9. Handout 9_StRom 2017

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
Anno accademico 2016/2017
Insegnamento di Storia romana – Laurea triennale
Handout n. 9
F. I POTERI DEL PRINCEPS E DEL SENATO
1. Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione 38.11.1
[189 a.C.] “Gli Etoli finalmente riuscirono ad accordarsi sulle condizioni di pace; e furono le
seguenti: «il popolo degli Etoli riconoscerà lealmente il potere (imperium) e la maestà (maiestas) del
popolo romano; non lascerà passare per il suo territorio alcun esercito che marci contro i suoi amici
e alleati (socii amicique), né lo aiuterà con alcun mezzo; avrà gli stessi nemici del popolo romano e
porterà le armi contro di loro, facendo la guerra d’intesa coi Romani [...]». Riguardo alla somma in
denaro da pagare e alle relative rate [...] fu concordato che se invece di argento preferivano dare oro,
potevano darlo, purché una moneta d’oro equivalesse a dieci d’argento”.
2. Gesta del Divo Augusto 1-35
Praef. Qui sotto è esposta una copia dell’elenco originale degli atti compiuti (res gestae) dal divo
Augusto, con i quali sottomise il mondo al potere del popolo romano (orbem terra[rum] imperio
populi Romani subiecit) [...].
1. All’età di diciannove anni misi insieme per mia iniziativa personale e a mie spese (privato consilio
et privata impensa) un esercito, per mezzo del quale restituii lo Stato oppresso dalla tirannia di una
fazione alla libertà. Per questo motivo il senato [...] con decreti onorifici mi ammise a far parte del
suo ordine consentendomi di avere diritto di parola in qualità di consolare [...]. Il popolo poi nel
medesimo anno mi creò console [...].
4. Due volte ebbi un’ovazione trionfale e tre volte celebrai trionfi curuli e fui acclamato ventuno
volte imperator, sebbene il senato deliberasse un maggior numero di trionfi, che tutti declinai. [...]
Ero stato console tredici volte quando scrivevo queste memorie ed ero per la trentasettesima volta
rivestito della potestà tribunizia.
5. Non accettai la dittatura [...]. Non mi sottrassi invece, in una estrema carestia di cereali, ad
accettare la sovrintendenza dell’annona (curatio annonae), che ressi in modo tale da liberare in
pochi giorni dal timore e dal pericolo immediato l’intera città, a mie spese e con la mia solerzia.
Anche il consolato, offertomi allora annuo e a vita, non accettai.
6. Benché il senato e il popolo romano decidessero all’unanimità che fossi nominato, da solo e con
potere illimitato, controllore delle leggi e dei costumi (curator legum et morum), non accettai
nessuna magistratura che mi fosse offerta in contrasto con le tradizione dei padri (contra morem
maiorum).
7. Fui uno dei triunviri per riordinare lo stato per dieci anni consecutivi. Fui principe del senato, per
quarant’anni [...] Fui pontefice massimo, augure, quendecemviro addetto ai riti sacri, settemviro
epulone, fratello arvale, sodale tizio e feziale.
8. Durante il mio quinto consolato accrebbi il numero dei patrizi per ordine del popolo e del senato.
Tre volte procedetti a un’epurazione del senato. Durante il sesto consolato feci il censimento della
popolazione, avendo come collega M. Agrippa. [...] In questo censimento furono registrati quattro
milioni sessantamila cittadini romani. [...]
10. Il mio nome, per senatoconsulto, fu inserito nel carme Saliare e fu sancito per legge che fossi
inviolabile (sacrosanctus) per sempre e che avessi la potestà tribunizia a vita. Rifiutai di diventare
pontefice massimo al posto di un mio collega ancora in vita, benché fosse il popolo a offrirmi questo
sacerdozio [...] E questo sacerdozio accettai qualche anno dopo.
14. I miei figli [...] Gaio e Lucio Cesari, in mio onore il senato e il popolo romano designarono
consoli all’età di quattordici anni, perché rivestissero tale magistratura dopo cinque anni. [...]
15 Alla plebe di Roma pagai in contanti a testa trecento sesterzi [...] e a mio nome diedi
quattrocento sesterzi a ciascuno, provenienti dalla vendita del bottino delle guerre, quando ero
console per la quinta volta. [...] Quando rivestivo la potestà tribunizia per la diciottesima volta ed
ero console per la dodicesima volta diedi sessanta denari a testa a trecentoventimila appartenenti
alla plebe urbana.
