofronisco , essendo diverso dal
padre , non era padre e quindi Socrate era privo di padre . A questo punto intervenne
Ctesippo , furibondo come non mai e disse che con questo ragionamento Cheredemo si
troverebbe ad essere padre di tutti gli uomini e di tutti gli animali ! Ctesippo poi ,
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Cratilo
beffardo , disse a Dionisodoro che suo padre era padre di porci e di cani ( seguendo il
ragionamento ) , e Dionisodoro concluse che anche il padre di Ctesippo per figli aveva
cani e porci , visto che era lo stesso padre ... Dopo aver fatto risaltare aporie concernenti i
legami di parentela , in modi alquanto affini Dionisodoro ed Eutidemo fecero risaltare
anche aporie concernenti il vedere e il parlare . Poi la conversazione si spostò sulla
dottrina delle idee e sulle sue contraddizioni , argomento peraltro ampiamente
affrontato da Platone nel " Parmenide " . Dionisodoro disse a Socrate che a rigore , se
una cosa stando vicina all'idea di bellezza diventa bella , allora lui , che gli era seduto
accanto , sarebbe dovuto diventare Dionisodoro . Socrate si trovò davvero in difficoltà
di fronte a Dionisodoro che continuava ad incalzarlo e gli chiedeva : " Ma tu , o Socrate
, dici che per agire bene bisogna fare ciò che compete ; e che cosa compete al cuoco ? "
Socrate rispose " tagliare la carne e farla bollire " e Dionisodoro replicò " dunque un
cuoco che prenda un uomo , lo tagli a pezzi e lo metta a bollire , avrà agito bene ? " .
Socrate capì che la discussione con individui del genere era davvero difficile , ma
tuttavia ammira i due eristi e li elogia invitandoli ad accogliere nella loro cerchia anche
lui e Clinia . Poi riprende il dialogo tra Socrate e Critone . che racconto che nel liceo ,
al termine della discussione con Eutidemo e Dionisodoro , aveva incontrato un logografo
che gli aveva sparlato della filosofia , dicendogli che il suo amico Socrate si era appena
fatto una figuraccia . Socrate replica criticando aspramente i logografi e le persone
come quel tale , che si credono i più sapienti sulla faccia della terra solo perchè hanno
intrallazzi politici ( infatti scrivono discorsi per i politici ) , senza in realtà sapere nulla ,
ma che in fin dei conti van perdonati per la loro ignoranza . Critone spiega poi a
Socrate di avere un figlioletto e di non sapere quale tipo di educazione sia giusto
impartirgli ; Socrate gli dice di affidarlo alla filosofia , se pensa che sia una buona cosa ,
di tenerlo lontano da essa se pensa che essa sia inutile . Così si conclude il dialogo .
Un altro problema,molto astratto e legato alla possibilità di ragionare,che Platone
affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi è quello riguardante
il vero e il falso,in parallelo con l'essere ed il non essere : si torna a problematiche
parmenidee e viene messa da parte la figura di Socrate.La possibilità di poter
distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene
affrontato nel "Sofista" ;già dal titolo dell'opera si può intuire la solita critica platonica
dei sofisti,già avanzata in gioventù:qui però è trattata con sfumature più ontologiche.Che
cosa c'entrano i sofisti con il vero-falso e l'errore ? Si può sbagliare solo quando si può
porre una differenza tra vero e falso : Gorgia e Protagora ,i due maggiori esponenti
sofisti,erano rispettivamente del parere che tutto fosse falso ( Gorgia ) e che tutto fosse
vero ( Protagora ):per entrambe non vi è la distinzione tra vero e falso :o ce n'è uno o
l'altro,si basano sul fatto di non poter distinguere il vero dal falso.Per Parmenide dire il
falso vuol dire ammettere il non essere,le cose come non sono (il che è impossibile);per
Parmenide si dice e si pensa solo ciò che è,ciò che esiste.Questo spiega come un dialogo
tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo:le tesi eleatiche e quelle sofiste
mirano ad affermare che l'errore sia impossibile,che non ci sia la distinzione tra vero e
falso.Sono posizioni differenti che portano alle stesse conclusioni,sebbene in modi
diversi.Il "Cratilo" ed il "Teeteto" sono dialoghi dove si cerca di contestare la possibilità
di non errare : se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o
falsi;se tutto è vero o falso e non c'è la via di mezzo viene a perdere di significato perchè
una cosa è sensata quando contiene un pò di verità,ma anche un pò di falsità,quando si
trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni intermedie);se non
si ammette l'errore non si può ammettere la verità,che è ciò che non è sbagliato.Il
"Cratilo" prende il nome da un seguace di Eraclito,che però aveva radicalizzato le
posizioni del maestro e si era molto soffermato sul "panta rei" (tutto scorre):a suo avviso
è impossibile dare i nomi alle cose perchè cambiano di continuo:noi chiamiamo Pò un
fiume ma non è corretto:non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo
(è un esempio evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione);si fissa
artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione.Cratilo con il
"panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche:è impossibile conoscere qualcosa che
cambia sempre.Quindi in teoria ,dal momento che non si possono attribuire
nomi,bisognerebbe solo indicare le cose.Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe
stato allievo di Cratilo,il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle
idee,in cui viene ammesso un essere fisso,stabile e permanente.Pensandoci bene,però,non
23
è poi così strano:Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c'è nulla di
stabile ed è ricorso alle idee.Platone nel "Cratilo" effettua un'ampia discussione sulla
problematica della lingua.Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a
riguardo , legate al binomio "nomos"-"fusis" (convenzione-natura);questo della lingua è
un problema tipicamente antropologico e di materia sofistica.Alcuni sofisti erano del
parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea,secondo natura ("katà
fusin"),come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi
confronti.Altri la pensavano in modo opposto:gli uomini attribuiscono i nomi in maniera
assolutamente artificiale,secondo convenzione ("katà vomon").Questa diatriba è in corso
ancora al giorno nostro;Platone,dal canto suo,sostenne che attribuiamo i nomi un pò
"katà fusin" e un pò "katà nomon".Nella tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della
torre di Babele;la lingua di Adamo (l'ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi
corrispondevano esattamente all'essenza delle cose e proprio con i nomi si poteva
cogliere l'essenza delle cose.Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati
convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose.Platone è dunque
del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui:vi è una
mescolanza dei fenomeni.Esiste sì una derivazione naturale dei nomi:sono le cose stesse
che suggeriscono i nomi da usare,ma le lingue parlate sono molteplici:una componente di
arbitrareità ci deve per forza essere.Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui
chiamarle ma dopo di che l'uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la
ragione:ancora oggi,comunque,ci sono parole onomatopeiche,che suggeriscono l'essenza
del soggetto cui sono riferite ("zanzara","cornacchia"...).Si tratta di una teoria
intermedia che mette insieme il lavoro razionale a quello naturale.Ma cosa c'entra tutto
questo nell'ambito del "Cratilo" e della discussione del vero-falso ? Più di quello che
potrebbe sembrare : per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano
la possibilità dell'errore : le parole corrispondono esattamente alle cose;o sono
totalmente artificiali o totalmente naturali:si arriva alla stessa conclusione.Se mi attengo
alla teoria "katà fusin" un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed è solo
quella:non c'è possibilità di errore.Se mi attengo al "katà nomon" i nomi sono
totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti :lo posso chiamare libro,ma anche
tavolo,scarpa...sarà in ogni caso corretto e anche qui non c'è possibilità di
sbagliare:infatti in assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti.Il far
corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all'essenza
delle cose consente di affermare che l'errore esiste e che la retorica (quella vera è ) è la
filosofia.Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee:così come si possono dare
nomi alle cose che si conoscono,si possono dare nomi alle idee che si conoscono:c'è una
dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l'essenza di ciò
a cui si riferiscono.Il "Teeteto" è un dialogo dedicato alla matematica:il protagonista ,
Teeteto, è un giovane matematico che in futuro diventerà famoso.E' anche dedicato alla
conoscenza sensibile e a quella intellegibile,che è quella vera e propria.Quando si parla
della conoscenza sensibile viene citato Protagora,che sosteneva che le cose sono come mi
sembrano e che l'uomo è misura di ogni cosa:si tratta del relativismo assoluto.Platone è
interessato a ciò perchè siamo di fronte al rapporto tra vero e falso.Per poter
ragionare,come detto,occorre ammattere l'esistenza del vero e del falso.A supportare le
tesi di Platone è un suo allievo, Aristotele ; egli dice che con i sofisti non si può neppure
discutere perchè ,dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso , nel
momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso
ammette la distinzione tra vero e falso,la possibilità dell'errore:se infatti ci fosse solo il
vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere ? C'è anche chi vuole che il
"Parmenide" sia in realtà una confutazione da parte di Aristotele delle teorie del
maestro Platone : dunque Socrate rappresenterebbe Platone,mentre Parmenide
Aristotele.In effetti ci sono numerosi indizi a sostegno di questa tesi : la stessa
argomentazione del terzo uomo la ritroviamo in testi di Aristotele ed è quindi probabile
che sia sua a tutti gli effetti.D'altronde Aristotele non condivise mai pienamente le
teorie del maestro e se rimase nell'Accademia fino a oltre trent'anni fu solo per il rispetto
che aveva nei confronti di Platone.
Simposio
Apollodoro , con cui il dialogo si apre , é un discepolo molto affezionato a Socrate che
viene citato anche nel " Fedone " , in quanto piange quando Socrate beve la cicuta .
Aristodemo che si reca con Socrate al simposio , e che nel dialogo ci viene presentato
come uno dei più innamorati discepoli di Socrate , non viene ricordato in altri dialoghi .
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Ne fa menzione invece Senofonte ( Memorabili ) in un dialogo con Socrate
sull'esistenza di dio . Fedro , invece , compare in un altro dialogo di Platone ( " Il Fedro
" appunto ) ed é un giovane , amico di Platone attratto dall'arte oratoria . Pausania é un
retore esperto . Al suo discorso , che esprime idee allora in voga sulla questione d'amore ,
Platone dedica ampio spazio , in quanto esprime appunto quell'idea che Platone vuole
superare . Egli é un amico intimo di Pausania . Erissimaco era un medico , figlio di
acumeno pure medico , con idee vicine a quelle dei filosofi naturalisti , e in particolare
quelle di Eraclito . Aristofane é il più celebre commediografo greco e di lui non c'è
bisogno di dire altro , data appunto la sua notorietà . Agatone é un poeta tragico di cui ci
sono pervenuti solo pochi frammenti . Nacque intorno al 447 a.C. La vittoria con la sua
prima tragedia risale al 416 a.C. , quindi , quando ancora era giovane ( 30 anni circa ) .
Che fosse famoso ai suoi tempi é dimostrato , oltre che da quanto ci dice qui Platone e
dal come lo tratta , anche dal fatto che ne parli Aristotele nella Poetica e che ne parli
pure Aristofane . Aveva recepito alcune idee riguardanti lo stile da Gorgia , come qui
Platone stesso ricorda . Alcibiade é il celebre uomo politico ateniese ( nel dialogo ha circa
30 anni ) , ricco di gloria e di denaro , avventuroso e al culmine della sua notorietà .
Diotima , invece , non ci é nota per altra fonte e deve essere un'invenzione platonica . Il
luogo in cui si svolge l'azione é la casa di agatone ; nel prologo il luogo é la strada che
porta alla casa di Agatone e l'atrio dei vicini . La data in cui si svolge il dialogo é quello
della vittoria di Agatone con la sua tragedia ( 416 a.C. ) , mentre la data in cui
Apollodoro narra ciò che aveva udito da Aristodemo , verosimilmente , si colloca prima
del 399 a.C. , ossia sicuramente prima della morte di Socrate . La data di composizione
del Simposio non é facilmente determinabile . Sicuramente fa parte delle opere della
maturità . Forse da collocarsi fra gli anni Ottanta oppure Settanta del secolo quarto a.C.
COMMENTO AL DIALOGO
Tra amore e filosofia c'è uno stretto rapporto , tant'è che l'amore è una metafora della
filosofia :questa stretta parentela ( peraltro esaminata anche nel " Fedro " ) Platone la
esamina meglio nel "SIMPOSIO"(dal Greco sun+pino=bere insieme),il suo capolavoro :
Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un
amico;allora invita anche l'amico e quando sono ormai arrivati , Socrate comincia a
riflettere intensamente.Durante i simposi (all'epoca non c'era la TV e le serate si
trascorrevano cosi')veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un
ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all'altro e selezionare
l'argomento da trattare.Si sceglie di parlare dell'amore:c'è chi dice che Eros è la divinità
più giovane e più bella,chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di
tutto,chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura,chi suggerisce che sia
un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando,c'è chi è del parere che
sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra,facendo
riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della guerra,sarebbe
innamorato di Afrodite.Aristofane,celeberrimo commediografo,narra una storia
semiseria:si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e
doppi:questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza;gli dei per
punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo(l'ombelico)sulla
schiena;poi lo posizionarono sulla pancia perchè si ricordassero di quanto era successo
ogni volta che guardavano in basso:questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra
metà e la cercavano disperatamente.Quando la trovavano si attaccavano e non si
staccavano più neanche per mangiare e cosi' morivano di fame;cosi' gli dei crearono
l'atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione.Questo mito
originale ci spiega due cose:1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e
omo.2)il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale.Notare che nel mondo
greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta( cosi' era già in altri
grandi filosofi quali Empedocle,Parmenide...).Se si leggono accuratamente tutti i
discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità:il discorso finale di
Socrate non sarà nient'altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti.Egli
racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa(Diotima)che gli ha rivelato
tutti i misteri dell'eros:viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti
divini per la nascita di Afrodite:tra le varie divinità ci sono anche
Poros(astuzia,furbizia)e Penia(povertà).Essi,ormai ubriachi per l'eccessivo bere,si
uniscono e viene cosi'concepito Eros,che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori:è
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ignorante,povero e brutto a causa di Penia,ma sa cavarsela sempre grazie a Poros.Non è
bello,ma sa andare a caccia della bellezza;egli sente l'amore ed è soggetto della ricerca
della bellezza e dell'amore,svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato.Chiaramente
se ricerca la bellezza significa che non la possiede:così il filosofo è privo e bisognoso del
sapere (penia=povertà),ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è
privo (poros=astuzia,espediente);dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono
belle,manca anche di bontà;ciò che non è bello o buono,non è necessariamente brutto e
cattivo;per Platone vi è un livello intermedio;tra il sapere e l'essere ignoranti la via di
mezzo consiste nell'avere buone opinioni,senza però darne ragione;la posizione
intermedia comunque non è un male perchè è uno stimolo per arrivare al top:chi si trova
nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova,chi si trova in
quella più alta non si deve impegnare perchè è già nella posizione ottimale:chi si impegna
e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i filosofi,che non sanno ma si sforzano di
avvicinarsi al sapere).Tutti gli dei,gli aveva detto Diotima,sono belli e buoni e di
conseguenza Eros non rientra nella categoria.Anche da questo punto di vista Eros riveste
una posizione intermedia:non è un dio,ma neanche un mortale:è un qualcosa che nasce e
muore di continuo;è una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai
possedere totalmente l'amore;è anche metafora della filosofia perchè l'uomo non
possiede il sapere,ma si sforza per ottenerlo;può riuscire ad avvicinarvisi,ma non si
tratta comunque di una conquista definitiva:il pieno sapere è irraggiungibile.Dunque
Eros è una semi-divinità intermedia.Nella struttura sociale dell'epoca l'omosessualità era
tipica dei filospartani e di coloro che avevano un'impostazione culturale arcaica:è questo
il caso di Socrate e Platone.Il rapporto veniva vissuto "pedagogicamente",vale a dire
che era un rapporto di tipo maestro-allievo.A differenza dell'amore eterosessuale,di
livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale,quello
omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale:vengono
fecondate le anime per procreare nuove idee.Propriamente in Socrate non si parlava di
amore,ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della
maieutica(Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un'ostetrica:lei
faceva partorire le donne,lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide
da far partorire;Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle
anime,che chiaramente non devono essere sterili.Ben si intuisce che la ricerca dell'amore
combacia con quella della filosofia.Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il
famoso Alcibiade,totalmente ubriaco,che racconta pubblicamente di aver fatto delle
"avances" a Socrate ,che però non ha accettato:lui,bello,giovane,aitante con un vecchio
decrepito che non ci sta:il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di
quella interiore,ed è anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica
dell'amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta:egli è totalmente immerso
nella sua realtà,ma non si lascia catturare:ai festini lui partecipa tranquillamente,pur
non identificandovisi;dagli altri si distingue perchè mantiene sempre la sua capacità di
giudizio(nel Simposio è l'unico a non addormentarsi) . Emerge poi nel Simposio , ed
emergerà anche nel Fedro , l' idea del bello : le anime migliori hanno un trasporto di
gioia , dice Socrate , quando vedono nelle cose sensibili l' immagine dell' idea che stanno
cercando ; perciò chi cerca l' idea del bello é preso dalla passione per gli esseri in cui
scorge la bellezza e il raggiungimento dell' idea del bello non é che un approfondimento
di questo amore ; l' idea del bello , inoltre , é quella più evidente anche nel mondo
sensibile perchè facilmente coglibile con la vista e va interpretata come stimolo per
indagare la realtà intellegibile e per scoprire tutte le altre idee . Non a caso nel Simposio
Socrate dice : " La giusta maniera di procedere da sè o di essere condotti da un altro
nelle cose d' amore é questa : prendendo le mosse delle cose belle di quaggiù , al fine di
raggiungere il Bello , salire sempre di più , come procedendo per gradini , da un solo
corpo bello a due , e da due a tutti i corpi belli , e da tutti i corpi belli alle belle attività
umane , e da queste alle belle conoscenze , e dalle conoscenze procedere fino a che non si
pervenga a quella conoscenza di null' altro se non del Bello stesso , e così , giungendo al
termine , conoscere ciò che é il bello in sè " .
Fedro
Il Fedro é una delle opere più famose di Platone sia perchè filosoficamente parlando
rappresenta una pietra miliare nella storia del pensiero , in quanto viene descritta la
sorte delle anime dopo la morte e si accenna alla celeberrima dottrina delle idee , sia
perchè é uno di quei dialoghi " artisticamente " ben riusciti , che il lettore prova piacere
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nel leggere . Le tematiche trattate in quest' opera sono varie e complesse , ma la prima
che possiamo ravvisare é l' argomentazione in favore dell'oralità con un mito di
ambientazione egizia , simbolo per i Greci di una grande civiltà:il protagonista è Teuth ,
divinità della scrittura e della saggezza . Egli è un inventore dalle grandi abilità e
presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo ; quando
però Teuth propone l'invenzione della scrittura,spiegando che serve a ricordare,il
faraone non approva,sostenendo che,al contrario,sortirebbe l'effetto opposto:mettendo le
cose per iscritto , infatti,non è più necessario ricordarle . Proprio nel ricordare consisteva
la sapienza:le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone , che
sostiene che la vera filosofia sia quella orale . E' un'evidente difesa dell'oralità mediante
un mito platonico,inventato di sana pianta,cosa che per altro Platone faceva
spessissimo.Può sembrare strano che un filosofo,che per definizione è chi cerca di dare
spiegazioni razionali e scientifiche,si serva del mito,che non è nient'altro che una
spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione:la verità è che per Platone il mito è
una cosa al di fuori del comune,che ha ben poco a che fare con la tradizione.Egli sapeva
bene che l'argomentazione razionale era migliore,ma sapeva altrettanto bene che un
mito,una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti : stimolano la
fantasia,divertono e restano meglio impressi.Platone se ne serve dunque come arma
impropria dell'intelletto . Inoltre è convinto che si possa dimostrare l'immortalità
dell'anima,ma non razionalmente:si serve cosi' di miti esplicativi,detti escatologici:non a
caso si parla di "fede razionale"di Platone . Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere
particolari livelli della realtà:aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro
intorno all'essere,che corrispondeva al pieno livello di conoscenza ( è pienamente
conoscibile solo una cosa che è , che esiste pienamente ) : più ci si allontana dall'essere (
sia più in alto , sia più in basso ) e più la conoscenza diventa inferiore.Una cosa non
pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il
mito . Un mito molto interessante è quello della " biga alata " , raccontato nel "Fedro" :
Platone tratta qui un argomento non pienamente raggiungibile con la ragione ( dice
esplicitamente : " spiegare come é l' anima richiederebbe da ogni punto di vista un'
esposizione assolutamente divina e lunga , mentre dire a che cosa essa assomiglia si
addice a un' esposizione umana e più breve " ) , anche se il nucleo è alquanto razionale :
racconta dell'esistenza dell'anima e dell'incarnazione . Per Platone l'anima è come una
biga trainata da cavalli alati : essa è composta da tre elementi : un auriga e due cavalli .
