La filosofia postmoderna

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Il contesto storico
I grandi cambiamenti politici, che si manifestano in Italia all'inizio degli anni Novanta sono
consequenza dei cambiamenti importanti nella struttura dell'economia e nel sistema dei mass
media che sono accaduti un decennio prima. Bisogna dire anche qualcosa su questi fenomeni:
•
Nel 1981. la maggioranza della popolazione lavora nel settore terziario (dei servizi),
L'Italia passa in società post-industriale (ha passato nella società industriale tra due
guerre mondiali).
•
Nel 1921. ancora 51% della popolazione lavorava nel settore primario
•
Negli anni Settanta l'Italia si apre al mondo, si sentono tutti i fenomeni della
globalizazzione;
•
Mass media in Italia: tra 1980 e 1990 l'importo dei programmi esterni
(prevalentemente americani) è aumentata quattro volte
•
RAI perde monopolio (si deve redefinire lo spazio culturale della nazione italiana)
•
Nel 1983 Canale 5 di Berlusconi diventa quasi la TV più guardata, Berlusconi compra
Italia 1 e Rete 4.
•
Le indagini sociologiche rivelano tre tendenze culturali nella società italiana dagli anni
Novanta1:
•
La prime è una tendenza modernizzante (qui appartengono i giovani formati, laureati,
Italia settentrionale e centrale, grandi città).
•
Valori principali di questa tendenza sono:
l’individualismo, l’edonismo, la
secolarizzazione.
•
La seconda sarebbe una tendenza postmoderna (socialmente non si distingue dalla
prima, raccoglie gli stessi gruppi sociali, giovani, laureati, ecc. che vivono nelle città
grandi e medie).
•
Valori principali: l'interesse rinnovato per la religione e l’ecologia, il lavoro come
strumento dell’autorealizzazione, si rifiuta il relativismo assoluto.
•
Tradizionale (Sud d’Italia, popolazione vecchia, casalinge, non laureati, agricoltori,
ecc.)
•
La conclusione delle indagini sociologiche:
R. CESERANI, Raccontare il postmoderno. Torino, Bollati, Boringhieri, 1997.
1
•
L’Italia contemporranea è caratterizzata dalla coesistenza degli elementi moderni,
postmoderni e premoderni.
•
I valori principali degli Italiani nel futuro non saranno né tradizionali né moderni ne'
postmoderni, ma una mescolanza di tutte e tre tendenze.
•
La condizione postmoderna perciò non rappresenta la dominazione del pensiero
postmoderno e della poetica postmoderna nelle varie arti, ma più un pluralismo delle
varie tendenze che non si può ridurre ad un'immagine più semplice.
L’architettura postmoderna2
Le prime tendenze postmoderne in Italia e negli Stati Uniti si notano nell'ambito
dell'architettura. Charles Jencks, architetto e paesaggista americano, ha contribuito alla
definizione del postmoderno con le definizioni stilistiche dell'architettura postmoderna e con
il concetto di double coding o doppia codificazione che è stato raccolto da Margaret Rose e
Linda Hutcheon nell'ambito della critica letteraria.
Nel suo libro The Language of Post-Modern Architecture, pubblicato nel 1977, Jencks critica
la architettura moderna, la rigidità degli suoi assiomi e vede l'architettura postmoderna come
«un complesso fluire di elementi e significati da precedenti elementi e significati che abbiano
storiche motivazioni». Il suo libro contiene una serie di conferenze, tenute da egli in giro per
il mondo a partire dal 1974.
I principi fondamentali del movimento moderno nell’architettura:
•
il raggiungimento della migliore utilità possibile
•
I materiali impiegati e il sistema costruttivo devono essere subordinati a questa
esigenza primaria
•
La bellezza consiste nel rapporto diretto tra edificio e scopo, caratteristiche dei
materiali ed eleganza del sistema costruttivo.
2
•
funzionalità = bellezza
•
Le Corbusier – la casa è la macchina per abitare.
•
La casa è il prodotto di una disposizione collettiva e sociale.
M. JANSEN, Il dibattito sul postmoderno in Italia: in bilico tra dialettica e ambiguità, Cessati, 2002, pp.42-48.
2
•
L’architettura razionale, funzionale e internazionale.
Walter Gropius: «nell'architettura moderna è chiaramente percepibile l'oggettivazione di ciò
che è personale e nazionale. Una moderna impronta unitaria, condizionata dai traffici
mondiali e dalla tecnica mondiale, si fa strada in ogni ambiente culturale... fra i tre cerchi
concentrici individuo, popolo, umanità - il terzo e maggiore abbraccia gli altri due; di qui il
titolo architettura internazionale».