17. Quattro volte aiutai l’erario con denaro mio, sicché consegnai centocinquanta milioi di sesterzi a
coloro che sovrintendevano all’erario [...].
19. Costruii la curia (..), il tempio di Apollo sul Palatino con portici, [...] il tempio del divo Giulio
[...], il Lupercale [...].
20. Restaurai il Campidoglio e il teatro di Pompeo, l’una e l’altra opera con grande spesa, senza
apporvi alcuna iscrizione del mio nome. [...] Console per la sesta volta, restaurai nella città, per
volontà del senato, ottantadue templi degli dèi [...].
21. Su suolo privato costruii il tempio di Marte Ultore e il foro di Augusto col bottino di guerra. [...]
22. Tre volte allestii uno spettacolo gladiatorio [...] e in questi spettacoli combatterono circa
diecimila uomini. [...] Allestii giochi a mio nome quattro volte, invece al posto di altri magistrati
ventitré volte. [...] Allestii per il popolo ventisei volte, a nome mio o dei miei figli e nipoti, cacce di
belve africane, nel circo o nel foro o nell’anfiteatro, nelle quali furono ammazzate
tremilacinquecento belve. [...]
26. Allargai (auxi) i confini di tutte le province del popolo romano, con le quali erano confinanti
popolazioni che non erano sottoposte al nostro potere. Pacificai le province delle Gallie e delle
Spagne, come anche la Germania, nel tratto che confina con l’oceano, da Cadice alla foce del fiume
Elba. Feci sì che fossero pacificate le Alpi, dalla regione che è prossima al mare Adriatico fino al
Tirreno, senza aver portato guerra ingiustamente (per iniuriam) a nessun popolo.
27. Aggiunsi l’Egitto all’impero del popolo romano. Pur potendo fare dell’Armenia maggiore una
provincia dopo l’uccisione del suo re Artasse, preferii, sull’esempio dei nostri antenati (maiorum
nostrorum exemplo), affidare quel regno a Tigrane, figlio del re Artavasde e nipote del re Tigrane.
[...]
34. Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo aver estinto le guerre civili, avendo conseguito
tutto il potere attraverso il consenso di tutti (per consensus universorum), trasferii il governo dello
Stato della mia potestà al libero volere del senato e del popolo romano. E per questo mio merito con
decreto del senato fui denominato Augusto [...] Dopo di allora fui superiore a tutti per autorità
(auctoritate omnibus praestiti), ma non ebbi per nulla più potere (potestatis autem nihilo amplius
habui) di tutti gli altri che mi furono colleghi in ciascuna magistratura.
35. Mentre esercitavo il tredicesimo consolato, il senato e l’ordine equestre ed il popolo romano
tutto quanto mi proclamarono Padre della patria (pater patriae) [...]”.
3. Cassio Dione, Storia romana 53.2-12
“[Augusto] volle dare mostra di magnanimità nell’intento di ricevere [...] un maggior credito: sua
intenzione era infatti di fare in modo che fosse il popolo ad accordargli spontaneamente la
monarchia, per evitare di dare l’impressione di averla invece costretta contro la sua volontà. Perciò,
dopo essersi garantito l’appoggio dei senatori a lui fedeli, si presentò di fronte al senato nel giorno
dell’assunzione del suo settimo consolato, e lesse questo discorso: « [...] Come voi stessi vedete, ho la
possibilità di esercitare il mio potere su di voi per tutta la vita [...]. Ho il controllo degli eserciti, che
sono al massimo della lealtà e della preparazione bellica, ho a mia disposizione denaro e alleati e,
punto di fondamentale importanza, sia voi che il popolo siete così favorevoli nei miei confronti da
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desiderare appieno che sia io solo a governarvi. Tuttavia non rimarrò oltre alla vostra guida, né
alcuno avrà il pretesto per dire che le decisioni precedentemente prese da me siano frutto di una
politica autocratica; anzi, rifiuto integralmente il potere e vi restituisco il tutto – gli eserciti, le leggi e
le province –, [...] affinché siano i fatti stessi a provarvi che non ho mai ambito alla monarchia [...].