Nell'esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo,con la
possibilità di raggiungere un livello superiore,l'iperuranio,una realtà al di là del mondo
fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee secondo la quale vi erano due
livelli di realtà:il nostro mondo e le idee.L'auriga impersonificava l'elemento
razionale,mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per
Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali.Dei due cavalli , uno,di colore
bianco , è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo , l'altro , nero , è
tozzo,recalcitrante ed incapace : compito dell'auriga è riuscire a dominarli grazie alla
sua abilità e alla collaborazione del bianco.Il nero si ribella all'auriga (la ragione)e
rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo.Il bianco rappresenta le
passioni spirituali,più elevate e sublimi.Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono
negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la
"metriopazia",la regolazione delle passioni . E' una metafora efficace perchè è vero che
guida l'auriga , ma senza i cavalli la biga non si muove:significa che le passioni sono
fondamentali per la vita . Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale,in
quanto dotata di sapere,spetta il governo dell'anima.Anche le anime degli dei hanno i
cavalli , ma solo bianchi . Lo scopo è arrivare all'altopiano dell' iperuranio , dal
momento che lassù si trova il nutrimento adatto alla parte migliore dell' anima e grazie
al quale l' anima riesce a volare : gli dei non incontrano particolari difficoltà , mentre le
bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri
tendono a volare nella direzione opposta , verso il basso , ossia verso le cose terrene e
sensibili , meno preziose . Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti
sulla terra : questa è l'incarnazione . Una volta arrivato sulla terra , l'uomo non si
ricorda più dell'altra dimensione , e vive con nostalgia : la vita dell'uomo non è nient'
altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale e le vie da percorrere
per raggiungerla sono due : a ) la prima via é costituita dalla filosofia , che ci consente di
vedere le ombre di quel mondo splendido ( viene qui introdotto il concetto di "
reminescenza " , che verrà poi approfondito in dialoghi quali il " Fedone " e il "
Menone " ) , di cui quello terreno è solo un'imitazione : é necessario che l' uomo
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riconduca le realtà sensibili , mutabili , mortali e molteplici , alle rispettive idee ,
immutabili , perenni e unitarie : " Bisogna infatti che l' uomo comprenda in funzione di
quella che viene chiamata Idea , procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una
unità colta con il pensiero . E questa é una reminescenza di quelle cose che un tempo la
nostra anima ha visto quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall' alto le cose
che diciamo che sono essere , alzando la testa verso quello che é veramente essere " ; b )
la seconda via é costituita dalla bellezza : si tratta di una via più semplice , che fa nascere
l'amore ; se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall'auriga l'amore assumerà
connotazioni sublimi , se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico . Ma in che
cosa consiste l' amore e perchè nella persona amata si vede qualcosa di speciale , di bello
che fa sì che la si ami e che la si voglia tutta per sè ? Platone per rispondere a questa
domanda tira in ballo il bello in sè ( l' idea del bello ) : " la Bellezza splendeva tra le
realtà di lassù come Essere . E noi , venuti quaggiù , l' abbiamo colta con la più chiara
delle nostre sensazioni , in quanto risplende in modo luminosissimo ( ... ) : solamente la
Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che é più manifesto e più amabile " : le anime
migliori hanno un trasporto di gioia quando vedono nelle cose sensibili l' immagine dell'
idea che stanno cercando ; perciò chi cerca l' idea del bello é preso dalla passione per gli
esseri in cui scorge la bellezza e il raggiungimento dell' idea del bello non é che un
approfondimento di questo amore ; la bellezza è una delle tante idee e , a differenza della
altre , filtra facilmente nel mondo sensibile perchè è coglibile per tutti grazie ad un senso
, la vista : proprio nel Fedro Platone dice che l' amore é " la mania per la quale qualcuno
, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera , mette le ali e così alato
arde dal desiderio di levarsi in volo , ma non riuscendovi , guarda verso l' alto come un
uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l' accusa di
essere pazzo " ; per Platone chi ama in modo puro arriva addirittura a vedere nella
persona amata un barlume di divino , perchè infatti coglie in essa l' idea del bello , una
realtà sovrasensibile e divina ed é preso dal desiderio di trattare l' amato come un essere
divino : " chi é stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate
, quando vede un bel volto di aspetto divino , che imita bene la bellezza , o un bel corpo ,
per prima cosa ha un fremito e qualcuno dei timori passati si insinua in lui . Quindi lo
guarda e lo onora come un dio e , se non temesse di apparire completamente folle ,
offrirebbe sacrifici all' amato come a una statua sacra o a un dio " . Poi , come é naturale
che avvenga dopo il fremito , alla vista di quello , un cambiamento un sudore e un calore
insolito si impadroniscono di lui . Egli , infatti , ricevuto l' effluvio della bellezza
attraverso gli occhi , si riscalda e così l' ala viene irrorata . Secondo Platone per gli occhi
degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli
s'erano spezzate cosi' che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale : il
liquido che viene a contatto con l'ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare ;
proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa
soffrire . Quando si è vicini alla persona amata , contemplandola scorre nuovo flusso che
fa passare il dolore dell'anima alimentandola . Quando si è lontani dalla persona
amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il
dolore e la sofferenza . Quindi l'innamorato farà di tutto per vedere il più spesso
possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene . Il concetto di amore
platonico che abbiamo oggi deriva dal medioevo e non è completamente corretto in
quanto i Medioevali credevano che per un innalzamento spirituale non ci dovesse essere
amore fisico ; per Platone c'è una scala gerarchica dell'amore : nei gradini più bassi si
trova l'amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i
gradini . Per Platone l'anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte : l'una è spirituale
e legata all'Iperuranio ( ed é immortale ) , alla dimensione delle idee , mentre l'altro è
puramente materiale , affine al mondo sensibile e terreno , e soprattutto è mortale .
Mentre il corpo spinge l'uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso , l'anima lo
induce a cercare piaceri sublimi e spirituali . Va senz'altro notato come Platone riprenda
la teoria dei Pitagorici ( e degli Orfici ) secondo la quale il corpo è la prigione
dell'anima ( si giocava sulla parola greca "soma"che indica il corpo e "sema",che indica
invece la prigione ) . Il contrasto anima-corpo lo si affronta anche da un punto di vista
gnosologico:il corpo talvolta ci aiuta a conoscere , talvolta ci ostacola:se si disegna un
triangolo rettangolo e ci si ragiona,da un lato può essere un aiuto per passare
all'astrazione e passare all'idea di triangolo,che è ben diversa dal triangolo disegnato che
è solo un'imitazione mal riuscita,dall'altro può essere un ostacolo se ci si limita a
ragionare su quel singolo triangolo senza passare al livello di astrazione . Platone é
assolutamente convinto dell' immortalità dell' anima ; nel " Fedone " egli dimostrerà in
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modo approfondito le sue tesi , qui nel Fedro , invece , abbozza qualche argomentazione :
l' anima per definizione é movimento allo stato puro ed é piuttosto evidente il fatto che
immortale é ciò che si trova ad essere in continuo moto ; ma non si tratta di un moto
qualunque : anche le cose mortali , infatti , si muovono , in quanto mosse da altro , ma
nel momento stesso in cui il moto si esaurisce esse cessano di vivere . Il moto di un ente
immortale deve essere quindi perenne e l' ente stesso deve esserne la causa ; più
precisamente , esso deve essere la causa del moto anche per tutte le altre cose che si
muovono ( e che in quanto messe in moto sono destinate a morire ) : ciò che é immortale
si trova quindi ad essere anche principio ed é chiaro che un principio , per essere tale ,
non deve essere generato , bensì deve essere " causa sui " , perchè se il principio stesso é
ciò che dà la vita ( il moto ) a tutte le altre cose , é evidente che se nascesse dovrebbe
nascere da un principio e quindi non sarebbe più lui il principio . E dato che il principio
é ingenerato ne deriva anche che é incorruttibile perchè se morisse nulla potrebbe più
nascere ( tutto infatti nasce dal principio ) e neanche lui stesso potrebbe rinascere da
altro , perchè tutto nasce dal principio ( che é lui ) . Tutto questo discorso del principio
chiaramente va riferito all' anima , che é , come per i cristiani , immortale , incorruttibile
, ma a differenza della concezione cristiana , é ingenerata . Il corpo , invece , di per sè é
inanimato e se durante il corso della nostra vita lo possiamo muovere é solo grazie all'
anima , la quale é appunto puro movimento . Ritornando alla visione platonica dell'
amore , la principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al
giorno d'oggi abbiamo in mente un amore " bilanciato " , biunivoco , dove i due amanti
si amano reciprocamente ; ai tempi di Platone era univoco , uno amava e l'altro si faceva
amare ; ecco perchè per tutto il Fedro ci si chiede se sia meglio compiacere chi non ama
piuttosto che chi ama , come se non potesse accadere un amore dove ci si ama a vicenda :
nel mondo greco o l'uomo amava la donna o l'uomo amava l'uomo : l'omosessualità era
diffusissima e non suscitava alcun tipo di scalpore . Talvolta ci poteva essere un amore
biunivoco , che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre
tra gli occhi : secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di " specchio " : in realtà
l'amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchè vede riflessa la propria bellezza : "
Come un soffio di vento o un' eco rimbalzando da superfici lisce e solide giunge di nuovo
al punto di partenza , così il flusso della bellezza torna di nuovo all' amato passando
attraverso gli occhi , la via naturale per la quale esso raggiunge l' anima e la colma . Qui
esso irriga i punti di passaggio delle ali , le fa spuntare e riempie d' amore a sua volta
anche l' anima dell' amato " ; è una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di
Dante : " amor , ch' a nullo amato amar perdona... " : è come se chi è amato si
innamorasse del sentimento stesso . Platone ci parla in modo approfondito dell'amore (in
Greco "eros" , che designa l'amore passionale ed irrazionale , diverso da " agapè " ,
l'amore puro ) proprio nel "FEDRO" ( oltre che nel " Simposio " ):in realtà gli
argomenti trattati sono due :1 ) l'eros ; 2 ) la retorica . In effetti risulta piuttosto strana l'
idea di collocare nello stesso dialogo due tematiche così diverse , che hanno ben poco in
comune , soprattutto se teniamo in considerazione quanto Platone stesso ci dice nel
Fedro ( 264 c ) a proposito di come deve essere strutturata ogni opera d' arte : " sia
costituita come un essere vivente " , che abbia un corpo dotato di una parte centrale ,
una testa , delle membra , insomma degli elementi solidali gli uni con gli altri e con l'
insieme . E' però evidente che nel Fedro Platone non applichi questa teoria da lui stesso
propugnata . Quella di Platone,oltre ad essere un'epoca di passaggio tra oralità e
scrittura,è anche un'epoca in cui emerge un importante quesito:come si fanno ad
educare i cittadini?Vi era chi rispondeva che l'unica via era la filosofia ( tra questi
Platone stesso ) , e chi , come Isocrate,sosteneva che per tale funzione ci fosse la
retorica.Platone,dunque,vuole argomentare in difesa della filosofia:le vicende si svolgono
nella campagna circostante Atene,in una calda giornata estiva.Protagonista è Socrate
,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che
l'autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro,un suo
discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti.I due si siedono al riparo
dal sole sotto un platano , circondati da un paesaggio incantevole , e Fedro mostra a
Socrate un'orazione di Lisia , uno dei più grandi oratori greci,che si è appena
trascritto:è un'orazione riguardante l'amore a carattere " sofistico " , si cercano cioè di
dimostrare cose paradossali ed assurde:Lisia (va senz'altro notato come Platone ben
riproduca lo stile lisiano ) cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non
ama:Lisia parte dal presupposto che l'amore sia una " follia " e che concedersi a chi ama
è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo "appiccicaticcio" che se mai si rompesse
farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante ; poi dopo che è passato l'ardore
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iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da "rimbambiti" e si
finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si
comporterebbe in tutt'altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto
all'amato non amato . Socrate ( incitato da Fedro ) a sua volta imposta due discorsi:nel
primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo "demone"(una
specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta
commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente
sbagliando . Anche per Socrate l'amore è una follia,però,a differenza di Lisia , per lui è
positiva:vi sono infatti follie dannose e negative,ma anche positive e benigne . Poi
Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio
dell'amore ("Eros") , per evitare che la divinità lo punisca . E' difficile comprendere
quale sia il tema centrale ( l'amore ? La retorica ? ) ; fatto sta che due argomenti
strettamente connessi tra loro sono l' amore e la filosofia ( vedi il " Simposio " ) in
quanto l'amore (l'eros) stesso è una metafora per indicare la filosofia ( sia l' amore sia il
sapere , infatti , sono due cose mai pianemante conquistabili ) ; la retorica vera poi , per
Platone , non é altro che la filosofia , la dialettica , e quindi in questa maniera si può in
qualche modo stabilire un rapporto amore - retorica . Tuttavia la retorica di cui Lisia si
fa portavoce non é affatto quella vera , essenzialmente perchè cerca di dimostrare cose
paradossali , non attenendosi minimamente al vero , bensì tenendo presente la famosa
constatazione sofistica che " la parola può tutto " . La vera retorica , ossia la filosofia ,
per Platone deve agire nel seguente modo , esposto nel Fedro : " Prima di tutto bisogna
conoscere la verità su ciascuna delle questioni di cui si parla o si scrive ; essere in grado
di definire ogni cosa in se stessa e , dopo averla definita , saperla di nuovo dividere in
base alle specie fino all'indivisibile ; individuare allo stesso modo la natura dell'anima ,
trovando in genere il discorso adatto a ciascuna natura ; comporre e organizzare il
discorso di conseguenza , rivolgendo a a un'anima complessa discorsi complessi e dai
molteplici toni , a un'anima semplice discorsi semplici . A questo punto , e non prima ,
sarà possibile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dalla sua natura
, sia per insegnare , sia per convincere " : il fulcro del discorso é chiaramente la
conoscenza della verità : non serve pronunciare discorsi raffinati ed eleganti che esulino
dalla verità : sono molto migliori i discorsi meno piacevoli e più " terra a terra " che
però si basano sulla verità .
Repubblica
Il Fedro é una delle opere più famose di Platone sia perchè filosoficamente parlando
rappresenta una pietra miliare nella storia del pensiero , in quanto viene descritta la
sorte delle anime dopo la morte e si accenna alla celeberrima dottrina delle idee , sia
perchè é uno di quei dialoghi " artisticamente " ben riusciti , che il lettore prova piacere
nel leggere . Le tematiche trattate in quest' opera sono varie e complesse , ma la prima
che possiamo ravvisare é l' argomentazione in favore dell'oralità con un mito di
ambientazione egizia , simbolo per i Greci di una grande civiltà:il protagonista è Teuth ,
divinità della scrittura e della saggezza . Egli è un inventore dalle grandi abilità e
presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo ; quando
però Teuth propone l'invenzione della scrittura,spiegando che serve a ricordare,il
faraone non approva,sostenendo che,al contrario,sortirebbe l'effetto opposto:mettendo le
cose per iscritto , infatti,non è più necessario ricordarle . Proprio nel ricordare consisteva
la sapienza:le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone , che
sostiene che la vera filosofia sia quella orale . E' un'evidente difesa dell'oralità mediante
un mito platonico,inventato di sana pianta,cosa che per altro Platone faceva
spessissimo.Può sembrare strano che un filosofo,che per definizione è chi cerca di dare
spiegazioni razionali e scientifiche,si serva del mito,che non è nient'altro che una
spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione:la verità è che per Platone il mito è
una cosa al di fuori del comune,che ha ben poco a che fare con la tradizione.Egli sapeva
bene che l'argomentazione razionale era migliore,ma sapeva altrettanto bene che un
mito,una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti : stimolano la
fantasia,divertono e restano meglio impressi.Platone se ne serve dunque come arma
impropria dell'intelletto . Inoltre è convinto che si possa dimostrare l'immortalità
dell'anima,ma non razionalmente:si serve cosi' di miti esplicativi,detti escatologici:non a
caso si parla di "fede razionale"di Platone . Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere
particolari livelli della realtà:aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro
intorno all'essere,che corrispondeva al pieno livello di conoscenza ( è pienamente
conoscibile solo una cosa che è , che esiste pienamente ) : più ci si allontana dall'essere (
sia più in alto , sia più in basso ) e più la conoscenza diventa inferiore.Una cosa non
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pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il
mito . Un mito molto interessante è quello della " biga alata " , raccontato nel "Fedro" :
Platone tratta qui un argomento non pienamente raggiungibile con la ragione ( dice
esplicitamente : " spiegare come é l' anima richiederebbe da ogni punto di vista un'
esposizione assolutamente divina e lunga , mentre dire a che cosa essa assomiglia si
addice a un' esposizione umana e più breve " ) , anche se il nucleo è alquanto razionale :
racconta dell'esistenza dell'anima e dell'incarnazione . Per Platone l'anima è come una
biga trainata da cavalli alati : essa è composta da tre elementi : un auriga e due cavalli .
Nell'esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo,con la
possibilità di raggiungere un livello superiore,l'iperuranio,una realtà al di là del mondo
fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee secondo la quale vi erano due
livelli di realtà:il nostro mondo e le idee. L'auriga impersonificava l'elemento
razionale,mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per
Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali.Dei due cavalli , uno,di colore
bianco , è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo , l'altro , nero , è
tozzo,recalcitrante ed incapace : compito dell'auriga è riuscire a dominarli grazie alla
sua abilità e alla collaborazione del bianco.Il nero si ribella all'auriga (la ragione)e
rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo.Il bianco rappresenta le
passioni spirituali,più elevate e sublimi.Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono
negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la
"metriopazia",la regolazione delle passioni . E' una metafora efficace perchè è vero che
guida l'auriga , ma senza i cavalli la biga non si muove:significa che le passioni sono
fondamentali per la vita . Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale,in
quanto dotata di sapere,spetta il governo dell'anima.Anche le anime degli dei hanno i
cavalli , ma solo bianchi . Lo scopo è arrivare all'altopiano dell' iperuranio , dal
momento che lassù si trova il nutrimento adatto alla parte migliore dell' anima e grazie
al quale l' anima riesce a volare : gli dei non incontrano particolari difficoltà , mentre le
bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri
tendono a volare nella direzione opposta , verso il basso , ossia verso le cose terrene e
sensibili , meno preziose . Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti
sulla terra : questa è l'incarnazione . Una volta arrivato sulla terra , l'uomo non si
ricorda più dell'altra dimensione , e vive con nostalgia : la vita dell'uomo non è nient'
altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale e le vie da percorrere
per raggiungerla sono due : a ) la prima via é costituita dalla filosofia , che ci consente di
vedere le ombre di quel mondo splendido ( viene qui introdotto il concetto di "
reminescenza " , che verrà poi approfondito in dialoghi quali il " Fedone " e il "
Menone " ) , di cui quello terreno è solo un'imitazione : é necessario che l' uomo
riconduca le realtà sensibili , mutabili , mortali e molteplici , alle rispettive idee ,
immutabili , perenni e unitarie : " Bisogna infatti che l' uomo comprenda in funzione di
quella che viene chiamata Idea , procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una
unità colta con il pensiero . E questa é una reminescenza di quelle cose che un tempo la
nostra anima ha visto quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall' alto le cose
che diciamo che sono essere , alzando la testa verso quello che é veramente essere " ; b )
la seconda via é costituita dalla bellezza : si tratta di una via più semplice , che fa nascere
l'amore ; se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall'auriga l'amore assumerà
connotazioni sublimi , se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico . Ma in che
cosa consiste l' amore e perchè nella persona amata si vede qualcosa di speciale , di bello
che fa sì che la si ami e che la si voglia tutta per sè ? Platone per rispondere a questa
domanda tira in ballo il bello in sè ( l' idea del bello ) : " la Bellezza splendeva tra le
realtà di lassù come Essere . E noi , venuti quaggiù , l' abbiamo colta con la più chiara
delle nostre sensazioni , in quanto risplende in modo luminosissimo ( ... ) : solamente la
Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che é più manifesto e più amabile " : le anime
migliori hanno un trasporto di gioia quando vedono nelle cose sensibili l' immagine dell'
idea che stanno cercando ; perciò chi cerca l' idea del bello é preso dalla passione per gli
esseri in cui scorge la bellezza e il raggiungimento dell' idea del bello non é che un
approfondimento di questo amore ; la bellezza è una delle tante idee e , a differenza della
altre , filtra facilmente nel mondo sensibile perchè è coglibile per tutti grazie ad un senso
, la vista : proprio nel Fedro Platone dice che l' amore é " la mania per la quale qualcuno
, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera , mette le ali e così alato
arde dal desiderio di levarsi in volo , ma non riuscendovi , guarda verso l' alto come un
uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l' accusa di
essere pazzo " ; per Platone chi ama in modo puro arriva addirittura a vedere nella
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persona amata un barlume di divino , perchè infatti coglie in essa l' idea del bello , una
realtà sovrasensibile e divina ed é preso dal desiderio di trattare l' amato come un essere
divino : " chi é stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate
, quando vede un bel volto di aspetto divino , che imita bene la bellezza , o un bel corpo ,
per prima cosa ha un fremito e qualcuno dei timori passati si insinua in lui . Quindi lo
guarda e lo onora come un dio e , se non temesse di apparire completamente folle ,
offrirebbe sacrifici all' amato come a una statua sacra o a un dio " . Poi , come é naturale
che avvenga dopo il fremito , alla vista di quello , un cambiamento un sudore e un calore
insolito si impadroniscono di lui . Egli , infatti , ricevuto l' effluvio della bellezza
attraverso gli occhi , si riscalda e così l' ala viene irrorata . Secondo Platone per gli occhi
degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli
s'erano spezzate cosi' che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale : il
liquido che viene a contatto con l'ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare ;
proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa
soffrire . Quando si è vicini alla persona amata , contemplandola scorre nuovo flusso che
fa passare il dolore dell'anima alimentandola . Quando si è lontani dalla persona
amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il
dolore e la sofferenza . Quindi l'innamorato farà di tutto per vedere il più spesso
possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene . Il concetto di amore
platonico che abbiamo oggi deriva dal medioevo e non è completamente corretto in
quanto i Medioevali credevano che per un innalzamento spirituale non ci dovesse essere
amore fisico ; per Platone c'è una scala gerarchica dell'amore : nei gradini più bassi si
trova l'amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i
gradini . Per Platone l'anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte : l'una è spirituale
e legata all'Iperuranio ( ed é immortale ) , alla dimensione delle idee , mentre l'altro è
puramente materiale , affine al mondo sensibile e terreno , e soprattutto è mortale .