Come la fine del movimento moderno alcuni teorici prendono il 15 luglio 1972, la data della
demolizione, per le sue condizioni di inabitabilità, di un quartiere costruito negli anni
Cinquanta nella città di Saint Louis chimato Pruit Igoe o “quartiere mostro” negli Stati Uniti.
Pruitt-Igoe è stato un grande progetto urbanistico sviluppato negli anni Cinquanta del
Novecento nella città statunitense di St. Louis, Missouri. Il quartiere era progettato seguendo
un moderno pensiero d'ingegneria sociale e di disegno urbano-architettonico. Era stato
costruito per dare una risposta alle necessità abitative della popolazione povera della città. Nel
dopoguerra quella popolazione si stava ammassando nel centro della città, creando ghetti,
allontanando la popolazione bianca e creando problemi nella gestione della città. Pertanto la
municipalità diede l’avvio a un ampio programma per la realizzazione di abitazioni per le
persone a basso reddito. La realizzazione del progetto venne affidato ad un architetto che
successivamente progetterà le Twin Towers a New York. Fu così costruito in breve tempo il
quartiere denominato Pruitt-Igoe, in omaggio a due personaggi della città. Sfortunatamente
però l’operazione cominciò subito a rivelare debolezze di vario tipo, fino a trasformarsi in un
clamoroso fallimento: le abitazioni venivano occupate in minima parte, c'erano alti tassi di
criminalità e col trascorrere degli anni il quartiere si spopolò, venne abbandonato, diventando
un’area desolata e pericolosa; tanto che la municipalità fu costretta ad abbattere l’intero
quartiere a pochi anni dalla costruzione.
I motivi del fallimento di Pruitt-Igoe sono molteplici: ci fu un'adesione acritica a modelli
troppo astratti di progettazione urbana che in parte aderivano alle teorie dell’architetto Le
Corbusier; anche nella realizzazione dei particolari
2. furono adottati disegni e materiali di scarsa qualità; grazie alla conflittualità tra le imprese
che cercavano a lievitare i costi di costruzione.
3
Le dimensioni del fallimento di Pruitt-Igoe, che è diventato un punto di riferimento iconico,
ha provocato un intenso dibattito sulla politica di edilizia residenziale pubblica. Quella del
Pruitt-Igoe è stata una delle prime demolizioni di edifici di architettura moderna ed è stata
definita dal paesaggista, teorico e storico dell'architettura Charles Jencks come «il giorno in
cui l'architettura moderna è morta».
Charles Jencks: «L'architettura postmoderna propone la fine del proibizionismo,
l'opposizione al funzionalismo, la riconsiderazione dell'architettura quale processo estetico,
non esclusivamente utilitario; il ritorno all'ornamento, l'affermarsi di un diffuso edonismo».
Il movimento postmoderno secondo Jencks è «la protesta sociale molto ampia contro la
modernizzazione, contro la distruzione delle culture locali e opera delle forze associate della
razionalizzazione, della burocrazia, dei progetti urbanistici su grande scala e dello stile
moderno internazionale».
•
il tessuto urbano è frammentato
•
postmoderno è sensibile alle tradizioni e alle storie locali
•
genera forme architettonice specializzate, su misura
•
produce prodotti specializzati
•
doppio codice; tra funzionalità e tradizione
Nel suo libro The language of Postmodern Architecture Jencks introduce l'idea che mentre
l'architettura moderna pretendeva di usare il linguaggio unico e universale (impersonale e
oggettivo) l'architettura postmoderna si presenta sotto la forma di un doppio discorso, che
applica simultaneamente due codici stilistici: 1. il codice del moderno; 2. almeno un altro
codice tradizionale.
L'architettura postmoderna è evolutiva, non rivoluzionaria. Cerca di superare l'elitismo
modernista senza abbandonarlo, piuttosto allargando i linguaggi dell'architettura in molte
direzioni diverse - in direzione del vernacolare, del linguaggio commerciale della strada. Di
qui
il
DOPPIO
REGISTRO
o
double
coding
di
un'architettura
«che
parla
contemporaneamente all'elite a all'uomo della strada» (Jencks, 1977:6-8)
Il postmoderno in architettura si inaugura in Italia durante La Biennale di Venezia nel 1980
con la mostra intitolata Presenza del passato, in occasione della quale venne presentata una
Strada nuovissima, con facciate disegnate da vari architetti.
