Crisi, ovvero il tempo dell`egoismo generoso

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Crisi, ovvero il tempo dell’egoismo generoso
Se dovessimo condurre un’indagine sulla parola più diffusa nelle analisi politicoeconomiche degli ultimi quattro anni, con ogni probabilità ci imbatteremmo nella
parola crisi. E se proprio non risultasse la più diffusa in assoluto starebbe di certo ai
primi posti.
Il suo significato è dato così per scontato che quasi infastidisce continuare a
incontrare questa parola nelle nostre letture e riflessioni.
Abbiamo però deciso di sfidare questo possibile fastidio perché crediamo che la
parola crisi abbia in sé qualcosa di semi-nascosto che stenta ad emergere e che come
tale merita di essere esplorato. Proviamo così a camminare su questo sentiero.
Sappiamo che la crisi è un momento nel quale si registra la separazione tra un
modo di essere conosciuto e un altro differente che si profila. Nella sua etimologia
greca il termine porta con sé i concetti di separazione e decisione: separazione,
ovvero passaggio tra uno stato ed un altro, e decisione, ovvero scelta della direzione
nella quale si desidera procedere.
In fondo la crisi si presenta come un passaggio da un problema che si è
manifestato ad una soluzione che potrà condurre a cambiamenti sia nel bene che nel
male, nel senso di un superamento totale o parziale del problema o di un
peggioramento dello stato di partenza, in relazione alle scelte effettuate per gestire la
crisi stessa. In realtà, ogni volta che si prende una decisione ci si propone di mutare
uno stato di fatto e, in un certo senso, ci si trova in una condizione di crisi.
Tuttavia il significato prevalentemente associato al termine non riferisce a
quest’ultimo concetto, bensì solo ad un deterioramento significativo di uno stato
acquisito con conseguente decadenza delle condizioni in precedenza raggiunte.
La crisi può essere subitanea, fulminea, come quella provocata da un terremoto,
oppure strisciante, come quella provocata da segnali trascurati o sottovalutati per i
quali si ritiene di possedere i rimedi necessari.
Nel primo caso la reazione è immediata, il tempo che corre tra la manifestazione
della crisi e le azioni per fronteggiarla è misurato dall’immediatezza delle decisioni
e quindi anche dalla capacità di improvvisazione. Nel secondo caso il tempo che
corre tra i sintomi e la decisione di affrontare la crisi, per quello che veramente è,
risulta indefinito e dipende, soprattutto, dalla forza che possiedono i gruppi che
hanno convenienza a che la crisi sia nascosta. Situazione questa ben evidenziata
dall’esplosione della crisi delle banche statunitensi di quattro anni fa circa, quando
poco tempo prima tutto veniva giudicato in perfetto ordine.
Nel primo caso la decisione risulta nei fatti più semplice perché non mette in
discussione nessun modello, magari ne avverte i punti deboli ma cerca un rimedio
immediato e l’azione tende a ricostruire la normalità perduta. Nel secondo caso
potrebbe invece accadere che la crisi ponga in discussione il modello stesso che ha
sinergie, rivista di studi e ricerche
n. 88, Maggio-Agosto 2012, pp. VII-XI
ISSN 0393-5108
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CRISI, OVVERO IL TEMPO DELL’EGOISMO GENEROSO
ispirato l’azione sino a quel momento, puntando alla costruzione di una nuova
normalità fondata su presupposti diversi dai precedenti.
Quando si parla di crisi, dunque, occorre tener presente che siamo di fronte a un
problema che richiede una soluzione e a decisori che devono scegliere le strade più
opportune per trovare la soluzione cercata. Se le scelte saranno corrette la nuova
situazione che si profila sarà positiva, se le scelte saranno sbagliate la nuova
situazione non potrà che far deteriorare lo stato di fatto con il rischio di arrivare ad
un punto di rottura senza ritorno.
Che ci si trovi in questi casi di fronte a momenti di estrema complessità è
evidente per l’accentuata incapacità di vivere questi passaggi secondo logiche
semplicemente razionali, che devono essere soccorse da intuito e immaginazione,
cercando di sfuggire al rischio di cadere nella trappola dell’irrazionalità (Herbert
Simon).