Mentre il corpo spinge l'uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso , l'anima lo
induce a cercare piaceri sublimi e spirituali . Va senz'altro notato come Platone riprenda
la teoria dei Pitagorici ( e degli Orfici ) secondo la quale il corpo è la prigione
dell'anima ( si giocava sulla parola greca "soma"che indica il corpo e "sema",che indica
invece la prigione ) . Il contrasto anima-corpo lo si affronta anche da un punto di vista
gnosologico:il corpo talvolta ci aiuta a conoscere , talvolta ci ostacola:se si disegna un
triangolo rettangolo e ci si ragiona,da un lato può essere un aiuto per passare
all'astrazione e passare all'idea di triangolo,che è ben diversa dal triangolo disegnato che
è solo un'imitazione mal riuscita,dall'altro può essere un ostacolo se ci si limita a
ragionare su quel singolo triangolo senza passare al livello di astrazione . Platone é
assolutamente convinto dell' immortalità dell' anima ; nel " Fedone " egli dimostrerà in
modo approfondito le sue tesi , qui nel Fedro , invece , abbozza qualche argomentazione :
l' anima per definizione é movimento allo stato puro ed é piuttosto evidente il fatto che
immortale é ciò che si trova ad essere in continuo moto ; ma non si tratta di un moto
qualunque : anche le cose mortali , infatti , si muovono , in quanto mosse da altro , ma
nel momento stesso in cui il moto si esaurisce esse cessano di vivere . Il moto di un ente
immortale deve essere quindi perenne e l' ente stesso deve esserne la causa ; più
precisamente , esso deve essere la causa del moto anche per tutte le altre cose che si
muovono ( e che in quanto messe in moto sono destinate a morire ) : ciò che é immortale
si trova quindi ad essere anche principio ed é chiaro che un principio , per essere tale ,
non deve essere generato , bensì deve essere " causa sui " , perchè se il principio stesso é
ciò che dà la vita ( il moto ) a tutte le altre cose , é evidente che se nascesse dovrebbe
nascere da un principio e quindi non sarebbe più lui il principio . E dato che il principio
é ingenerato ne deriva anche che é incorruttibile perchè se morisse nulla potrebbe più
nascere ( tutto infatti nasce dal principio ) e neanche lui stesso potrebbe rinascere da
altro , perchè tutto nasce dal principio ( che é lui ) . Tutto questo discorso del principio
chiaramente va riferito all' anima , che é , come per i cristiani , immortale , incorruttibile
, ma a differenza della concezione cristiana , é ingenerata . Il corpo , invece , di per sè é
inanimato e se durante il corso della nostra vita lo possiamo muovere é solo grazie all'
anima , la quale é appunto puro movimento . Ritornando alla visione platonica dell'
amore , la principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al
giorno d'oggi abbiamo in mente un amore " bilanciato " , biunivoco , dove i due amanti
si amano reciprocamente ; ai tempi di Platone era univoco , uno amava e l'altro si faceva
amare ; ecco perchè per tutto il Fedro ci si chiede se sia meglio compiacere chi non ama
piuttosto che chi ama , come se non potesse accadere un amore dove ci si ama a vicenda :
nel mondo greco o l'uomo amava la donna o l'uomo amava l'uomo : l'omosessualità era
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diffusissima e non suscitava alcun tipo di scalpore . Talvolta ci poteva essere un amore
biunivoco , che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre
tra gli occhi : secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di " specchio " : in realtà
l'amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchè vede riflessa la propria bellezza : "
Come un soffio di vento o un' eco rimbalzando da superfici lisce e solide giunge di nuovo
al punto di partenza , così il flusso della bellezza torna di nuovo all' amato passando
attraverso gli occhi , la via naturale per la quale esso raggiunge l' anima e la colma . Qui
esso irriga i punti di passaggio delle ali , le fa spuntare e riempie d' amore a sua volta
anche l' anima dell' amato " ; è una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di
Dante : " amor , ch' a nullo amato amar perdona... " : è come se chi è amato si
innamorasse del sentimento stesso . Platone ci parla in modo approfondito dell'amore (in
Greco "eros" , che designa l'amore passionale ed irrazionale , diverso da " agapè " ,
l'amore puro ) proprio nel "FEDRO" ( oltre che nel " Simposio " ):in realtà gli
argomenti trattati sono due :1 ) l'eros ; 2 ) la retorica . In effetti risulta piuttosto strana l'
idea di collocare nello stesso dialogo due tematiche così diverse , che hanno ben poco in
comune , soprattutto se teniamo in considerazione quanto Platone stesso ci dice nel
Fedro ( 264 c ) a proposito di come deve essere strutturata ogni opera d' arte : " sia
costituita come un essere vivente " , che abbia un corpo dotato di una parte centrale ,
una testa , delle membra , insomma degli elementi solidali gli uni con gli altri e con l'
insieme . E' però evidente che nel Fedro Platone non applichi questa teoria da lui stesso
propugnata . Quella di Platone,oltre ad essere un'epoca di passaggio tra oralità e
scrittura,è anche un'epoca in cui emerge un importante quesito:come si fanno ad
educare i cittadini?Vi era chi rispondeva che l'unica via era la filosofia ( tra questi
Platone stesso ) , e chi , come Isocrate,sosteneva che per tale funzione ci fosse la
retorica.Platone,dunque,vuole argomentare in difesa della filosofia:le vicende si svolgono
nella campagna circostante Atene,in una calda giornata estiva.Protagonista è Socrate
,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che
l'autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro,un suo
discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti.I due si siedono al riparo
dal sole sotto un platano , circondati da un paesaggio incantevole , e Fedro mostra a
Socrate un'orazione di Lisia , uno dei più grandi oratori greci,che si è appena
trascritto:è un'orazione riguardante l'amore a carattere " sofistico " , si cercano cioè di
dimostrare cose paradossali ed assurde:Lisia (va senz'altro notato come Platone ben
riproduca lo stile lisiano ) cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non
ama:Lisia parte dal presupposto che l'amore sia una " follia " e che concedersi a chi ama
è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo "appiccicaticcio" che se mai si rompesse
farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante ; poi dopo che è passato l'ardore
iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da "rimbambiti" e si
finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si
comporterebbe in tutt'altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto
all'amato non amato . Socrate ( incitato da Fedro ) a sua volta imposta due discorsi:nel
primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo "demone"(una
specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta
commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente
sbagliando . Anche per Socrate l'amore è una follia,però,a differenza di Lisia , per lui è
positiva:vi sono infatti follie dannose e negative,ma anche positive e benigne . Poi
Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio
dell'amore ("Eros") , per evitare che la divinità lo punisca . E' difficile comprendere
quale sia il tema centrale ( l'amore ? La retorica ? ) ; fatto sta che due argomenti
strettamente connessi tra loro sono l' amore e la filosofia ( vedi il " Simposio " ) in
quanto l'amore (l'eros) stesso è una metafora per indicare la filosofia ( sia l' amore sia il
sapere , infatti , sono due cose mai pianemante conquistabili ) ; la retorica vera poi , per
Platone , non é altro che la filosofia , la dialettica , e quindi in questa maniera si può in
qualche modo stabilire un rapporto amore - retorica . Tuttavia la retorica di cui Lisia si
fa portavoce non é affatto quella vera , essenzialmente perchè cerca di dimostrare cose
paradossali , non attenendosi minimamente al vero , bensì tenendo presente la famosa
constatazione sofistica che " la parola può tutto " . La vera retorica , ossia la filosofia ,
per Platone deve agire nel seguente modo , esposto nel Fedro : " Prima di tutto bisogna
conoscere la verità su ciascuna delle questioni di cui si parla o si scrive ; essere in grado
di definire ogni cosa in se stessa e , dopo averla definita , saperla di nuovo dividere in
base alle specie fino all'indivisibile ; individuare allo stesso modo la natura dell'anima ,
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trovando in genere il discorso adatto a ciascuna natura ; comporre e organizzare il
discorso di conseguenza , rivolgendo a a un'anima complessa discorsi complessi e dai
molteplici toni , a un'anima semplice discorsi semplici . A questo punto , e non prima ,
sarà possibile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dalla sua natura
, sia per insegnare , sia per convincere " : il fulcro del discorso é chiaramente la
conoscenza della verità : non serve pronunciare discorsi raffinati ed eleganti che esulino
dalla verità : sono molto migliori i discorsi meno piacevoli e più " terra a terra " che
però si basano sulla verità .
Fedone
A cura di Daniele Lo Giudice
Fedone, uno dei più giovani amici di Socrate, è di passaggio a Fliunte pochi mesi dopo la
morte del maestro. Trovandosi tra persone che avevano conosciuto Socrate ed altri
personaggi interessati a questioni filosofiche, Fedone si incarica innanzitutto di offrire un
racconto del processo, della carcerazione e della morte di Socrate. Fedone rammenta
che, andato in carcere di buon ora, aveva trovato il maestro libero dai ceppi ed in
compagnia della moglie, Xantippe, insieme al più giovane tra i suoi figli, attorniato da
diversi amici. Dopo la partenza della moglie e del figlioletto, Socrate, che era seduto sul
letto, si stropicciò una gamba indolenzita, traendone piacere. E, subito, trasse spunto da
questa sensazione, per avviare un ragionamento: " che strana cosa, amici, par che sia
quello che che la gente chiama piacere, e che meraviglioso rapporto per natura con
quello che sembra il suo contrario, il dolore! E pensare che entrambi insieme non
vogliono mai trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua uno, e lo prenda, costui si
trova in certo modo costretto a prendere sempre anche l'altro, quasi che sebbene siano
due, pure si trovino legati allo stesso capo." Se Esopo, il grande scrittore di favole, ne
avesse avuto sentore, certamente avrebbe composto una nuova. Al che Cebete, uno dei
presenti, si rammentò che il poeta Eueno gli aveva chiesto con quale intento Socrate
avesse cominciato a scrivere versi e comporre musica sulle favole d'Esopo e in onore al
dio Apollo. " E tu digli la verità, Cebete - rispose Socrate - che li ho fatti non certo per
competere con lui e con i suoi poemi - sapendo bene che non era facile - ma solo per
rendermi conto del del significato di taluni miei sogni, e mettere in pace la mia coscienza,
se mai fosse questa appunto la musica a cui spesso questi sogni m'ordinavano di
attendere. Ed ecco quali erano. Spesso nella mia vita passata m'era apparso il medesimo
sogno, ora in una forma, ora in un'altra; ma per ripetermi sempre la stessa cosa: «
Socrate - mi diceva - fa e coltiva musica.» Ed io allora quello che facevo, questo
precisamente credevo: ch'esso mi esortasse e m'incitasse a fare, come si suole in quelli
che gareggiano nella corsa; e così il sogno m'incitasse a fare ciò che già facevo: a
coltivare musica, convinto, com'ero, che la filosofia fosse la più alta musica ed io non
coltivassi che musica. Ora, però, dopo il giudizio, poichè la festa del dio ritardava la mia
morte, mi parve che, se dunque il sogno insisteva ancora sull'impormi di fare questa
specie popolare di musica, io non dovessi disobbedirgli, ma farla, e fosse più sicuro per
me di non andarmene da questo mondo prima d'aver messo a posto la mia coscienza col
comporre dei versi, in obbedienza al sogno." A questo punto Socrate se ne uscì con
qualcosa di molto strano e sconcertante, ovvero di mandare a dire a Eueno che non
mancasse di seguirlo al più presto nell'altro mondo. Lo stranezza colpì non poco Simmia,
un altro dei presenti, il quale si disse convinto che Eueno non aveva alcun desiderio di
morire. Al che Socrate chiese se Eueno fosse o meno da considerarsi filosofo. Quando
Simmia rispose affermativamente, egli dichiarò che non solo Eueno, ma tutti i filosofi
non avrebbero accolto male il suo consiglio, giacchè il vero filosofo desidera di morire,
quantunque nessuno abbia il diritto di suicidarsi. Al che Cebete osservò: - ma se la morte
è un bene, perchè mai uno non dovrebbe suicidarsi? Socrate ammise che a prima vista il
divieto di procurarsi la morte pare assurdo; eppure non è irragionevole. "Quella
massima che a questo riguardo s'ode in certi misteri: che noi uomini siamo qui come in
una prigione, e non ci sia perciò lecito di liberarcene da noi stessi e tanto meno
scapparcene, è qualcosa di troppo alto ed insieme non chiaro. Ma, a buon conto, ciò che a
me almeno, mi pare ben detto, Cebete, è questo: che sono dei quelli che hanno cura di
noi, e noi, gli uomini, siamo una delle cose di proprietà degli dei. O a te non pare?" "A
me sì" - rispose Cebete. "Orbene - riprese Socrate - anche tu, se qualcuno dei tuoi servi
s'uccidesse, senza che tu gli avessi dato segno di volere che morisse, non ti adireresti con
lui e non lo puniresti, se ne avessi il modo?" Cebete ne convenne. Ma questo consenso
evidenziava che c'era una contraddizione nel comportamento di Socrate, ed anche nel
ragionamento. Se siamo proprietà degli dei, perchè mai un filosofo dovrebbe desiderare
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di morire, sottraendosi ai migliori padroni che si possano trovare? Simmia aggiunse che
le parole di Cebete suonavano come un rimprovero allo stesso Socrate. A questo punto il
maestro dovette rispondere. Affermò di credere che non tutto finisse con la vita, che
anche per i morti ci fosse qualcosa, e di meglio per i buoni che per i cattivi. Aveva la
certezza di trovarsi nell'al di là in presenza di divinità non meno buone e nutriva la
speranza di incontrare uomini eccellenti. Simmia lo invitò a spiegare le ragioni della sua
fiducia. Ma prima, Socrate disse di voler ascoltare quello che aveva da dire Critone. Ed è
qualcosa che rende ancora più drammatico il dialogo. "E che altro, Socrate - fece
Critone - se non che quest'uomo incaricato di darti il farmaco (cioè la cicuta ndr) insiste
da un pezzo perchè io ti raccomandi di parlare il meno possibile? Costui dice che chi
parla troppo, si riscalda, e questo non va bene; chi fa così sarà poi costretto a prendere
una doppia o tripla dose." "E tu lascialo dire - rispose Socrate - ... ma a voi, miei giudici,
desidero subito rendere conto delle ragioni per le quali ritengo credibile che un uomo, il
quale abbia realmente speso la vita intera nello studio della filosofia, debba sentirsi di
buon animo dinnanzi alla morte, ed avere fiducia di trovare lì, dopo che sia finito, i
maggiori beni. E che sia così, come lo dico, Simmia e Cebete, proverò ad esporlo." "Tutti
quelli che sul serio attendono alla filosofia - proseguì Socrate - corrono il rischio che agli
altri sfugga com'essi non tendano ad altro se non a morire ed ad essere morti. Se dunque
è così, sarebbe davvero assurdo che uno in tutta la vita non pensasse se non a questo, e
poi, proprio quando giunga il momento, s'affliggesse di ciò a cui aveva pensato e s'era
preparato da tanto tempo." Simmia disse ridente: "Per Zeus, Socrate, m'hai fatto ridere
senza che ne avessi alcuna voglia. E credo che a sentirti parlare così dei filosofi la gente
troverebbe che si ha ben ragione dire - e ti farebbero coro i miei compaesani, e con che
gusto! - che realmente quelli che fanno professione di filosofia sono come persone che
aspettano di morire; e del resto essa, quanto a sé, ha già mostrato di non ignorare che i
filosofi sono degni d'una morte siffatta." Che cos'è la morte se non la separazione
dell'anima dal corpo? - proseguì Socrate. Il filosofo disprezza i paiceri del corpo e sa che
i sensi sono fallaci. Sa che non deve e non può fidarsi se non della sola anima, quando si
proponga di conoscere ed indagare l'essere. Desidera la morte perchè spera che soltanto
allora la sua anima, purificata e sciolta da ogni contatto materiale potrà godere della
piena conoscenza del vero, che era stata lo scopo di tutta la sua vita. Chi non è sorretto
da tale speranza, non è filosofo, ma un semplice amante del corpo. Qui abbiamo
l'obiezione di Cebete. Il ragionamento sarebbe giusto a patto che si potesse dimostrare
che l'anima sopravvive al corpo, conservando potere ed intelligenza. Ma questo è proprio
ciò di cui tanti dubitano e che necessita di dimostrazione. Socrate risponde partendo da
lontano, in particolare dagli insegnamenti di Pitagora. L'antica credenza nella
metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime, presuppone l'esistenza precedente
dell'anima nella dimensione ultraterrena. Il principio di questa credenza è
universalmente osservabile in natura, dove ogni contrario si genera dal suo contrario:
vita e morte sono contrari; il trapasso dalla prima alla seconda è evidente; ora, se la non
vuole essere manchevole da un lato, bisogna anche ammettere il ritorno da morte a vita,
per quanto sfugga ai nostri sensi. E non può mancare, perchè altrimenti la vita finirebbe
per estinguersi del tutto. Se dunque le anime, dopo la morte, si rigenerano in nuovi
esseri, bisogna ammettere che esse continuano ad esistere in qualche luogo. Cebete
suggerì allora che la preesistenza dell'anima risultava anche dalla dottrina cara a
Socrate, ovvero che la vera scienza non fosse altro che reminiscenza. Ma Simmia
dichiarò di non rammentarsene, e Cebete fu stimolato a darne un riassunto. Poi Socrate
la espose. Muovendo dalla natura della memoria, e ricavandone la conseguenza che, se
dalla osservazione degli oggetti sensibili noi possiamo sollevarci alla cognizione delle
idee, è chiaro che queste idee dobbiamo averle conosciute tutte prima di nascere.
Secondo Socrate, dunque, la medesima necessità logica legava la preesistenza delle idee e
quella delle anime. Ma, Simmia e Cebete avanzarono un'obiezione: pur concedendo la
preesistenza dell'anima, non abbiamo alcuna prova che essa non si dissolva con la morte.
Cebete disse che c'era in loro un bambino che aveva tuttora paura della morte. Socrate
risponde che solo ciò che è composto si può dissolvere, e l'anima è certamente una
sostanza semplice che rimane sempre identica a se stessa. Solo il composto può divenire.
L'anima è come le idee, specie d'essere incorruttibile. Si può conoscere solo con
l'intelletto e non con i sensi. Come tutti gli immutabili non appartiene all sfera del
visibile e del tangibile ma all'invisibile e all'intangibile. E quanto più si rifletta sul fatto
che l'anima è fatta per comandare ed il corpo per servire, non si può non credere alla sua
natura eterna in quanto partecipa del divino. Richiamandosi ancora alla dottrina
pitagorica della metempsicosi, Socrate accenna al destino dell'anima. Quelle che avranno
vissuto in temperanza e coltivato le virtù civili potrebbero reincarnarsi a livelli
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dell'essere più vicini al divino, quelle possedute dai desideri carnali non potrebbero che
rinascere nei corpi di animali selvaggi e feroci. A queste affermazioni segue il silenzio.
Simmia e Cebete si scambiano commenti a bassa voce. Indovinando che erano ancora in
dubbio, Socrate li invita a vincere qualsiasi scrupolo. Così Simmia si decide: non potendo
avere il conforto di una divina parola capace di portare la certezza definitiva, bisogna
accontentarsi di un ragionamento umano. Osserva allora che anche l'armonia prodotta
da una lira può definirsi qualcosa d'incorporeo, mentre la lira che la produce ha statuto
fisico, caduco e visibile. L'armonia non sopravvive al logorio dello strumento. Pertanto,
anche l'anima potrebbe essere il risultato di una miscela degli elementi corporei (dottrine
in qualche modo riconducibili a Democrito e ad Anassagora ndr) e cessare di esistere con
il suo spegnimento. Cebete, dal canto suo, avanza un'obiezione ancora più profonda e
radicale: nulla vieta di credere che l'anima preesista e sopravviva, ma, ancora nulla vieta
di credere che, dopo molteplici reincarnazioni, l'anima finisca con l'estinguersi.
Evidentemente non crede all'eternità dell'essere. Molti dei presenti sono turbati da
queste osservazioni. Ma non Socrate. Fedone ricorda, innanzitutto, che Socrate ammonì
a guardarsi dal perdere la fiducia nei ragionamenti, dopo aver perso quella negli uomini.
Perchè si diventa misantropi? Perchè si ripone la propria fede nei primi che si
incontrano, e quando ci si avvede che costoro sono tutt'altro da come li abbiamo
immaginati, si finisce per credere che tutto il genere umano è cattivo. La stessa cosa
avviene per i ragionamenti. Chi se ne serve con leggerezza, finisce col rigettarli tutti. In
realtà, come nel caso del misantropo, anche il misologo generalizza troppo velocemente.
Andando al cuore del problema, Socrate chiede a Simmia e Cebete, se rigettino tutti i
ragionamenti o solo alcuni. Avuta conferma che entrambi continuano ad accettare la
dottrina della reminiscenza, Socrate dice a Simmia che essa non s'accorda per nulla con
la considerazione dell'anima come armonia. Se essa fosse armonia, sarebbe un composto
di elementi corporei, e non una realtà spirituale. Simmia riconosce l'errore. Ma Socrate
non è soddisfatto. Se l'anima - continua - fosse armonia, non potrebbe avere natura
diversa dagli elementi che la compongono. Non potrebbe guidarli, ma seguirli. E poi:
visto che è innegabile che esistano anime viziose, mentre altre sono virtuose, e
considerato che anche la virtù andrebbe considerata come accordo, ed il vizio come
disaccordo, avremmo che chi pensa che l'anima sia armonia, dovrebbe ammettere che
l'anima sia un'armonia che accoglie in se un'altra armonia, e dovremmo anche
ammettere che l'anima viziosa sia un'armonia disarmonica, il che è assurdo. Tornando al
concetto iniziale, Socrate conclude che l'anima come armonia non potrebbe contrastare i
desideri del corpo, perchè così si troverebbe in disarmonia con esso. L'esperienza di ogni
giorno, pertanto, smentisce questa dottrina. L'obiezione di Cebete è più grave. Per fare i
conti con essa, Socrate la ricapitola, poi, per far vedere come fosse giunto alle sue
convinzioni, riassume la storia del suo sviluppo intellettuale e spirituale. Da giovane fu
ammiratore della filosofia della natura e come gli ionici confidò di trovare in essa la
spiegazione di tutti i fenomeni. Ma, presto vennero anche i dubbi. Dopo la lettura del
libro di Anassagora che poneva il Nous, cioè la mente, come sovrano dell'universo, egli
ritrovò alcune speranze. Gli sembrò ovvio, insomma, che se la mente divina ordinava
tutto nel miglior modo possibile, tutte le cose avrebbero dovuto essere disposte per il
meglio. Però Anassagora, deluse Socrate perchè, invece di riportare tutto alla mente,
cercava di spiegare le cause dei fenomeni ricorrendo a principi meccanici e materiali, gli
stessi, grosso modo, dei filosofi ionici. Socrate decise così di battere un sentiero del tutto
nuovo. Non guardare più le cose in modo immediato, nel loro aspetto sensibile, ma ad
esse nel modo della vera realtà, quella sovrasensibile, nella loro ragione d'essere, quindi
nella loro idea originaria. Così facendo, pervenne ad alcune acquisizioni: una cosa è bella
perchè partecipa all'idea del bello. Un'altra è grande perchè partecipa all'idea del
grande, e così via. Ma, così - proseguì Socrate - può sembrare che in un medesimo
oggetto coesistano idee contrarie. Un uomo può dirsi sia grande che piccolo, in rapporto
dipendente dalla cosa con la quale lo si confronta. Trattasi, insomma di giudizi relativi,
non assoluti. Questo significa che noi possiamo trovare tracce delle idee nella realtà, ma
sarà assai difficile poter trovare traccia dell'imperfezione della realtà nelle idee. L'idea dice Socrate - non può accogliere in sè il suo contrario. La grandezza non accoglie la
piccolezza, e mai l'accoglierà. «Al che uno dei presenti - non ricordo bene quale (disse): "
Oh! In nome degli dei, nei nostri discorsi precedenti non s'era ammesso proprio il
contrario di ciò che sento ora: che cioè dal più piccolo si genera il più grande, e dal più
grande il più piccolo, e che, insomma, i contrari si generano dai contrari? Ed ora mi si
dice, mi pare, che questo non può mai avvenire." Socrate, che aveva sporto un po' il
busto per sentire (rispose): " Bravo, hai fatto bene a ricordarlo. Però non rifletti sulla
differenza tra ciò che stiamo dicendo ora, e quel che si diceva prima. Allora si diceva che
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da cosa contraria si genera cosa contraria; ora, invece, si dice che il contrario in sé non
può mai divenire contrario a sé stesso, né quello che è in noi, né quello che è in natura.