4
Il filo conduttore di questa mostra diretta da Paolo Portoghesi era la riflessione sul
movimento postmoderno. Tale movimento mette in discussione il moderno, con i suoi miti
legati al nuovo, alla tecnologia e alla purezza delle forme geometriche. Poiché il presente
sembra non offrire ormai nulla di nuovo rispetto al passato, ecco che il Postmoderno
suggerisce una nuova visione sincronica della Storia, che diventa serbatoio infinito di
immagini e suggestioni, da cui gli architetti possono recuperare liberamente forme, stilemi ed
elementi
decorativi.
La Strada Novissima era costituita da venti facciate, progettate da altrettanti grandi architetti
e pensate come quinte teatrali di un’ipotetica “strada” di edifici postmoderni.
Lì si costruirono dieci facciate contigue, ognuna di sette metri di larghezza, con un'altezza
che poteva variare da un minimo di 7,20 metri ad un massimo di 9,50, metri, una specie di
manifesto dell'architettura postmoderna, una mescolanza di elementi classici, rinascimentali,
barocchi, ecc. (Vedi: presentazione powerpoint).
La filosofia postmoderna
Secondo Jean-François Lyotard3, filosofo francese, la condizione postmoderna è
caraterizzata dalla perdita di fiducia nelle grandi narrazioni totalizzanti della storia e della
teoria, come il cristianesimo, il marxismo, l’hegelismo/l'idealismo, l'illuminismo e il
liberalismo, che hanno una pretesa legittimante per la loro presunta universalità.
Il discorso sociale del postmoderno è caratterizzato, secondo il filosofo, da una trama in cui si
intrecciano diversi giochi linguistici, governati da regole differenti. L’innovazione all’interno
del discorso si produce proprio attraverso il dissenso, la parzialità, la differenza.
L’immaginazione creativa è la molla che fa progredire il sistema, che permette l’invenzione di
‘mosse’ linguistiche sempre nuove in grado di cambiare le regole del gioco culturale. La
legittimazione del discorso narrativo non avviene più, quindi, attraverso metanarrazioni che si
au-tolegittimano,
né
attraverso
il
consenso
della
comunità,
quanto
attraverso
un’«eteromorfia», un consenso locale e provvisorio che dura fino alla creazione di una nuova
mossa linguistica. Lo stesso vale per il sapere scientifico.
3
JEAN-FRANCOIS LYOTARD, La condition postmodern, Paris, Minuit, 1979.
5
Secondo Lyotard, ogni affermazione che concerne la realtà è considerata vera in quanto
avallata da scienziati e studiosi. Rimane però il problema di stabilire quali, tra tutte le
affermazioni, vengono poste al vaglio della scienza e da quali esperti; Lyotard, infatti, è uno
dei primi a intuire che l’informazione è un atto non solo politico ma soprattutto commerciale e
lucrativo. Il sapere viene prodotto per essere venduto, e il valore di scambio supera il valore
d’uso quando ciò che è più importante è la traducibilità del sapere in informazione, piuttosto
che la sua validità. L’approccio di Lyotard, però, se da un lato favorisce maggiore
consapevolezza e pluralità, dall’altro rischia di rivelarsi pericoloso. La non accettazione delle
grandi narrazioni ‘ufficiali’, infatti, può favorire una proliferazione di versioni soggettive del
reale, mettendo in dubbio la garanzia dell’interpretazione consensuale – finanche teleologica
– della storia, e contrapponendovi ogni personale versione idiosincratica. Quella di Lyotard è
una visione intrinsecamente positiva, che tende a vedere la condizione postmoderna come
scaturita dal cuore stesso del paradigma moderno, la cui dissoluzione è conseguente alla sua
stessa logica: l’universalità e la totalità perseguite nella modernità sono necessariamente
impossibili da ottenere, per via dello statuto sempre particolare del loro costituirsi, e non
possono che frantumarsi nella diversità dei discorsi del postmoderno.
Non la pensa così Jürgen Habermas, che dalla sua posizione tradizionalmente marxista vede
nel postmoderno un’abdicazione delle istanze progressiste e illuministe dell’età moderna. Il
progetto moderno sarebbe rimasto incompiuto a causa del prevalere della razionalità tecnicostrumentale e della conseguente frammentarietà e specializzazione imposte dalla società
industriale. Il filosofo tedesco definisce provocatoriamente il postmoderno come un neoconservatorismo, un ritorno, sotto certi aspetti, a una condizione premoderna; a esso pone
l’accusa di accettare passivamente la realtà con cui si trova a contatto, senza tentare di
criticarla o modificarla. Il ruolo dell’arte, secondo Habermas, dovrebbe essere quello di
colmare lo iato tra politica, etica e sapere.
Per Lyotard, al contrario, ogni esperienza totalizzante porta pericolosamente vicino al
totalitarismo, ad Auschwitz e a forme di coercizione basate sul terrore. Nel suo saggio di
risposta a Habermas rende chiara la sua visione quando afferma di voler dichiarare una
metaforica «guerra alla totalità».