Ma la complessità è accentuata anche dal fatto che la condizione di crisi
coinvolge una molteplicità di sistemi che interagiscono tra loro con azioni e reazioni
a catena e circolari che dovranno essere considerate e valutate dal decisore.
Va da sé che la complessità tenderà, in ogni caso, ad autoalimentarsi e ad
accentuarsi nel momento in cui il decisore fosse incapace, o si rifiutasse, di cogliere
e accettare la vera natura del problema che gli sta di fronte.
Invero acutamente Antonio Gramsci parlando del concetto di crisi la definiva
come la situazione nella quale il vecchio sta morendo e il nuovo non può ancora
nascere. Stato questo la cui durata dipende dall’entità delle forze che si fronteggiano
su questa frontiera nella quale convivono i freni e il sostegno al cambiamento
guidato dai rispettivi egoismi che desiderano, da una parte, conservare il vecchio,
dall’altra introdurre al nuovo senza esitazione alcuna.
Così il nuovo potrebbe restare un puro e semplice miraggio, o un’effimera
illusione, più che un’utopia la quale, seppur sempre irraggiungibile, è però capace di
far camminare nella direzione desiderata come sottolineato da Edoardo Galeano.
Tra questi due opposti schieramenti sta virtualmente un ponte sul quale le istanze
potrebbero convogliare verso una soluzione che valorizzi ciò che del passato va
conservato e attinga a ciò che il cambiamento richiede come innovazione. È come
una situazione nella quale il tempo sembra cristallizzato su un presente che non sa
come condurre il passato verso il futuro.
Il camminare su questo ponte richiede una convergenza di idee sulla natura della
crisi che si sta attraversando: senza questa le opposte fazioni, attraverso le loro
variegate alleanze, resteranno a sostenere le proprie ragioni senza prestare attenzione
a quelle dell’altra parte, fintanto che una prevarrà sull’altra a seconda delle
dinamiche degli eventi, con il rischio che il tempo che passa possa farli precipitare.
Va da sé, dunque, che la soluzione di una crisi, e nella fattispecie di una crisi
economica generale o aziendale, non è mai solo un fatto tecnico, bensì anche e
soprattutto un fatto politico, perché affidata alla capacità delle parti di sottoscrivere
un patto per il cambiamento. La crisi dell’eurozona dal lato economico generale e i
recenti avvenimenti della Fiat di Pomigliano e dell’Ilva di Taranto dal lato aziendale
sono lì a sottolinearlo.
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Poste queste premesse possiamo provare a entrare con questa chiave di lettura in
una breve analisi della crisi attuale e delle sue prospettive evolutive.
Ora qual è la natura della crisi che i sistemi storici a economia di mercato - e con
essi le imprese che li popolano - stanno attraversando ormai da più di quattro anni?
Le risposte dei tecnici esperti di finanza e di economia sono tante e dettagliate.
Quotidianamente i mass media riportano i pensieri antitetici di una miriade di
specialisti, o quantomeno ritenuti tali. Tuttavia queste risposte a nulla hanno portato
se non a piccoli interventi correttivi, peraltro non sempre equilibrati dal punto di
vista dei costi che hanno comportato per la collettività.
A queste analisi, nelle quali ben ci guardiamo dall’entrare perché non rientrano
in ciò che la nostra cassetta degli attrezzi ci consente di fare, preferiamo una
valutazione più filosofica o, se si preferisce, di stampo valoriale.
Seconda questa prospettiva la causa della crisi in atto appare più che evidente,
essa infatti consiste nell’esasperazione dell’egoismo individuale quale motore
dell’economia con la conseguente adozione di una logica di breve periodo nei
processi decisionali, che innalza la speculazione al rango di attività capace di
produrre valore, all’interno di una assurda ipotesi di crescita infinita in un mondo
che, per sua natura, è limitato (Kenneth Boulding).
Egoismo trasferito facilmente dai decisori aziendali anche nei meccanismi di
consumo, attraverso abili politiche di marketing e di comunicazione che hanno fatto
dello shopping un momento piacevole che entra a far parte dell’uso del tempo libero,
hanno diffuso meccanismi di acquisto compulsivi e condotto le scelte degli individui
nella direzione dell’apparire piuttosto che del bisogno reale (Paul Graham),
sfruttando l’effimero desiderio di avere delle persone in luogo del più difficile
desiderio di essere (Erich Fromm).