Allora noi parlavamo delle cose che hanno in sé i contrari, e le indicavamo col nome di
questi; ora (parliamo) di questi in sé..."» Così, non solo il caldo non può accogliere il
freddo, né il dispari il pari; ma neppure il fuoco, di cui il caldo è predicato essenziale,
potrà mai accogliere il freddo, né il tre che è dispari, diventare pari, rimanendo tre. Da
qui, il dialogo si avvia alla conclusione. Che cosa rende un corpo vivo? Invece di
rispondere la vita, rispondo: l'anima. Poichè il predicato essenziale dell'anima è l'essere
viva, essa non può accogliere in sè il suo contrario, che è la morte. Dunque l'anima è
immortale, pertanto indistruttibile. La conclusione è accettata da Cebete, ma non da
Simmia, che avanza qualche riserva: "In verità neppure io - disse Simmia - so come
confutare le ragioni addotte.Tuttavia, il problema di cui ci stiamo occupando è così
arduo, e la nostra natura mi ispira così poca fiducia, che io mi sento di diffidare ancora
delle cose dette." "Non solo - commenta Socrate - è giusto quel che hai detto, ma anche le
ipotesi da cui siamo partiti, per sicure che possano sembrare, meritano di essere meglio
esaminate. Allorchè le avrete analizzate a fondo, credo che terrete dietro al ragionamento
quanto più è possibile ad un uomo, e se esso vi parrà chiaro, non cercherete più in là."
Nel finale, Socrate, su sollecitazione di Simmia, espone come potrebbero stare le cose
nell'al di là. Nel racconto paiono fondersi persuasioni personali di Socrate e comuni
credenze derivanti da Omero e dalla mitologia greca. Da questo racconto si comprende
come molte delle credenze comuni alle religioni, compresa quella cristiana, derivino da
questa ripresa del pitagorismo. Socrate disegna un purgatorio, un paradiso ed un
inferno. I più puri vanno in questo paradiso, e i filosofi veri avranno persino dimore più
belle e soavi. Tuttavia, conclude Socrate, nessun uomo di senno potrebbe giurare che le
cose stiano davvero così. Epperò è meglio incantare sé medesimi con queste convinzioni.
TERZO PERIODO :
Parmenide
Secondo alcuni studiosi nella fase della vecchiaia è come se Platone effettuasse un'autocritica
della dottrina delle idee:essa,infatti,risolve alcuni problemi per crearne altri;non si è
totalmente certi che sia realmente un'autocritica e c'è chi sostiene semplicemente che Platone
si faccia portatore di discussioni che si tenevano nell'Accademia,un luogo aperto dal punto di
vista intellettuale:forse vi fu chi non approvò la teoria delle idee e la contestò.Vi sono anche
indizi che ci inducono a pensare che sia così:il "Parmenide" rientra in questi dialoghi e vede al
centro la figura di Parmenide perchè si affronta il problema del rapporto tra l'uno ed i
molti,molto caro a Parmenide appunto,e quello del rapporto idee-superidea del bene;i temi
centrali sono quelli dei tempi di Parmenide (il dialogo è ambientato in quel periodo):è come
se Platone riprendesse ciò che era stato lasciato in sospeso anni addietro.Protagonisti del
dialogo sono Socrate , Parmenide e Zenone, discepolo di Parmenide ;questo dialogo
può per diversi aspetti essere accostato al "Sofista",dove il protagonista è "lo straniero di
Elea",la città di Parmenide e di Zenone.Il vero tema centrale del "Parmenide" è quello
riguardante le idee e le cose,a cui Platone aveva finora solo accennato senza mai sbilanciarsi
troppo : che cosa intendesse per "compartecipazione",per esempio,non l'aveva ancora detto :
arriva a dire che le idee sono ciò in virtù di cui le cose empiriche possiedono certe
caratteristiche . Nel Parmenide sono attestate l'una accanto all'altra e con pari legittimità una
versione concreta e materiale e una versione astratta e metaforica della compartecipazione :
nella sua versione concreta , la partecipazione delle cose empiriche ad un'idea implica che
l'idea sia effettivamente presente nelle cose partecipanti : ad esempio , tutte le cose empiriche
molteplici si rivelano molteplici in quanto l'idea della molteplicità è presente in esse . Nella
sua versione astratta e metaforica , invece , la partecipazione consiste nella somiglianza delle
cose empiriche ad un'idea . Affronta questo problema partendo proprio dall'uno ed i
molti.Tuttavia , se Platone si distacca dal maestro Socrate , egli è e gli resta fedele ; è e resta
fedele cioè all'ideale , che questi incarna , della filosofia come continua ricerca.Pure nel
"Sofista" c'è il problema uno-molti,ma non è riferito al rapporto tra idee e cose,bensì tra idee e
basta:è una questione tutta interna alle idee.Va subito rilevato che nel "Parmenide" ed in
generale in tutti questi dialoghi della vecchiaia vi è un'attenuazione dell'aspetto dinamico,forse
dovuto all'età:la fantasia giovanile tende a venir meno,così come la figura di Socrate tende a
sfumare; mentre il "Simposio" è un esempio della letteratura greca,il "Parmenide" non lo
è:testimonia la volontà di addentrarsi in discussioni tecniche e di conseguenza lo stile si fa più
arido.Anche la figura di Socrate tende a diventare marginale ed a sparire:ciò significa che i
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temi di Platone sono davvero estranei e distanti da Socrate e non se la sente di metterglieli in
bocca;è evidente che quando si parla di virtù e di giustizia ci si può riallacciare a Socrate ,ma
i problemi metafisici e ontologici non erano materie che rientravano negli interessi del
maestro di Platone.Nel "Parmenide" la figura di Socrate è addirittura quella di un
ragazzino:volendo introdurre Parmenide per questioni cronologiche è costretto a mettere in
gioco un Socrate giovane ed un Parmenide vecchio (Zenone è un uomo maturo);fatto sta
che Platone deve comunque aver forzato leggermente la cronologia per immaginare
l'incontro.Parmenide nel dialogo è sempre accompagnato dagli aggettivi "venerando" (sia
perchè è anziano sia perchè Platone lo ritiene il fondatore della filosofia astratta) e "terribile"
(ragionava in modo così logico e razionale da mettere in crisi).In tutti i dialoghi che abbiamo
esaminato Socrate è sempre stato il protagonista indiscusso in cui Platone si identificava;ma
nel "Parmenide" in chi dei tre si identifica ? Da un certo punto di vista si identifica in
Parmenide ,da un altro in Socrate ;compare come Socrate nella forma giovanile,come
Parmenide in quella senile.Il nucleo del dialogo ruota intorno a Socrate che fa delle
affermazioni e a Parmenide che le corregge,dicendogli che da grande capirà.Vi è una
interpretazione ingenua e giovanile delle idee ed una più senile e completa: Parmenide non è
che dica cose opposte,si limita a correggere ed a rendere più complesse e complete le
affermazioni di Socrate .E' Platone anziano che si confronta con Platone giovane,ma può
anche essere Platone che si confronta con chi nell' Accademia contestava la dottrina delle
idee.Come detto il "Parmenide" affronta due tematiche:l'uno-molti,che viene discusso a livello
astratto,e idee-cose.Cosa significa in concreto che molte cose partecipano a un'idea sola ?
Platone avanza diverse ipotesi e le respinge un pò tutte:per esempio ipotizza che il rapporto di
partecipazione sia di presenza:un'unica idea sarebbe quindi presente in più cose,ma sarebbe
molteplice e non più unità del molteplice:infatti ce ne sarebbero tantissime.Vi è poi la famosa
argomentazione del "terzo uomo",nella quale si evidenzia la difficoltà nel rapporto ideecose:Parmenide ,dopo che Socrate ha esposto la dottrina delle idee, afferma che l'idea è
quindi ciò che unifica molte cose,che il ragionamento è che tante cose insieme presentano una
cosa in comune:gli uomini hanno una cosa in comune:l'idea di uomo.Ma l'idea di uomo,che
rappresenta l'unità,dovrà per forza avere qualcosa in comune con gli uomini:gli uomini
sensibili si assomigliano perchè imitano l'idea di uomo;ma un rapporto di somiglianza non c'è
solo tra gli uomini sensibili,ma anche con l'idea di uomo:se ci sono gli uomini e l'idea di uomo
e sono tra loro simili,ci deve essere per forza essere qualcosa di comune all'idea di uomo e agli
uomini che li rende simili,che li accomuna:ci deve essere un terzo uomo;questa
argomentazione può andare avanti all'infinito perchè ci dovrà sempre essere qualcosa in
comune.Vi è chiaramente una contraddizione nella dottrina delle idee,che era servita per
semplificare la realtà ma che la complica ammettendo la molteplicità:gli enti invece di ridursi
si moltiplicano all'infinito.Vi è poi una terza argomentazione: Parmenide chiede a Socrate
di che cosa ammette che ci siano le idee e lui risponde citando le cose astratte quali la
giustizia,la bellezza,gli enti matematici...Dice di non essere certo che esistano idee degli
oggetti sensibili veri e propri:l'idea di albero,di cavallo,di cane...Platone era ricorso a queste
idee:per spiegare l'attività di un artigiano aveva perfino ammesso che le idee potessero essere
create dall'uomo:Platone si era occupato del problema delle tecniche e aveva ammesso che ci
fossero delle tecniche di produzione e delle tecniche di uso;chi costruisce le briglie per i
cavalli mette in atto la tecnica di produzione ,il cavaliere che cavalca quella di uso.Il cavaliere
deve sapere come le briglie devono essere usate,come funzionano,come devono essere:dà le
indicazioni all'artigiano che le fa come vuole il cavaliere.Chi applica la tecnica di uso crea
un'idea che l'artigiano deve imitare:egli guarda ad un'idea creata da chi mette in pratica la
tecnica d'uso.Platone sembra ipotizzare la produzione delle idee:l'idea di tavolo,per esempio,è
una sorta di idea che gli uomini si fanno.Chiaramente in una ipotetica scala gerarchica chi usa
è più in alto di chi produce.Socrate dice che certamente non esistono le idee delle cose
spregevoli ed insignificanti:ad esempio,il fango ed il capello che corrispettivo possono avere
nel mondo delle idee,dice Socrate.Ma Parmenide gli dice di pensarci bene e forse un
giorno capirà.Socrate stava evidentemente pensando alla valenza assiologica:l'idea è il punto
cui le cose sensibili devono mirare,è il meglio verso cui tendere.Come si può tendere all'idea
di fango ? Però Parmenide ,ontologo per eccellenza,dice che se l'idea deve essere l'essenza
di ogni cosa ,anche il fango dovrà avere una sua idea.Parmenide fa qui notare che nel concetto
di idea la valenza ontologica contrasta con quella assiologica,cosa che peraltro Platone sapeva
benissimo : proprio per questo possiamo leggere il dibattito Parmenide-Socrate come uno
scontro tra il Platone ontologico e quello assiologico . In effetti se pensiamo al piano
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assiologico pare impossibile che esistano idee di cose spregevoli : se però consideriamo quello
ontologico , così come un cavallo esiste nella misura in cui compartecipa all'idea di cavallo ,
anche il fango o la sporcizia esistono nella misura in cui imitano l'idea di fango e di sporcizia .
Parmenide poi mette definitivamente a tacere Socrate con un'ultima obiezione : comunque
venga concepita , l'ipotesi della compartecipazione pare in contrasto con l'assunto della
separazione delle idee; in effetti se le idee rimangono davvero separate dal mondo sensibile ,
esse saranno in relazione tra loro soltanto ma non con il mondo sensibile degli uomini , come
d'altronde anche le cose empiriche si porranno le une in rapporto alle altre senza alcun genere
di contatto con le idee . Pertanto se vi è questa separazione nettissima che Platone (qui
Socrate) aveva sempre predicato tra mondo sensibile e mondo intellegibile , nessuna
partecipazione tra idee e mondo sensibile sarà ammessa e così neppure nessuna conoscenza
delle idee per noi uomini sarà possibile . Questa difficoltà è indicata da Parmenide come "la
più grande di tutte" ("megiston dè tòde") : le idee devono per forza rimanere in sè e per sè ,
radicalmente separate dal mondo sensibile , perchè la separazione ne preserva l'assoluta
superiorità ontologica , stabilendo un'incolmabile discontinuità rispetto alle cose empiriche .Va
notato che Platone,in ogni suo dialogo,prende spunto un pò da tutti gli altri filosofi e
Parmenide non fa eccezione : l'idea platonica è unità e stabilità proprio come l'essere
parmenideo.L'istanza etica di Socrate vuole idee solo positive e guarda alla assiologia ,
mentre Parmenide è interessato all'essere,al piano ontologico:d'altronde è risaputo che
Socrate fosse un antropologo,una persona che si interessava ai valori.Platone si rende conto
che è Parmenide ad avere ragione e non Socrate .Nel dialogo Parmenide discute sul
rapporto tra l'uno ed i molti:è una discussione a tal punto tecnica e complessa che si è arrivati
a pensare che si tratti di una parodia,una presa in giro da parte di Platone di alcune scuole.Nel
"Parmenide" comincia a trasparire una nuova accezione della parola "dialettica",tipica di
Socrate e di Platone : originariamente designava il dialogo socratico , poi è passata a
designare la tecnica argomentativa di Platone ed è anche divenuta sinonimo di "filosofia";nel
"Parmenide" il significato si sposta da un certo modo di affrontare la conoscenza al rapporto
tra le idee:non esiste solo un dialogo-scontro tra gli uomini (quello che dava vita alla fiamma)
che aumenta la conoscenza , ma anche tra le idee : lo "scontro" si sposta dal soggetto della
conoscenza all'oggetto.Il concetto dell'uno ed i molti si richiamano a vicenda:non si può
conoscere pienamente il concetto di uno se non si conosce il concetto di molti e viceversa.Un
modo per sintetizzare la filosofia di Parmenide può essere l'affermazione "l'uno è" ,la
negazione della molteplicità ;Platone dice che quando si predica il concetta di uno lo si
moltiplica:se non si predicasse affatto sarebbe davvero uno ,ma se ne parlo non è già più uno,è
già due:gli si aggiunge il concetto di essere."L'uno è l'essere" :affermo il molteplice perchè lo
predico : nego e affermo nello stesso tempo.Le idee non sono una accanto all'altra,ma se le
accosto dialogano e si scontrano.Questo è il nuovo significato di dialettica,che non designa più
solo un metodo di indagine:diventa anche la struttura della realtà.Di conseguenza la dialettica
è lo strumento migliore di ricerca della realtà perchè essa stessa è la realtà:c'è uno stretto
rapporto tra la realtà soggettiva e quella oggettiva.Questo concetto viene trattato nel "Sofista"
ancora di più che nel "Parmenide".Un altro problema,molto astratto e legato alla possibilità di
ragionare,che Platone affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi è
quello riguardante il vero e il falso,in parallelo con l'essere ed il non essere : si torna a
problematiche parmenidee e viene messa da parte la figura di Socrate.La possibilità di poter
distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene affrontato nel
"Sofista" ;già dal titolo dell'opera si può intuire la solita critica platonica dei sofisti,già
avanzata in gioventù:qui però è trattata con sfumature più ontologiche.Che cosa c'entrano i
sofisti con il vero-falso e l'errore ? Si può sbagliare solo quando si può porre una differenza tra
vero e falso : Gorgia e Protagora ,i due maggiori esponenti sofisti,erano rispettivamente del
parere che tutto fosse falso ( Gorgia ) e che tutto fosse vero ( Protagora ):per entrambe non
vi è la distinzione tra vero e falso :o ce n'è uno o l'altro,si basano sul fatto di non poter
distinguere il vero dal falso.Per Parmenide dire il falso vuol dire ammettere il non essere,le
cose come non sono (il che è impossibile);per Parmenide si dice e si pensa solo ciò che è,ciò
che esiste.Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al
sofismo:le tesi eleatiche e quelle sofiste mirano ad affermare che l'errore sia impossibile,che
non ci sia la distinzione tra vero e falso.Sono posizioni differenti che portano alle stesse
conclusioni,sebbene in modi diversi.Il "Cratilo" ed il "Teeteto" sono dialoghi dove si cerca
di contestare la possibilità di non errare : se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi
saranno o veri o falsi;se tutto è vero o falso e non c'è la via di mezzo viene a perdere di
significato perchè una cosa è sensata quando contiene un pò di verità,ma anche un pò di
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falsità,quando si trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni
intermedie);se non si ammette l'errore non si può ammettere la verità,che è ciò che non è
sbagliato.Il "Cratilo" prende il nome da un seguace di Eraclito,che però aveva radicalizzato
le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul "panta rei" (tutto scorre):a suo avviso è
impossibile dare i nomi alle cose perchè cambiano di continuo:noi chiamiamo Pò un fiume ma
non è corretto:non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo (è un esempio
evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione);si fissa artificialmente una cosa che
non è fissabile perchè in continua mutazione.Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni
sofistiche:è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre.Quindi in teoria ,dal momento
che non si possono attribuire nomi,bisognerebbe solo indicare le cose.Secondo alcuni studiosi
Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo,il che può sembrare strano se consideriamo la
dottrina delle idee,in cui viene ammesso un essere fisso,stabile e permanente.Pensandoci
bene,però,non è poi così strano:Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c'è
nulla di stabile ed è ricorso alle idee.Platone nel "Cratilo" effettua un'ampia discussione sulla
problematica della lingua.Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a
riguardo , legate al binomio "nomos"-"fusis" (convenzione-natura);questo della lingua è un
problema tipicamente antropologico e di materia sofistica.Alcuni sofisti erano del parere che
si attribuiscano i nomi in maniera spontanea,secondo natura ("katà fusin"),come se la natura
stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti.Altri la pensavano in
modo opposto:gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale,secondo
convenzione ("katà vomon").Questa diatriba è in corso ancora al giorno nostro;Platone,dal
canto suo,sostenne che attribuiamo i nomi un pò "katà fusin" e un pò "katà nomon".Nella
tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della torre di Babele;la lingua di Adamo (l'ebraico)
sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all'essenza delle cose e proprio
con i nomi si poteva cogliere l'essenza delle cose.Nella torre di Babele i linguaggi successivi
sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le
cose.Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo
con lui:vi è una mescolanza dei fenomeni.Esiste sì una derivazione naturale dei nomi:sono le
cose stesse che suggeriscono i nomi da usare,ma le lingue parlate sono molteplici:una
componente di arbitrareità ci deve per forza essere.Quindi le cose tendono a suggerire il nome
con cui chiamarle ma dopo di che l'uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la
ragione:ancora oggi,comunque,ci sono parole onomatopeiche,che suggeriscono l'essenza del
soggetto cui sono riferite ("zanzara","cornacchia"...).Si tratta di una teoria intermedia che
mette insieme il lavoro razionale a quello naturale.Ma cosa c'entra tutto questo nell'ambito del
"Cratilo" e della discussione del vero-falso ? Più di quello che potrebbe sembrare : per Platone
entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell'errore : le parole
corrispondono esattamente alle cose;o sono totalmente artificiali o totalmente naturali:si arriva
alla stessa conclusione.Se mi attengo alla teoria "katà fusin" un libro mi suggerisce la parola
con cui chiamarlo ed è solo quella:non c'è possibilità di errore.Se mi attengo al "katà nomon" i
nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti :lo posso chiamare libro,ma anche
tavolo,scarpa...sarà in ogni caso corretto e anche qui non c'è possibilità di sbagliare:infatti in
assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti.Il far corrispondere al meglio (con
un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all'essenza delle cose consente di affermare
che l'errore esiste e che la retorica (quella vera è ) è la filosofia.Platone sposta poi il problema
dalle cose alle idee:così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono,si possono dare
nomi alle idee che si conoscono:c'è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire
nomi che esprimano l'essenza di ciò a cui si riferiscono.Il "Teeteto" è un dialogo dedicato alla
matematica:il protagonista , Teeteto, è un giovane matematico che in futuro diventerà
famoso.E' anche dedicato alla conoscenza sensibile e a quella intellegibile,che è quella vera e
propria.Quando si parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora,che sosteneva che
le cose sono come mi sembrano e che l'uomo è misura di ogni cosa:si tratta del relativismo
assoluto.Platone è interessato a ciò perchè siamo di fronte al rapporto tra vero e falso.Per poter
ragionare,come detto,occorre ammattere l'esistenza del vero e del falso.A supportare le tesi di
Platone è un suo allievo, Aristotele ; egli dice che con i sofisti non si può neppure discutere
perchè ,dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso , nel momento in
cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso ammette la distinzione
tra vero e falso,la possibilità dell'errore:se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci
sarebbe di discutere ? C'è anche chi vuole che il "Parmenide" sia in realtà una confutazione da
parte di Aristotele delle teorie del maestro Platone : dunque Socrate rappresenterebbe
Platone,mentre Parmenide Aristotele.In effetti ci sono numerosi indizi a sostegno di
questa tesi : la stessa argomentazione del terzo uomo la ritroviamo in testi di Aristotele ed è
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Teeteto
quindi probabile che sia sua a tutti gli effetti.D'altronde Aristotele non condivise mai
pienamente le teorie del maestro e se rimase nell'Accademia fino a oltre trent'anni fu solo per
il rispetto che aveva nei confronti di Platone.
Il "Teeteto" è un dialogo dedicato alla matematica : il protagonista , Teeteto , è un
giovane matematico che in futuro diventerà famoso . E' anche dedicato al confronto tra
conoscenza sensibile e intellegibile ( quest' ultima è quella vera e propria ) .Quando si
parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora , che sosteneva che le cose sono
come mi sembrano e che l'uomo è misura di ogni cosa:si tratta del relativismo assoluto .