Michel Foucault, filosofo francese (1926 -1984) si occupava dell'epistemologia. Il suo
problema stava nell'individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia e la follia
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si sono costituite come oggetti di scienza, dando luogo alla psicopatologia e alla medicina
clinica, strettamente connesse alla costruzione di luoghi chiusi (la clinica e il manicomio) in
cui si instaura un rapporto di dominio tra medico e paziente. E questi sono proprio i temi che
Foucault affronta nelle sue prime opere di successo, Storia della follia nell'età classica
(1961) e Nascita della clinica (1963).
Da queste ricerche emerge in Foucault la consapevolezza che la storia non è in prima istanza
il risultato delle azioni coscienti degli uomini e che il vero campo della ricerca storica è dato
non da quel che gli uomini hanno fatto o detto, ma dalle strutture epistemologiche che di volta
in volta determinano quale è il soggetto e l'oggetto della storia. Le varie epoche, infatti, sono
caratterizzate da un' episteme (che, letteralmente, vuol dire 'scienza'), concepita come sistema
implicito, inconscio e anonimo, di regole e di eventuali riflessioni su tali regole, il quale
definisce lo spazio di possibilità, entro il quale si costituiscono e operano i saperi caratteristici
di tale epoca. Foucault arriva a sostenere che il passaggio da un'episteme ad un'altra non è un
processo continuo governato da una logica interna di sviluppo e perfezionamento progressivo,
ma avviene per salti e non è quindi propriamente spiegabile. Portare alla luce l'episteme,
propria di ogni epoca, è compito di quella che Foucault definisce archeologia del sapere.
Nell'opera Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (1966) Foucault porta
avanti un'indagine storica, finalizzata a mettere in mostra che anche l'uomo, come oggetto di
sapere specifico, è un'invenzione recente, che risale agli inizi del Ottocento e che è collegata
al trasformarsi dell'analisi della ricchezza in economia, della storia naturale in biologia e della
grammatica generale in filologia. In mezzo a questi nuovi ambiti del sapere è collocato come
soggetto unitario l'uomo, caratterizzato nei termini dei nuovi concetti cardine di questi campi:
lavoro, vita e linguaggio. Da Kant in poi, ad avviso di Foucault, l'antropologia è la
disposizione fondamentale che ha dominato il pensiero filosofico: essa ha indicata nell'uomo
la matrice dei valori positivi e ha fatto intravedere nell'emancipazione dell'uomo la possibilità
del ritorno di un regno propriamente umano. L'archeologia mette in luce che pure l'uomo è un
oggetto effimero, generato nel quadro di una precisa episteme, che oggi si sta infrangendo e
frammentando. Già Nietzsche, proclamando a gran voce la morte di Dio, ha di fatto
annunciato la morte dell'uomo, dal momento che uomo e Dio si appartengono a vicenda, e in
questo modo Nietzsche ha fissato il punto a partire dal quale, stando a Foucault, la filosofia
contemporanea può ricominciare a pensare. Questo implica, secondo Foucault, la fine di ogni
umanesimo tradizionale, delle filosofie dell'impegno e dello storicismo. Oggi, stando a
7
Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l'uomo come soggetto,
portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue
stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mistici: chi parla non è propriamente
l'uomo, ma è la parola stessa.
Questi temi sono stati proseguiti e approfonditi in L'archeologia del sapere (1969) . Oggetto
di quest'archeologia non sono le tradizioni, gli autori, le opere o le discipline, che rinviano
tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse; essa ha invece il
compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono «i
limiti e le forme di dicibilità» che determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può
costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di
fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma «pratiche che formano
sistematicamente gli oggetti di cui parlano», essi sono dunque autosufficienti, si autoregolano
e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico esterno ad essi, nè ad un
soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo
spirito dei tempi.
I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi
sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere.
Il tema del potere diviene centrale nella filosofia dell'ultimo Foucault.
Foucault dice che «ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale
della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri ».
Questo vuol dire che sapere e potere sono inseparabili, in quanto l'esercizio del potere
genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sè effetti di potere.
Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che emana da un soggetto
cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale,
onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni parte
della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza, diffusi localmente,
non riconducibili ad una sola sede.
Uno può essere dominatore e dominato: si potrà essere dominati in fabbrica ma, magari,
dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi la
resistenza può essere condotta non da un'unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte
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parziali, in una miriade di luoghi da parte di forze mobili e continuamente cangianti. I
dispositivi di potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il libero proliferare dei
discorsi e originano una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del
carcere, dell'ospedale, dell'esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di
controllo, anche del corpo, esami, sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione
spregevole, ma ne ha anche una positiva e apprezzabile: produrre nuovi ambiti di verità e
nuovi saperi.