L’economia di mercato è così uscita dai giusti confini della domanda e
dell’offerta per approdare alla costruzione di una “società di mercato” nella quale
ciò che conta non è disporre di qualcosa di utile e che come tale abbia valore, ma di
qualcosa che consenta di apparire per emergere sugli altri o per costruire una
altrimenti labile identità.
Per certi aspetti, rileggendo La roba, una bella novella di Giovanni Verga tratta
dalla raccolta Le novelle rusticane , si potrebbe dire che la deformazione egoistica
dell’economia di mercato abbia forgiato tanti Mazzarò, il cui unico desiderio è
quello di disporre di “roba”, la cui invadenza arriva a dettare le scelte quotidiane
dell’individuo, invece di essere utile per la soluzione di problemi.
L’accumulo di roba, sostanzialmente inutile perché acquisita al di là del bisogno,
è stato sostenuto da una finanza creativa capace di inventare un valore inesistente,
fintanto che il rallentamento dell’economia non ha svelato l’iniquo gioco
finanziario, comportando una graduale, ma diffusa e generale, caduta di una
domanda sostenuta non da esigenze reali, ma da desideri e capricci, peraltro
sapientemente alimentati.
Questo processo ha determinato una crisi graduale dell’economia reale per la
produzione di beni e servizi con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti in
termini di risultati ottenuti, basti considerare i livelli di disoccupazione, in
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particolare giovanile, che si registrano nei vari sistemi storici ad economia di
mercato.
La crisi, peraltro, si è aggravata nel tempo in ragione di una graduale presa di
coscienza delle persone del fatto che l’attuale modello di consumo non porta più alle
soddisfazioni del passato, come appare evidente dalla possibilità di “fare shopping
nell’armadio” che risulta più fornito di tanti negozi e che consente di combinare
passato e futuro sulla base di semplici accostamenti di parte del nuovo con parti di
usato.
Comunque, a prescindere dalle cause della situazione odierna, sulle quali si
potrebbe discutere a lungo dimostrando a volte una cosa e il contrario della stessa, il
danno maggiore che la crisi attuale ha provocato consiste nella “distruzione di
fiducia” e con essa nella “distruzione di futuro”. L’egoismo, infatti, dal suo lato
negativo che porta l’individuo ad agire con l’unico fine di accrescere i benefici
personali (Immanuel Kant), conduce ad un isolamento sociale che distrugge la
fiducia, quale senso di affidamento negli altri, e con essa la capacità di costruire un
futuro che per sua natura non può prescindere dal contributo di pensiero e di azione
di tanti, perché “nessun uomo è un’isola, intero in se stesso (John Donne).
“C’era una volta il futuro” è il titolo di un recente (2011) saggio di Oscar Iarussi
nel quale l’Autore analizza i contenuti sociologici del film La dolce vita di Federico
Fellini mettendo in risalto il desiderio e la fame di futuro che caratterizzava l’epoca
del boom economico, 1959-1963, per l’appunto l’indimenticabile epoca della “dolce
vita”.
Ora, al contrario, la capacità di disegnare, progettare e costruire il futuro è
pressoché scomparsa, da una parte nella vorticosa rincorsa della quotidianità da
parte di chi è meno toccato dalla crisi in un atteggiamento quasi volto ad
esorcizzarla, dall’altra nella rinuncia e rassegnazione, o al contrario di semplice e
pura contestazione, che stanno affiorando tra coloro che più sono colpiti dalla crisi.
Così, in queste opposte dinamiche rischia di chiudere “la fabbrica dei sogni” che
è l’unica capace di alimentare il futuro.
E se i giacimenti dei sogni si esaurissero?
È questa un’ipotesi così radicale che riteniamo di non dover percorrere nemmeno
per un attimo per il tetro significato che porta con sé.
Non desideriamo percorrerla anche perché non crediamo che l’egoismo possieda
solo dei tratti negativi. In realtà, l’egoismo è parte della natura umana, come peraltro
della natura animale, e per certi aspetti risulta indispensabile alla sopravvivenza
stessa dell’individuo e della specie.