Protagora diceva che tutto é vero , nel senso che ciò che appare a ciascuno é vero per lui
: il sano percepisce dolce il miele e quindi per lui é dolce , il malato invece lo percepisce
amaro e quindi per lui é amaro . Platone è interessato a ciò perchè siamo di fronte al
rapporto tra vero e falso . La posta in gioco per Platone qui é altissima perchè se si nega
la possibilità di distinguere tra vero e falso , crolla ogni possibilità di sapere e , quindi , la
filosofia stessa come ricerca del sapere . Per Platone é inaccettabile l' impossibilità di
distinguere tra vero e falso ed é consapevole che le risposte tradizionalmente date al
problema sono insoddisfacenti . Platone obietta a Protagora che , se tutte le opinioni
sono vere , é vera anche l' opinione che sostiene che non tutte le opinioni sono vere e ,
quindi , anche quella che sostiene che la tesi di Protagora é falsa . A supportare le tesi di
Platone è un suo allievo , Aristotele ; egli dice che con i sofisti non si può neppure
discutere perchè , dal momento che sostengono che tutto sia vero ( Protagora ) o che
tutto sia falso ( Gorgia ) , nel momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi
perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso , la possibilità dell'errore
: se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere ? Il Teeteto può
in qualche misura essere accostato al Cratilo perchè Platone in questi dialoghi si
concentra sulla possibilità di sbagliare , di dire il falso . Ma può anche essere accostato al
Protagora perchè vengono ancora esaminate le tesi di Protagora e si immagina
addirittura un dialogo con questo sofista . Il Teeteto può essere definito un dialogo
matematico a tutti gli effetti : la scelta di Platone di sfruttare come interlocutori di
Socrate due matematici , Teeteto e Teodoro ( matematico nativo di Cirene , esperto
soprattutto in geometria ) , è molto opportuna : ricordiamoci che per Platone la
matematica ha un valore propedeutico ( " non entri chi non sa la geometria " c' era
scritto all' ingresso dell' Accademia ) ed i matematici stessi , così come i filosofi , hanno
grande interesse per la definizione del concetto di scienza , cui ruota attorno buona parte
di questo dialogo . Teeteto arriva a definire la scienza come pura sensazione : Socrate gli
fa notare che Protagora sosteneva la stessa tesi . Mentre soffia uno stesso vento , alcuni
hanno freddo , altri caldo ; per chi sente freddo il vento è freddo , per chi sente caldo il
vento è caldo . Ma se seguissimo Protagora non ci sarebbe la possibilità di sbagliare :
ognuno potrebbe dire la sua e non sarebbe mai sbagliata ! Poi Teeteto e Socrate passano
ad esaminare le teorie di Eraclito e dei suoi seguaci : Teeteto dice che é impossibile
discutere con gli eraclitei perchè , come se punti da una tarantola , sono in continuo e
disordinato movimento , proprio come le loro teorie sul divenire continuo : non riescono
a soffermarsi su una domanda e non rispettano i turni per domandare e per rispondere .
Scagliano giochi di parole come frecce e non lasciano controbattere . Viene spontaneo a
Socrate citare gli Eleatici , perenni rivali degli eraclitei : per loro tutto è riconducibile
ad un'unità e tutto è fermo . Socrate dice che lui e Teeteto si schiereranno con chi
sembra essere dalla parte del giusto . Socrate arriva alla conclusione che nessuno dei
due gruppi ha pienamente torto ma neanche pienamente ragione : è proprio per questo
che Platone , a ben pensarci , ha introdotto la dottrina delle idee : il mondo in cui
viviamo è il mondo del divenire continuo : gli uomini nascono , crescono e muoiono , ma
il mondo intellegibile delle idee è il mondo dell'immobilità per eccellenza : non vi è
divenire : l'idea di uomo è sempre esistita e sempre esisterà senza cambiare . Abbiamo
detto che il Teeteto ed il Cratilo sono i dialoghi dove Platone spiega la possibilità
dell'errore : nel Teeteto egli dice che quando in un dialogo , per esempio , uno degli
interlocutori avanza un'opinione sbagliata , questo è dovuto alla mancata
corrispondenza tra ricordo e sensazione ; questa tematica verrà ripresa e approfondita
anche da Epicuro . Platone ha infatti spiegato nel Menone che il conoscere è legato al
ricordare . Poi però si corregge e dice che non è così . Sono tematiche molto difficili .
Socrate arriva a dire che la scienza è opinione vera accompagnata da spiegazione . La
41
Sofista
scienza , secondo Socrate e Platone si può fondare solo sulla dottrina delle idee , e non
sul sensibile : " non é in queste impressioni sensibili che c' é scienza , bensì nel
ragionamento su di esse : infatti , é in questo che é possibile , come pare , toccare l' essere
e la verità ; in quelle invece é impossibile " ( 186 d ) . Il dialogo si conclude , come molti
altri , con un nulla di fatto , con l'ammissione da parte di Socrate che nessuna delle
definizioni di scienza date nel corso di tutto il dialogo è accettabile . Nel Teeteto
interessante è anche l'espressione "omoiosis theo" , che significa ottenere un tale
perfezionamento da diventare tutt'uno con la divinità ; dice testualmente che " non è
possibile che i mali scompaiano del tutto perchè è una necessità che ci sia sempre
qualcosa di contrapposto al bene , nè possono avere sede tra gli dei , ma si aggirano nella
natura mortale e in questo nostro mondo qui . E' per questo che bisogna anche sforzarsi
di fuggire di qui a lassù al più presto . E fuga è rendersi simili a Dio secondo le proprie
possibilità : e rendersi simili a Dio significa diventare giusti e santi , e insieme sapienti " .
Il Sofista rappresenta il vertice della riflessione logica di Platone, il traguardo più alto
della sua speculazione sul mondo delle idee: destinato a godere di grande fortuna nella
storia – dagli Stoici a Hobbes e a Heidegger -, in esso Socrate, indefesso protagonista dei
dialoghi platonici, si ritira e cede il passo all’enigmatico Straniero di Elea, che inscena un
avvincente dialogo con il giovane Teeteto, allievo del matematico Teodoro e dunque
equipaggiato di un forte armamentario matematico. In realtà più che di dialogo sarebbe
opportuno parlare di "lezione dialogata", giacché l’opera procede con lunghe digressioni
dello Straniero intervallate da brevi incisi di Teeteto. Il Sofista è connesso, sotto un certo
profilo, con il Parmenide, dove si tentava di spiegare quale rapporto intercorresse tra le
idee e il mondo sensibile che di esse partecipa (appunto la nozione di "partecipazione",
, creava non pochi problemi) e Platone arrivava ad assumere – per bocca del
venerando Parmenide – un atteggiamento autocritico verso le proprie posizioni della
gioventù. Ora, anche nel Sofista (sebbene qui il tema cardinale sia il rapporto delle idee
fra loro, e non col mondo sensibile) Platone si autocritica, in particolare mette alla
berlina la concezione che delle idee quale era emersa nel Fedone, ove esse venivano intese
come statue fisse, prive di intelligenza e di movimento, a tal punto che il mondo
iperuranico veniva a configurarsi come un mondo statico. Tuttavia, il Sofista è
indisgiungibilmente connesso anche con altri due dialoghi - il Teeteto e il Cratilo – per
quel che concerne la possibilità dell’errore: di fronte alle tesi protagoree secondo cui per
ciascuno è vero ciò che a lui pare essere tale (con la conseguenza che è impossibile
l’errore), Platone scende in campo nel Teeteto, mostrando l’assurdità dell’assunto
protagoreo (se infatti tutto è vero, allora è anche vero che non tutto e vero e che quindi
ciò che asserisce Protagora è falso), e nel Cratilo, mettendo in luce come i nomi non siano
interamente frutto né del (come vorrebbe Ermogene) né della  (come
vorrebbe Cratilo), bensì siano imitazione con la voce della cosa nominata e, in quanto
tali, suscettibili di sbagliare. Il punto di partenza del Sofista si riallaccia esattamente a
questa problematica: Socrate – prima di uscire di scena dal dialogo – si domanda se
anche per lo Straniero di Elea i termini "sofista", "filosofo" e "politico" designino tre
diverse realtà, o piuttosto due o magari una sola: potrebbe infatti essere che quei tre
nomi si riferiscano a realtà diverse. Da qui prende le mosse la riflessione, incentrata sulla
definizione del sofista: ma, ancor prima di affaticarsi in tale ricerca, pare opportuno agli
interlocutori definire preventivamente il metodo da impiegare, e, per fare ciò, essi
ricorrono ad un esempio banale e triviale, che vada bene per saggiare il metodo scelto. Il
metodo che viene scelto è quello diairetico, della , che – già presentato nel
Fedro – consiste nel dividere per due spingendosi sempre verso la parte destra: così, nel
definire la  della "pesca con la lenza", si dirà che tutte le tecniche si dividono in
"tecniche di produzione" (quando producono qualcosa) o in "tecniche di acquisizione"
(quando acquisiscono qualcosa di già prodotto). Evidentemente la "pesca con la lenza"
rientra nel novero delle "tecniche di acquisizione": a loro volta, le tecniche di
acquisizione possono essere "per contratto" (quando si acquisisce qualcosa tramite un
contratto) o "per caccia"; evidentemente la pesca con la lenza acquisisce i suoi oggetti
tramite la caccia. Ma la caccia può essere scoperta oppure occulta. E la pesca con la
lenza è occulta, giacchè chi pesca non lo fa certamente allo scoperto dinanzi agli oggetti
di cui cerca di impossessarsi. E ancora: si posson cacciare animali terrestri oppure
natanti; e la pesca con la lenza mira a cacciare animali natanti. Procedendo per questa
via si arriva alla definizione conclusiva per cui la pesca con la lenza è una tecnica
acquisitiva che acquisisce tramite caccia occulta di notte animali natanti colpendoli dal
basso verso l’alto. Dopo aver suffragato la validità del metodo diairetico alla luce di una
definizione banale quale può essere quella del pescare con la lenza, è giunto il momento
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di applicare il nuovo metodo nel tentativo di definire il sofista: ed è qui che lo Straniero
nota con sorpresa che l’arte del sofista non è poi così distante da quella del pescatore con
la lenza, giacchè anche il sofista è un cacciatore, anche se si tratta di un cacciatore sui
generis: la sua è infatti una  acquisitiva con cui caccia occultamente animali non
natanti (come era per la pesca con la lenza), ma "domestici" (se così possiamo definire
l’essere umano) al fine di guadagnarci denaro. E’ questa la prima definizione del sofista:
egli è un cacciatore di giovani facoltosi. Ma essa non esaurisce l’essenza del sofista, di
questo mostro dalle mille teste che si rintana laddove è più difficile stanarlo: diventa
allora necessario ricorrere ad altre definizioni che ne svelino l’essenza. Attraverso la
seconda definizione, lo Straniero e Teeteto giungono a definire il sofista come un
commerciante di nozioni inerenti all’anima e – grazie alla terza definizione – precisano
che egli è un venditore al minuto di tali nozioni; ne consegue, allora, che il sofista è un
venditore del proprio sapere (ed è, questa, una cosa che Platone non può in nessun modo
perdonare alla sofistica). Ma in certo senso il sofista non si limita a cacciare occultamente
le proprie prede: egli si dà anche alla caccia aperta, lottando con arte nei discorsi: siamo
dunque giunti alla quarta definizione del sofista. Ben si può arguire come le quattro
definizioni finora fornite siano alquanto impietose e negative: ed ecco che ora,
inaspettatamente, lo Straniero cambia rotta e rivaluta il sofista, asserendo (quinta
definizione) che egli esplica, mediante il suo martellante confutare, una funzione
catartica, purificando le anime dai falsi concetti. Socrate stesso, con il suo costante
interrogare gli Ateniesi facendo scricchiolare le loro certezze pregiudiziali, può a pieno
titolo rientrare in questa definizione; in quest’accezione, lo Straniero ha qui scoperto
l’esistenza di una "nobile sofistica", pur precisando che essa assomiglia alla comune
sofistica come il cane assomiglia al lupo. I problemi si parano dinanzi con la sesta
definizione: il sofista si professa capace di contraddire su qualsiasi argomento, dando ai
suoi interlocutori la parvenza di essere pienamente in possesso di tutto lo scibile umano.
Ma – obietta lo Straniero – sapere tutto è impresa che scavalca le forze umane: sicchè il
sofista si dice esperto di ogni cosa senza tuttavia essere realmente tale; per meglio
chiarire questo punto, lo Straniero sostiene che "di colui che promette di essere capace,
con una sola arte, di fare tutte queste cose, noi conosciamo questo, che sarà in grado di
compiere imitazioni e omonimi delle cose reali, e mostrando da lontano quel che ha dipinto,
sa trarre in inganno gli sprovveduti fra i ragazzi giovani, che egli è in grado di portare a
termine con le opere tutto ciò che vuole fare". In questo senso, il sofista si colloca sul piano
della  ("parvenza"), e ben si capisce l’analogia instaurata dallo Straniero con le
immagini: come il sofista si dice esperto conoscitore di ogni cosa senza esser tale, così
l’immagine riproduce l’oggetto di cui è immagine senza tuttavia essere quell’oggetto.
Alla stregua del pittore, il sofista è un imitatore delle cose, le copia creando immagini di
ciò che vede: egli è dunque riconducibile al genere della parvenza. Ma – e qui già si
affacciano le prime difficoltà – l’arte imitativa si suddivide in "icastica" (nel caso in cui
copi fedelmente la realtà) e in "fantastica" (quando invece dà adito a parvenze illusorie
che distorcono la realtà anziché riprodurla). A quale delle due forme di arte imitativa
appartiene il sofista? E – soprattutto – in che senso si può parlare di parvenza come di
un qualcosa che è, ma che al contempo non è la cosa di cui è parvenza? Dicendo che una
stessa realtà è e non è insieme si sta infatti violando la prescrizione parmenidea secondo
cui il non-essere non è e non può essere pronunciato. Prende qui le mosse la tematica
centrale del Sofista: il problema dell’essere e del non-essere e, di conseguenza, di come
sia possibile dire il falso (con ripresa delle tematiche trattate aporeticamente nel Cratilo).
Con il caso dell’immagine ci troviamo dinanzi ad un’inquietante problematica: ci
troviamo infatti costretti ad ammettere che il non-essere sia, poiché altrimenti non
sarebbe ammissibile la possibilità di dire il falso; e, così facendo, si violano le prescrizioni
di Parmenide, strenuo sostenitore – in prosa e in versi – dell’impossibilità di ammettere
che il non-essere sia. Per tale via, già comincia a profilarsi quello che, più avanti, verrà
etichettato come un autentico parricidio di Parmenide: come è possibile pronunciare il
non-essere, domanda lo Straniero? E, pronunciandolo, si riferisce a qualcosa che è
()? Teeteto si trova in imbarazzo e rinuncia a rispondere, lasciando al più esperto
Straniero l’onere della problematica; questi sostiene che il non- essere non dev’essere
riferito a qualcuno degli enti, giacchè ciascuno di essi è e, per ciò, non può non essere; ne
segue, allora, che il non-essere non si riferisce ad alcuna cosa, né si afferma di nulla:
tutto ciò che è non può non essere; ma, accanto a questa valenza assoluta del non-essere
(non-essere come non-esistente), occorre ammetterne una relativa, in cui il non-essere
abbia il valore di copula, come quando diciamo che "la penna non è il tavolo" (dove
"non è" non significa che la penna è il non-essere, ma, semplicemente, che la penna è
qualcosa di diverso rispetto al tavolo). La soluzione per superare l’aporia parmenidea
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risiederà allora nell’ammettere il non-essere relativo: ma se a ciò che è possiamo unire
altre cose che sono (la penna è blu, la camera è grande, ecc), che cosa potremo mai unire
al non-essere? Certamente non qualcosa che sia, come ad esempio il numero: delle cose
che sono posso dire che sono una, due, tre, ecc, ma non posso compiere siffatta
operazione col non-essere e, di conseguenza, diventa impossibile nominarlo. Tutti i nomi
sono o singolari o plurali, e, in forza di ciò, parlare di "non-essere" è automaticamente
contraddittorio, giacchè – applicandogli un nome singolare – è come se si dicesse che il
non-essere è uno. Da ciò lo Straniero – qui in perfetta sintonia con gli ammaestramenti di
Parmenide - trae la conseguenza dell’ineffabilità del non-essere; ma questo non è tutto:
non solo non si può affermare il non-essere; addirittura non è possibile neanche negarlo,
giacchè, nel momento in cui dico che il non-essere è ineffabile, già ne sto parlando,
cadendo nella contraddizione testè enunciata. Ben si capisce, allora, come il Sofista –
giocoliere dell’apparenza () – si sia andato a rintanare nel non-essere
e come, al fine di stanarlo, sia necessario ammazzare Parmenide, riconoscendo che anche
il non-essere è. Dobbiamo in primis capire che cosa sia l’immagine – di cui il sofista è
maestro – e, per fare ciò, dobbiamo chiarire il rapporto intercorrente tra essere e nonessere, in quanto l’immagine si presenta come qualcosa che al contempo è e non è
(assomiglia al vero senza essere vera). L’immagine infatti, in quanto esistente, è: ma, in
quanto copia dell’oggetto di cui è immagine, non è la cosa stessa di cui è copia, è altra
rispetto ad essa. E’ qui introdotta pienamente la tesi del non-essere come essere altro
rispetto alla cosa: il sofista, assiduo produttore di immagini, ci ha indotti ad asserire che
il non-essere è, commettendo il parricidio di Parmenide; così la falsa opinione sarà quella
che opina ciò che non è. Lo Straniero rileva che, mentre riguardo alla problematica del
non-essere i predecessori non hanno lasciato grandi testimonianze, intorno alla tematica
dell’essere essi si sono sbizzarriti in un mare magnum di interpretazioni, tutte
insoddisfacenti perché contraddittorie: inizia a questo punto una digressione
dossografica, in cui lo Straniero esamina – e demolisce – le posizioni maturate dai filosofi
precedenti, accusati di esser stati troppo sbrigativi nell’affrontare il problema e,
soprattutto, di essere incapaci di rispondere se interrogati; sembrano quasi raccontare
miti di cui non sono in grado di render conto, come se i loro interlocutori fossero
bambini che si accontentano di qualsiasi risposta. C’è stato chi (Ferecide di Siro?) ha
fatto coincidere l’essere con tre enti, chi (Empedocle da Agrigento) l’ha individuato
nell’eterno incontrarsi e scontrarsi di elementi prima amici poi nemici, chi (Anassagora
di Clazomene e il suo discepolo Archelao) l’ha ricondotto ad una miriade di "semi": tutti
costoro sono ricorsi alle qualità e non alla materia, assumendo peraltro qualità fra loro
contrastanti e autoelidentisi. Si tratta di spiegare il divenire universale delle cose, quale
era stato colto da Eraclito di Efeso. Lo Straniero individua come "capostipite della nostra
tribù eleatica" Senofane di Colofone: in realtà qui Platone ci sta suggerendo una
dipendenza più concettuale che storica, accostando l’unicità del Dio di cui parlava
Senofane all’unicità dell’essere quale veniva inteso da Parmenide. Dopo di che, lo
Straniero opera un raffronto tra le "muse ioniche" (Eraclito) e le "muse siciliane"
(Empedocle), asserendo che le prime sono più intonate, mentre le seconde sono più
rilassate (stoccata al fatto che Empedocle ha cercato, con una posizione compromissoria,
di dire che l’essere è uno e molteplice, tenuto insieme dall’Odio e dall’Amore, di contro
alla prospettiva di Eraclito, che ha invece concepito la realtà come un arco teso, facendo
di essa un’enorme armonia discordante). Lo Straniero, passate in rassegna con una
rapida carrellata le posizioni dei predecessori intorno al problema dell’essere, comincia
ad esaminare egli stesso la problematica (sarà questa la tipica procedura di cui si servirà
Aristotele): l’essere è "il genere primo di tutte le cose", ciò che le cose sono in quanto
sono; sbagliano i dualisti a riconoscere l’essere in due princìpi (il caldo e il freddo),
poichè, così facendo, è come se parlassero di tre princìpi (caldo, freddo ed essere) e non
di due; per non cadere in tale contraddizione, i dualisti si trovano costretti ad ammettere
che l’essere si identifichi coi due contrari: ma se l’essere è il caldo, allora non è il freddo,
il quale – essendo contrario al caldo e, dunque all’essere – sarà non-essere. I dualisti
possonoa ncora cercar riparo nell’ammisione che l’essere sia somma di caldo e freddo,
ma allora l’essere è ancora una volta ricondotto a unità e non a dualità (a+b=c, ma c è
uno!). Dimostrata l’inconsistenza della posizione dualista, siamo rimandati a quella
unitarista alla Parmenide: "l’essere è uno", proclamano gli unitaristi, ma la loro
posizione solleva non meno problematiche di quella dualista. Innanzitutto: se l’essere è
uno, come fa ad avere due nomi (essere e uno)? Può una cosa avere due nomi? In questo
modo, Platone si sta riallacciando alle tematiche ampiamente discusse nel Cratilo, ove si
sosteneva che il nome non è né totalmente diverso dalla cosa nominata né ad essa
identico, altrimenti sarebbe un doppio della cosa stessa. Nel I libro della Metafisica,
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Aristotele sarà molto più stringato nell’affrontare la questione degli unitaristi:
ricondurre l’essere all’unità equivale a non voler spiegare la natura e il divenire
incessante che la caratterizza, facendo ricerche di tutt’altro genere. Quando poi gli
unitaristi asseriscono che l’essere è un tutto – prosegue lo Straniero di Elea -, che cosa
intendono esattamente? Già Parmenide ricorreva alla sfera come immagine dell’essere:
ma essa – obietta lo Straniero – è costituita da parti e, per ciò, sarà sì un uno, ma non
l’uno. Accanto a questa contesa che per protagonisti vede i dualisti contrapposti agli
unitaristi, ve n’è un’altra, molto più aspra, un’autentica 
(espressione di cui si ricorderà Heidegger in apertura di Essere e Tempo): questa lotta
titanica senza esclusione di colpi viene combattuta tra i materialisti (sostenitori che
l’essere è la materia) e gli idealisti (per i quali l’essere si identifica col platonico mondo
delle idee). I primi – "uomini terribili" - vengono paragonati ai Titani che cercano di
salire alle vette dell’Olimpo per usurpare il regno agli dei, trascinando ogni cosa dal cielo
alla terra, mentre i secondi – paragonati agli dei – combattono dalle invisibili regioni del
mondo intelligibile delle idee e son detti  ("amici delle idee"); essi
cercano di innalzare tutte le cose verso il cielo, in antitesi all’operare dei materialisti. I
primi credono nell’esistenza soltanto di ciò che stringono fra le mani, ovvero ciò che offre
resistenza al contatto; i secondi sostengono invece che la vera realtà è data
dall’incorporeo e dall’invisibile, forme meramente intelligibili; la realtà dei primi è
massicciamente compatta; quella dei secondi è evanescente. Ora, sarebbe plausibile
aspettarsi che Platone – dietro la maschera dello Straniero – parteggi per gli idealisti,
rispecchianti in buona parte le sue stesse posizioni: eppure non è così; pur mantenendo
una posizione più aperta verso di essi, egli non si esime dal criticarli aspramente per una
sfilza di motivi che presto prenderemo in esame. Anche se la discussione coi materialisti
si prospetta assai più difficile, in quanto essi rivelano una natura a tal punto testarda e
avversa al dialogo da far credere che quella materia che - a loro dire – è il vero essere,
abbia intasato le loro menti; l’unica soluzione per intavolare un dialogo sarà allora
quella di far finta che essi siano presenti e ben disposti. Per cercare di farli ragionare, lo
Straniero pone loro una domanda: esiste o non esiste qualcosa che chiamiamo "vivente
mortale"? Dopo che essi hanno risposto affermativamente, lo Straniero incalza: ci dovrà
allora essere almeno una cosa incorporea, l’anima, che non oppone resistenza; che essa
esista è provato dal fatto che tutti quanti ne parliamo. Allo stesso modo, tutti quanti
parliamo delle virtù (il coraggio, la giustizia, il valore, ecc), sicchè esse esistono: ma
potremo forse addivenire alla conclusione che la giustizia, in quanto esistente, sia
qualcosa di materiale? Da ciò segue che anche l’incorporeo deve avere una sua esistenza,
alla pari del corporeo (e forse anche di più): reale sarà allora ciò che comunque, piccolo
o grande che sia, può () compiere o subire una qualche azione. In questa
maniera, l’essere è ricondotto alla possibilità (), in quanto esiste tutto ciò che ha
la  di compiere e/o subire azioni ("gli enti non sono altro che possibilità"). Data
questa definizione, si potrà con certezza asserire che esistono anche – oltre alle entità
materiali in grado di agire – entità immateriali (le idee) che subiscono l’azione di essere
conosciute. Sul versante opposto a quello dei materialisti, gli idealisti distinguono e
separano ciò che è corpo da ciò che non lo è: se corpo è ciò che muta senza posa,
sottoposto a quel fluire incessante riconosciuto da Eraclito e da Cratilo (),
incorporeo è, al contrario, ciò che è stabilmente se stesso. Ma che rapporto sussiste,
allora, tra il reale e l’ideale? Tra il corporeo e l’incorporeo? Nel Parmenide la questione
rimaneva irrisolta, e anzi non faceva altro che creare nuove difficoltà: noi esseri umani –
anfibi tra il corporeo e l’incorporeo – col corpo partecipiamo del divenire, con l’anima
dell’immutabile; e, propriamente (concetto su cui Platone non si stanca mai di insistere
nei suoi scritti), si può avere reale conoscenza solamente di ciò che non è soggetto al
mutamento, ovvero la vera conoscenza sarà quella delle idee. Esse, nella misura in cui
possono subire l’azione di essere conosciute, sono: anche le idee, e non solo i corpi, sono.