La decostruzione
Una vera e propria scuola di pensiero, la decostruzione, si sviluppa a Yale intorno alla figura
carismatica di Jacques Derrida, che si propone di decostruire le opposizioni binarie della
tradizione logocentricasentita ormai come ‘naturale’, che ha portato a privilegiare un sistema
etnocentrico bianco, europeo, fortemente connesso con la grecità classica; un sistema che
esalta la parola come presenza.
Jacques Derrida (1930 - 2004) parla della différance (allo stesso tempo differenza e
differimento) del senso nel linguaggio discorsivo, diviso tra signifi-cato fonetico e
significante mentale. La grammatologia che dà il titolo al suo lavoro più importante si pone
come scienza della scrittura, che studia gli effetti della différance che la metafisica
occidentale ha represso nel corso dei secoli. La scrittura si dà solo come supplément
(aggiunta e sostituto); la decostruzione mira a individuare le «forze di significazione»
all’interno di un testo, smantellando ogni pretesa di sopravvento di un modo di significato
definitivo rispetto a un altro. Il linguaggio, lungi dall’essere trasparente, rimanda
continuamente a ulteriori segni, a loro volta traccia di altri segni, attraverso una catena
metonimica che ricorda la teorie di Jacques Lacan sull’inconscio, strutturato come un
«linguaggio senza codice». Secondo Derrida non si tratta, quindi, di elaborare teorie o
concetti stabili, bensì di mostrare connessioni, rivelare cornici tra le parole, i fonemi e i
significati attraverso l’analisi di termini a doppio senso, di un livello figurativo che sarà
sempre diverso rispetto a quello letterale, anche quando queste particolari caratteristiche non
siano consciamente volute dall’autore. La retorica di un’asserzione, per il filosofo, non è
necessariamente compatibile con il suo significato esplicito; anche sotto questo aspetto il
pensiero di Derrida, allargando esponenzialmente (ma, come chiarisce l’autore stesso, non
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infinitamente) il significato oltre la volontà autoriale, si inserisce nella tradizione dell Opera
aperta di Eco e della critica reader-oriented, dalla narratologia alla teoria della ricezione.
Frederic Jameson (1934 - )
Il principale teorizzatore del postmoderno negli Stati Uniti resta però indiscutibilmente
Fredric Jameson, che nel 1984 pubblica Post-modernism, or the Cultural Logic of Late
Capitalism, unione di due saggi apparsi precedentemente, dove affronta il problema del
postmoderno sia dal punto di vista estetico che politico. Lo scritto verrà poi pubblicato di
nuovo con molte aggiunte e una nuova prefazione dell’autore nel 1991, e diventerà l’opera
‘canonica’ e monumentale che conosciamo ora.
Nel suo studio Jameson identifica il postmoderno come la logica culturale dominante del
tardo capitalismo, analizzandone moltepliciforme culturali, dalla letteratura cosiddetta
‘elevata’ alla musica popolare, dall’architettura alla science fiction, dalle pellicole
cinematografiche ai video sperimentali, dalla pittura all’urbanistica e identificando
glielementi principali della nuova situazione culturale. Jameson, operando all’interno di
un’ottica teorica neomarxista, caratterizza la sensibilità postmoderna come una profonda
modificazione della cultura dovuta alla ristrutturazione sociale operata dal sistema tardocapitalistico; non un vero e proprio stile, quindi, ma un «sistema periodizzante» che mette in
correlazione l’emergenza di nuove forme culturali al nuovo tipo di ordine economico.Tra le
qualità specifiche, estetiche e politiche, che per Jameson caratterizzano la sensibilità
postmoderna ci sono:
1)una nuova concezione e percezione dello spazio e del tempo, con una maggiore
valorizzazione del primo a discapito del secondo
2) un’intensificazione del valore di scambio rispetto al valore d’uso;
3) l’uso estensivo del pastiche come pratica neutrale senza impulso satirico o conoscitivo
(come avveniva invece nelle opere moderniste di James Joyce o T.S. Eliot) attraverso una
pratica che non cita gli altri testi, ma li ‘incorpora’ cancellando i confini tra un testo e l’altro;
4) la caduta della divisione tra cultura elevata e cultura di massa, che Jameson vede come un
aspetto democratico e popolare del paradigma postmoderno;
5) la frammentazione del soggetto e l’appiattimento dello spazio, che va di pari passo con la
perdita di distanza critica tra soggetto e oggetto;
10
6) la scomparsa di un canone e l’impossibilità dei ‘grandi monumenti culturali’, poiché tutti i
testi coesistono insieme sullo stessopiano, così come gli artisti.