Ma siamo consapevoli che la morale, da una parte, e la ragione, dall’altra, sono
capaci di sviluppare anche forme di egoismo positivo, volte a valorizzare l’individuo
e il suo desiderio di affermazione in associazione con forme di altruismo, secondo
un modello di condotta diretto alla costruzione della felicità del singolo in armonia e
consonanza con la valorizzazione degli altri (Tzvetan Todorov).
È questo un atteggiamento che, in un ossimoro che non ci pare azzardato, si
potrebbe definire di egoismo-generoso, riprendendo così, per certi aspetti, alcune
nostre precedenti riflessioni in tema di imprenditorialità (Sinergie n. 71).
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Ma quali sono i pilastri sui quali sui quali poggia questo atteggiamento?
Sostanzialmente tre che devono affiancare l’egoismo tout court con atteggiamenti
ispirati alla generosità:
- solidarietà, per essere insieme responsabili dell’interesse comune in una tensione
all’interesse sociale attraverso la valorizzazione dei singoli e della loro diversità;
- sostenibilità, per produrre in modo tale da lasciare completa libertà di scelta del
futuro desiderato alle prossime generazioni;
- speranza, per disporre della forza di guardare avanti anche quando pare che non
ci sia più nulla da vedere.
Siamo ben consapevoli del radicale cambiamento che questo atteggiamento
avrebbe sull’attuale impianto dell’economia di mercato, ma siamo altresì
consapevoli del fatto che il tempo che abbiamo di fronte è quello dei cambiamenti
radicali, verso i quali con coraggio bisogna alzare lo sguardo per riconoscere ancora
una volta all’impresa e al mercato il primato nella costruzione di benessere sociale
(Mihaly Csikszentmihaly).
Cambiamenti che potrebbe condurre ad una economia di mercato-solidale, non
tanto basata su principi religiosi e morali, quanto piuttosto sullo spostamento
dell’orizzonte di felicità desiderato portandolo dal breve al lungo periodo.
Cambiamento la cui radicalità, peraltro, risulta più psicologica che pratica.
Invero, si tratta di passare da una condizione di abbondanza insostenibile fondata
sullo spreco e sull’apparire, ad una condizione di abbondanza sostenibile fondata sul
recupero di un vero senso del bisogno e della domanda di prodotti utili, ma di certo
anche funzionali e belli.
Chi potrà avviare questo processo di cambiamento? Un cambiamento di questa
portata non può che avvenire dalla base della società, quindi dall’individuo, dalle
famiglie e dalle aziende che rappresentano le cellule sulle quali il sistema socioeconomico si regge.
L’azienda ha quindi di fronte una nuova sfida, quella di riaffermare la propria
legittimazione sociale e di assumere un ruolo civile di guida della trasformazione da
proporre alle rappresentanze politiche sulla base di azioni e di risultati, capaci di
agevolare la rigenerazione di quegli ideali ora soffocati dall’istinto di conservazione
delle classi al potere.
E il profitto che ruolo avrà in questo modello? È chiaro che l’impresa non può
vivere a lungo senza produrre un profitto. È altresì chiaro che la salvaguardia
dell’azienda è nell’interesse di tutti gli stakeholder che con essa si relazionano.
Dunque, anche in una economia di mercato solidale il profitto rappresenterà sempre
una misura dello stato di salute di un’azienda, ma non costituirà il fine dell’impresa.
Il fine, infatti, sarà quello di perdurare nel tempo producendo e diffondendo
benessere tramite la soddisfazione dei bisogni di tutti gli stakeholder con i quali
l’azienda dialoga. In questo modo l’impresa non dovrà cercare il profitto, perché
sarà il profitto che cercherà l’impresa.
Se la sostenibilità e la speranza rientrano a tutti gli effetti già nel patrimonio
culturale di molte imprese, la solidarietà ancora appare poco diffusa. Ma segnali ci
sono, come la recente decisione di Renzo Rosso della Diesel di contribuire a creare
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una linea di microcredito per le piccole e medie imprese emiliane colpite dal
terremoto. La strada forse ha solo bisogno di essere esplorata e dibattuta.
Forse è venuto il tempo nel quale anche i sogni possono diventare dei segni.
Claudio Baccarani
Gaetano M. Golinelli
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