Ma a questo punto Platone conduce una severa critica ai danni degli idealisti: pur
avendo essi il merito di non arrestarsi al corporeo, cadono in errore nella misura in cui
ritengono che ciò che veramente è non possa che essere assolutamente immobile, al pari
di venerande statue immobili e incapaci di agire. E’ del tutto errato, prosegue Platone,
illudersi che le idee siano immobili e statiche: in questo modo, Platone sta conducendo
una critica a se stesso, in particolare alle posizioni maturate ai tempi del Fedone,
quand’egli aveva scorto nel mondo delle idee un mondo assolutamente stabile e immobile
e, perciò, pienamente conoscibile. Ora, egli riconosce che le idee – il vero essere – devono
avere vita, movimento e intelligenza; in particolare, il vero essere deve essere animato
(). Ma gli "amici delle idee" non vogliono accettare la definizione dell’essere
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come , giacchè essa – sostengono – può al massimo riguardare il mondo
sensibile: dal canto loro, le idee sono del tutto sottratte alla possibilità di mutare,
cosicchè tra il mondo iperuranico e quello materiale sussiste una dicotomia assoluta, tale
per cui non vi è alcuna comunicabilità tra i due: tra il primo, fermamente stabile e
immutabile, e il secondo, costantemente cangiante, non può esservi alcuna 
(combinazione), sicchè essi si trovano a essere sganciati tra loro, senza alcun punto di
contatto. Ma Platone, contrariamente a quanto sosteneva ai tempi del Fedone, si propone
qui di farli entrare in contatto, pur conservando la loro indiscussa eterogeneità: col
corpo partecipiamo del sensibile, con l'anima dell'intelligibile; ma come dobbiamo
intendere tale partecipazione? Non è forse tale partecipare una forma di agire e di
subire? La conoscenza stessa non si configura forse come un agire/subire, per cui l’essere
subisce l’azione di venir conosciuto dall’anima? Per questa strada gli "amici delle idee"
sono sconfessati: l’essere subisce azioni (è conosciuto), e l’anima le compie (conosce); ma,
subendo e compiendo azioni, l’essere non può non essere in movimento; e, se è in
movimento, allora è anche vivo e animato, nonché intelligente. Proprio qui sta la
rivoluzione apportata dal Sofista al sistema platonico: il mondo delle idee, da immutabile
e fisso che era, diventa ora vivace, mobile e intelligente. Ma dove vi è moto dev’esserci
anche quiete, poiché senza di essa non potrebbe esserci alcuna forma di moto (come
senza male non potrebbe esservi alcun bene): se ci fosse solo movimento, non si
attuerebbe alcun processo; e, del resto, se vi fosse solo quiete, nulla si muoverebbe né
potrebbe esserci intelligenza. A questo punto, abbiamo identificato tre generi
fondamentali: l’essere, il moto e la quiete; ma ecco che ci si para dinanzi una nuova
difficoltà: moto e quiete sono tra loro opposti, ma noi abbiam detto che ugualmente sono
(la quiete è, il moto è). E, dicendo ciò, non asseriamo forse qualcosa di contraddittorio,
essendo essi opposti? O sono equivalenti? Se il moto è e la quiete è, allora moto e quiete si
identificano? L’unica soluzione risiede nell’affermare che l’essere sia un terzo elemento,
diverso sia dalla quiete sia dal moto. E come si può risolvere, in tal contesto, il problema
della predicazione? Come sono attribuibili molteplici proprietà ad un unico soggetto (A è
B, C, D, E, ecc)? Predicando, dico che qualcosa che è (A), è al contempo altre cose
rispetto a sé (B, C, D, E, …). Non può trattarsi di mera identità, sennò ci sarebbe una
duplicazione: ma come possiamo allora dire che l’uomo è buono, brutto, grasso, alto,
ecc? Antistene aveva risolto la questione ricorrendo all’espediente del "giudizio
identico", in virtù del quale ogni cosa ha solo il proprio nome ("uomo è uomo", "gatto è
gatto", "bello è bello", ecc): ma è davvero una soluzione soddisfacente quella di
Antistene? Essa non può in alcun modo render conto del fatto che il genere del moto
entri in contatto col suo opposto, il genere della quiete. Le alternative possibili per
spiegare la  tra i due sono tre: a) tutto si unisce con tutto, ovvero tutti i termini
si combinano indistintamente fra loro; b) niente si combina con niente; c) solo in certi
casi è possibile la combinazione. Nel secondo caso – "niente si combina con niente" -,
quiete e moto non potrebbero partecipare dell’essere: dunque non sono; a livello logico
diventa allora impossibile perfino parlare (giacchè parlare equivale a combinare insieme
parole). Nel primo caso – "tutto si unisce con tutto" – (sostenuto dai mobilisti), moto e
quiete finirebbero per unirsi: il moto starebbe fermo e la quiete si metterebbe a correre.
Escluse le prime due possibilità, non resta che riconoscere la validità della terza: la
combinazione è possibile solamente in certi casi. E sapere in quali casi e secondo quali
modalità operare tali combinazioni richiede necessariamente il possesso di una ,
come il dare i nomi nel Cratilo: in particolare, spetta al dialettico la perizia e l’abilità nel
saper combinare i generi fondamentali. Ma la dialettica qui in questione non è più quella
della Repubblica, incentrata sulla formulazione di ipotesi di spiegazione da sottoporre a
verifica; anche il dialettico del Sofista opera solo su idee, ma secondo modalità assai
differenti rispetto a quello della Repubblica: operando sulle idee, egli opera sul vero
essere (di contro al sofista, che invece lavora sul non-essere, sulla mera apparenza), in
particolare egli sa dividere () per generi, senza scambiare un genere per un altro.
La dialettica sarà allora il dividere per generi ideali, sapendo tagliare – al pari del buon
macellaio, secondo l’immagine del Fedro – finchè è possibile, fermandosi quando si
arrivati al termine del processo. Ma le cose sensibili, in quanto imitanti – seppur
opacamente - quelle intelligibili, presentano in certo senso la medesima struttura, su di
esse si riverbera la stessa costituzione, cosicchè, conoscendo i generi ideali e le loro
possibili combinazioni, il dialettico conoscerà l’essenza stessa della realtà sensibile: ecco
che Platone ha trovato il punto di incontro tra i due mondi, intelligibile e sensibile. A
partire dai generi ideali, infatti, il dialettico arriva a definire le cose sensibili: ed è così
che posso definire il pescare con la lenza facendolo rientrare nei generi, operando
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costantemente rinvii tra reale e ideale. Procedendo nella , si raggiunge
l’, ovvero "l’idea non ulteriormente divisibile" e, con ciò, si è giunti alla
definizione della cosa in questione: vista un’idea, il dialettico la sa seguire in tutte le sue
articolazioni, scorgendo tutto ciò che essa contiene. Ne segue, allora, che l’ufficio del
filosofo è di occuparsi dell’essere, mentre il sofista si è rintanato nel buio del non-essere:
sia il filosofo sia il sofista risultano però difficili da cogliere, giacchè il primo è troppo in
luce (nell’abbagliante regione dell’essere), il secondo è al buio completo del non-essere. Il
rapporto dialettico viene così a configurarsi come un rapporto uno/molti: ora molte idee
si congiungono in unità, ora tale unità si fraziona in un molteplice di idee ricomprese al
proprio interno. E spetta al dialettico ora riunire ciò che è diviso, ora dividere ciò che è
unito, stabilendo relazioni di insiemi. E la possibilità di stabilire tali relazioni tra idee
non fa che creare la stessa trama della realtà, di cui è a fondamento, giacchè le idee sono
il principio della realtà: sicchè la comunione dei generi finora posta fonda la possibilità
di comprendere la realtà e di predicarla nei discorsi. Nel Sofista, in realtà, non si parla
del rapporto idee/cose, ma si dice che nella misura in cui vi è comunione tra generi si può
spiegare la realtà in modo veritiero: è proprio la possibilità di stabilire relazioni tra i
generi sommi il punto che divide gli "amici delle idee" da Platone; ammettendo tali
relazioni, infatti, si ammette anche, di conseguenza, il movimento tra le specie ideali,
senza più considerarle come statue immobili. Finora lo Straniero di Elea ha identificato
tre "generi ideali" (essere, moto e quiete), precisando che l’essere non è un genere dotato
di statuto privilegiato (pur essendo l’idea più semplice in assoluto). Sia il moto sia la
quiete sono: dunque comunicano con l'essere, pur essendo fra loro opposti. A ciò lo
Straniero fa seguire l’introduzione di due altri generi a sé stanti: l’identico e il diverso. In
questo modo, Platone scopre quello che Aristotele chiamerà "principio di identità", per
cui A è A e non è non-A. A questo punto, da tre che erano, i generi ideali son passati a
cinque, irriducibili fra loro: ciascun genere è identico a se stesso, ma non è l’identico;
ciascun genere è diverso dagli altri, ma non è il diverso. Ecco qua che riaffiora il
problema del non-essere, ridotto ad "essere altro": ciascun genere non è nessuno degli
altri quattro, nel senso che è da essi diverso. Sicchè la penna non è il tavolo nel senso che
essa è diversa dal tavolo. Così il moto non è quiete, ma al contempo è (partecipa
dell’essere): insieme è e non è; così il moto non è l’identico, ma è identico a sé; e ancora il
moto non è il diverso ma è diverso dagli altri quattro generi. Ciascun ente, allora, una
volta è (in quanto identico a sé) e infinite altre volte non è (per tutte le volte che è diverso
da tutti gli altri enti che sono): in questo modo il parricidio del venerando Parmenide è
definitivamente consumato, in quanto l’essere stesso non è (non è la quiete, non è il moto,
non è l’identico, non è il diverso). Il non-essere in questione, ovviamente, non è più quello
assoluto, a cui si riferiva Parmenide: è invece il non-essere come essere diverso; sicchè il
non-essere viene ad essere un genere alla pari dell’essere: essere e non-essere sono ora
diventati termini correlativi, per cui è possibile pensare a ciò che non è (si può pensare e
dire il falso, dunque si può contraddire). Sbagliano clamorosamente, allora, gli amici
delle idee a sostenere che nulla si combina con nulla; ma sono altrettanto in errore
quanti sostengono che tutto si combina con tutto, poiché altrimenti ci si troverebbe
costretti ad ammettere che la quiete è il moto. Spetta appunto al dialettico operare le
giuste connessioni: la sua opera è fallibile, giacchè – non potendosi combinare tutto con
tutto né nulla con nulla – è sempre in agguato l’errore, l’eventualità di dire il falso. Se
nulla comunicasse con nulla, allora non si potrebbe nemmeno parlare e sarebbe
impossibile la cosa più preziosa di cui disponiamo: la filosofia. Se invece tutto si
connettesse con tutto, allora tutto sarebbe vero (come credeva Protagora di Abdera) e
non si potrebbe mai commettere alcun errore. Il discorso è dallo Straniero definito come
"connessione reciproca tra idee", ovvero come traduzione sul piano linguistico della
connessione tra generi ideali. Ora si deve vedere come funzioni l’applicazione del diverso
(il non essere) a livello linguistico: in prima battuta lo Straniero si domanda se il nonessere si unisca oppure no a qualche cosa o, in alteri termini, se al livello del discorso
alcune cose comunichino o meno con altre. Se ammettiamo che il non-essere non si
unisca con alcunchè, allora ci troviamo costretti a riconoscere – con Protagora, con
Cratilo e con Eraclito – che tutto è vero. Se, al contrario, ammettiamo che il non-essere
possa unirsi con le cose, allora potremo riconoscere la possibilità dell’errore e, in forza di
ciò, potremo snidare il sofista cogliendone l’essenza reale. In prima battuta, occorre
chiarire in che maniera il non-essere si applichi al discorso e in qual senso si possa
parlare di opinione, illusione, verità. Dopo aver definito il discorso come 
(intreccio) di parole, dobbiamo dunque domandarci ora se tutte le parole, unite
casualmente, diano un discorso: combinando fra loro parole a caso, si avrà sempre un
discorso? E’, in altre parole, sempre e comunque possibile la combinazione delle parole?
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O lo è solamente in certi casi e secondo determinate modalità? Accanto ai nomi però, è
evidente, esistono anche le azioni, espresse dalla combinazione di nomi e verbi (ciò era
nel Cratilo rigorosamente dimostrato): appare fin da ora evidente che non si avrà di
certo un discorso quando si attuerà una  di soli verbi ("corre corre") o di soli
nomi ("uomo uomo"); viceversa, il discorso prenderà forma dalla combinazione di nomi
e verbi, formando in tal maniera una proposizione (del tipo "Teeteto è seduto"). Il
discorso è allora definibile sì come , ma non casuale, bensì come  di
nomi e verbi: ed è a questo punto che scatta il principio di non contraddizione, in virtù
del quale quanto enunciato nella proposizione può essere vero o falso, fermo restando
che il discorso è sempre e in ogni caso discorso di qualcosa, mai di nulla (ciò è stato
dimostrato da Platone nel momento in cui egli ha posto il non-essere come essere diverso,
cosicchè quand’anche si pensa il non-essere si sta pensando qualcosa che è). Così,
quando dico che "Teeteto è seduto" sto enunciando un discorso che è evidentemente di
qualcosa (nella fattispecie: di Teeteto), predico cioè qualcosa relativamente ad un dato
soggetto; eppure dire "Teeteto è seduto" è ben differente dal dire "Teeteto vola": nel
primo caso dico il vero, nel secondo il falso. In questo senso, vero e falso possono essere
definiti – con una definizione destinata a fare storia, ma rigettata da Heidegger - come la
corrispondenza attuata o mancata ad un reale stato di cose; tale concezione sarà
compendiata dagli scolastici con l’espressione veritas est adaequatio intellectus et rei. Vero
sarà il discorso che asserisce le cose come sono, falso quello che le asserisce come non
sono (ovvero diversamente da come realmente sono). Emerge qui chiaramente come sia
possibile dire il non-essere, inteso naturalmente in senso non già assoluto (come voleva
Parmenide), ma relativo: a quello assoluto, del resto, abbiamo dato l'addio da un pezzo,
rileva lo Straniero. Così come è possibile dire il falso, è parimenti possibile avere
pensieri, opinioni, immagini false. In particolare, se pensiamo qualcosa falsamente,
allora pronunceremo quel qualcosa altrettanto falsamente: il pensiero (), infatti,
altro non è se non un discorso () che l’anima fa con se stessa senza ricorrere
all’emissione della voce. Quando tal pensiero procede attraverso il flusso delle parole
pronunciate dalla bocca, allora si ha il discorso, come già era stato messo in chiaro da
Platone nel Teeteto. Il discorso ha la caratteristica di affermare o di negare qualcosa:
quando ciò avviene nell’anima, si ha l’opinione, nel senso che è l’anima stessa a negare o
affermare; nel caso in cui entri in gioco l’elemento sensibile non si ha più l’opinione ma
l’immagine, come quando, vedendo una sagoma in lontananza, si afferma "quello è
Teeteto!". Nel caso delle immagini, il falso è più in agguato che mai, giacchè la sensazione
è il regno dell’illusione e dello smarrimento. Ma ciò non toglie che sempre (anche a
livello di immaginazione) il vero e il falso dipendano, in ultima analisi, dai generi ideali,
in quanto esso altro non è se non il frutto della loro unione, cosicchè dire il falso non è
che attuare una falsa combinazione di generi ideali. Ed è a questo punto, dopo
quest’ampia digressione sui generi ideali e sul non-essere, che Platone si richiama
direttamente alla sesta definizione del sofista, quella che lo definiva come imitatore:
come si ricorderà, l’intera digressione era per l’appunto nata a proposito dell’immagine
come qualcosa che è e, insieme, non è. Si partiva dall’arte anti-logica (il contraddire) e si
mostrava come il sofista fosse abile a contraddire su qualsiasi argomento e ad insegnare
ai suoi discepoli ad agire in tal maniera, di fronte ad un uditorio di incompetenti a cui
risultare sapienti senza esserlo. La figura del sofista si stagliava appunto all’orizzonte
come figura di un individuo che non sa ma che dà l’immagine di sapere: ma l’arte
mimetica si divide in a) icastica, consistente in una fedele riproduzione della cosa
copiata; b) fantastica, consistente in una mera illusione, pura parvenza. La discussione si
era proprio arenata dinanzi alla domanda: il sofista è un imitatore secondo l’arte icastica
o secondo quella fantastica? Il problema è ora ripreso e, finalmente, risolto: per il sofista
(pensiamo a Protagora) tutto è vero e, di conseguenza, anche le immagini lo sono. Ma noi
abbiamo testé rilevato com’esse possano anche essere false, nel caso propongano le cose
come non sono, anche qualora si presentino sotto l’apparenza del vero. Impiegando il
procedimento diairetico, possiamo affermare che creare immagini è un’arte produttiva,
tramite la quale si presenta l’immagine come verità. Ma l’arte produttiva, a propria
volta, si divide in arte produttiva divina e in arte produttiva umana: in particolare,
Platone asserisce (come fa anche nel Timeo e nel X libro delle Leggi) che la produzione
divina è la causa del poter essere di cose che prima non erano; e ciò vale non solo per le
cose, ma anche per le immagini delle cose. Nel Timeo egli si serve della mitica figura del
Demiurgo per esprimere il nascere delle cose, plasmate da questo fabbro divino che si
ispira alle idee eterne, imitandole; mentre nelle Leggi la forma mitologica cede il passo
ad una più solida esposizione teoretica. Ora, nel Sofista, egli si domanda – sempre per
bocca dello Straniero di Elea – se il mondo quale ci appare debba essere inteso come
48
Politico
opera d’arte partorita dalla mente ingegnosa di una divinità o, piuttosto, come opera
della natura e del caso, quasi come se l’ordine meraviglioso in cui il cosmo è disciplinato
si fosse predisposto spontaneamente, senza finalità alcuna. Teeteto rivela di aver spesso
oscillato tra queste due posizioni antitetiche, ma lo Straniero lo invita a non tentennare:
ritenere una così perfetta creazione come frutto del caso è da stolti. All’interno del cosmo
generato da Dio, opera a propria volta l’uomo, producendo attraverso la sua 
personale: la tecnica produttiva può riguardare sia cose sia immagini, e ciò vale tanto
per Dio quanto per l'uomo. Come cose Dio produce gli animali, gli alberi, le montagne,
ecc; l’uomo produce invece le scarpe, le imbarcazioni, i tavoli, ecc; come immagini,
invece, Dio produce le apparizioni oniriche, le ombre sul fuoco, ecc; l’uomo produce
invece immagini di oggetti (la casa dipinta, l’uomo scolpito nel marmo, ecc). Ci troviamo
dunque dinanzi non più ad un bivio, bensì ad una croce (immagini divine, immagini
umane, cose divine, cose umane):e il falso rientrerà nell’arte produttiva icastica o
fantastica? Senz’ombra di dubbio nella fantastica, la quale produce mere apparenze,
poiché nell’icastica si copiano le cose secondo verità. In questo senso, la sofistica come
imitazione sarà definibile come arte produttiva umana di immagini imitanti in maniera
fantastica. Ma non basta. A sua volta l’arte fantastica è divisibile in due sezioni: a) con
strumenti; b) senza strumenti. Esempio del primo tipo può essere lo scultore che imita
servendosi di marmo e scalpello; esempio del secondo tipo è invece l’imitatore che usa se
stesso come strumento (il mimo), presentandosi quale non è. Nell’imitare il sofista non si
avvale di strumento alcuno fuorchè di se stesso e del proprio talento oratorio.