Ciò che soprattutto caratterizza il postmoderno è, secondo lo studioso, una «perdita del
passato radicale», la scomparsa di storicità a favore di un piatto «storicismo», che si configura
come «cannibalizzazione» casuale degli stili e dei discorsi di un passato che viene sempre più
«messo tra virgolette» finché di esso rimangono soltanto dei «testi»,con conseguente
proliferazione di linguaggi e discorsi privati, parziali,contraddittori.
I confini tra testi diversi si sfaldano, i discorsi del passato non vengono citati né riprodotti con
intenti satirici, ma generano un pastiche di scritture assemblate, l’una sovrapposta all’altra
attraverso varie intertestualità, successioni di frammenti, collage di superfici multiple senza
centro o direzione univoca. Ciò che segue è l’inevitabile abolizione di ogni distanza critica,
l’intromissione di una dimensione sincronica di immanenza dello spazio nella tradizionale
temporalità diacronica. In seguito all’avvento della televisione, lo schermo, con la sua pura
immanenza e la piatta superficie non riflettente, ha rimpiazzato per Jameson il libro come
forma culturale primaria, negando allo spettatore qualsiasi senso di profondità o riflessività.
Nell’era postmoderna non può esserci trascendenza. La televisione rappresenta perfettamente
le reti di comunicazione, i network, il cyberspazio, le innumerevoli connessioni che
circondano l’individuo isolato, il quale perde ogni contatto con la realtà. Il video è la forma
egemonica culturale del postmoderno, che incessantemente riversa sullo spettatore quello che
Jameson chiama «flusso totale» di dati e informazioni che non permettono alcuna distanza
critica allo spettatore, immerso in una continua produzione di immagini, senza possibilità di
memoria né senso della storia.
Secondo Terry Eagleton, infine, la contraddizione insita nel postmoderno è che si configura
come «radical and conservative at the same time».
Ricordando che «what goes at the level of ideology does not always go at the level of the
market», il teorico marxista accusa il postmoderno di essere «politically oppositional but
economically complicit».
Per questo ed altri motivi il postmoderno, secondo i suoi detrattori, si è rivelato un’illusione,
un progetto irrealizzato, un’abdicazione delle responsabilità storico-politiche a favore di un
vuoto e inconcludente relativismo.
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In ambito italiano, oltre ai lavori seminali di Umberto Eco, un forte contributo alle teorie
postmoderne è venuto da Gianni Vattimo, che nel 1983 ha introdotto il concetto di «pensiero
debole» come caratteristico dell’età postmoderna, per distinguerlo dal «pensiero forte»,
totalitario e totalizzante del moderno.
Gianni Vattimo (1936 - ) in sintonia con Lyotard, è convinto che la modernità abbia ormai
fatto il suo tempo e che, se il postmoderno è l'esperienza di una fine, lo sia, in primo luogo, in
quanto esperienza della " fine della storia ", cioè della concezione moderna della storia come
corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell'equazione secondo cui nuovo è sinonimo
di migliore: " la modernità, nella ipotesi che propongo, finisce quando - per molteplici
ragioni - non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario " (G.
Vattimo, La società trasparente).
Ragioni che non sono soltanto di tipo intellettuale o fìlosofico, ma anche di tipo storicosociale, poiché vanno dal tramonto del colonialismo e dell'imperialismo sino all'avvento della
società complessa. Infatti, se il riscatto dei popoli sottomessi ha reso problematica l'idea di
una storia centralizzata e mossa dall'ideale europeo di umanità, l'affermarsi del pluralismo e
della società dei media ha minato alla base la possibilità stessa di una storia unitaria. Come
dimostra il fatto che, se è vero che solo con il mondo moderno si sono create le condizioni per
costruire e trasmettere un'immagine unitaria e globale della storia umana, è altrettanto vero
che con la diffusione delle tecnologie multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di
raccolta e di interpretazione degli avvenimenti: " la storia non è più un filo unitario
conduttore, è invece una quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in
casa, molti televisori in una casa " ("Filosofia al presente"). Vattimo è persuaso che i "grandi
racconti" legittimanti della modernità facciano parte di uniforma mentis "metafìsica" e
"fondazionalista" ormai superata. Di fatto, egli ritiene che il passaggio dal moderno al
postmoderno si configuri come un passaggio da un pensiero "forte, ad un pensiero "debole".