Non avrei certo voluto assumere un ruolo così importante come ho fatto [...] ma poiché la casualità
della sorte vi ha condotti nella condizione sia di aver bisogno di me, nonostante fossi ancora
giovane, sia di mettermi alla prova, ho agito col massimo impegno [...]. Da queste vicende non ho
tratto alcun vantaggio personale, tranne il fatto di aver salvaguardato la sopravvivenza della patria
mentre voi, invece, avete tratto il beneficio di vivere sicuri e tranquilli [...]. Non meravigliatevi della
mia proposta, dal momento che vedete inoltre la mia moderazione, la mia mitezza, la mia
predisposizione alla tranquillità, e poiché vi rendete conto del fatto che non ho mai accettato alcun
privilegio eccessivo [...]. Non faccio queso discorso per vantarmi, ma [...] chi potrebbe essere più
magnanimo di me, per non menzionare mio padre defunto? Quale uomo più investito della divina
provvidenza si potrebbe trovare se non me [...]? [...] Se Orazio, Muzio, Curzio, Regolo e i Deci
furono disposti a rischiare la vita e a morire per conseguire la fama di aver fatto qualcosa di
importante e di nobile, come non potrei allora desiderarlo maggiormente io, dal momento che nella
mia vita supererò in gloria non solo costoro ma, al tempo stesso, il resto dell’umanità? [...].
È proprio a voi, che siete i migliori cittadini e gli uomini più saggi, che affido la gestione dell’intero
patrimonio pubblico: del resto non adotterei il sistema di governo che ho appena menzionato [i.e. la
monarchia], neppure se dovessi morire diecimila volte [...]. Per queste ragioni preferisco ritirarmi a
vita privata mantenendo una buona fama piuttosto che assumere la monarchia e correre dei rischi.
La politica potrebbe essere gestita molto meglio quando è amministrata da molte persone insieme, e
non quando è affidata alle decisioni di uno solo [...]». Sia durante la lettura del discorso sia dopo la
conclusione, i senatori lo acclamavano grandemente, chiedendo con insistenza un governo
monarchico e sostenendo ogni argomento a favore di esso, finché non lo costrinsero ad assumere il
potere assoluto. [...] In questo modo, dunque, gli venne riconosciuta l’egemonia da parte del senato
e del popolo [...]”.
4. Svetonio, Vita di Augusto 7.2
“Bambino, gli fu messo l’appellativo di Thurinus, o in ricordo dell’origine dei suoi avi, o perché nella
zona di Turii, quando lui era appena neonato, suo padre Ottavio aveva condotto felicemente
l’azione contro gli schiavi fuggiaschi [...]. Da Marco Antonio, nelle sue lettere, è spesso chiamato
sprezzantemente Thurinus [...]. Poi assunse il il nome di C. Cesare e successivamente quello di
Augusto, l’uno in forza del testamento del prozio materno, l’altro per iniziativa di Munazio Planco:
alcuni proponevano che lo si chiamasse Romolo in quanto anche lui, in certo modo, fondatore di
Roma; ma prevalse l’idea di chiamarlo piuttosto Augusto, con un appellattivo non solo nuovo, ma
anche più pomposo, perché anche i luoghi venerandi (religiosa) nei quali, dopo una cerimonia
augurale, si consacra qualcosa, sono chiamati augusti, da auctus (‘propizio, favorevole’) [...] Lo
insegna anche Ennio quando scrive «Dopo che Roma fu fondata con presagio propizio (augusto
augurio)»”.
5. Tacito, Annali 1.1-4
“Ai primordi, Roma appartenne ai re. Lucio Bruto introdusse la libertà e il consolato. [...] La
dominazione di Cinna e Silla non ebbe lunga durata; la signoria di Crasso ben presto passò a Cesare,
le forze armate di Lepido e di Antonio ad Augusto; questi con il titolo di principe (princeps) assunse
il potere supremo (imperium). [...] Deposto il titolo di triumviro, agiva da console; pago della carica
di tribuno a tutela della plebe, egli si propiziò le truppe con donativi, il popolo con distribuzioni
annonarie, tutti con le dolcezze dell’otium. Poco a poco cominciò a trarre a sé le funzioni del Senato,
dei magistrati, delle leggi; non gli si opponeva nessuno perché i più fieri erano caduti in battaglia o
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vittime delle proscrizioni, i nobili rimasti venivano elevati in ricchezze e onori quanto più erano
disposti a servire; e preferivano la sicurezza del presente ai rischi del passato. Né si opponevano le
province al nuovo regime (status), poiché quello che era stato il governo del Senato e del popolo
ispirava diffidenza per la discordia tra i grandi e la cupidigia dei magistrati; né era più valida la
tutela delle leggi, sovvertite dalla violenza, dalla corruzione, infine dalla potenza del denaro.