L’imitazione senza strumenti può ancora essere divisa in due livelli: a) l’imitazione di chi
agisce con cognizione di causa (sapendo ciò che imita); b) l’imitazione di chi agisce senza
cognizione di causa (ignorando ciò che imita). Diq uesto secondo genere è per la’ppunto
chi si proclama giusto e virtuoso senza realmente esserlo, ovvero chi finge di essere tale
senza tuttavia sapere che cosa siano la giustizia e la virtù, riscuotendo peraltro successo
presso chi è a sua volta ignorante di che cosa siano la giustizia e la virtù. Il sofista è
dunque stanato: la sua non è un’imitazione  (con cognizione di causa), bensì è
un’imitazione senza cognizione di causa, un’imitazione dossomimetica, ovvero imitante
per opinione (). Il sofista è allora dossomimetico, imita per opinione,
senza reale conoscenza, è provvisto di un finto sapere che però egli non esita a vendere
come reale. A questo punto lo Straniero opera un’ulteriore divisione tra l’ingenuo e
l’ironico: chi ha solamente opinione di sapere, ma si illude di essere davvero sapiente, è
ingenuo, ovvero convinto di sapere ciò di cui ha solo opinione; egli inganna gli altri senza
volerlo (e dunque non è condannabile); chi invece dissimula, fingendo di essere sapiente
pur non essendolo e pur sapendo di non esserlo, ma ciononostante spaccia per vere le
proprie opinioni, questo è l’ironico: ma l’ironico si divide ancora in due sezioni, a
seconda che svolga la propria attività ingannatrice di fronte alle folle con lunghi discorsi
(in questo caso si ha il demagogo) oppure privatamente, con brevi discorsi capziosi,
dando sfoggio di vuota verbosità roboante con domande e risposte. In questo caso si ha il
sofista, ironico in privato e per soldi. Egli è dunque un dossomimetico ironico producente
contraddizioni simulando e opinando, generando in ambito umano immagini illusorie
non corrispondenti al vero. Egli, in quanto imitatore imbroglione e ciarlatano, è l’esatta
contraffazione del filosofo ed è l’alter ego del demagogo: anzi, a rigore il sofista è più
pericoloso, giacchè esercita la sua azione in maniera capillare, facendo contraddire con
domande e risposte in una dialettica serratissima. Anche l’attività di Socrate, è vero, si
svolgeva attraverso la prassi delle domande e delle risposte, ma con la differenza che egli
metteva in gioco anche le proprie convinzioni e agiva in vista del bene: il sofista invece,
lungi dal volere il bene della  e di chi vi abita, mira esclusivamente al guadagno
personale, rovesciando con la parola la tavola dei valori.
Platone voleva scrivere una trilogia : 1) il sofista 2) il politico 3)il filosofo : il primo l'ha
effettivamente ralizzato , il secondo l'ha iniziato ma non l'ha finito ed il terzo non l'ha
mai neppure cominciato.Analizziamo ora il "Politico" : l'opera si intitola il "Politico" e
non "la politica" (come si chiamerà invece l'opera di Aristotele ) perchè Platone era
convinto che per avere uno stato perfetto occorresse che fosse governato da uomini
politici perfetti.Ma chi è il vero uomo politico ? Platone parte dallo scartare la
definizione omerica "il re è pastore di uomini" perchè implica una superiorità di razza
da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all'epoca mitica in cui gli
dei governavano gli uomini.Così come nel "Sofista" (in cui il tema centrale era la
possibilità di dire il falso , il non essere) , anche nel "Politico" la definizione del
personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa.Così come nel "Sofista" , per
definire si serve della "diairesis" : quella del politico è una tecnica analoga a quella del
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Filebo
tessitore che intreccia fibre di carattere diverso:intreccia trama e ordito.Ancora oggi si
suole usare l'espressione "tessuto sociale" per indicare che le funzioni si intrecciano .
Nell'intrecciare i tessuti , ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri
più raffinati (intelligenti , nella politica) : il politico deve sapere la misura per mescolare
bene i diversi "strati" sociali.Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto
(soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù.Egli arriva ad affermare che
nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perchè esse sono quasi un "male
necessario" che si introducono in assenza dell'uomo politico perfetto.Infatti la legge per
quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai
assolutamente giusta : la legge dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate
pene : ma non dice , per esempio , di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due
mesi di carcere.Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni
determinato caso.Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da
amministrare al paziente , così il politico , per Platone , deve prendere le decisioni senza
essere vincolato dalle leggi.Ma nella realtà , dove è impossibile per definizione essere
perfetti ,Platone dice che le leggi sono necessarie : esse sono necessarie perchè è vero che
danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi , ma comunque in questo
vincolare danno delle regole alle quali attenersi.Seguendole non si otterrà un risultato
perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto) , ma comunque buono.
Platone crea poi nel "Politico" una nuova gerarchia dei governi : al vertice mette sempre
il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le
leggi.Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi.
Le ultime riflessioni di Platone sulla vita etica (quella del singolo individuo) e sulla vita
politica (quella dell'intera comunità) le troviamo nel "Filebo" e nel "Politico" : ci
troviamo di fronte ad un Platone più scettico e che mette in discussione le sue stesse
teorie.Si pensa che questi due dialoghi risalgano all'esperienza siracusana con il
tiranno,ma c'è anche chi è del parere che questa "sfiducia" nelle sue dottrine sia dovuta
solo all'età ormai avanzata:Platone , ormai vecchio , non è più entusiasta come
quand'era giovane delle sue dottrine che erano nate per risolvere problemi , ma che in
realtà ne avevano solo creati di nuovi.Probabilmente sono entrambe questi due fattori
(l'esperienza con il tiranno e l'età avanzata) che fanno sì che Platone sia così scettico.Il
"Filebo" non è un dialogo propriamente politico : viene posto l'interessante quesito : che
cos'è la vita buona ? Dunque Platone riprende un tema tipicamente socratico ; si
discute ancora una volta (come già nel "Gorgia" o nel "Fedone" ) se bene e piacere
siano identificabili : a differenza degli altri dialoghi in cui aveva affrontato questo
problema , nel "Filebo" Platone assume posizioni più moderate : anche qui nega
l'identificazione , ma arriva tuttavia ad individuare diversi tipi di piacere , non
necessariamente negativi : non tutti i piaceri sono per forza accompagnati dal dolore . Ci
sono anche piaceri intellettuali (ad esempio la musica o quelle conoscenze che danno un
senso di piacere)che non sono così strettamente legati al dolore: sono piaceri a
dimensione positiva.In poche parole quando ci sono sono un piacere , quando non ci sono
sono un dolore.Secondo Platone bisogna privilegiare e coltivare solo certi piaceri.Una
vita buona non può essere priva di piaceri (così avevamo anche detto a riguardo
dell'anima : le passioni sono fondamentali).Platone delinea così la "vita mista" ,
basandosi sull'idea che la bontà consista in un equilibrio dato dalla mescolanza di
elementi diversi che si mescolano secondo misura : da notare che misura , 1 , numero etc.
sono sinonimi per definire il bene in sè. La vita buona , per Platone , è mescolanza di
intelligenza e piacere : questa mescolanza non è casuale , ma ponderata : bisogna vedere
attentamente in che misura mescolare intelligenza e piacere.Per Platone l'intelligenza è
superiore al piacere e tenderà sempre a prevalere per il semplice fatto che se si deve
stabilire in che misura mescolare piacere ed intelligenza , è l'intelligenza stessa che ci
indica la misura in cui mescolare.Quindi ,di per sè,l'intelligenza è maggiormente
presente nella vita buona.Se si presta attenzione alla filosofia platonica , ci si accorge che
ritorna spesso l'idea che la spiegazione ultima di tutto è riconducibile ad un sistema
binomio,ad un duplice principio.Prendiamo , ad esempio, la "Repubblica" e più
precisamente la tripartizione della società : le classi in realtà sono due perchè i difensori
sono i futuri governanti . E' la classe dei governanti che dà l'equilibrio alla sua classe e a
quella dei produttori.Spostiamoci ora al "Fedro" e al mito della biga alata , metafora
dell'anima : c'è un principio razionale (l'auriga : il fatto che sia uno solo sta a significare
che la piena razionalità è nell'unicità) e due irrazionali (il cavallo bianco , che
simboleggia la parte arazionale , e quello nero , che è emblema dell'irrazionalità :
l'irrazionalità è data da due elementi , che simboleggiano la molteplicità):la ragione è
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ordinata e unica , l'irrazionalità è molteplice : il fatto che sia data da due cavalli implica
la possibilità di andare in due direzioni diverse.Passiamo poi agli "agrafa dogma" (le
dottrine non scritte) e al principio bipolare uno-diade : un polo (quello dominante) è
l'unitarietà , l'altro è la molteplicità.Nel caso della biga alata , emerge il fatto che con la
misura si controlla ciò che è illimitato : pensiamo ad un termometro ; le temperature
sono pressochè infinite (in realtà non lo sono , ma facciamo conto che lo siano) e il
termometro rende quindi definito ciò che è indefinito. Tornando a concentrarci sul
Filebo , in che cosa consisterà allora questa felicità per l'uomo? La vita migliore per
l'uomo consiste, secondo Platone, in una miscela proporzionata di intelligenza e di
piacere. Insomma, tutto ciò che ha proporzione e bellezza: ecco qual è la vita buona per
l'uomo. E con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere quali sono i veri piaceri e quali
sono le cose che danno la vera felicità. Platone introduce poi , sempre nel Filebo , il
concetto di "anima del mondo" : il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato ,
intelligente, vitale: il mondo sensibile , nella misura in cui il Demiurgo lo plasma , non
può che essere simile a quello intellegibile : ha un' anima sua .L'Universo è un grande
essere vivente permeato interamente da un' anima.Tutto quindi è vitale , sebbene in
diverse misure.L'osso è vivo perchè fa parte di un essere vivente , ma anche la pietra è
viva perchè fa parte di questo grande essere vivente (l'Universo).Platone insiste poi
particolarmente sul finalismo ( il cavallo è nato per essere veloce , il cane per fare la
guardia...) e sulla stretta parentela tra uomo e animali (gli animali sono il frutto di
incarnazioni infelici delle anime nell'aldilà : ricordiamoci del mito di Er ;di tutte le
incarnazioni , Platone sostiene che la peggiore , dopo quella di donna e di animale , sia
quella dei pesci). Platone quando osservava gli astri in cielo affermava che erano vivi
proprio perchè fanno parte di quest'enorme anima universale , e diceva anche che erano
intelligenti , perchè compiono movimenti troppo perfetti per avvenire a caso .
Timeo
Nell'ambito dei dialoghi composti in età avanzata troviamo il "Timeo" , che ha in
comune con tutti gli altri dialoghi della vecchiaia il fatto che si facciano vedere le idee in
una dimensione più dinamica e si evidenzino i rapporti che intercorrono tra le idee stesse
(il "Sofista" ) e tra idee e cose (il "Parmenide" ) , però rispetto alle altre opere
platoniche si differenzia nettamente perchè , dopo il prologo dialogato , il grosso dello
scritto risulta essere un discorso dottrinario messo in bocca a Timeo ( che dà il nome all'
opera ) . Nel "Timeo" si parla in modo particolare del rapporto idee-cose e Platone si
occupa del mondo fisico a tal punto che non è sbagliato definire il "Timeo" libro fisico
(da "fusis", natura). Infatti Platone non si era ancora praticamente occupato del mondo
sensibile se non per affermare che è una pallida copia del mondo delle idee e per
evidenziare la sua inferiorità rispetto al mondo intellegibile . Dato che era un argomento
meno importante e che il "filosofo" si muove tra le idee , Platone dedicò solo un' opera al
mondo sensibile, che ci viene presentato come "il mondo in cui si muove l'uomo".Il
"Timeo" ci viene da Platone presentato come continuazione della "Repubblica" : è
come se dopo aver parlato dello stato ideale , Platone si cimentasse a descrivesse il
mondo fisico in cui lo stato deve operare.Va poi ricordato che il "Timeo" e il "Crizia"
sono i dialoghi del mito di Atlantide , città nemica della Atene preistorica che era vista
come realizzazione dello stato ideale:chiaramente Atene è collocata in un tempo senza
tempo,è vista come città mitica.Questo mito tutto platonico serve a far conoscere
qualcosa che non è pienamente coglibile con il raziocinio (le idee sono l'essere pieno e
quindi effettivamente conoscibili con la ragione : il mondo sensibile è in continua
mutazione e di conseguenza non è un essere pieno e non può essere conosciuto con la
ragione;così era anche per il mito della caverna in cui si parlava del bene in sè,che era al
di sopra delle idee e quindi non era pienamente conoscibile con la ragione).Questo mito
verosimile viene presentato in un contesto pitagorico (il protagonista,Timeo,è di Locri ,
nell'attuale Calabria;non si sa però se codesto Timeo sia realmente esistito o sia un'
invenzione platonica come molti sofisti;fatto sta che Timeo rappresenta il "pitagorico"
)e presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e una cosmologia (come è fatto il
mondo) ; tuttavia egli non é il solo protagonista del dialogo : accanto a lui infatti
troviamo Socrate , Crizia ed Ermocrate . .Descrivendo la nascita del mondo Platone si
serve di una metafora (ricordiamoci che stiamo parlando di una "opinione vera")
biologica : il mondo in cui viviamo ha un padre e una madre : il padre è il mondo delle
idee mentre la madre è la materia (notare che la parola materia deriva dal latino
"mater" = madre).Secondo Platone il padre fornisce la forma mentre la madre la
materia ( a quei tempi si dava per scontato che l'aspetto più nobile della riproduzione
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fosse paterno,mentre l'aspetto materno era ritenuto inferiore sebbene
essenziale).Dunque ci sono questi due elementi , il padre (ricordiamoci che la forma del
mondo sensibile deriva,nella misura in cui ne compartecipa, da quella del mondo
intellegibile) e la madre (Platone per definirla non usa la parola materia,in greco
"ule",che verrà poi introdotta da Aristotele ,ma "concausa",per il fatto che la madre
ha un ruolo secondario rispetto al padre,o "causa necessaria", per il fatto che la materia
è la condizione per la realizzazione di qualcosa:c'è sì il cavallo ideale , ma senza materia
con cui plasmare non si può fare nulla).Tuttavia chiama la madre anche "ricettacolo
delle forme" per il fatto che la materia è il luogo in cui vengono ricevute le forme , e
"spazio" (in greco "kora" = regione , ma con valore astratto = spazio ) : la parola "kora"
dà proprio l'idea dell'estensione pura,senza alcuna forma (il che comporta il fatto che
può assumerle tutte).Sappiamo che le idee sono fuori dal tempo e dallo spazio : quando
un'idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.Tutto il "Timeo" è
incentrato sulla necessità di spiegare il mondo fisico e la sua compartecipazione alle
idee:le idee sono perfette , le cose no:da un lato si predica il bene (le cose tendono alla
perfezione ideale)dall'altro il male (non riescono ad imitare perfettamente): si crea così
una sorta di ambiguità;si può accettare la frase non platonica "viviamo nel migliore dei
mondi possibili" in quanto il nostro mondo si avvicina più che può a quello
intellegibile.Finora per quel che riguarda l'imperfezione del mondo sensibile ce
l'eravamo cavata dicendo che un'imitazione , per definizione , non è mai perfetta:ma
perchè il mondo non sarà mai perfetto ? Qual è l'ostacolo ? Platone era del parere che il
nostro fosse un mondo buono,ma tuttavia era consapevole della sua imperfezione . Alla
domanda che ci siamo appena posti Platone rispose così : per lui ciò che impedisce al
mondo sensibile di essere perfetto è la materia;perchè il mondo empirico si realizzi e si
plasmi occorre che si realizzi in qualcosa privo di forma : è come un metallo che deve
essere lavorato : se avesse già una sua forma immutabile non lo si potrebbe
lavorare.Quindi la caratteristica della materia è non avere caratteristiche.Platone dice
che il ragionamento che ci porta a conoscere la materia è "bastardo",impuro , scorretto
perchè se ad esempio guardiamo un cavallo , in realtà conosciamo l'idea : la materia la
conosco come ciò che non è idea:si arriva alla conclusione in modo negativo perchè il
ragionamento coglie solo una caratteristica : la materia non ha forma.Non potrebbe
essere "ricettacolo delle forme" se avesse una forma definita (è come la cera sulla quale
si deve attaccare un sigillo:deve essere molle e senza forma per poter così prendere quella
del sigillo).Se affermiamo che la materia per ricevere le forme non deve avere forme
cogliamo simultaneamente un aspetto positivo e uno negativo : è di fondamentale
importanza ma soffrirà sempre di una deficienza.Consente alla materia di avere
forme,ma le riceverà sempre imperfettamente perchè è priva di forme , disordinata : le si
darà una forma , ma manterrà sempre una componente priva di forma:è proprio questa
componente a rendere il mondo sensibile imperfetto.Quindi la materia è
contemporaneamente un aiuto perchè fa calare le idee nel mondo sensibile ed un ostacolo
perchè , per inclinazione naturale , mantiene una componente di disordine . Tra gli
"agrafa dogmata" (le dottrine non scritte) di Platone troviamo la diade indefinita , alla
quale abbiamo già accennato . Platone è all'ultima fase della sua riflessione e risulta
particolarmente influenzato dai pitagorici ;al vertice della realtà si trova il principio
bipolare,in cui vi sono due poli come in un magnete:e come un magnete esiste solo
quando ci sono un polo negativo e uno positivo che risultano essere indivisibili.L'uno è il
vertice unitario , il due quello molteplice , diade indeterminata del piccolo e del
grande.Platone ha spiegato che in fondo il mondo è uno , di parvenza molteplice:non è
una dispersione di cose.Ma perchè , pur essendo uno , pare essere molteplice ? Come mai
l'uno si moltiplica ? Vi sono due risposte : a) c'è di mezzo la materia , che genera
scompiglio ed indeterminatezza , b) c'è la diade , che genera indeterminazione : se si ha
della materia alla quale dare una forma , la forma stessa determina che essa sia nei suoi
limiti , nè più grande nè più piccola di ciò che è : piccolo e grande sono una coppia di
concetti simmetrici e polari , entrambe indeterminati (c'è sempre qualcosa di più grande
e qualcosa di più piccolo) : ricorda molto il gioco del limite e dell'illimitato dei
pitagorici.La parziale differenza è che più che essere due principi , sono un principio
solo bipolare , altrimenti se il mondo si moltiplicasse significherebbe che i due principi
(uno-diade) devono essere impliciti nella realtà.Nel principio che genera il mondo (l'uno)
ci deve anche essere la diade : l'uno non rimane uno (come invece era per Parmenide) ,
ma presentando aspetti molteplici scende di livello : parte dal bene in sè,passa alle idee e
poi si cala al mondo sensibile.se vogliamo,la materia rappresenta il male in quanto è
elemento di disordine della realtà.Pare quindi che il male stesso sia parte del principio ;
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in verità c'è il principio da cui si origina il male , ma il male di per sè all'inizio non c'è :
la diade indeterminata sta a significare che l'uno (il bene in sè) non rimane unitario , ma
si cala nelle idee (che sono tante) prima e nel mondo sensibile poi.E' come se la potenziale
negatività della materia si manifestasse gradualmente : quando è nell'uno non la si vede
neppure , è ben inserita e quasi identificabile con lo stesso uno.Nel mondo delle idee ,
invece , non si è ancora manifestata come male, ma solo come molteplicità (le idee sono
tante , ma ordinate ).Nel mondo sensibile le cose sono molteplici (e si sono moltiplicate in
modo indefinito : mentre l'idea di cavallo è una , i cavalli sono tantissimi , un numero
quasi infinito)e disordinate:la componente di imperfezione è presente in tutti i livelli , ma
man mano che si scende è come se si "inspessisse" sempre di più.Comunque tutto questo
discorso rimane avvolto da un' alone di mistero un pò perchè non sta scritto da nessuna
parte ( nel " Timeo " viene fatta qualche vaga allusione , ad esempio , quando si dice che
la spiegazione della generazione delle cose verrà trattata con un discorso " non usuale " ,
che esula dalla filosofia scritta e che di solito viene solo trattato oralmente ) , un pò
perchè non è pienamente coglibile con la ragione . Dunque il mondo fisico deriva da un
padre (il mondo delle idee) e da una madre (la materia , che è la condizione per
l'esistenza del mondo fisico stesso ma che mantiene comunque una componente di
indeterminazione) : ma cos'è che fa da madiatore tra il mondo delle idee e la materia ?