Per pensiero forte (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità,
dell'unità e della totalità, (o ovvero un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire
"fondazioni" assolute del conoscere e dell'agire. Per pensiero debole (o postmetafisico)
intende un tipo di pensiero che rifiuta le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive,
ossia un tipo di ragione che, insieme alla ragione-dominio della tradizione, ha rinunciato a una
" fondazione unica, ultima, normativa " ("Il pensiero debole"). Il pensiero debole si presenta
esplicitamente come una forma di nichilismo, vocabolo che il filosofo torinese considera "
12
una parola chiave della nostra cultura, una sorta di destino del quale non possiamo liberarci
senza privarci di aspetti fondamentali della nostra spiritualità " (G. Vattimo, Le mezze
verità"). Con questo termine egli intende una specifica condizione di assenza di fondamenti in
cui viene a trovarsi l'uomo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze ultime e delle
verità stabili. Di conseguenza, egli ritiene che il nichilismo non vada combattuto come un
nemico, bensì assunto come nostra unica chance. Infatti, agli uomini del XX secolo non
rimane che abituarsi a " convivere con il niente ", ovvero a " esistere senza nevrosi in una
situazione dove non ci sono garanzie e certezze assolute ". Da ciò la tesi-programma secondo
cui " oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora
troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere sino in fondo l'esperienza della
dissoluzione dell'essere " ("Filosofia al presente"), ossia perché siamo ancora affetti da una
qualche forma di nostalgia per le totalità perdute. Infatti, il nichilismo compiuto di cui parla
Vattimo non è un nichihsmo risentito o nostalgico, ovvero un nichilismo tragico, ossessionato
dal crollo degli assoluti e dal pathos del non senso. Esso non è neppure un nichilismo forte,
proteso a edificare, sulle macerie della metafisica, dei nuovi assoluti, ovvero un nichilismo
che al posto della volontà creatrice di Dio colloca la volontà creatrice dell'uomo. Vattimo è
piuttosto un nichilismo debole o della leggerezza, ovvero un tipo di nichilismo che, avendo
vissuto sino infondo l'esperienza della dissoluzione dell' essere, non ha nè rimpianti per le
antiche certezze nè smanie per nuove totalità.
Ad avviso di Vattimo, gli ispiratori del postmoderno sono Nietzsche e Heidegger:
Da Nietzsche Vattimo desume innanzitutto l'annuncio della " morte di Dio " cioè la teoria del
venir meno dei vari assoluti metafisici (compresa l'idea di soggetto). Da Heidegger mutua la
concezione epocale dell'essere, cioè la tesi secondo cui l'essere non è, ma accade, e la
connessa persuasione secondo cui l'accadere dell'essere non è altro che l'aprirsi linguistico
delle varie aperture storico-destinali, ossia dei vari orizzonti concreti entro cui gli enti
diventano accessibili all'uomo e l'uomo a se stesso. Questa ontologia epocale comporta una
radicale temporalizzazione dell' essere, cioè, per Vattimo, un suo strutturale indebolimento: "
alla fine, il pensiero di Heidegger sembra potersi riassumere nel fatto di aver sostituito
all'idea di essere come eternità, stabilità, forza, quella di essere come vita, maturazione,
nascita e morte: non è ciò che permane, ma è, in modo eminente [...] ciò che diviene, che
nasce e muore. L'assunzione di questo peculiare nichilismo è la vera attuazione del
programma indicato dal titolo 'Essere e tempo' " ("Al di là del soggetto"). Il processo di
indebolimento dell'essere , la fine della metafisica e il trionfo del nichilismo sono dunque
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fenomeni intercollegati. Tuttavia, Vattimo è convinto che la metafisica (come il passato in
generale) non sia una sorta di " abito smesso ", ossia qualcosa che si trovi completamente alle
nostre spalle e con cui non abbiamo più alcun rapporto "destinale". Tant'è vero che per
mettere a fuoco l'atteggiamento del pensiero postmetafisico nei confronti del passato egli si
rifà alla nozione heideggeriana di Verwindung. Termine che, in virtù della famiglia di
significati cui rimanda (guarigione, accettazione, rassegnazione, svuotamento, distorsione,
alleggerimento ecc.), allude al rimettersi da una malattia (in questo caso: la metafisica o il
passato) nella rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le
tracce. Tracce che si manifestano nel fatto che non possiamo esimerci dall'usare le categorie
della metafisica e del passato, sia pure distorcendole in senso debole e postmetafisico, ossia
nichilistico (il nesso di accettazione/distorsione che è proprio della Verwindung trova un caso
emblematico nella secolarizzazione, la quale, come ha mostrato Weber, è sempre un processo
di conservazione/connessa). All'idea di Verwindung è legata un'altra nozione che Vattimo
desume da Heidegger: quella di Andenken (rimemorazione). L'atteggiamento rimemorante
nei confronti della metafisica non scaturisce da un sentimento nostalgico o reattivo, ma
dalla pietas nei riguardi del passato, cioè dall' " amore per il vivente e le sue tracce ".