Augusto inoltre, per consolidare la sua signoria, conferì la carica di pontefice e l’edilità curule al
figlio di sua sorella, Claudio Marcello, poco più che adolescente; il consolato per due volte di seguito
a M. Agrippa, di oscuri natali, ma prode in guerra e compagno nella vittoria; alla morte di Marcello,
ne fece suo genero; conferì il titolo di imperator ai figliastri, Druso e Tiberio [...]. Sovvertito dunque
l’ordinamento della città (verso civitatis statu), dell’antico e retto costume (priscus et integer mos)
nulla restava. Tutti, tramontata ormai l’eguaglianza, aspettavano gli ordini del principe [...]”.
6. Corpus Inscriptionum Latinarum VI.930
“[...] [A Vespasiano] sia lecito condurre trattati (foedera) con chiunque voglia, come fu lecito al divo
Augusto [...] e a Tiberio Claudio [...].
Che gli sia lecito convocare il senato, presentarvi una proposta di legge o rigettarla e far passare un
senatoconsulto a seguito di deliberazione e di votazione [...], come fu lecito al divo Augusto [...] e a
Tiberio Claudio [...].
Che nelle elezioni si tenga conto, al di fuori dell’ordine normale, dei candidati che egli avrà
raccomandato (commendaverit) al senato e al popolo romano per una magistratura, per una carica,
per un imperium o per una curatela e ai quali avrà dato e promesso il suo sostegno.
Che egli abbia il diritto e il potere (ius potestasque) di fare e compiere qualunque cosa per l’utilità e
la grandezza (maiestas) dello Stato, nelle questioni divine e umane, pubbliche e private, come fu
lecito al divo Augusto, a Tiberio e a Claudio [...].
Che gli atti, le azioni, i decreti, gli ordini da parte dell’imperatore Cesare Vespasiano Augusto, o da
chiunque lo abbia fatto su suo ordine o comando prima della votazione di questa legge, ciò sia
legittimo e ratificato, come se fosse avvenuto per ordine del popolo o della plebe”.
7. Ulpiano, in Digesta 1.4.1
“Ciò che stabilisce il princeps ha valore di legge”.
8. Gaio, Istituzioni 1.5
“Costituzione del principe è ciò che l’imperatore stabilisce con decreto (decretum), editto (edictum)
o lettera (epistula). Mai si è dubitato che ciò tenga luogo di legge, dato che l’imperatore è investito
dell’imperium per legem”.
9. Ulpiano, in Digesta 1.3.31
“Il princeps è svincolato dalle leggi (legibus solutus)”.
10. Svetonio, Vita di Claudio 26
“Ma poi, irretito da Agrippina, figlia di suo fratello Germanico, che come nipote gli dava spesso
legittimi baci e carezze, [Claudio] spinse alcuni senatori a proporre che il Senato lo costringesse a
sposarla come se fosse di sommo interesse per lo Stato, e a concedere a tutti i cittadini di contrarre
simili matrimoni, che fino ad allora erano stati considerati incestuosi”.
11. Tacito, Storie 2.91.3
“Una volta Prisco Elvidio, pretore designato, aveva espresso un’opinione contraria a quella da lui
appoggiata. Dapprima Vitellio ne fu turbato [...]: cercando poi di ammansirlo gli amici, i quali
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temevano che la sua ira fosse più profonda di quanto appariva, egli rispose che non era cosa nuova
se due senatori si trovavano in disaccordo su una questione di governo”.
12. Gaio, Istituzioni 1.4
“Senatoconsulto è ciò che prevede e stabilisce il Senato, e tiene luogo di legge (legis vicem optinet)”.
13. Svetonio, Vita del Divo Augusto 41
“[Augusto] elevò il censo dei senatori e lo fissò, inveche che a ottocentomila, a un milione e
duecentomila sesterzi, e supplì egli stesso per quelli che non ne avevano”.
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