Cos'è che fa sì che le idee si calino nel mondo sensibile ? Platone mette a questo punto in
gioco la figura del Demiurgo (dal Greco "demos" ,popolo, + "ergon" , opera, =
artigiano).Il Demiurgo è un divino artigiano : è colui che contemplando le idee plasma la
materia sul modello delle idee stesse.Platone introduce quindi una divinità a tutti gli
effetti (fino ad adesso non ne avevamo mai realmente incontrata una).Il concetto che
l'artigiano guardi ad un modello è tipicamente platonico (e aristotelico): mentre gli
artigiani umani guardano ad un modello che hanno nella loro testa , il Demiurgo guarda
ad un qualcosa che è fuori da lui:dato che le idee sono il bene per la loro categoria ,
anche il mondo sensibile dev'essere per forza buono , sebbene indeterminato.Che
rapporto intercorre tra le idee , la materia ed il Demiurgo ? Tutti e tre sono coeterni ,
sono sempre esistiti.A differenza della divinità cristiana , che crea il mondo, quella
platonica si limita a plasmarlo e non è onnipotente : ha infatti due limiti : la materia , che
gli impedisce di costruire un mondo perfetto , e le idee , che sono il modello a cui deve
per forza attenersi.Il Demiurgo guarda sì al meglio , ma il suo comportamento è dato da
qualcosa da lui esterno ed indipendente.Nel Medioevo vi fu un grande dibattito teologico
: le cose sono sante perchè piacciono alla divinità o piacciono alla divinità perchè sono
sante ? In altre parole : la divinità è colei che riconosce le cose buone e le sceglie , o è
colei che fa le cose buone ? Per Platone le cose sono buone intrinsecamente e non perchè
c'è chi decide che lo siano : il bene in sè è il criterio per giudicare tutte le cose che
possono essere buone;è buono ciò che partecipa alla super-idea di bene , come è bello ciò
che partecipa all'idea di bellezza.Le idee sono il modello per gli uomini e per la
divinità.Chiaramente la divinità vale di più rispetto all'uomo : essa riconosce facilmente
il bene , mentre gli uomini hanno delle difficoltà e non sempre ci riescono.Vi fu chi arrivò
a dire che ciò che è giusto è giusto perchè l'ha deciso la divinità.Chiaramente se Platone
avesse avuto modo di prendere parte al dibattito teologico medioevale , avrebbe
affermato che le cose buone piacciono alla divinità perchè sono buone e non avrebbe
potuto accettare l'idea che le cose sono buone perchè piacciono alla divinità. E' corretto
affermare che la divinità per Platone è il Demiurgo solo entro certi limiti : se la divinità
per definizione è il principio supremo , allora la divinità platonica dovrebbe essere il
bene in sè.Se la divinità è principio della realtà , è evidente che non deve dipendere da
nulla : ma il Demiurgo dipende dalla super-idea del bene e dalle altre idee che è costretto
ad imitare : ne consegue che non è indipendente ma è al contrario limitato.Il bene in sè
,invece,abbiamo visto che è illimitato ed è lui stesso il principio (bipolare) della realtà.Il
concetto di divinità nella tradizione ebraico-cristiana attinge un pò dal Demiurgo e un pò
dalla super-idea del bene.Non a caso nel Medioevo il "Timeo" (che è appunto il dialogo
dove compare il Demiurgo) ,a differenza degli altri dialoghi platonici, continuò ad essere
letto e non cadde in disuso.Questo perchè il "Timeo" è l'opera platonica più vicina al
Cristianesimo : c'è l'idea della plasmazione , piuttosto vicina a quella della creazione :
inoltre la divinità in un certo momento crea il mondo (la divinità di Aristotele invece fa
ben poco).Va poi ricordato che il Demiurgo è un dio-persona come quello dei
Cristiani.Dietro a questo amore cristiano per il "Timeo" , probabilmente c'è un
fraintendimento : le interpretazioni del "Timeo" sono due e i Cristiani scelsero
probabilmente quella sbagliata.Se si legge il "Timeo" alla lettere si incontra questo
"plasmatore" divino : sembra che il mondo prima non ci sia e che ci sia solo la materia :
si ha l'impressione che ci sia un tempo prima e un tempo dopo . Ma Platone credeva in
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ciò che diceva ? Se si legge accuratamente il "Timeo" ci si accorge che Platone ad un
certo punto si pone un quesito : che cos'è il tempo ? Il Demiurgo tra le varie cose plasma
anche gli astri , il cui movimento regolare si identifica con il tempo , anzi , si può dire che
per Platone gli astri non sono altro che strumenti del tempo . Il tempo viene definito "
immagine mobile dell'eternità ": come il mondo sensibile è imitazione di quello
intellegibile (il primo mutevole , il secondo eterno) , così il tempo è imitazione
dell'eternità .Non a caso il tempo viene identificato con il movimento circolare : se si
vuole rappresentare l'eternità con qualcosa di movimentato , senz'altro ciò che meglio la
rappresenta è il cerchio , il movimento circolare in cui si compie un giro per poi tornare
al punto di partenza:infatti il tempo è caratterizzato dal non essere eternità ma tornare
sempre su se stesso.La cosa più simile a ciò che non si muove mai è quella che torna
sempre su stessa , così come la cosa più simile che l'uomo possa fare per eternarsi è il
riprodursi ciclicamente.Dunque il tempo è la plasmazione dell'eternità ideale da parte
del Demiurgo.La conseguenza è che non c'è un tempo prima del mondo perchè è solo con
la nascita del mondo sensibile che il Demiurgo ha calato nella realtà sensibile l'imitazione
di eternità.Questa è una visione ben diversa da quella cristiana nella quale la divinità in
un certo momento decise di creare il mondo.Va poi ricordato che Platone stesso all'inizio
del "Timeo" dice che si tratta di un mito : di conseguenza i Cristiani hanno preso per
vero qualcosa che Platone stesso dice non essere vero , ma solo un'immagine che
rappresenta la relazione tra mondo intellegibile e materia.Quindi Platone non credeva
assolutamente nella figura del Demiurgo ed il suo vero dio resta il bene in sè . Oltre ad
esprimere la relazione tra idee e materia , il mito del Demiurgo esprime anche il
finalismo : Kant direbbe "è come se" il mondo fosse stato elaborato da un artigiano.Il
mondo sensibile è da sempre e per sempre un' immagine temporale del mondo delle idee
. Abbiamo citato gli astri : Platone quando volgeva gli occhi al cielo non poteva che
restare sbalordito dalla bellezza del cielo e dei suoi astri , tant' é che era arrivato alla
conclusione che gli astri fossero non solo viventi , ma anche intelligenti , perchè il loro
moto era ai suoi occhi troppo preciso e ordinato per essere frutto del caso . Platone nel "
Timeo " si allontana un pò dalla concezione dell' " Iperuranio " presente nel " Fedro " e
sostiene che gli astri siano le abitazioni delle anime , le quali , una volta morto il corpo
nel quale erano imprigionate , tornano a vivere ciascuna nell' astro a lei più affine ; nel
caso però abbia condotto una vita ingiusta sarà condannata a reincarnarsi in un corpo e
questo processo andrà avanti finchè l' anima non riuscirà finalmente a vivere una vita
giusta . A questo punto Platone coglie l' occasione per illustrare minuziosamente la
struttura del corpo umano e le sue funzioni ( vedendo il tutto , chiaramente , in una
concezione finalistica ) : abbiamo le orecchie per sentire , la voce per comunicare e la
vista per vedere ; quest' ultima , poi , secondo Platone , é causa per l' uomo della più
grande utilità perchè é proprio grazie alla vista che a suo avviso si può ragionare : il
ragionamento , infatti , incomincia sempre a partire dall' osservazione di qualche
fenomeno ( inoltre é proprio grazie alla vista , come diceva nelle opere della giovinezza ,
che cogliamo l' idea del bello , stimolo per sforzarsi a scoprire l' intero mondo delle idee )
. Tornando al Demiurgo : egli comincia a plasmare nella materia (che Platone chiama
anche "spazio")e arriva a generare tutta la realtà . Platone dice che la prima cosa che si
crea nello spazio sono 4 solidi geometrici fondamentali : si tratta dei 4 solidi regolari
(costituiti da facce uguali tra di loro).Platone è convinto che si possano ottenere tutti e 4
partendo da un triangolo rettangolo isoscele:ricombinandolo si possono ottenere vari tipi
di figure ( se ne creerebbero 5 , ma Platone una la scarta).Essi sono il cubo , l'ottaedro , il
tetraedro , l'icosaedro (quello che scarta è il dodecaedro). Questi 4 solidi stanno a
rappresentare i 4 elementi fondamentali di Empedocle (terra , acqua , aria , fuoco , che
verranno poi anche ripresi da Aristotele ) : ognuno dei 4 elementi di Platone è costituito
da parti minime (non ulteriormente divisibili) e ciascuno è caratterizzato da una forma :
per Platone la terra è il cubo , che suggerisce l'idea di regolarità , materialità , stabilità e
compattezza . Il fuoco , per esempio, è invece rappresentato dal tetraedro perchè , dal
momento che brucia , deve essere particolarmente spigoloso (il tetraedro è il più
spigoloso) e la forma stessa della fiamma è simile a quella del tetraedro.Platone ancora
una volta prende spunto dalla filosofia dei suoi precedenti mescolando in questo caso
Empedocle a Democrito (che tra le varie cose riteneva che a stimolare i nostri sensi
fossero le determinate forme degli atomi)e ai Pitagorici (Timeo è pitagorico e le forme
degli elementi sono geometriche).Tra l'altro ci possiamo anche riallacciare alla gerarchia
dei livelli della realtà : abbiamo detto (con l'aiuto del grafico) che i numeri erano a metà
strada tra mondo sensibile e mondo intellegibile ; qui vengono utilizzati come
collegamento tra mondo ideale e materiale.Il Demiurgo plasma quindi l' Universo ed il
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Sistema (non è molto chiara la struttura astronomica che attribuisce al Sistema : pare
che Platone abbia superato la teoria geocentrica ; non ammette il movimento di
rivoluzione , ma sembra ammettere quello di rotazione:è la Terra che gira) . Quindi ,
ricapitolando , la causa dell' origine del mondo per Platone é il Bene e la bontà del
Demiurgo ( che plasma le cose per via della sua benevolenza , senza costrizioni ) : il
Demiurgo é buono e da ciò che é buono non può nascere nulla che non sia buono ; il
disordine che vi era in un primo tempo , quindi , il Demiurgo lo trasformò in ordine ( che
é appunto sinonimo di bene ) : Platone dice testualmente : " Dio , volendo che tutte le
cose fossero buone , e che nulla , nella misura del possibile , fosse cattivo , prendendo
quanto era visibile e che non stava in quiete , ma si muoveva confusamente e
disordinatamente , lo portò dal disordine all' ordine , giudicando questo assolutamente
migliore di quello " . Il Demiurgo , poi , diede intelligenza a tutte le cose , perchè tutto ciò
che é dotato di intelligenza é superiore a ciò che non lo é : tuttavia é impossibile che l'
intelligenza si trovi in cose senz' anima ( le pietre , per esempio ) , e così il Demiurgo
diede all' intero universo un' anima e non é quindi sbagliato dire che le pietre sono
animate , in quanto facenti parte di questo grande organismo vivente che chiamiamo "
mondo " , che per Platone é l' unico . Platone introduce quindi il concetto di " anima del
mondo " : il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato , intelligente, vitale: il
mondo sensibile , nella misura in cui il Demiurgo lo plasma , non può che essere simile a
quello intellegibile : ha un' anima sua .L'Universo è un grande essere vivente permeato
interamente da un' anima.Tutto quindi è vitale , sebbene in diverse misure.L'osso è vivo
perchè fa parte di un essere vivente , ma anche la pietra è viva perchè fa parte di questo
grande essere vivente (l'Universo).Platone insiste poi particolarmente sul finalismo ( il
cavallo è nato per essere veloce , il cane per fare la guardia...) e sulla stretta parentela tra
uomo e animali (gli animali sono il frutto di incarnazioni infelici delle anime nell'aldilà :
ricordiamoci del mito di Er ; di tutte le incarnazioni , Platone sostiene che la peggiore ,
dopo quella di donna e di animale , sia quella dei pesci ) . Da notare , però , che non é che
il Demiurgo prima abbia creato l' universo e solo in un secondo tempo la sua anima : é l'
esatto opposto . Prima di tutto ha creato l' anima , che essendo così più anziana può
facilmente dominare il corpo del mondo perchè é evidente che chi é anziano può
facilmente avere la meglio per virtù ed esperienza su chi é giovane ; Platone cerca anche
di illustrare la struttura di questa maxi-anima , sostenendo che essa é composta da tre
parti , l' Identico , il Diverso e l' Essere : ogni cosa del mondo , infatti , é ( esiste ) , é
identica a se stessa , ma diversa da tutte le altre .
Crizia
Crizia era uno dei Trenta tiranni e per di più parente di Platone ( era suo zio materno ) .
Egli esordisce dicendo che gli argomenti che sta per trattare sono più complessi rispetto
a quelli trattati da Timeo , che aveva parlato del Demiurgo , il divino artigiano : é infatti
più facile parlare di divinità agli uomini ( come ha fatto Timeo ) che non di uomini agli
uomini ( come sta per fare Crizia ) : gli dei non sono mai stati visti così non é possibile
capire se uno sta dicendo il vero o il falso mentre parla di loro . E' come nella scultura :
di fronte al busto di un uomo tutti diventiamo critici severi per via della conoscenza
abituale che abbiamo degli uomini , se però si tratta di soggetti non umani , bensì divini è
più difficile muovere critiche e si é più liberi nella rappresentazione . Crizia introduce
quindi il suo argomento : egli parlerà di due grandi città che entrarono in conflitto tra
loro : Atene , l'attuae capitale della Grecia , e Atlantide , città che per via di cataclismi si
inabissò e sparì dalla faccia della Terra e diede il nome al Mar Atlantico . L'Atene
descritta da Crizia é un' Atene fuori dal tempo , quasi mitologica . Gli dei patroni di
Atene , spiega Crizia , erano Efesto , il fabbro degli dei , e Atena , la dea della sapienza ,
che diede il nome alla città . Gli dei pur abitando sulle vette del monte Olimpo , si
spartivano le terre tra di loro con un sorteggio effettuato da Giustizia ( la greca Dike ) .
Nelle terre che venivano loro assegnate svolgevano sugli uomini le stesse mansioni che i
pastori svolgono sulle greggi . Fatto sta che ad Atena e ad Efesto , forse perchè erano
fratelli , forse perchè nutrivano interessi affini ( il sapere , l'arte ) toccò la stessa terra .
In Atene vi erano diverse classi di cittadini , ciascuna delle quali svolgeva determinate
funzioni . Vi erano i guerrieri , i produttori , i governatori . La proprietà privata non
esisteva : sembra quasi che Platone si ricolleghi a quanto dice nella Repubblica .Crizia si
sofferma sull'assetto urbanistico della città di Atene , ed in particolare sul suo splendido
acropoli , diverso da quello dei suoi tempi , per poi passare alla descrizione di Atlantide .
Quest'isola con il sorteggio toccò a Poseidone , il dio del mare . Era un'isola molto ricca :
basti pensare che dal mare fino al centro dell'isola era tutta una pianura fertilissima . Vi
era poi nel mezzo un monte non altissimo , sulle cui vette abitava un uomo , di nome
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Euenore , con la moglie Leucippe , dalla quale aveva avuto una figlia , Clito , che però
rimase orfana proprio quando era in età da marito . Poseidone , preso da compassione ,
giacque con lei . Quindi scavò tutt'intorno all'altura sulla quale dimorava Clito
formando come dei cerchi concentrici , alternativamente di terra e di mare , ora più
larghi , ora più stretti . Così il monte risultava inaccessibile agli uomini e Clito poteva
vivere tranquilla . Si era venuta a creare una vera e propria isola irraggiungibile ( dal
momento che allora non c'erano le navi e la tecnica della navigazione era sconosciuta ) .
Poseidone rese prosperosissima quella terra facendovi zampillare fonti e facendovi
crescere frutti di ogni qualità . Poi allevò 5 coppie di gemelli e suddivise l'isola di
Atlantide in 10 parti , ciascuna delle quali venne affidata ad uno dei 10 figli . Il vero capo
era però il più anziano dei fratelli , a cui Poseidone mise il nome dell'isola e lo chiamò "
Atlante " . Il secondo lo chiamò Gadiro . La progenie di Atlante fu numerosa e gloriosa
ed i successivi sovrani accumularono tantissime ricchezze ; l'isola di Atlantide era del
tutto autosufficiente , ma tuttavia non rinunciava alle importazioni . Abbondava di
metalli ed in particolare di oricalco , che era il secondo metallo più prezioso dopo l'oro .
Poi costruirono dei ponti che mettevano in contatto l'isola con l'isolotto costruito da
Poseidone , che era divenuto sede dei sovrani . I dieci sovrani gareggiavano tra di loro in
magnificienza e sontuosità . Come ogni città degna di rispetto c'era anche l'acropoli , al
centro del quale era situato il tempio sacro a Poseidone e a Clito , recintato da un muro
in oro . L'isola abbondava pure di fonti , sia fredde sia calde , pronte all'uso : gli abitanti
vi disposero attorno edifici , giardini e vi riempirono grandi e magnifiche vasche .
L'acqua defluiva poi verso il bosco sacro a Poseidone , che faceva crescere piante
rigogliose ed una natura lussurreggiante . Nelle cerchia più esterne della città c'era il
grande ippodromo , attorniato da edifici destinati all'alloggiamento del contingente dei
lancieri . Crizia parla poi del porto , un vero e proprio via vai di imbarcazioni e di genti
che venivano da ogni parte per commerciare . Numerosi erano i canali di irrigazione che
sorgevano nella pianura che andava dal mare fino al centro dell'isola e che la rendevano
fertilissima . L'isola di Atlantide aveva anche un suo esercito , formato dalle genti di
tutta l'isola . Dei diec re ciascuno disponeva a suo piacimento delle genti su cui regnava ;
tra i vari sovrani c'era un patto di alleanza regolato dallo statuto di Poseidone . Proprio
nel tempio di Poseidone , sull'acropoli , si radunavano i 10 sovrani ogni 5 - 6 mesi per
prendere decisioni di interesse comune e per processare coloro che si erano mal
comportati . I processi venivano svolti dopo la celebrazione di un rito in cui
fondamentale era la presenza del toro . Tra le varie leggi senz'altro la più importante era
quella che proibiva assolutamente ai sovrani di farsi guerra tra di loro : vi doveva essere
massima armonia e concordia e dovevano essere alleati e combattere insieme contro il
nemico comune . Sembrava un vero e proprio paradiso terrestre , ma improvvisamente
vi fu una degenerazione . Il che non piacque a Zeus , il padre degli dei , che volle punire
l'isola . In Crizia, dialogo mutilo, si narra il mito del misterioso continente Atlantide,
brevemente accennato nel Timeo e raccontato a Solone, avo di Crizia, dai sacerdoti
egiziani. Un'isola posta di fronte alle Colonne d'Ercole, collegata con numerose altre
isole, dava accesso a un grande continente, dove si sarebbe formata una grande potenza,
che fece guerra a tutti i popoli situati al di qua delle Colonne sotto la guida di Atena: la
guerra ebbe luogo "novemila anni or sono", e trascorsi numerosi secoli uno spaventoso
cataclisma distrusse l'isola, che fu inghiottita dal mare. In quest'isola si può scorgere la
città ideale della politèia (repubblica) proiettata sulla nostra terra.
Leggi
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo
ateniese e costituiscono la fase finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. è
impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita, ha sviluppato intorno
al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci
limiteremo ad alcune considerazioni di carattere generale. Innanzitutto la data del 353
a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1 (638b), appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per
datare la composizione del dialogo. In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha
messo in luce alcune imperfezioni contenutistiche e stilistiche (frequenti ripetizioni e
omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare ad un'opera non pienamente compiuta,
ma forse ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione. Si può allora concludere
che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di
Opunte, provvedere ad una sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché
all'attuale divisione in dodici libri. Le Leggi dunque, come si è appena detto,
rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato anche osservato
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che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come
una specie di trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo. Ed
è forse proprio in questa storicità delle Leggi che si scorge un elemento di rottura
rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato e delle
costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato
che sarebbe peraltro esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca
della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene coincidevano con le fondamenta dello
stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in
precedenza. Si spiegano così l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle
costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche sui fallimenti dell'impero
persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese
(determinati da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto
positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente l'intento "pratico" del dialogo al
termine del libro terzo, ricorrendo ad un semplice espediente: Clinia, uno dei personaggi
del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene
migliori per una colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge
un appello ai suoi due interlocutori, ovvero quello di fondare "con la parola", il nuovo
stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni volta
adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese. I primi tre libri costituiscono
dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre con
la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda
giornata estiva. Tre vecchi prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin
dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano Megillo. L'Ateniese
propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da
Cnosso conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro
frescura permetteranno loro di sfuggire alla canicola estiva. La discussione entra subito
nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le consuetudini (l'uso dei
pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore
dovrebbe legiferare soltanto in vista della guerra, dal momento che la condizione umana
si trova in uno stato di guerra permanente. Ma l'Ateniese non è d'accordo con le
posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso
delle relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore
non deve legiferare solo in vista della guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le
virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza. Di qui sorge la critica verso
l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti perché
legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si
caratterizzano anche per la loro eccessiva severità di costumi. L'Ateniese dimostra ad
esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei
simposi, così come accade ad Atene, essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela
utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente impudenti,
contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza
la virtù del pudore. Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7
L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le danze, e la musica che ad essi è connessa.
A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in genere non
possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e
quindi il loro giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata
soltanto in base al piacere che essa procura, ma anche in base ai fini educativi che è in
grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre tipi di
cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello
degli uomini fra i trenta e i sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in
onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui Platone si abbandona ad una
appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale. Nel
libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che
potremo definire storica: Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi
albori, quando un diluvio universale ciclicamente annientava uomini e cose. Ogni volta si
salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però, come in una
sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano
nella concordia reciproca. In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e
presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per delimitare e separare una
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proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle
costituzioni delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di
che si apre una prima parentesi sull'analisi dei fallimenti delle esperienze politiche di
Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere moderato
hanno causato la rovina di quegli stati. Nel corso della seconda digressione storica si
prendono invece in esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i
Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo fra servitù e libertà, lo stato prosperava
e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della
potenza persiana; quanto alla costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro
opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben presto si estese ad ogni
altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza. Conclusa
dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo
stato che verrà discussa dal libro 4 all'8. Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la
geografia del nuovo stato deve possedere: oltre alla capitale situata nell'interno, esso
deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più possibile i
rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la
gran quantità d'oro e d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta
della costituzione, le varie forme di costituzioni storicamente esistenti (democrazia,
oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla
divinità che indicherà i criteri di giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello
stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine dedicate all'esposizione del
metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire
soltanto minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge
di un proemio che introduce alla legge vera e propria. All'inizio del libro 5 troviamo
ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza,
all'intelligenza, e al coraggio, e deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie
e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del nuovo stato: si fissano le
norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che
parteciperanno di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro
classi censuarie e tutta la popolazione dello stato viene ripartita in dodici tribù. La
materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei
magistrati. Innanzitutto vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono
un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si procede all'elezione
degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli
astinomi (per gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade
sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per la custodia e la sorveglianza delle
campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed un
altro per la ginnastica. Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema
dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si affrontano i problemi
relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne,
una per tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie
alla ginnastica per il corpo e alla musica per l'anima. La questione si sposta quindi sul
problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto per le donne
quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti.
Fra le altre discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e
l'astronomia. Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi. Gettate le
fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che
siano in grado di rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si
stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e le varie esercitazioni che si devono
compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle norme
che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente
l'omosessualità, pratica assai diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i
rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa in rassegna i
problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani. Nel libro 9, dopo l'esame dei
casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che si
genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio
socratico secondo il quale nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del
bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira ed al piacere, che determina i
crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono
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essere l'ira, o la passione, o ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti
e di violenze. Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la
dettagliata esposizione del codice di leggi: Platone condanna fermamente l'ateismo e
confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si prendono cura
degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A
questo proposito non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi
attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche affermare l'esistenza della
provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per
ateismo. Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme
relative ai contratti che i cittadini stipulano fra loro. La materia è assai vasta e complessa
e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi,
per citare soltanto i casi più significativi. L'esposizione del codice delle leggi prosegue
ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo ricordare, a titolo
di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul
giuramento, le normative sulle mallevadorie. Il dialogo giunge così alle sue battute finali.
Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza di ribadire il fine
cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di
realizzare il complesso delle virtù nello stato. Un'intelligenza superiore a tutte le altre
istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion d'essere di ogni
legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo
politico composto dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che
hanno appreso l'arte della politica attraverso la dialettica - dovrà sorvegliare e
presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
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