Verwindung, Andenken e pietas significano dunque che noi siamo legati al passato da una
sorta di cordone ombelicale ermeneutico. Cordone che possiamo attenuare o distorcere, ma
non annullare. A questo punto, dovrebbe risultare chiara la fisionomia dell'uomo postmoderno cosi come la concepisce Vattimo. L individuo post-istorico e post-moderno è colui
che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la
dissoluzione del pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere "senza nevrosi" in un mondo
in cui Dio è nietzscheanamente morto, ossia in un mondo in cui non ci sono più strutture fisse
e garantite capaci di fornire una fondazione "unica, ultima, normativa" alla nostra conoscenza
e alla nostra azione. In altri termini, l'individuo postmoderno è colui che non avendo più
bisogno "della rassicurazione 'estrema', di tipo magico, che era fornita dall'idea di Dio" ha
accettato il nichilismo come chance destinale ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo
relativo delle "mezze verità", con la raggiunta consapevolezza che l'ideale di una certezza
assoluta, di un sapere totalmente fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto è
solo un mito 'rassicurativo' proprio di un'umanità ancora primitiva e barbara. Un mito che non
è affatto qualcosa di "naturale" bensì di culturale, ovvero di storicamente acquisito e
tramandato. In sintesi, l'individuo post- moderno è colui che avendo assunto fino in fondo la
condizione "debole" dell'essere e dell'esistenza ha imparato a convivere con se stesso e con la
propria finitudine (cioè infondatezza), al di là di ogni residua nostalgia per gli assoluti
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trascendenti o immanenti della metafìsica. Negli ultimi anni, Vattimo è andato sempre più
accentuando le valenze etiche del pensiero debole, adoperandosi per un " oltrepassamento
della filosofia nell'etica ", e mostrando come siano soprattutto connotazioni morali quelle che
distinguono l'uomo postmoderno dall'uomo moderno. In particolare, egli è tornato a insistere
sulla natura assolutistica e violenta del pensiero forte e sui caratteri tolleranti e non-violenti
del pensiero debole. Caratteri che ne fanno una sorta di secolarizzazione dell'etica cristiana
della carità. Tant'è che in " Credere di credere " Vattimo si è proposto di focalizzare la stretta
connessione tra eredità cristiana, ontologia debole ed etica della non-violenza: " l'eredità
cristiana che ritorna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano
della carità e del suo rifiuto della violenza. Sempre di nuovo 'circoli': dall'ontologia debole
[...] 'deriva' un'etica della non violenza; ma dall'ontologia debole fin dalle sue origini nel
discorso heideggeriano sui rischi della metafìsica dell'oggettività siamo condotti perché
agisce in noi l'eredità cristiana del rifiuto della violenza… ".
Vattimo mette il concetto di postmoderno in stretto rapporto con la società dei mass-media e
della comunicazione generalizzata. A questo proposito, la concezione di Vattimo è
diametralmente opposta a quella sostenuta a suo tempo da Adorno e dai francofortesi. Non
soltanto i media non producono una generale omologazione ma al contrario, " radio,
televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di
visioni del mondo " (G. Vattimo, La società trasparente). Ne segue che proprio l'apparente
caos della società postmoderna - la quale, lungi dall'essere una società "trasparente", cioè
monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un " mondo di culture plurali ", ovvero
una società " babelica " e " spaesata " m cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita
diversi - costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del
pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla
differenza: a tal proposito, in un articolo comparso nel 2002, Vattimo ha scritto, in modo
molto significativo: " ora che Dio è morto, vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci
muovere liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili - di
abbigliamento, di vita, di arte, di etica - vivendo come un autentico dovere etico e religioso la
'thlipsis', il tormento della molteplicità ". Vattimo, da un iniziale atteggiamento crìtico,
mutuato da Heidegger e dalla Scuola di 'Francoforte, verso la "tecnicizzazione del mondo", è
andato assumendo (soprattutto in "La società trasparente") un atteggiamento sempre più
"amichevole" nei confronti della società avanzata e dei suoi apparati tecnologici e informatici,
al punto da identificare la società postmoderna con la società dei media. I media, precisa
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Vattimo, non sono lo strumento diabolico di un' inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera
del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un'umanità
spaesata capace di vivere in un " mondo di culture plurali ".
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